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“Una donna sola al potere non fa primavera”, di Sara Ventroni

Quando una donna fa politica, cambia la donna. Quando tante donne fanno politica, cambia la politica». Così parlò Michelle Bachelet, molto prima della sua rielezione a presidente del Cile. Ecco, l’almanacco di quest’anno è stretto tra la morte di Margaret Thatcher, l’autarchica Lady di ferro, e il successo – anche se nella voragine dell’astensionismo – di una donna tra le donne.

In questo spazio bianco cadono le contraddizioni del presente, le sfide del domani e tutti i luoghi comuni, compresa l’idea che un incarico di responsabilità affidato a una donna sia il vessillo sotto il quale le altre ascendono di diritto. In quanto donne.

Se ancora nel terzo millennio un donna in posizione apicale è intesa come una metafora salvifica di genere, possiamo stare certi che la salute di tutte le altre non è per niente buona. Christine Lagarde è al Fondo Monetario Internazionale. Janet Yellen è la prima donna alla guida della Federal Reserve. Angela Merkel stravince in Germania e resta la Signora dell’Europa. E allora?

Al netto di un giudizio sul loro operato, non dovremmo meravigliarci di un orrendo tailleur viola al posto di un altrettanto orrendo doppio- petto di lana pettinata. E invece ci si continua a stupire, come se una donna seduta a capotavola fosse bizzarra, e sola, – direbbe il poeta Laforgue – come un ombrello sopra una macchina da cucire.

SODDISFATTE & RIMBORSATE

Nonostante da tempo abbiamo scavallato i rampantissimi anni Ottanta, resiste l’idea che se una ce la fa, le altre possono ritenersi soddisfatte & rimborsate, perché nell’immaginario comune la donna (declinata rigorosamente al singolare) che sfonda il tetto di cristallo, nonostante sia donna, fa tana libera tutte. Ma non è così, e le statisti- che sul gender gap sono qui a raccontarci un’al- tra storia, e un’altra Europa. Lo spread di genere è infatti costantemente in crescita, e una donna al vertice non fa primavera. Come dimenticare, lo scorso anno, la tentazione di un parterre monogenere – sei uomini per sei sedie – nel board della Bce, contro cui si levò la voce di Viviane Reding e il veto del Parlamento europeo? La stampa mondiale gridò al complotto femminista ai danni del povero lobbista lussemburghese Yves Mersch.

Non stupiscono, allora, in contrappasso, i medaglioni tristanzuoli dei rotocalchi – micragnosi risarcimenti di fine anno – con l’immancabile gal- leria fotografica delle eccellenze del genio femminile, declinato per mestieri e vocazioni, a metà strada tra il freak show e l’album delle figurine.

Se il mito negativo della «donna di potere» è duro a morire, nuovi stereotipi hanno già conquistato un posto al sole. Come l’immagine – o meglio: l’icona – di un femminismo d’assalto e di marketing, di lotta e di passerella. I piccoli seni perfetti delle Femen – tutti uguali come le ali di pollo fritto del Mc – che sbucano tra la security, a chiudere in bellezza un G8, non riescono ad esse- re altro che un prodotto mediatico. Qualcosa che vende, e che si vende, ma solo nei titoli.

Tutto il resto è noia. Non ci meraviglia che il movimento – come raccontato nel documentario Ukraine is not a brothel (L’Ucraina non è un bordello) – sia stato partorito dalla testa di un uomo, Vik- tor Svyatskiy, che ama le donne al punto da farnecil suo core business, casting compreso: una stessa femmina, una stessa taglia. Siamo al femminismo da batteria. Su scala, ovviamente, mondiale.

Diversamente performative, le Pussy Riot, punk per scelta ma femministe per caso, sono portate all’attenzione della cronaca planetaria più per innata vena dittatoriale di Vladimir Putin che non per una vera battaglia di idee. Come se, a oggi, l’unica possibilità di linguaggio politico delle donne fosse quella dell’effimera gloria iconografica. E mai niente di più. E non occorre es- sere moraliste per convenire che dove non c’è la parola, raramente può esserci un pensiero. Per- ché il gesto nudo, si sa – escludendo Cindy Sherman – spesso non basta a spiegarsi.

Quando manca la voce, il dialogo è impossibile. La faccia vera della differenza resta nell’ombra. E quando si fa vedere, a testa alta, è solo per mostrare l’offesa: quest’anno Giorgio Napolitano ha nominato Cavaliere al merito della Repubblica Lucia Annibali, avvocata di Pesaro, sfregia- ta con l’acido dall’ex fidanzato. Si è detto che questa donna – il suo sorriso, la sua forza – è il simbolo della lotta al femminicidio.

Possiamo condividere le intenzioni, ma non esserne contente. Nessuna di noi è simbolo, di alcunché. Le icone, anche quelle più edificanti, sono sempre autoassolutorie. Ci si inchina, e si chiede scusa. Per cambiare servono invece le parole. E anche leggi. Come quella contro la violenza sulle donne, approvata in questa disgraziatissima legislatura.

Aldilà delle polemiche e oltre la perfettibilità del testo, la legge ha un grande merito: per la prima volta è detto che la sicurezza fisica delle donne è la precondizione della loro cittadinanza. E non si tratta certo di paternalismo di Stato. La legge, qualsiasi legge, è discrimine di civiltà. Segna un impegno comune, e valori condivisi: nell’anno che sta per finire il legislatore ha riconosciuto – meglio tardi che mai – che nella relazione tra uomo e donna non abita solo il cuore nero della violenza, ma la possibilità di spezzare il giogo degli stereotipi.

E allora, la parola «femminicidio» – come ha ricordato qualche giorno fa, su queste pagine, Beppe Sebaste – porta scandalo. Irrita il lessico. Infastidisce perfino l’ingegno pigro degli intelletti più raffinati. Non c’è da stupirsi. È già accaduto e ancora accadrà. Tante parole sono cadute come grandine sopra i tetti della storia: autodeterminazione, differenza, relazione. Quando la realtà irrompe nel linguaggio, fa male. Ma non abbiamo alternative alla verità. E bisognerà imparare, prima o poi, che non esiste la donna. Esistono solo le donne.

RIDARE SENSO ALLA COMUNITÀ

L’anno che lasciamo alle spalle ci bisbiglia che politica delle donne è già la politica del Paese. Le donne non parlano per metafore, e non parlano solo per sé. Questa è la sfida per il prossimo anno. Non solo in vista delle elezioni europee, già incupite dal populismo individualista e da un depressivo cupio dissolvi.

Le donne dicono che non ce la caviamo invocando diritti individuali, da ordinare alla carta. Non ce la caviamo cancellando la differenza, mitigando i nostri sensi di colpa sotto la calotta del pensiero neutro tecnologico, oltre il maschio e la femmina. Le donne dicono che qui tocca ridare senso alla comunità. Che sia l’Italia, che sia l’Europa: è certo che la prossima rivoluzione è nelle relazioni.

L’Unità 31.12.13

“La stagione delle contraddizioni”, di Gianni Riotta

L’anno che si aprirà stanotte, il 2014, sarà l’Anno della Contraddizione. Lo sviluppo dell’Asia è da celebrare con i brindisi, negli ultimi dieci anni – secondo la Fao – i poveri sono scesi del 30% grazie al boom di India e Cina, passando dai 739 milioni di disperati di dieci anni fa ai 563 di oggi. Anche in Africa il benessere si diffonde e i poveri, che vivono come meno di 90 centesimi al giorno, scendono dalla maggioranza, dal 58% al 48%. Stavolta però niente brindisi, perché – ecco il mondo contraddittorio in cui viviamo – l’aumento della popolazione fa sì che, diminuendo in termini percentuali, gli affamati crescano in termini assoluti, da 175 milioni a 239 milioni.

Ci lamentiamo moltissimo – e certo non senza ragioni – della classe politica, la consideriamo troppo ricca, lontana dalla gente comune. Ma se cercate il Paese che davvero ha una «Casta» d’oro, prima di arrivare a Roma o a Washington o alle altre capitali del mondo sviluppato, andate a Pechino, ultima trincea del comunismo. I 50 parlamentari più ricchi d’America mettono insieme un patrimonio di un miliardo e 200 milioni di euro, deposito di monete degno di Paperon de’ Paperoni ma casupola da poveracci se paragonata al salvadanaio dei 50 delegati più ricchi del Congresso Nazionale del Popolo, Parlamento cinese. I primi 50 rappresentanti del popolo comunista, infatti, mettono insieme un patrimonio di 73 miliardi di euro. Il politico più ricco d’America, il californiano Darrell Issa, «vale» 275 milioni di euro, da noi Berlusconi ne denuncia 35 l’anno, ma il magnate cinese Zong Qinhou, «delegato popolare» «vale» 14 miliardi e mezzo di euro grazie all’impero delle bevande Hangzhou Wahaha.

In una conferenza del 1992 il professor Samuel Huntington lanciò la tesi dello «scontro di civiltà», «Noi» sviluppati contro «Loro» terzo mondo, soprattutto islamico, poi diventata celeberrimo best seller e popolarizzata da Oriana Fallaci nel pamphlet «La rabbia e l’orgoglio » dopo l’11 settembre 2001. Invece «lo scontro di civiltà» divide la comunità islamica, sunniti contro sciiti, moderati contro estremisti, islamisti contro militari e democratici, fondamentalisti salafiti contro secolari in blue jeans. Dalla primavera araba, alla guerra civile in Siria, all’Egitto dove i militari hanno rovesciato il governo dei Fratelli Musulmani di Morsi, gli islamici combattono tra loro, a sangue. Come aveva indicato la rivista «Oasi», promossa dall’allora Patriarca di Venezia Angelo Scola, oggi cardinale di Milano, non esiste «un Islam» monolitico, ma molti «Islam», dalla religione, alla cultura, alla tradizione, un «Islam globale» come scrive lo studioso Fouad Allam.

Saluteremo nel 2014 la più grande elezione democratica al mondo, in India, 800 milioni di elettori, solo i debuttanti saranno in 150 milioni. L’India, che lascia la povertà per il software di Bangalore, vive la contraddizione ogni giorno, laureando più ingegneri di America e Europa, ma con l’80% delle abitazioni rurali dove ancora si cucina sul fuoco alimentato da sterco di animali. Così l’India interpreta la stagione da nuova potenza facendo la voce grossa, ormai dal 15 febbraio 2012, con l’Italia sul caso dei due sottufficiali di Marina imputati, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, ma poi reagisce animosamente se gli Stati Uniti accusano una diplomatica indiana di falso in atto pubblico. Per riaffermarsi Paese autonomo l’India impone il proprio diritto con mano di ferro contro l’Italia, ma quando gli Usa la ripagano della stessa moneta, la stampa locale parla di colonialismo. Vecchi rancori nel nuovo mondo delle contraddizioni.

Nel 2014 più lavoratori e professionisti perderanno il posto di lavoro, sostituiti da un robot. Secondo l’International Federation of Robotics i «computer di servizio» aumenteranno del 30% in pochi anni, capaci – come scrive Tom Standage caporedattore web dell’Economist – di eseguire sofisticate mansioni: il robot Baxter è in grado di accelerare e rallentare i ritmi alla catena di montaggio, senza le comiche contorsioni di Charlot nel capolavoro «Tempi moderni». Il Michigan permetterà nel 2014 il transito in strada di auto guidate da robot «a patto che un essere umano sia a bordo», Google rastrella start up di robotica sul mercato persuasa che saranno il prossimo boom.

Nel 2014 ricorderemo nonni e bisnonni vittime della grande carneficina detta Prima Guerra Mondiale. Gli storici stentano ancora a capire «perché» sia scoppiata. Nel suo curioso saggio «1913. L’anno prima della tempesta», Florian Illies ricorda come Lenin si lamentasse che né lo Zar, né il Kaiser, volessero «fargli il regalo» di una guerra che avvicinasse la rivoluzione in Russia. Lenin sbagliava, ebbe «il regalo» di guerra e rivoluzione e le contraddizioni della guerra 1914-1918 sono ancora tra di noi, dal Medio Oriente, con la fine dell’Impero Ottomano, ai Balcani, alle frizioni Russia-Ucraina.

Vladimir Putin è maestro pattinatore, da medaglia d’oro alle Olimpiadi di Sochi, delle contraddizioni, uomo di guerra con Assad, passa per pacifista dopo lo stop al blitz di Obama. E il Presidente americano vede il suo Paese crescere del 4%, recuperare dalla crisi finanziaria 2008, ma non sa come tornare leader del pianeta. A Papa Francesco tocca la contraddizione di essere lodato da tutti, perfino da chi non ha mai messo un piede in chiesa e detesta i valori cattolici. L’America di Internet, regno della trasparenza, è accusata di raccogliere dati in segreto con la Nsa, i paladini della nuova verità, Snowden e Greenwald, rifiutano la trasparenza e non dichiarano quanti documenti e dossier ancora abbiano in mano. L’Europa orgogliosa della propria Unione celebra elezioni in cui voterà il 20% in meno dell’esordio nel 1979 e un elettore su tre sceglierà candidati ostili all’euro.

Nessun Paese infine vivrà di contraddizioni come l’Italia, 9000 miliardi di ricchezza privata, 2000 miliardi di debito pubblico, seconda manifattura d’Europa con disoccupazione in crescita, unico Paese sviluppato che dal 2000 perde competitività, benessere, lavoro. Curvi a discutere di legge elettorale, politica, Casta, populismo, Destra-Sinistra, dimentichiamo che solo competere a testa alta nel mondo globale ci salverà. Prima di rinunciare al brindisi, cari lettori, non dimenticate però: il bello delle contraddizioni è che sanno sorprenderci. «Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico, sono vasto, contengo moltitudini» scriveva il poeta Walt Whitman. Anche noi italiani, ciascuno di noi, «contiene moltitudini » e talvolta – come dicono i nostri ragazzi – «facciamo casino». Speriamo di tirar fuori da queste «moltitudini» invece, magari per italico «spirito di contraddizione», il meglio. Auguri 2014.

La Stampa 31.12.13

“E’ ora di uccidere il cattivismo”, di Paolo Di Paolo

L’altra faccia del disincanto e della frustrazione è la rabbia. Non quella che spinge a un riscatto, che fa correre a denti stretti verso un obiettivo, che precede un cambiamento. È un’altra rabbia: un’aggressività cieca che trascina tutto, cerca un bersaglio, si sfoga. Ma il bersaglio è soltanto un pretesto, perché quella rabbia viene da lontano. È sempre eccessiva, sproporzionata: come si vede in certe liti tra automobilisti, o in fila alla banca. Ha in sé lampi di violenza. La più futile delle questioni – l’auto del dirimpettaio parcheggiata male, i rumori dalla casa accanto – la accende, la fa esplodere con furia perfino omicida, come nel lodigiano qualche giorno fa e come sempre più spesso, in un condominio qualunque, in un bar, per la strada.
È sempre stato così? La convivenza umana è fatta anche di questo? Forse sì, risponderebbero Poe, Dostoevskij o Camus. Ma la rabbia e l’intolleranza dei singoli passano oggi anche per uno spazio diverso: infinitamente va- sto; potente come un contagio. Dietro una maschera, un nome fittizio, l’uomo della folla cerca il suo bersaglio e spara a zero. Lancia il sasso, nasconde la mano; segue una pioggia di sassi in cui ogni mano è nascosta. Così è molto facile, in nome di un ideale il più delle volte falso, millantato, arrogante, augurare la morte a una ragazza di venticinque anni malata che lotta per la vita. Caterina Simonsen aveva difeso le sperimentazioni scientifiche sugli animali. Al di là di ogni legittimo dibattito e distinguo sul tema specifico, ciò che sconvolge è l’onda di cattiveria gratuita, di insulti, di volgarità scaricate in rete contro di lei. Chi sono questi «animalisti»? Come si fa a proclamarsi difensori degli animali e allo stesso tempo augurare la morte a una ragazza malata? Questi finti animalisti – ha detto in un’intervista Caterina – non sono persone razionali, non sono capaci di empatia, di mettersi nei panni dell’altro, «ma se non ci arrivano, abbiamo un serio problema, forse hanno bisogno di psicologi».
Abbiamo un serio problema, sì. Abbiamo il serio problema di un numero sempre più vasto di persone che non misurano più il peso delle parole. Le dicono, le urlano, come forse non avrebbero il coraggio di fare per la strada, o faccia a faccia. Persone – pesco dal solito blog di Grillo – che, rivolte genericamente ai politici, scrivono «perché non li abbiamo ancora bruciati col lanciafiamme?» o, rivolti al presidente della Repubblica, «vada a farsi inc.» (testuale, firmato tale «Zio Max»). Sì, caro Grillo, «siamo circondati»: da questa miseria, da queste parole inquinate, da questa frustrazione personale che cerca di nobilitarsi attraverso finte buone cause o slanci pseudo-civili. L’Italia del 2014, a giudicare da certi forum e blog, risulta non solo piena di sfiducia e pessimismo, ma anche incapace di trattenere il proprio peggio. Minoranze, si dirà. È bene sperarlo, ma come la mettiamo con la politica o anti-politica che su quel peggio si basa? Apro il profilo Facebook del leader leghista Matteo Salvini. A proposito della situazione in Congo, lui scrive: il ministro Kyenge «sarebbe più utile in Congo. O forse neppure là». Seguono quasi quattrocento commenti. Fra i primi: «La Kyenge mangia banane, che vada a farsi fottere da un orango».
Queste persone le abbiamo accanto. Le incontriamo per strada, sugli autobus, ci sorridono, o forse no, fanno il proprio lavoro, magari bene; può darsi che siano ottimi genitori, disposti a farsi in quattro per i figli. Poi però, con una disinvoltura pari all’irresponsabilità, digitano insulti, parole grevi, offensive, parole che ai propri amici e genitori non direbbero. Senza considerare per un istante che le parole hanno un peso, le circondano di facine sorridenti, di «ah ah ah». Alberto ha come foto di profilo il Pinocchio Disney e riesce a dire, del ministro Kyenge, «è una bastarda di donna»; un altro ha come foto di profilo un albero di Natale e invoca la pena di morte per gli immigrati che delinquono, «devono ciondolare con una corda al collo».
Alberto, festeggiando il nuovo anno, non avrà probabilmente nessun rimorso. E così nemmeno chi ha augurato la morte a Caterina. Dopo anni spesi a preoccuparci degli eccessi di «buonismo», abbiamo lasciato crescere il «cattivismo», l’abbiamo elogiato, premiato, considerato vincente. Per paura della retorica positiva, abbiamo abbondato in retorica negativa. Il risultato è questo: questa penosa corsa a essere persone peggiori, senza più farci caso, senza più sentirsi colpevoli. Se oggi, prima della mezzanotte, avete cinque minuti liberi, cercate in Internet il discorso tenuto dallo scrittore americano George Saunders ai laureandi della Syracuse University. È basato tutto sulla gentilezza. «Come possiamo diventare più premurosi, più aperti, meno egoisti, più presenti, meno deludenti e così via? Già, bella domanda… Lasciate dunque che vi dica questo: il modo c’è… Immergersi in un’opera d’arte serve. Pregare serve. Meditare serve. Una chiacchierata schietta con un caro amico serve. Sentirsi parte di una tradizione spirituale serve. Riconoscere che ci sono state innumerevoli persone davvero intelligenti prima di noi che si sono poste queste stesse domande e ci hanno lasciato le loro risposte serve. (…) Fate presto. Iniziate subito. In ciascuno di noi c’è un equivoco di fondo, un vero malessere in verità. Si tratta dell’egoismo. Ma la cura esiste. Siate quindi gentili e proattivi e addirittura in un certo senso i pazienti di voi stessi – cercate le medicine più efficaci contro l’egoismo, cercatele con tutte le vostre energie, per tutto il resto della vostra vita. Fate tutte le altre cose, quelle ambiziose – viaggiare, diventare ricchi, acquistare fama, essere innovativi, essere leader, innamorarsi, fare fortuna e perderla, nuotare nudi nei fiumi in mezzo alla giungla – ma qualsiasi cosa farete, nella misura del possibile eccedete in gentilezza. Fate ciò che vi può indirizzare verso le risposte a quelle grandi domande, cercando di tenervi alla larga dalle cose che possono sminuirvi e rendervi banali».
Auguriamoci, per il 2014, di saper difendere ciò che crediamo giusto ma con le parole giuste. Con energica, luminosa gentilezza.

L’Unità 31.12.13

“Gli italiani: meno tasse, basta partiti”, di Ilvo Diamanti

Gli italiani chiedono un minore carico fiscale e confermano la loro sfiducia nel sistema dei partiti. Napolitano lavora al discorso di fine anno incentrato sui temi del lavoro e delle riforme. Il premier Enrico Letta ammonisce il segretario del Pd Matteo Renzi: basta liti tra primedonne.
Alla ricerca di comunità, di appigli a cui attaccarsi. Per ora, con scarsi esiti. È il ritratto in chiaroscuro tratteggiato dalla XVI indagine di Demos (per Repubblica), dedicata al “rapporto fra gli Italiani e lo Stato”.

LE TABELLE

1. Il primo aspetto che emerge, come si è detto, riguarda il distacco profondo dalle istituzioni politiche e di governo. Non è un fatto nuovo, ma colpisce, comunque, per le proporzioni che ha assunto. Lo Stato, le Regioni, i Comuni: le sedi del governo centrale e locale, rispetto a un anno fa, hanno perduto ulteriormente credito. Come il Presidente della Repubblica (quasi 6 punti in meno), che paga il ruolo da protagonista assunto, negli ultimi mesi. E se il Parlamento e gli stessi partiti hanno perduto pochi consensi è solo perché non hanno più molto da perdere, vista la residua dote di fiducia di cui ancora dispongono. Molto al di sotto del 10%.

2. Non deve sorprendere, allora, che si parli in modo aperto di crisi della democrazia rappresentativa. Visto che gli attori e le sedi principali della rappresentanza democratica – i partiti e il Parlamento – appaiono delegittimati. D’altra parte, quasi metà degli italiani pensa che la democrazia sia possibile “anche senza i partiti”. E forse, implicitamente, che gli stessi partiti siano un problema per la democrazia. Mentre oltre il 30% ritiene che si possa (convenga?) rinunciare alla democrazia.

3. Bisogna, peraltro, resistere alla tentazione di considerare questo ritratto la copia di altre raffigurazioni, proposte in precedenza. A differenza del passato, non solo recente, oggi non si salva nessuno. E nessuno ci salva. Non c’è più un Presidente a cui affidarsi. Gli stessi magistrati, comunque vicini al 40% dei consensi, sono lontani dai livelli raggiunti negli anni di Tangentopoli quando sfioravano il 70% (Ispo, 1994). E se, alla fine degli anni Novanta, per “difendersi dallo Stato” ci si affidava all’Europa, oggi il problema pare, al contrario, difendersi dall’Europa. Visto che la fiducia nella UE è “caduta” di oltre 11 punti nell’ultimo anno, ma di circa 20 rispetto a 10 anni fa.

4. Così, oltre alle associazioni degli imprenditori, che, però, si posizionano in basso, nella graduatoria, le uniche istituzioni che facciano osservare un sensibile aumento della fiducia presso gli italiani sono le Forze dell’ordine (di quasi 4 punti) e, ancor più, la Chiesa (di 10). Nel primo caso, per la crescente domanda di sicurezza, in tempi tanto incerti. Nell’altro, per la capacità di Papa Francesco di “comunicare” valori condivisi in modo pop(olare). E di testimoniare come la Chiesa sia in grado di cambiare. Superando tensioni interne non esplicite, ma rese evidenti dalle dimissioni di Papa Benedetto XVI.

5. Il distacco dallo Stato appare così forte che l’alternativa tra ridurre le tasse e i servizi ha cambiato di segno, rispetto a pochi anni fa. Meno di dieci anni fa, nel 2005, la maggioranza degli italiani (54%) riteneva più importante potenziare i servizi. Oggi il rapporto si è rovesciato, visto che il 70% considera prioritario “ridurre le tasse”. Ciò significa che i costi del sistema pubblico sono divenuti insopportabili, agli occhi dei cittadini. In-giustificabili, comunque, di fronte alla qualità dei servizi offerti.

6. Ciò è tanto più significativo – e inquietante – in tempi di crisi profonda, come questi. Il bilancio del 2013 tratteggiato dagli italiani (intervistati da Demos) appare, infatti, drammatico, più che serio. Sotto tutti i profili. Per primi: l’economia e il fisco. Poi: la politica, il reddito delle famiglie. La sicurezza. La credibilità internazionale del Paese. E se le attese per l’anno che verrà sembrano (un po’) migliori, probabilmente, è perché sperare non costa niente. E, comunque, peggio di così… D’altronde, è difficile fare previsioni, se quasi 6 persone su 10 pensano che la crisi durerà almeno altri due anni. Se circa il 53% del campione (quasi 6 punti più di un anno fa) ritiene inutile fare progetti futuri. Perché il futuro è troppo incerto. Esiste solo il presente.

7. Così non debbono suscitare sorpresa gli indici di partecipazione, assai diversi dal clima d’opinione. La sfiducia nei confronti dello Stato e delle istituzioni, la frustrazione “pubblica” e la rabbia antifiscale, l’assenza di futuro, infatti, non hanno inibito la partecipazione sociale. Al contrario. Circa 5 italiani su 10 dichiarano, infatti, di aver frequentato, nel corso del 2013, manifestazioni politiche, di tipo tradizionale e nuovo (attraverso la Rete o il consumo responsabile). Oltre 6 affermano, ancora, di essere stati coinvolti in attività di partecipazione sociale. I più giovani (15-24 anni), in particolare, mostrano un coinvolgimento molto ampio (36%) nelle manifestazioni di protesta e nelle mobilitazioni “in Rete”.

8. Da ciò il paradosso: una società effervescente e in movimento in un Paese senza riferimenti, sfiduciato di fronte a istituzioni senza fiducia. A poteri locali e territoriali sempre più delegittimati.
Ma, in effetti, il contrasto è solo apparente. Perché la mobilitazione della società costituisce, in parte, una reazione “alla” sfiducia. Riflette, dunque, la ricerca di risposte attraverso l’impegno personale e collettivo. Senza rassegnarsi alla delusione. Insieme. Perché partecipare produce legami sociali e di comunità. D’altra parte, la mobilitazione dei cittadini sottende anche una reazione “di” sfiducia: contro gli attori e le istituzioni della democrazia rappresentativa. Un fenomeno canalizzato, alle elezioni politiche, dal M5S.
Ma una partecipazione tanto estesa, in tempi di sfiducia verso lo Stato, echeggia un malessere diffuso, da cui emerge, fra l’altro, la protesta amplificata dai Forconi.

9. Dietro a tanto “movimento” della società si intuisce il vuoto lasciato dagli attori e dalle istituzioni rappresentative. Non a caso quasi 3 italiani su 4 si dicono d’accordo con l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Quasi un antidoto al distacco dai partiti e dai governi, a livello centrale e sul territorio.

10. Il clima “antipolitico” che pervade l’Italia in questo passaggio d’anno (e, forse, d’epoca), dunque, evoca il vuoto della politica e, al tempo stesso, una domanda di politica molto estesa. E altrettanto delusa. Non può durare ancora a lungo, tutto ciò, senza conseguenze. Ma per reagire in modo efficace a questa emergenza democratica occorre guardare nella direzione giusta. Perché i nemici della democrazia rappresentativa non sono solo coloro che la osteggiano apertamente. Ma, anzitutto, coloro che la tradiscono. Perché la rappresentano in modo irresponsabile. Senza efficienza e senza passione. Senza dignità.

La Repubblica 30.12.13

“I sonnambuli dell’Europa”, di Barbara Spinelli

«Verrà il momento in cui sbanderemo, come i sonnambuli d’Europa nell’estate 1914»: lo ha detto Angela Merkel, nell’ultimo vertice europeo, citando un libro dello storico Christopher Clark sull’inizio della Grande Guerra,
tradotto in Italia da Laterza. I sonnambuli descritti da Clark sono i governi che scivolarono nella guerra presentendo il cataclisma, simulando allarmi, ma senza far nulla per scongiurarla. Da allora sono passati quasi cent’anni, e molte cose sono cambiate. L’Europa ha istituzioni comuni, l’imperialismo territoriale è svanito (resta solo l’Ungheria di Orbàn, residuo perturbante del mondo di ieri, a proclamare compatrioti a tutti gli effetti gli ungheresi di Slovacchia, Romania, Serbia, Austria, Ucraina). Non si combatte più per spostare confini ma l’Unione non è in pace come si dice, e la crisi che traversa la sta squarciando come già nel 1913-14.
È simile lo stato d’animo dei governi: allo stesso tempo deboli e pieni di sé. Impotenti sempre, anche quando mostrano arroganza o risentimento. Gli anniversari sono un omaggio che si rende al passato per accantonarlo. Meglio sarebbe celebrarli con parsimonia. Ma sul significato di questa ricorrenza vale la pena soffermarsi, e chiedersi come mai Berlino evochi il 1914 per dire che l’euro può sfracellarsi, che se non faremo qualcosa saremo di nuovo sorpresi dal colpo di fucile che distrusse il continente. Come mai torni questo nome — i Sonnambuli — che Hermann Broch scelse come titolo per una trilogia che narra la
pigrizia dei sentimenti, l’indolenza vegetativa, che pervasero il primo anteguerra.
Quel che il Cancelliere non dice, ma che Clark mette in risalto, è l’inanità di simili moniti catastrofisti, l’enorme discordanza fra l’eloquio sinistro dei governanti e il loro agire ignavo, incapace di trarre le conseguenze da quel che apparentemente presagiscono.
Si comportarono da sbandati gli Stati europei, quando il 28 giugno 1914 Gavrilo Princip tirò i suoi due colpi di pistola a Sarajevo: quasi camminassero dormendo. A parole sembrava sapessero quel che stava per succedere, e però erano come incoscienti. Il dire era completamente sconnesso dai fatti, dal fare. Allo stesso modo gli Stati odierni davanti alla crisi, quando recitano la giaculatoria sul baratro che perennemente sta aprendosi, e non fanno il necessario per allontanare l’Unione da quell’orlo ma anzi l’inchiodano sul bordo, sbrindellata e tremante com’è, senza governo né comune scopo, come se questa fosse l’ideale terapia per tenere vigili gli Stati, per dilatare le angosce dei cittadini, per non provocare la rilassatezza (il «rischio morale», lo chiamano i custodi dell’Austerità) che affligge chi, troppo rassicurato, smette il rigore dei conti.
Proprio come fa la Merkel, quando vaticina l’»esplosione dell’euro» e incrimina l’indolenza dell’Europa dormiente. L’accenno ai baratri, sempre miracolosamente sventati, è divenuto un trucco di governanti impotenti, inetti, che usano il linguaggio apocalittico e le paure dei popoli immiseriti «al solo scopo di restare titolari della gestione della crisi». Lo dice l’ultimo rapporto del Censis: non è «con continue chiamate all’affanno», né con la «coazione alla stabilità», che si ricostruirà una classe dirigente. Impossibile ridivenire padroni del proprio destino se gli Stati fingono sovranità già perdute e si consolano facilmente, come in Cocteau: «Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori».
Terribilmente simili all’oggi che viviamo furono i prodromi della Grande Guerra. Verso la fine del luglio ‘14, poco dopo Sarajevo, il premier inglese Asquith preannuncia l’»Armageddon»: il luogo dell’Apocalisse dove tre spiriti immondi radunano i re della terra. Gli fa eco Edward Grey, ministro degli Esteri: «La luce si sta spegnendo su tutta Europa: non la vedremo più riaccendersi nel corso della nostra vita». In realtà gli inglesi avevano altri tormenti in quelle ore — non l’Europa ma l’autonomia dell’Irlanda — e poco si curavano del disastro continentale che profetizzavano.
Anche Churchill utilizzerà più tardi la metafora millenaristica del buio che irrompe: «Una strana luce cominciò a cadere sulla carta d’Europa». Quanto ai generali russi e francesi, le parole ricorrenti quell’estate erano «guerra di sterminio», «estinzione della civiltà». Sapevano dunque — conclude Clark — ma la sapienza scandalosamente girava a vuoto: «Questa la cultura politica comune a tutti i protagonisti». Il ‘14-18 non è un giallo di Agatha Christie, col colpevole scovato nell’ultimo capitolo: la primaria colpa tedesca, fissata nell’articolo 231 del Trattato di Versailles, è invenzione dei vincitori. Il ‘14-18 fu una tragedia «multipolare e autenticamente interattiva ».
All’origine di questo voluto e fatale divaricarsi tra parole e presa di coscienza: l’ignoranza che ogni Stato mostrava per i patemi storici dell’altro. Ignoranza inglese dell’ossessione russa, ostile con i serbi all’impero austroungarico e ottomano. Ignoranza della Germania in ascesa. E accanto all’ignoranza: la flemma, l’abissale disinteresse per quello che la Serbia significava agli occhi d’un impero asburgico dato anzitempo per morto. Infine il fatalismo: la guerra era forse invisa, ma ritenuta inevitabile. Così l’Europa sbandò verso l’inutile strage denunciata da Benedetto XV.
Ricordando la leggerezza disinvolta narrata da Clark, la Merkel commette gli stessi errori, quasi credesse e non credesse in quel che dice. Anche nel ‘14 mancò l’immaginazione: quella vera, non parolaia. Gli europei erano immersi in una prima globalizzazione. Come poteva sgorgare sangue dal dolce commercio?
Poteva invece, perché il mito delle sovranità assolute scatenò i nazionalismi e produsse non uno ma due conflitti: una lunga guerra di trent’anni. Solo dopo il ‘45 capirono, creando la Comunità europea.
Ora siamo di nuovo in piena discrepanza tra parole e azioni, e tutti partecipano alla regressione: compresi gli sfiduciati, i delusi pronti a disfarsi di un’Europa che non è all’altezza della crisi. È diffuso l’anelito a sovranità comunque inesistenti, e il sonnambulismo riappare con il suo corteo di irresponsabilità, ignoranza, patriottismi chiamati difensivi. Come allora, a trascinarci in basso sono i governi ma anche una
cultura politica comune.
Ecco la modernità brutale del 1914, scrive Clark. Anche i popoli — spogliati di diritti, disinformati — barcollano sperduti fantasticando recinti nazionali eretti contro l’economia-mondo. Credono di contestare i governi. Sono in realtà complici, quando non esigono un’altra Europa: forte e solidale anziché serva dei mercati. Il pericolo, tutti lo sentono per finta. Dice ancora Broch: «Solo chi ha uno scopo teme il pericolo, perché teme per lo scopo».
Da anni siamo abituati a dire che l’Europa federale ha perso senso, col finire delle guerre tra europei. Ne siamo sicuri? La povertà patita da tanti paesi dell’Unione sveglia risentimenti bellicosi. E la mondializzazione non garantisce pace, come ammoniva già nel 1910 Norman Angell, nel libro La grande illusione.
L’internazionalizzazione dell’economia rendeva «futili le guerre territoriali», questo sì. Ma intanto ciascuno correva al riarmo.
Oggi la Grande Illusione è pensare che il ritorno dell’equilibrio fra potenze assicuri nell’Unione il dominio del più forte, più stabile. Ma Darwin è inservibile in politica, e mortifera per tutti è la lotta europea per la sopravvivenza. Nel rapporto tra Usa e Israele, o tra Cina e Nord Corea, sono decisivi i piccoli, i più dipendenti: esattamente come cent’anni fa fu decisiva la Serbia panslavista, rovinosamente sostenuta dalla Russia. La forza fisica che Angell giudicava futile, e però letale, è quella dello Stato-nazione che s’illude di fare da sé, piccolo o grande che sia. La lezione del ‘14 non è stata ancora imparata.

La Repubblica 31.12.13

Casatenovo/Monticello brianza (LC) – Incontro: la proposta di legge 553 e il nuovo ruolo delle scuole di musica

una giornata di studio per direttori, insegnanti e utenti

ore 10.00 – 12.30 – incontri operativi tra direttori e docenti villa d’adda mariani – via don buttafava, 54 ‐ casatenovo
ore 14.00 – 16.30 – incontro aperto a operatori e utenti villa greppi – via monte grappa, 21 – monticello brianza
La proposta di legge 553 (“Disciplina dell’accreditamento delle scuole di musica e disposizioni per la loro valorizzazione” http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0002291.pdf) “intende valorizzare il lavoro svolto dalle molte agenzie educative diffuse e distribuite in tutto il territorio nazionale che offrono adeguate opportunità e occasioni di studio musicale.”
Questo intendimento della proposta di legge disegna di fatto un nuovo ruolo per le scuole di musica nel rapporto sia con le scuole della fascia dell’obbligo che con i Conservatori, riconoscendone il ruolo fondamentale nella formazione musicale sia professionalizzante che di base.
La giornata di studio vuole essere innanzitutto una manifestazione dell’interesse che gli operatori delle scuole hanno nei confronti della necessità che a queste venga riconosciuto lo statuto di vere e proprie agenzie educative in grado di rispondere alla diffusa e diversificata esigenza di formazione e educazione musicale che i territori esprimono. La finalità è anche quella di fornire un valido apporto di idee che possano utilmente integrare il dettato della proposta, aumentandone la capacità di aderenza alle istanze degli operatori. Un ultimo scopo è quello di avviare un lavoro di diffusione della conoscenza della proposta attraverso piattaforme online e social network sulle quali proseguire e allargare la platea degli interventi e la raccolta di idee.
Programma
10.00 – 12.30*
12.30
14.00 – 16.30
Salone di Villa d’Adda Mariani ‐ Casatenovo
apertura dei lavori rivolti a direttori e operatori della scuole di musica coordinatore Massimo Mazza (Civica Scuola di Musica di Casatenovo)
Ex Granaio di Villa Greppi – Monticello Brianza
saluto del Presidente del Consorzio Brianteo Villa Greppi, prof. Enzo Bruni
apertura dei lavori e comunicazione dei risultati del seminario del mattino
intervento dell’on. Manuela Ghizzoni
vice presidente della commissione Cultura della Camera dei Deputati
intervento dell’on. Veronica Tentori firmataria della proposta di legge 553
discussione e interventi del pubblico
* la partecipazione al seminario del mattino è riservata a direttori e insegnanti.

“Troppe leggi poche regole”, di Michele Ainis

La madre dei cretini è sempre incinta, diceva Flaiano. Anche la patria del diritto, però , farebbe bene usare qualche pilloletta anticoncezionale. Perché le sue creature sono troppe, e ciascuna indossa l’ermellino di Sua Maestà la Legge. Abbiamo in circolo leggi sui tosaerba, sulle camicie da notte, sulle galline, sui pedaggi stradali dei camionisti. Il virus legificatore ha contagiato pure i prosciutti, con tre leggi sul San Daniele (rispettivamente del 1970 , del 1990 , del 1999) e un’altra sul pignoramento dei prosciutti (vi si provvede «con l’apposizione sulla coscia di uno speciale contrassegno indelebile»: legge n. 401 del 1985).
Tuttavia non basta, non basta mai. E il parapiglia normativo che s’è scatenato attorno al decreto salva Roma ne è solo l’ultima esibizione: regole sulle lampade a incandescenza, sulle slot machine, sui chioschi in spiaggia, sulle sigarette elettroniche. Non regole qualunque, no: regole di legge.
Quelle che Calderoli, nel 2010, finse di bruciare col suo lanciafiamme spento.
Quelle che Bassanini, nel 1997, voleva eliminare attraverso un ampio processo di delegificazione, rimpiazzandole con altrettanti regolamenti. Senza curare il male alla radice, dato che il male è il troppo diritto che ci portiamo in groppa, e dato che per noi asinelli cambia poco se a spezzarci la schiena è una norma regolamentare anziché legislativa. Ma almeno i regolamenti sono flessibili, rapidi da approvare così come da abrogare. Se invece confezioni il prosciutto in una legge, per sconfezionarlo avrai bisogno del voto di mille parlamentari, della promulgazione del capo dello Stato, del visto di legittimità della Consulta.
Risultato: se il secondo millennio si è chiuso all’insegna della delegificazione, il terzo ha inaugurato l’epoca della rilegificazione. Magari con meno provvedimenti rispetto alla prima legificazione (negli anni Sessanta le Camere approvavano una legge al giorno, escluse le domeniche), tuttavia con provvedimenti più corposi, ciascuno gonfio come un panettone. E con una pletora di norme astruse, di ridondanze, di strafalcioni sintattici e giuridici. La qualità della nostra legislazione è peggiorata, come no. Anche la quantità, però: nel 1962 le 437 leggi decise in Parlamento sviluppavano 2 milioni di caratteri; nel 2012 le leggi sono state 101, ma i caratteri sono diventati 2,6 milioni.
Da qui un paradosso: l’Italia delle troppe leggi è un Paese senza legge. Perché nel diritto, così come nella vita, dal pieno nasce un vuoto. Se ti martellano troppe informazioni t’ubriachi, e alla fine resti senza informazioni.
Se la legislazione forma una galassia, nessuna astronave potrà esplorarla per intero. E il cittadino sarà solo, ignaro dei propri poteri, alla mercé d ’ogni sopruso. Succede quando nel diritto amministrativo tutto è legge, quando nel diritto penale tutto è processo. Sicché cresce la discrezionalità di giudici e burocrati: sono loro, soltanto loro, a scegliere la stella che brillerà davanti al tuo portone.
Ma c’è una causa sistemica dietro l’esplosione del sistema. Difatti se la legge elettorale genera coalizioni ballerine, se in Parlamento i numeri sono risicati, ciascuno diventa indispensabile, e allora potrà imporre il proprio comandamento, pardon, emendamento. Se l’autobus legislativo fa troppe fermate tra Camera e Senato, finirà per imbarcare troppi viaggiatori, pardon, legislato r i . Servono riforme, in conclusione. Altrimenti annegheremo tutti nell’oceano delle leggi.

Il Corriere della Sera 30.12.13