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“Noi intimoriti perché fragili” di Gian Antonio Stella

Lo sanno, quelli che hanno vissuto ieri in Campania momenti di spavento, d’essere esposti al rischio. Non ci vogliono pensare, ma lo sanno. Sanno che è pericolosa la loro terra, da sempre colpita dai terremoti. Sanno che sono pericolose, troppo spesso, le loro case fragili. E non serve a niente affidarsi alla buona sorte. È da tempo, spiega Emanuela Guidoboni che con Gianluca Valensise ha scritto un saggio monumentale sui terremoti avvenuti in Italia dall’Unità a oggi, che viene registrata una intensificazione di attività sismica. Tutto normale, per i sismologi. È la storia del nostro Paese.
Meno a rischio del Giappone, dell’Armenia, del Cile o di alcune aree della Turchia, ma comunque da sempre colpito da tremendi scossoni: 34 terremoti devastanti più 86 «minori» dal 1861 ad oggi, per un totale di circa 200 mila morti e 1.560 Comuni (uno su cinque) bastonati più o meno duramente.
Spiega il rapporto Ance/Cresme del 2012 sullo stato del territorio italiano che una delle aree più soggette ai fenomeni sismici è appunto l’Appennino a cavallo tra la Campania e il Molise. Dove già fu durissima la batosta inflitta dalla natura nel 1980, quando venne sconvolta l’Irpinia e le aree circostanti. Stando al dossier, le abitazioni considerate a rischio in Molise sarebbero 158.812, in Basilicata 264.108, in Abruzzo 421.953, in Calabria 1.206.600, in Campania 2.148.364, in Sicilia 2.479.957. Da incubo. Più le scuole, più gli ospedali…
Il consiglio nazionale dei geologi conferma: « Il rischio sismico maggiore riguarda le regioni della fascia appenninica e del Sud Italia. Al primo posto c’è la Campania, in cui 5,3 milioni di persone vivono nei 489 Comuni a rischio sismico elevato. Seguono la Sicilia, con 4,7 milioni di persone in 356 Comuni a rischio e la Calabria, dove tutti i Comuni sono coinvolti, per un totale di circa 2 milioni di persone».
È una storia, purtroppo, vissuta sulla propria pelle da milioni di persone.
Con conseguenze pesantissime non solo in termini di vite umane. Basti leggere un rapporto della Protezione Civile del 2010: «I terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici consistenti, valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale (…) Attualizzando tale valore si ottiene un valore orientativo complessivo dei danni causati da eventi sismici in Italia pari a circa 147 miliardi e, di conseguenza, un valore medio annuo pari a 3.672 milioni di euro/anno».
Una cifra spropositata. Che ad ogni nuovo terremoto, e Dio sa quanti ne abbiamo avuti (negli ultimi decenni, anzi, la loro frequenza è stata perfino più bassa rispetto ai primi trenta o quarant’anni del secolo scorso) ci spinge a ripetere la solita domanda: non avremmo risparmiato tante vite umane e tanti disastri se ci fossimo preoccupati di più della prevenzione, del rispetto delle regole antisismiche nell’edilizia, della buona manutenzione quotidiana?
Tanto più che le conseguenze più tragiche non sono dovute solo alla forza distruttiva di questa o quella «botta» sismica.
Come ricordava l’anno scorso in un articolo il sismologo Max Wyss, Direttore della World Agency for Planetary Monitoring and Earthquake Risk Reduction, «sono i crolli degli edifici e non i terremoti a uccidere». Una forzatura? Non troppo. Per capirci: lo stesso identico terremoto della stessa identica potenza può essere vissuto con un brivido in cima al grattacielo di 55 piani Shinjuku Mitsui Building che a Tokyo nel 2009 oscillò senza danni fino a un metro e 80 centimetri sotto la spinta di un sisma del 9° grado della scala Richter e può creare migliaia e migliaia di morti in una città sgarrupata e costruita alla meno peggio senza alcun criterio di sicurezza.
Ed è questo a spaventare, quando c’è una scossa forte, gli abitanti di quella bruttissima megalopoli che copre i dintorni di Napoli fino a Caserta. Sanno di vivere in una immensa periferia di condomini tirati su troppo spesso con materiale di scarto nella scellerata convinzione che «se deve capitare, capita» e che comunque «ci penserà San Gennaro». Sanno che gran parte del patrimonio edilizio è vecchio. E quando ha meno di mezzo secolo è spesso ancora più fragile, con quel cemento armato di seconda categoria fornito troppo spesso da imprese legate alla camorra, degli edifici più antichi. Per non dire dell’«area rossa» vesuviana: al primo censimento del 1861 la popolazione era di 107.255 persone, quasi tutte concentrate sulla costa. Al censimento del 2001, erano 530.849. Oggi sarebbero oltre 580 mila.
Certo, ci vogliono una montagna di quattrini e un sacco di anni per risanare una realtà a rischio come quella, che vede in lontananza un Vesuvio insolitamente quieto da oltre mezzo secolo. E certo non è facile cominciare oggi, in questi tempi di crisi. Ma occorre ben partire, con quest’opera di risanamento. Così come è indispensabile che domani, passato (speriamo) lo spavento, certi politici non ricomincino a cavalcare le peggiori (e suicide) richieste degli abusivi.
Ricordiamo ancora un manifesto affisso tre anni fa ad Ischia: «Vota abusivo!». Ecco, spaventi come quelli di ieri dovrebbero servire a capire che occorre davvero voltare pagina.

Il Corriere della Sera 30.12.13

“Disuguaglianza, finalmente presa sul serio”, di Maurizio Franzini

Di recente Obama ha, senza mezzi termini, affermato che la disuguaglianza economica costituisce la «questione decisiva del nostro tempo». In un lungo articolo, pubblicato a ottobre sull’inserto domenicale del Corriere della Sera, il presidente Letta ha scritto: «La disuguaglianza sgretola la società perché la fa marcire al proprio interno … minando alla base sia la democrazia sia il mercato».

Letta e Obama non sono i soli uomini politici con grandi responsabilità ad aver parlato negli ultimi mesi della disuguaglianza con toni accorati. Queste dichiarazioni autorizzano a pensare che nei piani più alti della politica, o almeno in alcuni di essi, si è fatta largo la consapevolezza che la disuguaglianza – non quel- la astratta e indefinita di cui spesso vanamente si discute, ma quella concreta di questi anni, con la sua altezza e con il suo carico di poveri e di ricchi, spesso tali per tutt’altro che i loro meriti o demeriti – sia non un problema marginale, ingigantito da qualche eccentrico che ha a cuore la giustizia sociale, ma un ostacolo strutturale in grado di impedire il buon funzionamento dell’economia e della società.

UN IMPORTANTE FATTO NUOVO

Se così fosse, saremmo di fronte a un impor- tante fatto nuovo dell’anno che si chiude. In realtà, grazie a numerosi studi, oggi conosciamo molto meglio la disuguaglianza del nostro tempo e le sue probabili conseguenze; sappiamo, in particolare, quanto deboli siano due idee «forti» – in verità da molti già considerate deboli – che hanno a lungo alimentato la diffusa convinzione che né l’economia né la società avrebbero troppo sofferto della disuguaglianza dei redditi (che va distinta da quella della ricchezza). Per la prima idea, la disuguaglianza favorisce la crescita; per la seconda ciò che conta davvero per il buon funziona- mento della società non è la disuguaglianza ma la mobilità sociale – cioè non quanto il ricco guadagna più del povero ma se il ricco è figlio di un ricco piuttosto che di un povero – e l’ipotesi era che disuguaglianza e mobilità fossero tra loro indipendenti.

La disuguaglianza dei nostri tempi è decisa- mente eversiva rispetto a queste idee: invece che favorire la crescita economica, l’ha intralciata frenando la dinamica della domanda e, quindi, la capacità di utilizzare appieno il potenziale produttivo. Essa ha contribuito al manifestarsi della crisi e al suo perdurare. Inoltre, è oramai documentato che tra alta disuguaglianza e bassa mobilità vi è un intreccio perverso invece della supposta indipendenza. In quell’intreccio sono chiaramente intrappolati molti Paesi e soprattutto il nostro e gli Stati Uniti, tanto disuguali e tanto immobili.

Per far seguire azioni concrete alla consapevolezza occorre porsi almeno due quesiti. Il primo è ovvio: quali sono le possibili soluzioni? Il secondo è un po’ meno ovvio ma di importanza cruciale: vi sono soluzioni efficaci che non richiedono una profonda revisione delle attuali «regole del gioco»? Si tratta di quesiti difficili e quelle che seguono non sono che considerazioni introduttive.

Semplificando (non poco) si può dire che la scala dei redditi, in molti Paesi, si presenta così: sui gradini più bassi ci sono i poveri, cioè coloro che hanno un reddito inferiore alla soglia della povertà, fissata in base a criteri diversi. Costoro costituiscono un gruppo consistente e in crescita e sono in prevalenza disoccupati, anche se «i poveri che lavorano» non sono pochi. Appena più in alto c’è chi «fatica ad arrivare alla fine del mese» e, salendo ancora, chi può concedersi un tenore di vita da benestante. Nel loro insieme, questi due gruppi costituiscono gran parte del cosiddetto ceto medio che, negli ultimi decenni, ha perso quote di reddito a vantaggio di una ristretta o ristrettissima élite di ricchi o super-ricchi.

TRAVASI DI REDDITO

Questi ultimi, di norma identificati con l’1% più ricco, concentrano nelle proprie mani una fetta di reddito nazionale che varia da Paese a Paese ma che è comunque molto elevata: all’inizio della crisi, negli Stati Uniti era oltre il 18% contro il 13% del 1990; in Italia era il 9,5% contro il 7,8% del 1990. Il minimo, in Europa, si verificava nei Paesi Bassi, con il 5,7%. Questi valori e queste evoluzioni per- mettono, sempre con un po’ di approssimazione, di affermare che negli ultimi decenni quo- te non irrilevanti di reddito si sono, quasi ovunque, spostate dal 99% all’1% più ricco del- la popolazione. Questi due segmenti hanno, dunque, conosciuto storie molto diverse e la crescita – finché si è vista – non è stata affatto uguale per tutti.

Poiché i super-ricchi destinano al risparmio una bella percentuale delle loro entrate, la concentrazione del reddito nelle loro mani può avere effetti molto forti di freno della domanda di consumo, senza compensazioni automatiche in altre componenti della domanda di beni e servizi, e in particolare in quella per investimento. Essa, inoltre, può rallentare la mobilità sociale attraverso vari meccanismi, individuati nella letteratura, non esclusi quelli che derivano dalla capacità di influenzare i processi di decisione politica che si rafforza quando si è tanto più ricchi del resto della popolazione.

Ipotizzare che la soluzione consista nella ripresa della crescita equivale a scommettere su un evento che il recente passato mostra essere altamente improbabile. La crescita, quando c’è stata, si è concentrata nella parte alta della distribuzione, aggravando e non alleviando le disuguaglianze. Ad esempio, in Italia tra la metà degli anni ‘80 e la metà del decennio scorso, il reddito medio
del 10% più povero è cresciuto annualmente dello 0,2% e quello del 10% più ricco dell’1,1%, cioè una differenza di velocità di ben 5 volte.

Questo rende più urgente rispondere a una domanda preliminare: per ridurre la disuguaglianza si vuole agire sui gradini più bassi, su quelli più alti o su entrambi? Concentrarsi esclusivamente su chi sta peggio significherebbe identificare la lotta alla disuguaglianza con la lotta alla povertà e non sarebbe una grande novità: da tempo, i governi nazionali e l’Unione Europea si dicono impegnati in questa lotta, anche se all’enfasi nelle dichiarazioni non ha fatto seguito il successo nei risultati.

Al di là di questo, le idee sulle riforme da attuare che circolano con più frequenza in Europa sembrano tutte orientate a attenuare, nel migliore dei casi, la disuguaglianza nei gradini più bassi. Si pensi, ad esempio, alle misure per l’introduzione del salario minimo o, anche, quelle che dovrebbero ridurre la disoccupazione principalmente attraverso le riforme «strutturali» del mercato del lavoro. Aumentando l’occupazione dovrebbe aumentare il reddito dei più poveri (sempre che non si resti poveri anche dopo aver trovato un lavoro) e le distanze di reddito tra costoro e il resto della società dovrebbero accorciarsi con effetti positivi sulla disuguaglianza complessiva.

Questo esito sarà garantito, però, soltanto se nulla cambierà negli altri gradini. Ad esempio, se cadessero i salari dei penultimi, cioè di coloro che «faticano ad arrivare alla fine del mese», la disuguaglianza potrebbe crescere perché, se da un lato, si riducono le distanze tra gli ultimi e i penultimi, dall’altro si ampliano le distanze che separano i penultimi dai ricchi e dai super-ricchi. Le ricette invocate con forza dalla Commissione europea e dall’Ocse sembrano prevedere proprio questo e, al di là di altre considerazioni, il loro esito migliore sarebbe quello di ridurre le disuguaglianze nel gruppone del 99% al costo di una crescente distanza questo gruppone e l’élite dei super-ricchi.

Se si volesse agire anche sui gradini più alti della scala bisognerebbe decidersi a incidere ben più profondamente sulle odierne re- gole del gioco: si tratterebbe, ad esempio, di regolare meglio i mercati (e i circuiti) dove si formano questi super-redditi, spesso – non sempre – al riparo da un minimo di concorrenza e lontani da ogni accettabile idea di merito; si tratterebbe, altresì, di ripensare gli interventi re- distributivi per colpire, anche con modalità innovati- ve, non tutti i redditi elevatissimi ma, in modo selettivo, quelli – e sono di sicuro molti – che si formano nel modo protetto di cui si è detto. E, ancora, occorrerebbe un efficace coordinamento internazionale.
In breve, c’è un modo semplice (e poco incisivo) per combattere la disuguaglianza ed è quello che consiste nel rendere più uguale il 99% della popolazione; c’è, poi, un modo decisamente più difficile che richiede di guardare a tutta la scala non chiudendo gli occhi di fronte all’1% appollaiato in cima. La speranza, soprattutto di chi vorrebbe che la disuguaglianza fosse presa sul serio, è che il 2014 porti a chi occupa i piani alti della politica tutto il coraggio che occorre per svolgere il compito più difficile.

L’Unità 30.12.13

«I cittadini devono vedere la spinta Pd sull’esecutivo» di Maria Zegarelli

È impegnatissimo, neanche fosse candidato alla segreteria del Pd. Fabrizio Barca, neotesserato Pd, gira il territorio, apre contatti, crea gruppi di lavoro e sulla sua pagina web ( www.fabrizio- barca.it) ha lanciato la campagna «I luoghi idea(li)», sei o sette progetti per il territorio, con tanto di raccolta fondi, moduli di domanda (richiesta di cose materiali che arrivano dal territorio) e offerta (competenze, disponibilità di tempo e movimento pre realizzarle) per «dare finalmente una risposta concreta alle persone, restituire fiducia e far sì che il Pd faccia delle cose là dove servono». E in pochi giorni, la campagna è partita il 2 dicembre scorso, è stato raggiunto il 75% dell’obiettivo, cioè quei 40mila euro, oltre alle competenze, necessari per i luoghi ideali a cui pensa l’ex ministro. Dice che il suo impegno nel partito lo vede così, in mezzo alla gente, tanto che con- divide la voglia del neosegretario di non «romanizzarsi», di non farsi risucchiare dalle logiche della politica di palazzo che hanno mangiato e volatizzato energie e entusiasmo in tanti potenziali leader.

Barca, partiamo da Enrico Letta. Renzi e il Pd gli chiedono un cambio di passo. Secondo lei ci sono le condizioni politiche, con il Ncd?

«Assolutamente sì, d’altra parte è quello che hanno chiesto i tre milioni di persone che sono andate a votare il segretario del Pd. Hanno chiesto che il partito facesse sentire la sua presenza al governo che fino ad allora si era sentita poco. Si tratta, in sostanza, dell’attuazione di un mandato, un dovere del Pd di mettere mano alle due questioni più impellenti: la legge elettorale, per ricreare un rapporto fiduciario tra noi e gli eletti, e la ripresa di un ciclo economico che ci aiuti a uscire dal pantano». Lei pone due questioni su cui Pd e Ncd hanno posizioni diverse. Crede che sia possibile arrivare ad un accordo con Alfano sulla legge elettorale?
«Noi dobbiamo imparare a chiedere molto senza chiedere troppo. Non possiamo chiedere, ad esempio, un patto alla tedesca perché le condizioni qui sono diverse: in Germania è un patto tra partiti con una forte base comune, in Italia è diverso, Pd e Ncd possono solo fare un accordo di brevissimo periodo. Se ci aspettiamo altro si può restare delusi e le delusioni rende furibondi. Anche sulla legge elettorale non possiamo cercare un’alchimia per la governabilità perché la distanza tra i due partiti è altissima, se invece puntiamo a trovare un sistema uninominale in cui gli elettori scelgono i propri rappresentanti pretendendo poi una presenza effettiva dei parlamentari sul territorio, allora l’accordo è possibile».

Il lavoro è un altro punto di lontananza. Renzi propone il job act con il contratto unico, Alfano pensa a zero controlli da parte dello Stato per chiunque voglia avviare un’attività. Si può arrivare a qualcosa di concreto?

«Anche in questo caso penso che non si possa chiedere troppo a un governo di breve vita. Il contratto unico di cui parla Renzi, però, è un’idea interessante e mi auguro che vada avanti, che continui a lavorarci. Ma nello spirito della concretezza è necessario, da subito, un presidio dell’Aspi, il sussidio unico di disoccupazione introdotto dal governo Monti. Come sta andando? È una misura che funziona? È importante prima di inserire nuovi provvedimenti ca- pire come funzionano quelli già esistenti. In Germania quando si è riformato il mercato del lavoro lo si è fatto in tre stadi, monitorando di volta in volta i cambiamenti introdotti. Infine, dobbiamo sapere che non c’è alcun intervento sul mercato del lavoro che dia il via alla ripresa perché la crisi in atto è una crisi di domanda, di idee, di imprese che non investono e cittadini che non consumano».

Quindi come se ne esce?

«Da tempo sostengo che la più impor- tante iniezione di domanda sarebbe un grande intervento finanziario a fa- vore della cura dell’infanzia, degli anziani non autosufficienti e dell’assistenza integrata domiciliare agli anziani. Sono misure che da un lato consentirebbero il presidio di due aspetti della vita quotidiana di migliaia e migliaia di famiglie italiane in difficoltà, dall’altro attiverebbero molto lavoro, a differenza di tante inutili ricette che ho sentito in questi ultimi mesi».

Il rimpasto di governo è necessario per la svolta, o come sostiene Renzi è una vecchia pratica da Prima Repubblica? «Mi fa molto piacere che Renzi l’abbia definito in questo modo. Condivido questa sua lettura».

Che pensa di questo Pd a guida Renzi con una classe dirigente completamente rinnovata?
«Per ora noto un fatto importante, la scelta di una segreteria maturata in po- che ore e che ha messo in prima linea una generazione di trentenni. È un’operazione non nuova in Italia, accadde già con Bettino Craxi alla fine degli anni Settanta, anche se quell’operazione, che ebbe momenti positivi, poi finì male. Nel caso di Renzi credo, invece, che già in primavera, se lasceremo lavorare questi ragazzi, avremo delle belle sorprese».

Giovani che chiedono molto, soprattutto a Letta. Secondo lei con questo nuovo Pd il governo avrà vita breve?
«Se entro la fine di gennaio il governo trova la giusta misura, quattro o cinque interventi incisivi da realizzare in tempi brevissimi, l’obiettivo del 2015 non mi sembra impossibile. Ma è chiaro che i cittadini devono toccare con mano il peso della spinta del Pd sul governo».

Cosa consiglierebbe al neosegretario per non deludere i suoi elettori?
«Di tradurre il suo radicamento territoriale e la sua ambizione di non romanizzarsi, in un’attenzione ai problemi che dai territori vengono sollevati. E a non cadere nella trappola che già vedo in agguato leggendo alcuni commenti sui quotidiani. Questa contrapposizione tra carisma, squadra e partito diffuso è ridicola. Serve carisma, serve una squadra e serve un partito radicato sul territorio. Chi cerca di introdurre una contrapposizione vuole male al Pd e vuole far fuori Renzi. Credo che il segretario abbia ben presente questa manovra».

L’Unità 30.12.13

“Missione 2014 non a tutti i costi”, di Claudio Sardo

Il brutto pasticcio del decreto salva-Roma ha messo a nudo – oltre agli errori politici – due problemi strutturali che condizioneranno le sorti e la durata della legislatura. Il primo problema riguarda la sclerosi del nostro procedimento legislativo, aggravata dai ripetuti fallimenti delle riforme. Il secondo consiste nello slittamento dell’opposizione di Grillo, di Berlusconi e della Lega in un’opposizione di sistema.

Enrico Letta ha confermato l’obiettivo del semestre di presidenza italiana dell’Ue e si prepara a negoziare il «contratto» della nuova maggioranza: ma, dopo quanto è accaduto, serve un serio approfondimento prima di predisporre il calendario del 2014.

Le nostre istituzioni non funzionano. Ci sono intoppi ad ogni snodo. Da tempo si invoca una revisione che restituisca all’ordinamento efficienza, trasparenza, capacità di decisione democratica. Ma siamo arrivati al punto che parlare di riforme suscita persino rabbia. Per- ché non si conclude mai nulla. E perché intanto la crisi colpisce duramente il lavoro, le famiglie, i giovani, le imprese. Tuttavia, senza un governo e un Parlamento rilegittimati da riforme sensate, senza un bilanciamento dei poteri, senza una legislazione più essenziale e meno dispendiosa, sarà difficile per il sistema-Italia invertire la rotta che ci ha portato al declino.

Ci vuole anzitutto una legge elettorale che restituisca rappresentatività al Parlamento e favorisca la formazione di maggioranze coerenti. Dopo la sentenza della Corte costituzionale, la riforma è assolutamente necessaria. Ma, per assicurare una democrazia dell’alternanza e per ricostruire il circuito cittadini-partiti-governo-istituzioni, la legge elettorale da sola non basta. Tanto meno è sufficiente in un sistema dove vige il bicameralismo paritario. I ruoli delle due Camere vanno distinti, il rapporto fiduciario con il governo va affidato alla sola Camera (introducendo anche la sfiducia costruttiva), il Senato deve svolgere quel ruolo di composizione tra Stato e Autonomie territoriali che solo un sistema malato come il nostro può delegare alla Consulta o alle trattative convulse della Conferenza Stato-Regioni.

In queste riforme devono inserirsi le modifiche ai regolamenti parlamentari. Il procedimento legislativo è oggi ripetitivo e disfunzionale. Ma intervenire nei suoi delicati meccanismi è possibile solo con idee chiare e mano ferma: il fallimento è garantito se si procede per mediazioni successive. Abbiamo bisogno di semplificare le leggi, di renderle più trasparenti nella loro formazione e nel loro uso. Non solo è necessario che la legislazione nazionale venga affidata come compito prevalente al- la Camera, ma anche che l’eventuale potere di richiamo del Sena- to sia limitato e ben definito. Va cambiato anche il modo di scrivere le leggi: nel tempo si è affermata una prassi che rende quasi illeggibili le norme, concepite come correzioni di articoli e di commi di leggi precedenti. Dare un diverso ordine alla legislazione, e assecondare un piano di semplificazione normativa e di testi unici, è invece indispensabile per la stessa ripresa economica del Paese.

Nei regolamenti parlamentari andrebbero incluse anche misure contro il trasformismo. Ad esempio, si potrebbe prevedere il divieto di transito da un gruppo politico a un altro durante la legislatura. Se un deputato rompe con il proprio gruppo, va posto di fronte a due sole alternative: iscriversi al gruppo misto o dimettersi.

A questo punto, però, non si può sfuggire alla domanda: queste riforme sono possibili nella legislatura in corso? Sono possibili con Forza Italia, Cinque stelle e Lega schierati sulla linea del «tanto peggio, tanto meglio»? Sabato scorso i senatori grillini hanno impedito persino l’approvazione del verbale della seduta: se le opposizioni attuassero un ostruzionismo sistematico, chiedendo la verifica del numero legale a ogni votazione, precipiteremmo di nuovo nello scenario del secondo governo Prodi. Sette voti di maggioranza sono poca cosa se viene me- no ogni lealtà istituzionale. Per andare avanti bisognerebbe, appunto, cambiare i regolamenti, cancellando i maxi-emendamenti governativi e fissando tempi certi per il voto sui disegni di legge giudicati essenziali all’indirizzo politico dell’esecutivo. Ma ne esistono le condizioni? La nuova maggioranza è pronta alla battaglia, se fosse necessaria? La strumentalità con cui Forza Italia sta incoraggiando persino la richiesta di impeachment da parte di Grillo è un pessimo indicatore: non solo siamo di fronte ad accuse contro Giorgio Napolitano del tutto prive di sostanza giuridica e politica, ma in tutta evidenza l’obiettivo congiunto di Grillo e Berlusconi è la caduta del governo e il ricorso alle elezioni in condizioni di insicurezza. M5S e Forza Italia voglio- no che il sistema resti ingovernabile anche dopo il voto.

La legge elettorale, ovviamente, va fatta ad ogni costo. Anche a costo di un duro scontro parlamentare. Ma il punto – per Letta e per il Pd anzitutto – è il seguente: se non fosse possibile fare qualcosa di più della legge elettorale, avrebbe senso continuare la legislatura oltre la prossima primavera? Sia chiaro, all’Italia le riforme servono come l’ossigeno e senza riforme rischiamo che anche le prossime elezioni producano in- certezza e instabilità. Ma, quando Letta chiamerà al tavolo i leader della nuova maggioranza per firmare il contratto di governo per il 2014, deve tenere conto che il trio Berlusconi-Grillo-Salvini punta a far saltare tutto e che l’ennesimo fallimento sulle riforme rischia di travolgere ogni ipotesi di svolta sul piano economico e sociale. Letta deve tentare. Neppure a lui, però, può bastare la sola legge elettorale per arrivare a fine 2014. Oltretutto in primavera ci saranno comunque le elezioni europee. E Berlusconi, Grillo e la Le- ga giocheranno in chiave anti-euro la loro opposizione di sistema, usando argomenti non tanto di- versi da quelli di Le Pen. La partita è rischiosa come mai nel recente passato.

L’Unità 30.12.13

“Uguaglianza e merito”, di Nadia Urbinati

Si parla spesso del merito come della soluzione ai problemi della nostra società bloccata da un sistema farraginoso e burocratico e da un perverso abito clientelare che premia chi ha amici potenti, non chi ha capacità. Per questo, merito e lavoro appaiono come una coppia inscindibile: il primo come condizione per il secondo. Da un’interessante analisi del voto delle primarie del Pd dell’8 dicembre scorso condotta dall’Osservatorio sulla Comunicazione Politica dell’Università di Torino, risulta che questa sia la tesi vincente e il segno dell’identità ideologica della nuova sinistra centrista. Tra i dati aggregati e interpretati da Luciano Fasano e dai suoi collaboratori emerge che nel suo complesso il Pd è un partito di centro-sinistra autentico nel quale la componente legata alla sinistra tradizionale è scarsamente rilevante nel suo elettorato e ancora di meno tra gli eletti. A comprovare questa valutazione è la collocazione del merito accanto al lavoro e distante dall’eguaglianza nelle proposte dei delegati del gruppo che ha raccolto più consensi.
Non da oggi, il merito gioca un ruolo di primo piano nella riconfigurazione della cultura ideologica della sinistra.
In una società, come la nostra, dove parenti e amici contano sempre molto, più delle vocazioni e delle doti personali, il richiamo al merito è sacrosanto. Ma è un fatto di legalità piuttosto che di giustizia sociale. Anche perché organizzare la società sull’“abilità dimostrata” è alquanto complesso visto che il merito è non solo difficile da misurare e attribuire, ma anche fortemente condizionato dal capitale sociale e dall’ambiente culturale. Per non essere ingiusta considerazione, il merito richiede molta attenzione alla distribuzione eguale delle condizioni di partenza. Per questa ragione un liberal social-democratico come John Rawls non credeva che dal merito potesse partire una politica di giustizia sociale. Perché è difficile spiegare con precisione che cosa sia vero merito, prima di tutto in quanto è impossibile stabilire con certezza il dosaggio tra capacità personali e condizioni sociali. Qualche volta sembra che il merito sia una qualità che la persona riconosciuta meritevole possieda naturaliter come per innata disposizione (talenti) e che con fatica e duro lavoro riesce poi a fare emergere (responsabilità). Ma nessuno sembra soffermarsi abbastanza sulla dimensione sociale del merito, sul suo dipendere profondamente dal riconoscimento sociale e dalla sintonia che si stabilisce tra chi opera e chi ne riceve i frutti o é influenzato dall’operato.
Il giudizio sul merito di una persona è relativo a un settore di lavoro, a determinati requisiti che definiscono una prestazione, all’utilità sociale delle funzioni in un determinato tempo storico e luogo, ovvero al riconoscimento sociale e pubblico. Nel merito entrano in gioco ben più delle qualità della persona. Per questo nelle questioni di giustizia si dovrebbe diffidare di usarlo come criterio per distribuire risorse. Non perché non sia giusto che ad essere assunto in un ospedale debba essere un bravo medico, ma perché non si deve scambiare l’effetto con la causa: è l’eguaglianza di condizione, di trattamento e di opportunità il principio che deve governare la giustizia; il merito è semmai la conseguenza di un ordine sociale giusto. Per non essere privilegio truffaldino, il merito deve sprigionare da una società nella quale a tutti dovrebbe essere concessa un’eguale possibilità di formarsi capacità e accedere ai beni primari (diritti civili e diritti sociali essenziali) per poter partecipare alla gara della vita.
Il Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson raccontò questa storia per far comprendere ai suoi concittadini la necessità di politiche pubbliche, in primo luogo scolastiche: immaginiamo una gara di velocità
tra due persone che partono sulla stessa linea ma una di esse con dei pesi alle caviglie cosicché dopo pochi metri si troverà in irrimediabile svantaggio, nonostante si impegni con tutte le sue forze. Si può ignorare questa differenza di capacità nel giudicare del merito del vincitore? Evidentemente no. In questo caso il vincitore non avrebbe proprio alcun merito. Semmai godrebbe di un privilegio. Perché ci sia una gara onesta ed effettivamente gareggiata occorre rimuovere gli ostacoli dell’altro competitore, e lo si può fare in tre modi: o si libera la persona impedita a gara cominciata e si fa finta che ci sia giusta competizione (affermazione del privilegio), oppure si dà a chi è oggettivamente impedito un vantaggio a gara cominciata (programmi di aiuto a chi ha bisogno) oppure lo si prepara prima che la gara cominci (politiche di cittadinanza sociale).
Non si intende dire con questo che non ci può essere merito meritato; ma che non ci può essere se alcuni partono avvantaggiati o se non si correggono le diseguaglianze di opportunità prima di valutare il merito. Ecco perché senza l’accoppiamento con l’eguaglianza il merito non è un valore di giustizia. A meno che non si controllino tutte le relazioni sociali che presiedono alle nostre scelte individuali (cosa indesiderabile oltre che impossibile da ottenere in una società che vuole restare libera) non si può onestamente parlare del merito come della soluzione ai problemi di ingiustizia sociale (mentre la sua violazione nei concorsi pubblici può comportare illegalità). Si deve invece partire dall’eguaglianza di opportunità e delle condizioni di formazione delle capacità, per esempio da scuole pubbliche di buona qualità distribuite su tutto il territorio nazionale affinchè la gara possa essere davvero aperta a tutti e non si sfoltisca a valle il numero dei potenziali concorrenti.

La Repubblica 30.12.13

“Matteo contro tutti”, di Elisabetta Gualmini

L’intervista di ieri di Renzi sulla Stampa contiene cinque proposizioni che fanno capire molto bene qual è la postura del nuovo leader Pd nei confronti del governo e immaginare quali saranno le sue prossime mosse. Primo. Io non sono come Letta e Alfano. Renzi, senza giri di parole, marca la completa discontinuità della sua storia rispetto a quella del premier e del vicepremier. E questo nessuno lo può mettere in dubbio. Sono due mondi e due visioni della politica sideralmente opposte che hanno ben poco in comune. Non basta l’età a tenerle agganciate. Letta e Alfano sono arrivati a ricoprire vari incarichi politici, e certamente il più elevato della loro carriera, quello attuale, per nomina dall’alto, da parte di politici parecchio più anziani di loro. Renzi ci è arrivato con voti conquistati dal basso, ponendosi in aperto contrasto con chi ha mandato avanti i primi due. Renzi può far pesare voti, non generiche dichiarazioni di stima, già presi o attesi, che i coinquilini di Palazzo Chigi non hanno.

Secondo. Il governo va facendo marchette. In effetti i giri di valzer sull’Imu e la carrettata di nomine di neo-prefetti sono opera sua (del governo).

Le mille mance della legge di stabilità sono passate con la sua approvazione, benevola o succube nei confronti dei battaglioni parlamentari senza guida che lo sostengono.

Terzo. Non negozio con Letta sui sottosegretari. Il sindaco-segretario ci dice chiaro e tondo che non gli interessa il rimpasto, una pratica consolidatissima della prima repubblica, dopo aver accettato la quale, crollerebbe tutto il castello della sua diversità. Un altro modo per dire: le piccole intese non sono cosa mia e non mi faccio includere in giochi di palazzo destinati a durare poco. Un Renzi che fa il verso a Grillo, rigettando scambi e accordicchi con chi ha una visione diversa dalla sua.

Quarto. Datemi una legge elettorale maggioritaria. Oggi, in effetti, una priorità assoluta: per la democrazia italiana e per il Renzi medesimo. Senza una legge elettorale che consente a chi vince di governare, continueremo a tenerci, nella migliore delle ipotesi, governi di decantazione, incaponiti nel voler durare, mentre il Paese si arrabatta declinando. Senza una legge maggioritaria i partiti non avrebbero più bisogno di un leader che faccia loro vincere le elezioni. La forza di Renzi, il suo approccio alla leadership e il suo primo messaggio, perderebbero peso. Per questo dice chiaramente (e giustamente) che ne parlerà con chiunque, a cominciare da Berlusconi, forse l’unico interessato a questo accordo, a dimostrazione che è ancora quello che prende i voti nel centrodestra.

Quinto. A chi scalpita per andare alle elezioni, Renzi dice: «State calmi, ragazzi».

Per interpretare le prime quattro affermazioni non servono supposizioni e dietrologie. Sono una la conseguenza dell’altra. Semmai ci si potrebbe chiedere: perché dire le prime tre con così poca grazia nei confronti di Letta e Alfano, così a brutto muso? Ma solo se non si fosse ancora capito il carattere del ragazzo («the boy», si diceva di Tony Blair), il suo parlar chiaro e la sua dichiarata ambizione. Uno che ha capito che nella melassa melliflua della politica italiana, che ha disgustato anche il più paziente dei cittadini, è meglio colpire piuttosto che tentennare, sparare e incalzare piuttosto che rassicurare.

L’unica cosa su cui si possono nutrire dubbi è se sia realmente disposto, dopo aver ottenuto la legge elettorale, semmai gli riuscisse, ad aspettare ancora un anno e mezzo. Dovendo nel frattempo affrontare il test insidiosissimo delle Europee, con il Pd compresso tra l’esplosione dei sentimenti euroscettici, mobilitati da Berlusconi, Salvini, Vendola, Grillo, e una miriade di partitini suoi alleati nelle ristrette intese.

Finora Renzi è parso credibile nel dire che sosterrà il governo Letta fino al 2015, affinché e purché si facciano le riforme (legge elettorale e abolizione del Senato). D’altro canto non è facile far correre la bicicletta delle intese di taglia mini come una Ferrari, infiocchettando una scelta epocale dietro l’altra dopo 20 anni di inerzia totale. E’ una sfida che rasenta l’impossibile. Il primo test è a gennaio. Se Alfano si metterà di traverso, per prendere tempo e sostenere una legge non abbastanza maggioritaria, sarà già molto chiaro che la road map delle riforme è arrivata al capolinea.

La Stampa 30.12.13

“I padroni dell’Universo”, di Federico Rampini

C’è un fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta. C’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari. C’è il finanziere d’assalto che sfida Apple e si presenta, nientemeno, come il difensore dei piccoli azionisti. The “Masters of the Universe sono tornati”. I giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano. Se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio dedica a “The Wolf”, il Lupo di Wall Street, il film più atteso di questo fine 2013. Degna chiusura di un anno che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s 500 in rialzo del 30% rispetto al primo gennaio.
The Economist dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito premonitore di Stanley Kubrick in “2001 Odissea nello Spazio”. Time magazine” invece sulla copertina di dicembre mette Carl Icahn, un nome che rievoca le prime grandi scalate degli anni Ottanta. L’epoca in cui il romanziere Tom Wolfe coniò, nel “Falò delle vanità”, quel termine arrogante e superbo, inquietante e gonfio di hubris: i Padroni dell’Universo, appunto.
Il fondo che possiede una città si chiama Marathon Asset Management, non è neppure uno dei maggiori colossi, amministra “solo” 11 miliardi di dollari. Ha rilevato l’intera Scotia, città californiana a 250 km a nord di San Francisco, dopo la bancarotta municipale. È un precedente che potrebbe far scuola per metropoli ben più grandi come Detroit, dove il liquidatore dei beni comunali sta mettendo all’asta fallimentare anche i musei cittadini.
Time saluta il ritorno di Icahn, 77 anni e un patrimonio di 20 miliardi che lo colloca al 18esimo posto della classifica Forbes dei Paperoni d’America, con questa presentazione: «È il singolo investitore più
ricco di Wall Street, e il più temuto raider di grandi imperi industriali». La sua carriera cominciò con la scalata alla compagnia aerea Twa nel 1985, un anno prima che i rivali di Kkr lo battessero nella conquista alla Nabisco (raccontata in un altro celebre romanzo-realtà sulla finanza Usa, “Barbari alle porte”). Oggi Icahn fa notizia soprattutto per il braccio di ferro che lo oppone a Tim Cook, il chief executive di Apple nel dopo-Steve Jobs. E qui viene la sorpresa. Invece di assalire
Apple con una delle solite scorribande finanziarie mordi-e-fuggi, Icahn si fa il paladino di interessi generali. «Apple non è una banca », lancia l’anziano investitore a Cook. Icahn vuole che la regina degli iPhone e iPad la smetta di accumulare cash inutilizzato (ben 150 miliardi di dollari, una montagna di liquidità tanto impressionante quanto assurda) e lo distribuisca a tutti gli azionisti. Lui incluso, ovviamente, che nel capitale di Apple ha investito due miliardi. Ma l’operazione che Icahn pretende da Apple distribuirebbe benefici anche ai piccoli risparmiatori. I Padroni dell’Universo si sono convertiti come dei Robin Hood? Tutt’altro. Ma almeno il loro è un capitalismo vero, un’economia di mercato non ingessata.
Blackrock è un campione che gioca in una categoria a parte: la sua. È il King Kong dell’investimento moderno, nessun altro può competere per dimensioni. Fondato
nel 1988, oggi Blackrock amministra direttamente 4.100 miliardi di dollari dei suoi clienti. Inoltre fornisce piattaforme tecnologiche e software per la gestione di altri 11.000 miliardi. E quei fondi sotto la sua influenza crescono al ritmo frenetico di 1.000 miliardi all’anno. Naturalmente compra anche bond, materie prime, immobili. La sua vera specialità però resta l’investimento azionario. Ritrovi Blackrock come primo azionista delle tre regine hi-tech americane: Apple, Google, Microsoft. È il primo azionista anche di due colossi petroliferi (Exxon, Chevron), di due tra le maggiori banche Usa (JP Morgan Chase, Wells Fargo), sempre primo azionista anche in conglomerati industriali come General Electric, Procter & Gamble. Una peculiarità di Blackrock lo distingue da altri protagonisti di epoche precedenti nella storia di Wall Street. Questo maxi-fondo investe soprattutto attraverso strumenti detti “passivi” come gli exchangetraded funds (Etf) che riproducono esattamente l’andamento di indici di Borsa (come i vari Dow Jones, S&P500, Ftse). La loro performance quindi è una fotocopia fedele dell’andamento dei mercati. I costi di gestione sono minimi. Soprattutto, Blackrock investe i capitali che gli vengono affidati, anche dai piccoli risparmiatori, attraverso fondi pensione e altri fondi comuni. Non ci mette capitali propri. Dunque, a differenza della famigerata e defunta Lehman Brothers, o di altre banche d’affari che si rivelarono fragilissime, un investitore istituzionale come Blackrock ha poco “rischio sistemico”. In un certo senso Blackrock ha obbedito anticipatamente alla nuova regola varata solo da poche settimane dall’Amministrazione Obama, quella Volcker Rule che vieta ai banchieri di fare speculazioni rischiose coi propri capitali. È un altro caso di Padrone dell’Universo che può aiutare l’economia di mercato a evitare catastrofi come quella del 2008? Di certo l’universo capitalistico in cui si muove Blackrock dista anni-luce dalla realtà italiana. Per quanto sia un colosso, e grosso azionista di gruppi come Apple, Google, Shell e Nestlè, Toyota e Novartis, in nessuna di queste aziende la sua quota configura una “minoranza di blocco”. Né fa parte di patti di sindacato, che generalmente non esistono a Wall Street e nei mercati più evoluti. Blackrock può usare la frusta verso un management che giudica inefficiente, ma non ha poteri di veto né si può permettere di paralizzare una grande azienda.
Il ritorno dei Padroni dell’Universo è un fenomeno dalle molte facce. L’aspetto negativo lo sottolinea chi teme che la crescita americana sia ripartita su basi vecchie, cioé con gli stessi squilibri che generarono la grande crisi del 2008. In particolare fra questi squilibri c’è la finanziarizzazione dell’economia, e la dilatazione delle diseguaglianze sociali che le è strettamente legata. Larry Summers, ex consigliere economico di Barack Obama, in un importante discorso al Fondo monetario internazionale ha evocato il rischio di una «stagnazione secolare», tra i cui sintomi vi sarebbe la deflazione. Uno studio della Washington University lancia l’allarme sulle disparità nel risparmio: il 5% delle famiglie più ricche sta
accumulando troppi risparmi e in questo modo deprime i consumi; mentre il 95% rimanente è costretto a dilapidare lentamente i propri patrimoni per contrastare il peggioramento del tenore di vita.
Il lato positivo di Wall Street forse lo vedono meglio di tutti gli italiani: per contrasto con la loro realtà nazionale. Il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, in una recente visita a New York in cui ha incontrato proprio i dirigenti di Blackrock, oltre agli uomini di Citigroup e George Soros, ha potuto misurare i benefici della loro intraprendenza. Diversi attori della finanza Usa si sono offerti di liquidare in fretta le sofferenze e i crediti incagliati delle banche italiane, un’operazione che consentirebbe alle aziende di credito di tornare a prestare fondi all’economia reale.
Dietro un’economia americana che cresce del 3% e genera duecentomila nuovi posti di lavoro al mese, c’è anche questa finanza “flessibile”, che ha liquidato in tempi record le scorie tossiche della crisi del 2008, ed è tornata a fare il suo mestiere. La storia di come le banche americane si sono rimesse in piedi, nel corso degli ultimi quattro anni, è lo specchio riflesso — all’incontrario — di tutto quel che non accade nel sistema bancario italiano. Quando le banche Usa sembravano stremate, al tracollo, sul punto di affondare sotto il peso di investimenti sbagliati e crediti inesigibili, la prima mossa è stata la svendita a prezzi di liquidazione di tutta la “monnezza” che poteva impedire la riemersione. In seguito o in parallelo, ci sono state le grandi ricapitalizzazioni. Le banche hanno cercato capitali freschi sul mercato aperto. Una delle prime operazioni la fece un personaggio emblematico del capitalismo Usa, Warren Buffett, con il suo investimento “salvifico” in Goldman Sachs, fatto in un’epoca in cui sui mercati ancora regnava una sfiducia quasi disperata. Una volta ricapitalizzate, anche con l’intervento dei Padroni dell’Universo, le banche hanno riguadagnato la fiducia dei mercati, sono apparse sufficientemente solide da superare gli “stress test” degli organi di vigilanza. E hanno ripreso a fare credito all’economia reale, famiglie e imprese, alimentando la ripresa attuale. Niente blindature degli assetti azionari, niente “foreste pietrificate” dei soliti noti. Questo è il capitalismo americano, la “macchina del mercato” che qui ha ripreso a girare a
pieno ritmo.

La Repubblica 30.12.13