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Napolitano: “A tutti gli italiani giunga il mio più affettuoso augurio. Guardiamo al nuovo anno con serenità e con coraggio”

“A tutti gli italiani – e rivolgendo un particolare pensiero a quanti vivono con ansia queste ore per le recenti scosse di terremoto – giunga il mio affettuoso augurio. L’anno che sta per terminare è stato tra i più pesanti e inquieti che l’Italia ha vissuto da quando è diventata Repubblica. Tra i più pesanti sul piano sociale, tra i più inquieti sul piano politico e istituzionale. L’anno che sta per iniziare può e deve essere diverso e migliore, per il paese e specialmente per quanti hanno sofferto duramente le conseguenze della crisi. Una crisi dalla quale in Europa si comincia a uscire e più decisamente si potrà uscire se si porterà fino in fondo un’azione comune per il rilancio della crescita economica e dell’occupazione.
Questa sera non tornerò su analisi e considerazioni generali che ho prospettato più volte. Non passerò dunque in rassegna i tanti problemi da affrontare. Cercherò, invece, di mettere innanzitutto in evidenza le preoccupazioni e i sentimenti che ho colto in alcune delle molte lettere indirizzatemi ancora di recente da persone che parlando dei loro casi hanno gettato luce su realtà diffuse oggi nella nostra società.
Vincenzo, che mi scrive da un piccolo centro industriale delle Marche, ha ormai 61 anni e sa bene quanto sia difficile per lui recuperare una posizione lavorativa. “Sono stato” – mi dice – “imprenditore fino al 2001 (un calzaturificio con 15 dipendenti) ed in seguito alla sua chiusura sono stato impiegato presso altri calzaturifici. Attualmente sono disoccupato… Di sacrifici ne ho fatti molti, e sono disposto a farne ancora. Questo non spaventa né me né i nostri figli.”. Ma aggiunge : “Non può essere che solo noi «semplici cittadini» siamo chiamati a fare sacrifici. FACCIAMOLI INSIEME. Che comincino anche i politici.”. Mi sembra un proposito e un appello giusto, cui peraltro cercano di corrispondere le misure recenti all’esame del Parlamento in materia di province e di finanziamento pubblico dei partiti.
Daniela, dalla provincia di Como, mi racconta il caso del suo fidanzato che a 44 anni – iscrittosi “allo sportello lavoro del paese” – attende invano di essere chiamato, e resta, per riprendere le sue drammatiche parole, “giovane per la pensione, già vecchio per lavorare”.
Una forte denuncia della condizione degli “esodati” mi è stata indirizzata da Marco, della provincia di Torino, che mi chiede di citare la gravità di tale questione, in quanto comune a tanti, nel messaggio di questa sera, e lo faccio.
Mi hanno scritto in questo periodo persone che alla denuncia delle loro difficoltà uniscono l’espressione di un naturale senso della Nazione e delle istituzioni. Lo si coglie chiaramente, ad esempio, nel travaglio di un padre di famiglia, titolare di un modesto stipendio pubblico, che mi scrive : “Questo mese devo decidere se pagare alcune tasse o comprare il minimo per la sopravvivenza dei miei due figli…”. E mi dice di vergognarsi per questo angoscioso dilemma, pensando al patto sottoscritto con le istituzioni, al “giuramento di pagare le tasse sempre e comunque”.
Ricevo anche qualche lettera più lunga, che narra una storia personale legandola alla storia e alla condizione attuale del paese. Così Franco da Vigevano, agricoltore, che rievoca lo “spirito di fratellanza” degli anni della ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale e fa appello perché quello spirito rinasca come condizione per rendere la “Nazione stabile economicamente e socialmente”.
E infine, avrei da citare molte lettere di giovani, polemiche verso le incapacità della politica ma tutt’altro che rassegnate e prive di speranza e volontà. Serena, da un piccolo centro del catanese, mi scrive : “Noi giovani non siamo solo il futuro, ma siamo soprattutto il presente”, per il lavoro che manca, per la condizione delle famiglie che scivolano nella povertà. “Voi adulti e politici parlate spesso dei giovani e troppo poco con i giovani”, che nonostante tutto sono pronti a rimboccarsi le maniche e a fare ogni sforzo per poter dire, da adulti: “sono fiero del mio paese, della mia Nazione”.
Veronica, da Empoli, ventottenne, laureatasi a prezzo di grandi sacrifici, da 3 anni alla ricerca, finora vana, di un lavoro, sente che la crisi attuale è crisi di quella fiducia nei giovani, di quella capacità di suscitare entusiasmo nei giovani, senza di cui “una Nazione perde il futuro”. E conclude : “io credo ancora nell’Italia, ma l’Italia crede ancora in me?”. Ecco, vedete, aggiungo io, una domanda che ci deve scuotere.
Ringrazio tutti coloro che mi hanno scritto, anche esprimendo apprezzamento e fiducia, e talvolta critiche schiette, per il mio impegno di Presidente. Non potendo sempre rispondere personalmente, traggo da ogni racconto, denuncia o appello che mi giunge, stimoli per prospettare – nei limiti dei miei poteri e delle mie possibilità – i forti cambiamenti necessari nella politica, nelle istituzioni, nei rapporti sociali. Ne traggo anche la convinzione che ci siano grandi riserve di volontà costruttiva e di coraggio su cui contare.
Il coraggio degli italiani è in questo momento l’ingrediente decisivo per far scattare nel 2014 quella ripresa di cui l’Italia ha così acuto bisogno. Coraggio di rialzarsi, di risalire la china. Coraggio di praticare la solidarietà : come già si pratica in tante occasioni, attraverso una fitta rete di associazioni e iniziative benefiche, o attraverso gesti, azioni eloquenti ed efficaci – dinanzi alle emergenze – da parte di operatori pubblici, di volontari, di comuni cittadini, basti citare l’esempio di Lampedusa. Coraggio infine di intraprendere e innovare : quello che mostrano creando imprese più donne, più giovani, più immigrati che nel passato.
Alla crisi di questi anni ha reagito col coraggio dell’innovazione una parte importante dell’industria italiana, indebolitasi, già molto prima, in produzioni di base certamente rilevanti, ma affermatasi in nuove specializzazioni. Quella parte dell’industria ha così guadagnato competitività nelle esportazioni, ed esibito eccellenze tecnologiche, come dimostrano i non pochi primati della nostra manifattura nelle classifiche mondiali. In questo nucleo forte, vincente dell’industria e dei servizi troviamo esempi e impulsi per un più generale rinnovamento e sviluppo della nostra economia, e per un deciso ritorno di fiducia nelle potenzialità del paese.
Guardiamo dunque al presente, al malessere diffuso, alla “fatica sociale” – come si è detto – cui dare risposte qui ed ora, nell’anno 2014, ma lavoriamo in pari tempo a un disegno di sviluppo nazionale e di giustizia sociale da proiettare in un orizzonte più lungo. E’ a questa prospettiva che sono interessati innanzitutto i giovani, quelli che con grandi sforzi già hanno trovato il modo di dare il meglio di sé – ad esempio, ne parlo spesso, nella ricerca scientifica – e gli altri, i più, che ancora non riescono a trovare sbocchi gratificanti di occupazione e di partecipazione a un futuro comune da costruire per l’Italia.
Si richiedono però lungimiranti e continuative scelte di governo, con le quali debbono misurarsi le forze politiche e sociali e le assemblee rappresentative, prima di tutto il Parlamento, oggi più che mai bisognoso di nuove regole per riguadagnare il suo ruolo centrale.
Non tocca a me esprimere giudizi di merito, ora, sulle scelte compiute dall’attuale governo, fino alle più recenti per recuperare e bene impiegare, essenzialmente nel Mezzogiorno, miliardi di euro attribuitici dall’Unione Europea attraverso fondi che rischiamo di perdere. Rispetto a tali scelte e alla loro effettiva attuazione, e ancor più a quelle che il governo annuncia – sotto forma di un patto di programma, che impegni la maggioranza per il 2014 – il solo giudice è il Parlamento. E grande, a questo proposito, è lo spazio anche per le forze di opposizione che vogliano criticare in modo circostanziato e avanzare controproposte sostenibili.
La sola preoccupazione che ho il dovere di esprimere è per il diffondersi di tendenze distruttive nel confronto politico e nel dibattito pubblico – tendenze all’esasperazione, anche con espressioni violente, di ogni polemica e divergenza, fino a innescare un “tutti contro tutti” che lacera il tessuto istituzionale e la coesione sociale.
Penso ai pericoli, nel corso del 2013, di un vuoto di governo e di un vuoto al vertice dello Stato : pericoli che non erano immaginari e che potevano tradursi in un fatale colpo per la credibilità dell’Italia e per la tenuta non solo della sua finanza pubblica ma del suo sistema democratico. Quei pericoli sono stati scongiurati nel 2013, sul piano finanziario con risultati come il risparmio di oltre 5 miliardi sugli interessi da pagare sul nostro debito pubblico. Sarebbe dissennato disperdere i benefici del difficile cammino compiuto. I rischi già corsi si potrebbero riprodurre nel prossimo futuro, ed è interesse comune scongiurarli ancora.
La nostra democrazia, che ha rischiato e può rischiare una destabilizzazione, va rinnovata e rafforzata attraverso riforme obbligate e urgenti. Entrambe le Camere approvarono nel maggio scorso a grande maggioranza una mozione che indicava temi e grandi linee di revisione costituzionale. Compreso quel che è da riformare – come proprio nei giorni scorsi è apparso chiaro in Parlamento – nella formazione delle leggi, ponendo termine a un abnorme ricorso, in atto da non pochi anni, alla decretazione d’urgenza e a votazioni di fiducia su maxiemendamenti. Ma garantendo ciò con modifiche costituzionali e regolamentari, confronti lineari e “tempi certi in Parlamento per l’approvazione di leggi di attuazione del programma di governo”.
Anche se molto è cambiato negli ultimi mesi nel campo politico e le procedure da seguire per le riforme costituzionali sono rimaste quelle originarie, queste riforme restano una priorità. Una priorità indicata al Parlamento già dai miei predecessori e riconosciuta via via da un arco di forze politiche rappresentate in Parlamento ben più ampio di quelle che sostengono l’attuale governo. E mi riferisco a riforme che soprattutto sono i cittadini stessi a sollecitare.
Alle forze parlamentari tocca in pari tempo dare soluzione – sulla base di un’intesa che anch’io auspico possa essere la più larga – al problema della riforma elettorale, divenuta ancor più indispensabile e urgente dopo la sentenza della Corte Costituzionale.
Dobbiamo tutti augurarci che il 2014 ci veda raggiungere risultati apprezzabili in queste direzioni.
Non posso a questo punto fare a meno di sottolineare come nel nuovo anno l’Italia sia anche chiamata a fare la sua parte nella comunità internazionale : dando in primo luogo il suo contributo all’affermazione della pace dove ancora dominano conflitti e persecuzioni. E a questo riguardo voglio ricordare ancora una volta l’impegno dei nostri militari nelle missioni internazionali, tra le quali quella contro la nuova pirateria cui partecipavano i nostri marò Massimiliano La Torre e Salvatore Girone, ai quali perciò confermo la nostra vicinanza. E rivolgo un commosso pensiero a tutti i nostri caduti.
A una comune responsabilità per le sorti del mondo ci ha richiamato, nei suoi messaggi natalizi e per la giornata mondiale della pace, Papa Francesco con la forza della sua ispirazione che fa leva sul principio di fraternità e che sollecita anche scelte coerenti di accoglienza e solidarietà verso quanti fuggono da guerre, oppressioni e carestie cercando asilo in Italia e in Europa.
Queste supreme istanze di pace e di solidarietà mi spingono anche a un appello perché non si dimentichi quello che l’Europa, l’integrazione europea, ci ha dato da decenni : innanzitutto proprio la pace e la solidarietà. Anche in funzione di tale impegno molte cose debbono oggi certamente cambiare nell’Unione Europea. In tal senso dovrà operare l’Italia, specie nel semestre di sua presidenza dell’Unione, senza che nessuno degli Stati membri si tiri però indietro e si rinchiuda in un guscio destinato peraltro ad essere travolto in un mondo radicalmente cambiato e divenuto davvero globale.
Né si dimentichi – nel fuoco di troppe polemiche sommarie – che l’Europa unita ha significato un sempre più ampio riconoscimento di valori e di diritti che determinano la qualità civile delle nostre società. Valori come quelli, nella pratica spesso calpestati, della tutela dell’ambiente – basti citare il disastro della Terra dei fuochi – del territorio, del paesaggio. Diritti umani, diritti fondamentali : compresi quelli che purtroppo sono negati oggi in Italia a migliaia di detenuti nelle carceri più sovraffollate e degradate.
Care ascoltatrici, cari ascoltatori, ho voluto esprimervi la mia vicinanza a realtà sociali dolorose, che molti di voi vivono in prima persona, ed evocare valori e principi, necessità e speranze di cambiamento da coltivare tenacemente. L’ho fatto senza entrare nel merito di posizioni politiche e di soluzioni concrete, su cui non tocca a me pronunciarmi. Come nei sette anni conclusisi nell’aprile scorso, così negli otto mesi successivi alla mia rielezione, ho assolto il mio mandato raccogliendo preoccupazioni e sentimenti diffusi tra gli italiani. E sempre mirando a rappresentare e rafforzare l’unità nazionale, servendo la causa del prestigio internazionale dell’Italia, richiamando alla correttezza e all’equilibrio nei rapporti tra le istituzioni e tra i poteri dello Stato, nei rapporti, anche, tra politica e giustizia tenendo ben ferma la priorità della lotta al crimine organizzato.
Conosco i limiti dei miei poteri e delle mie possibilità anche nello sviluppare un’azione – al pari di tutti i miei predecessori – di persuasione morale. Nessuno può credere alla ridicola storia delle mie pretese di strapotere personale. Sono attento a considerare ogni critica o riserva, obbiettiva e rispettosa, circa il mio operato. Ma in assoluta tranquillità di coscienza dico che non mi lascerò condizionare da campagne calunniose, da ingiurie e minacce.
Tutti sanno – anche se qualcuno finge di non ricordare – che il 20 aprile scorso, di fronte alla pressione esercitata su di me da diverse ed opposte forze politiche perché dessi la mia disponibilità a una rielezione a Presidente, sentii di non potermi sottrarre a un’ulteriore assunzione di responsabilità verso la Nazione in un momento di allarmante paralisi istituzionale.
Null’altro che questo mi spinse a caricarmi di un simile peso, a superare le ragioni, istituzionali e personali, da me ripetutamente espresse dando per naturale la vicina conclusione della mia esperienza al Quirinale. E sono oggi ancora qui dinanzi a voi ribadendo quel che dissi poi al Parlamento e ai rappresentanti regionali che mi avevano eletto col 72 per cento dei voti. Resterò Presidente fino a quando “la situazione del paese e delle istituzioni” me lo farà ritenere necessario e possibile, “e fino a quando le forze me lo consentiranno”. Fino ad allora e non un giorno di più ; e dunque di certo solo per un tempo non lungo. Confido, così facendo, nella comprensione e nel consenso di molti di voi.
Spero di poter vedere nel 2014 decisamente avviato un nuovo percorso di crescita, di lavoro e di giustizia per l’Italia e almeno iniziata un’incisiva riforma delle istituzioni repubblicane.
Ho concluso. Buon anno alle vostre famiglie, dagli anziani ai bambini, buon anno a chi serve la patria e la pace lontano dall’Italia, buon anno a tutti quanti risiedono operosamente nel nostro paese.
Guardiamo – lasciate che ve lo dica – con serenità e con coraggio al nuovo anno”.

www.quirinale.it

"Ancora scarsa legalità e rischi di demagogia Ma il Paese può risalire se crederà nello Stato Italia", di Christoppher Duggan

Guardando l’Italia dall’estero in veste di storico, resto sempre colpito da un curioso senso di déjà vu. Sotto il profilo sociale ed economico, nessun altro Paese europeo ha conosciuto altrettante e radicali trasformazioni nel corso degli ultimi 150 anni, eppure in politica si avverte una straordinaria continuità. Il divario scavato tra la gente e le istituzioni, la svogliata collaborazione tra i partiti politici, la scarsa considerazione di cui gode la legalità, il problema dell’evasione fiscale, la mancanza di confini chiari tra interessi pubblici e privati, la spaccatura nord-sud, i pericoli del populismo e l’urgenza di una riforma elettorale per rafforzare l’autorità dello Stato, sono tutti argomenti ricorrenti nel discorso politico italiano dai tempi dell’unificazione.
Prendiamo, ad esempio, un decennio qualunque del passato, quello del 1880. La credibilità del Parlamento era costantemente erosa dal trasformismo, da coalizioni instabili e da scandali per corruzione. Si discuteva incessantemente di quale sistema elettorale e leadership politica avrebbero potuto assicurare forza e credibilità alle istituzioni. Le precarie condizioni delle finanze pubbliche rendevano necessarie misure fiscali sempre più disperate. In gran parte dell’Italia settentrionale la classe media attribuiva le difficoltà economiche alla corruzione di Roma e del Meridione. E in Lombardia, in particolare, si ventilava sempre di più l’ipotesi di secessione.
Saliva la rabbia popolare e a beneficiarne erano le forze anti istituzionali: anarchici, repubblicani e socialisti. Ne approfittava anche la Chiesa, che convogliava il malcontento dei cattolici in istituzioni nuove, come l’Azione cattolica. Imperava il populismo. Dalla Liguria, un giornalista e sociologo barbuto, Pietro Sbarbaro, tuonava contro la corruzione dell’intera classe politica con la satira sferzante dei suoi scritti, ricorrendo a un linguaggio colorito, non di rado brutale e offensivo. Sbarbaro invocava il rinnovamento totale e profondo della politica italiana. Il suo settimanale, Le forche caudine , toccava tirature altissime per l’epoca. Le polemiche, da ultimo, gli provocarono una causa per diffamazione e Sbarbaro fu condannato a due anni di carcere, che riuscì in gran parte ad evitare rientrando trionfalmente in Parlamento.
Per gli inizi del 1890, la crisi era diventata endemica. I dispacci dell’ambasciata britannica di Roma nel 1893 parlano di una sensazione diffusa di «disperazione» e dell’attesa di un uomo di Stato capace di «salvare» il Paese. L’Italia barcollava sull’orlo della bancarotta eppure «l’evasione fiscale in questo Paese non è considerata un’azione riprovevole e neppure un comportamento antipatriottico». Anzi, giravano voci di un’evasione fiscale al 75% come conseguenza di «false dichiarazioni dei redditi e malcostume dei funzionari pubblici». Era tale il malcontento a Roma che «se si fosse tenuto un plebiscito, la popolazione avrebbe votato in massa per la restaurazione del potere temporale del Papa».
Questa sensazione di ricorrenza ciclica degli eventi nella politica italiana non può non stuzzicare la curiosità dello storico. Come mai, benché tante cose siano cambiate in Italia, il panorama politico resta immutabile? Sul finire del 2013, il ripetersi di tanti problemi politici invita a un misto di pessimismo e di cauto ottimismo. L’ottimismo deriva dal fatto che tutte le fasi di crisi economica e sociale in Italia in passato hanno trovato una qualche soluzione. Nel 1880 e nel 1890, la disperazione e il diffuso pessimismo del Paese furono dissipati dalle opportunità create ai primi del 900 dall’emigrazione e da un grande rilancio economico, fenomeni che per un certo tempo alimentarono la speranza che il divario tra le masse e le istituzioni potesse essere finalmente colmato.
Il pessimismo è motivato dal fatto che le nuove aspettative non hanno mai portato a un serio rinnovamento nel comportamento né della classe politica, né della popolazione. Giovanni Giolitti fu bollato come «ministro della malavita», e il danno di immagine subìto dal Parlamento non fu più sanato. L’esperimento fascista di Mussolini, malgrado l’esaltazione dello Stato, non fece nulla per migliorare la credibilità delle istituzioni né per eradicare clientelismo e corruzione. Gli anni del «miracolo economico» coincisero con un’accelerazione della degenerazione politica. Le speranze di cambiamento politico che per qualche tempo circondarono Craxi, e più di recente Silvio Berlusconi, si sono rivelate anch’esse mal riposte.
Sotto il profilo economico, il 2014 sembra promettere qualche miglioramento, ancorché non si vedano prospettive di un rilancio tale da giustificare grandi entusiasmi, specie con l’attuale elevato tasso di disoccupazione. Per i giovani, in particolare, rabbia e frustrazione non si placheranno tanto facilmente, e le invettive di Grillo e le proteste dei forconi continueranno a godere del sostegno dei cittadini. La sfida principale del governo Letta è quella di varare una nuova legge elettorale credibile, compito reso ancor più impellente dalla recente sentenza della Corte costituzionale. Se si voterà una legge elettorale capace di esorcizzare le coalizioni instabili del passato, gli italiani potranno tornare alle urne con una certa fiducia.
Si spera che le nuove elezioni avverranno al termine della presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea, nella seconda metà del prossimo anno. Dopo i danni umilianti inflitti dal berlusconismo alla reputazione internazionale dell’Italia, il governo Monti prima, e oggi Letta, hanno fatto molto per restituire credibilità all’Italia in seno all’Europa. Detto questo, il risultato delle elezioni del febbraio 2013 è apparso assai sorprendente agli osservatori stranieri, perché lasciava intuire fino a che punto il Paese, storicamente al primo posto nell’impegno a favore del progetto europeo, avesse smarrito la sua bussola morale e politica. Compito principale dell’Italia durante il semestre di presidenza Ue sarà non solo quello di rafforzare la sua posizione tra i partner europei ma anche, e soprattutto, dimostrare di saper stemperare quel crescente scetticismo verso l’Europa che oggi serpeggia nell’elettorato italiano.
Il recente rifiuto della proposta tedesca di agganciare nuovi aiuti economici all’introduzione di «contratti» mirati all’attuazione di riforme economiche sta a indicare il desiderio, tra le economie del sud dell’Europa in particolare, di non esacerbare i sentimenti anti europei. Questo sarà forse un espediente politico a breve termine, ma nel caso dell’Italia il venir meno di uno stimolo esterno capace di spingere verso riforme strutturali fondamentali rischia di lasciare intatti quei meccanismi che hanno provocato le crescenti difficoltà finanziarie del Paese dal 1970 ad oggi. E le problematiche di fondo non riguardano esclusivamente la normativa e la rigidità del mercato del lavoro e la necessità di frenare il potere degli interessi di parte a favore di un programma nazionale coerente di rigenerazione. Vi è ancora l’urgenza di intervenire per cambiare l’atteggiamento del pubblico verso lo Stato e il mercato.
E proprio qui sta la più grande sfida dei nuovi leader nel 2014. Le riforme fiscali ed elettorali non produrranno benefici duraturi a meno che uomini come Letta, Renzi e Alfano non saranno pronti a coinvolgere il pubblico con forti motivazioni emotive ed intellettuali — specie le nuove generazioni — per convincerlo che le soluzioni sono da ricercarsi all’interno dello Stato e dei partiti, e non in un’opposizione rancorosa e distruttiva. Questo significherà affrontare verità scomode. Gettare la colpa addosso agli altri — che sia la Germania, l’euro, o la «casta» politica — è fin troppo facile. Molto più difficile da accettare è l’idea che i problemi dell’Italia di oggi sono una responsabilità collettiva che non è più possibile ignorare né scansare, com’è accaduto fin troppo spesso negli ultimi 150 anni, in base alla convinzione che Stato e società rappresentano due sfere distinte.
Per superare un profondo trauma, gli psicologi suggeriscono di seguire un percorso che passa attraverso la negazione, la depressione e la rabbia. La fase finale è l’accettazione della realtà. Per far cessare il lungo ciclo ripetitivo della politica italiana, per placare la rabbia popolare, e per raccogliere e incanalare efficacemente le straordinarie riserve di energie creative di questo Paese, l’Italia deve trovare la forza di riconoscere e accettare la realtà. Non in modo disfattista e passivo, ma nello spirito di impegno e di responsabilità collettiva. Solo così si potranno gettare le basi per la rinascita nazionale. E per far questo occorrerà una leadership illuminata e lungimirante.
Nel 1864, Francesco De Sanctis disse chiaramente qual era il compito principale dei suoi connazionali, se volevano sconfiggere i gravi problemi politici ed economici che travagliavano il Paese: superare la vecchia mentalità e i vecchi condizionamenti per identificarsi completamente nello Stato italiano: «hoc opus, hic labor» («questa è la difficoltà, quest’è l’impegno»). Fattore indispensabile, sosteneva De Sanctis, era una leadership ispirata e convincente. Tanta acqua è passata sotto i ponti negli ultimi 150 anni, ma l’ammonimento di De Sanctis non ha perso nulla della sua attualità.
L’autore è uno storico dell’Italia
(Traduzione di Rita Baldassarre)

Il Corriere della Sera 31.12.13

"Jacopo assunto dal padre del ragazzo a cui salvò la vita", di Maddalena Berbenni

Marino Lanfranchi è piegato sul motore di una Panda rossa. È il penultimo giorno dell’anno, ma non si fanno ponti in Val Seriana, là dove si concentrano i piccoli e grandi imprenditori della provincia di Bergamo. Ha 55 anni, ne aveva tredici quando ha cominciato a riparare auto, venti quando si è messo in proprio. Ha aperto l’officina sotto la villetta di famiglia, a Gandino, l’anno in cui è nato Giordano, il figlio 24enne che ha rischiato di perdere in un terribile incidente stradale. Era la notte del 7 settembre scorso. Dalla Mercedes in fiamme, che per un sabato sera gli aveva concesso di guidare, lo hanno salvato due ragazzi della zona, passati per caso in quel momento. Jacopo Caccia, 18 anni, era stato il primo a lanciarsi verso l’auto, seguito poco dopo da Nicola Bertasa, 20 anni.
Marino Lanfranchi si alza dalla Panda, il cortile straripa d’auto, i suoi guanti sono neri e dal lato opposto dell’officina sbuca Jacopo, il giovane che ha tirato fuori dall’auto in fiamme suo figlio e che adesso è diventato un suo dipendente. Gli aveva promesso riconoscenza eterna, il pomeriggio dopo lo schianto. Ora gli ha dato un posto di lavoro. Il padre del salvato salva il salvatore. Jacopo, faccia sveglia e poche parole, l’estate scorsa, dopo il diploma come perito meccanico, era riuscito in tre giorni a procurarsi un posto in una grossa azienda della valle. Nulla di fisso, però, né di troppo promettente. Lo pagavano con i voucher e due mesi fa è stato lasciato a piedi. Nel frattempo, Lanfranchi si è ritrovato da solo a mandare avanti la carrozzeria, perché Giordano, che dal papà ha ereditato la passione per i motori e prima dell’incidente lo affiancava nell’attività, l’ha scampata, ma ci vorrà pazienza. I medici dicono che serviranno almeno sei mesi perché si riprenda del tutto. Per alcune ore la sua vita è rimasta appesa a un filo. Anche lui adesso è in officina con la tuta da lavoro, ma per spostarsi deve ancora usare una stampella e ha problemi alla vista. «I primi venti giorni — racconta — non ricordavo nulla di quello che era successo e fino a un paio di mesi fa non ero in grado di reggermi in piedi. È faticoso perché ogni giorno devo fare riabilitazione a quasi un’ora di strada da casa, ma sono stato fortunato».
Insomma, Marino, a un certo punto, era sommerso dalle macchine. «Non riuscivo più a stare dietro ai clienti — spiega —, così, quando un amico mi ha riferito che Jacopo aveva un diploma in meccanica e che era a casa senza lavoro, ho pensato che fosse giusto per riconoscenza chiedere a lui, prima che ad altri». Jacopo ha accettato «ed è pure bravo — prosegue Lanfranchi —. Non è facile, sa? Sono 35 anni che faccio questo mestiere e ho avuto dieci ragazzi a lavorare con me, ma si sono fermati tutti. Nessuno ha aperto un’officina o ha continuato questa strada. A Jacopo, per ora, ho fatto fare un periodo di prova, poi passeremo al contratto».
Come può cambiare la vita delle persone in un sabato sera. «Mio figlio poteva morire — dice ancora Lanfranchi — e la nostra famiglia ne sarebbe uscita distrutta, invece, nella disgrazia, è andata bene». E a diciotto anni Jacopo è già pluripremiato per il suo coraggio. Con Nicola, ha ricevuto il 17 settembre il riconoscimento del Consiglio regionale della Lombardia, poi, a novembre, lo Scudo d’argento a Firenze. È stato contattato da trasmissioni televisive e giornalisti di mezza Italia, ma più di tanto non si scompone. Eroe della normalità fino in fondo. «Sono contento, il lavoro mi piace», le poche parole che gli riesci a scucire dietro a un mezzo sorriso.
Quel 7 settembre, erano le 23.30 quando con il suo motorino si è imbattuto nella Slk cabrio di Giordano, che si era appena capottata contro la recinzione di una villa, a poche centinaia di metri da casa. I due si conoscevano soltanto di vista. Non appena l’automobile ha preso fuoco, Jacopo ha capito che il ragazzo e la sua fidanzata, Stefania Pacchiana, 22 anni, si trovavano ancora nell’abitacolo e non ha esitato. Si è buttato. La Mercedes era su un lato. Prima ha trascinato al sicuro la giovane, poi è tornato a liberare Giordano, che era svenuto sul fondo della macchina. Con l’aiuto di Nicola, intervenuto nonostante molti per la paura gli urlassero di non avvicinarsi, è riuscito a portarlo in salvo. Un minuto dopo l’auto era un pezzo di carbone.

Il Corriere della Sera 31.12.13

"2014, i cinesi asfaltano il Cervino e Grillo ai copechi fa l’inchino", di Michele Serra

Da gennaio, con il povero che twitta in coda alla Caritas, fino a dicembre, con la ripresa industriale, ma quella della produzione di corde per suicidi. Tra cinesi che comprano il Cervino e manager con agende vuote come le aziende che hanno svuotato, ecco la satira in versi per raccontare l’anno che verrà.
I mendicanti vendono rose rosse. Frettolosi viandanti li schivano. Se fosse una scena già scritta sarebbe Brecht, Testori.
C’è un senso di sconfitta negli uomini e nei fiori.
Non so come si annoveri (forse tra i nuovi poveri?) quello che twitta ‘Ciao, sono in coda alla Caritas’. Nella stagione arida (come spiega la Fao) quando gira la ruota rischi la pancia vuota.
Fuori nevica. Sciatori di Pechino salgono in teleferica sul dorso del Cervino.
Dicendo cin ciun cen acquistano in contanti tutti e quattro i versanti. Non sono molto zen.
Guardano indecifrabili quel diedro bellissimo ma raggiungibilissimo da strade carrozzabili.
Tutto sarà asfaltato. Cominciano domani. Nemmeno i valdostani ci avevano pensato. La crisi offende anche i ceti protetti.
Manager con le agende vuote, come le aziende che hanno appena svuotato: logica di mercato.
Compro-oro costretti a comprare l’argento e giù, per slittamento, ecco che i comprargento vanno a rubare il rame.
Moda quasi alla fame. Gli stilisti rammendano gli scampoli, purtroppo.
Sperando che si vendano firmano ogni rattoppo.
Dopo Stàmina nuove cure salvifiche!
Senza alcuna disamina e inutili notifiche degli scienziati (casta!) per promuoverle basta che piacciano alla gente. C’è l’oncorepellente estratto dalle vongole i fanghi di Plutone l’ipnosi con le bombole le flebo di carbone la gomma di cammella che cancella ogni male e il metodo Di Bella rifatto in digitale.
È maggio e Casaleggio aggiorna i suoi pronostici. Il web, sotto il maneggio dei regimi più ostici sarà perseguitato fino al duemilaeventi.
Ma poi, transustanziato in divine sementi feconderà il pianeta: non questo, quello nuovo che predisse il profeta fatto a forma di uovo.
Dai siti neosinfonici vulcani col pennacchio eruttano sintonici il suono del pernacchio.
Napolitano sgrida chi alza la voce chi alle riforme nuoce chi veste in modo strano chi beve il cappuccino facendo
vrush.
Chi tiene i piedi sul cuscino chi non saluta bene chi gioca coi fiammiferi chi mangia troppo agliato chi accende i caloriferi nei giorni che è vietato chi si presenta senza i pantaloni in piega e questa sua indecenza nemmeno te la spiega.
Di nuovo in piazza protestano i forconi.
Ma quante le scissioni!
Se ne va la ramazza.
Si sfilano i picconi.
I rocchetti e i ditali fanno i blocchi stradali ma i camion con rimorchio li spianano. Spettrali la trebbiatrice e il torchio sfilano nella notte.
La ruspa e l’autobotte chiedono meste l’obolo.
Sfilano per le vie mille consorterie.
Però non fanno un popolo.
Ferie liquide: lo spiegano i sociologi.
Due giorni tra le rapide pagaiando fortissimo o un week-end con gli enologi nel maso isolatissimo.
Una nottata a Rimini ballando al Carmencita o anche una bella gita sulle strade del vimini.
A Ibiza o Formentera per una sola sera c’è una mono-movida per chi tira la cinghia.
Mai uno che decida di non fare una minchia.
I democratici che han fatto punto e a capo danno consigli pratici a Renzi, il loro capo.
Le tappe: il segretario diventa commissario dell’Unione Mondiale.
Poi presidente aggiunto dell’Internazionale (nuova sede a Sagunto).
Margravio. Gran Visir.
Sire dei Turcomanni.
Principe del Pamir.
Sindaco di Parigi.
Infine, a ottantun anni andrà a Palazzo Chigi.
Grillo calcola il costo di ogni briciola che cade dalla tavola.
Son quindici centesimi al dì, ma se non lesini è un attimo che salgono a sedici. Che valgono almeno ventisette delle vecchie lirette.
La colpa è di Bruxél (salgono i decibél) insieme al pidiél e al pidimenoél troia di tua sorél!
Ridurrebbe gli sprechi calcolarli in copechi.
Che sorpresa!
la legge elettorale!
Si raggiunge un’intesa sull’urna romboidale.
Il resto è a discrezione del singolo elettore: data dell’elezione scheda di che colore in quale seggio, al mare con l’uninominale o ai monti, dove pare valga il proporzionale.
Puoi votare col vecchio sistema manuale o dirlo in un orecchio al presidente. Vale.
C’è un segnale di ripresa industriale.
Si vendono più corde per impiccarsi. Sorde alle voci malevole le volontà politiche rendono più scorrevole il nodo della crisi.
Poche coscienze eretiche affiggono gli avvisi ‘chiuso per sempre’. Vanno dove nemmeno sanno come Cristo sull’asino prima che glieli brasino con la storiella greve della ripresa a breve.

La Repubblica 31.12.13

“L’anno che verrà”, di Lucio Dalla

Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po’
e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò.
Da quando sei partito c’è una grossa novità,
l’anno vecchio è finito ormai
ma qualcosa ancora qui non va.

Si esce poco la sera compreso quando è festa
e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra,
e si sta senza parlare per intere settimane,
e a quelli che hanno niente da dire
del tempo ne rimane.

Ma la televisione ha detto che il nuovo anno
porterà una trasformazione
e tutti quanti stiamo già aspettando
sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno,
ogni Cristo scenderà dalla croce
anche gli uccelli faranno ritorno.

Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno,
anche i muti potranno parlare
mentre i sordi già lo fanno.

E si farà l’amore ognuno come gli va,
anche i preti potranno sposarsi
ma soltanto a una certa età,
e senza grandi disturbi qualcuno sparirà,
saranno forse i troppo furbi
e i cretini di ogni età.

Vedi caro amico cosa ti scrivo e ti dico
e come sono contento
di essere qui in questo momento,
vedi, vedi, vedi, vedi,
vedi caro amico cosa si deve inventare
per poterci ridere sopra,
per continuare a sperare.

E se quest’anno poi passasse in un istante,
vedi amico mio
come diventa importante
che in questo istante ci sia anch’io.

L’anno che sta arrivando tra un anno passerà
io mi sto preparando è questa la novità

“Tempo di scosse e di riscosse”, di Massimo Gramellini

Due americani su tre considerano il 2013 uno degli anni peggiori della loro vita. So cosa state pensando: ma il terzo americano dove ha vissuto? In Italia i fan del 2013 si contano sulle dita della mano di capitan Uncino. Tutti si sentono più poveri, anche gli evasori. Più poveri e più scoraggiati. L’indignazione, a suo modo ancora una forma di speranza, ha ceduto il posto alla rabbia. Il disprezzo per i politici si è allargato all’intero establishment: banchieri, tecnocrati, giornalisti, persino scienziati. Chiunque occupi uno strapuntino riconosciuto di potere e si agiti nel rumore dei talk show.

Ripercorrendolo a mente fredda, l’anno morente è stato prodigo di cambiamenti che un tempo si sarebbero definiti epocali. Sul Vaticano degli scandali regna un Papa già circonfuso in vita di un alone di santità. Il Caimano si è chiuso in casa a giocare con un barboncino. Il presidente del Consiglio ha meno di cinquant’anni, se non altro all’anagrafe. Il nuovo segretario del centrosinistra, comunque lo si giudichi, non offre alle telecamere uno sguardo da cane bastonato, ma sprizza energia da tutti i nei. Persino il Parlamento, origine e sfogatoio di ogni male, ha espulso branchi consistenti di dinosauri per accogliere la pattuglia di donne e di giovani più vasta della storia repubblicana.

Eppure, se si esclude papa Francesco, nessuna di queste novità è stata percepita come un vero strappo. I giochi della politica continuano a non intercettare la vita reale e per quanto il dottor Letta si sforzi di sottolineare l’efficacia delle sue cure, il malato italiano non avverte miglioramenti nel proprio stato di salute. Si respira un desiderio inebriante, a tratti pericoloso, di leadership forti e semplificatrici. Come se i problemi di una città, di una nazione, di un continente fossero risolvibili da un deus ex machina che con un tratto di penna disarma la burocrazia, abbatte le tasse, ridimensiona lo Stato senza mettere per strada gli statali, aumenta le paghe, rilancia i consumi e nei ritagli di tempo inventa nuovi lavori al posto di quelli che la tecnologia e la concorrenza internazionale hanno ridimensionato o dissolto per sempre.

L’altro cascame psicologico della crisi è il curioso impasto tra diffidenza e illusione. Cinismo e dabbenaggine spesso convivono nella stessa persona, pronta a mettere in dubbio la competenza di uno scienziato come a buttarsi tra le braccia del primo millantatore. Le soluzioni facili godono di un’ingannevole popolarità. Dalla moneta all’immigrazione, si pensa che tornare indietro sia il modo migliore per andare avanti. Il Duemila è iniziato da tredici anni, ma il dibattito pubblico, spesso anche quello privato, rimane inchiodato al Novecento: il comunismo, la lira, il bel tempo andato. Peccato che mentre lo si viveva non fosse poi così bello. Ho sentito miei coetanei decantare gli anni Settanta come un’epoca più sicura e tranquilla dell’attuale. Gli anni Settanta: quando si sparava per la strada e si rapivano i bambini. Ogni generazione rimpiange la sua infanzia, però se la nostalgia si trasforma in torcicollo emotivo produce depressione, paralisi e paragoni sterili, spesso storpiati dalla memoria.

Il 2014 pubblico sarà l’anno dei Mondiali brasiliani giocati quasi da fermi per il troppo caldo, delle elezioni europee dominate sui media dai movimenti anti-europei, della resa dei conti fra Renzi e Letta, che di Craxi e Andreotti hanno ereditato il carattere, per fortuna non l’etica, ma si spera il talento politico: magari con un po’ di concretezza in più.

Il 2014 privato potrebbe invece essere finalmente l’anno del fervore. La forza irresistibile che infonde passione e concentrazione in ciò che si fa, senza perdere più tempo a lamentarsi, invidiare, rinfacciare. Come dice quella frase da film? Andrà tutto bene, alla fine. E se non andasse bene, vorrà dire che non è ancora la fine. Buon anno di scosse e di riscosse.

La Stampa 31.12.13

“Studenti, nel 2012 hanno lasciato in 758mila”, di A.G. da La Tecnica della Scuola

Il preoccupante dato riguarda la fascia di età 18-24 anni e corrisponde al 17,6%. C’è da preoccuparsi :nell’ Europa a 15 il tasso di abbandono, nello stesso range anagrafico, non arriva al 14%. Rispetto all’Italia fanno peggio solo Spagna (24,8%) e Portogallo (20,8%). Ma non finisce qui: si riduce dal 79,9% a 76,2%, pure la percentuale di diplomati 19enni. Sempre lo scorso anno sono stati il 37,8% gli under 24 che hanno conseguito al massimo la licenza media. E al sud 1 su 2 è inattivo.

Ancora brutti segnali sul fronte della formazione giovanile. Stavolta giungono dal ‘Rapporto sulla coesione sociale 2013 di Istat, Inps e ministero del Lavoro’, da cui si rileva che nel 2012 hanno abbandonato gli studi 758 mila giovani tra i 18 e i 24 anni. Si tratta del 17,6% della popolazione di quella fascia di età. Ma la percentuale sale fino al 41,3% se si considerano solo gli stranieri. Si tratta di dati davvero preoccupanti. Ancora più se messi a confronto con l’Europa a 15: in questo caso il tasso di abbandono, nello stesso range anagrafico, non arriva al 14%. E rispetto all’Italia fanno peggio solo Spagna (24,8%) e Portogallo (20,8%)..

Ma le brutte notizie non finiscono qui. Si riduce, infatti, dal 79,9% a 76,2%, pure la percentuale di diplomati tra le persone di 19 anni. E nel 2012 sono stati il 37,8% i giovani 18-24enni che hanno conseguito al massimo la licenza media e non hanno, nel contempo, seguito alcun corso di formazione (25,8% nel Mezzogiorno). Fra questi, quasi uno su quattro sta cercando attivamente un lavoro mentre il 38,5% risulta inattivo. Un dato che nel Mezzogiorno “schizza” al 49,1%.

Tra i dati positivi del rapporto annuale ve ne è uno non trascurabile: tra l’anno scolastico 2006-2007 al 2011-2012 il tasso complessivo di partecipazione al sistema di istruzione e formazione è passato dal 93,9% al 99,3%. In tempi di magra come quelli che stiamo vivendo, forse non è un dato così irrilevante. Ma nello stesso tempo non basta di certo per sorridere.

La Tecnica della Scuola 31.12.13