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Le storie vere degli “invisibili”, di Giovanni Valentini

Se ci si occupa troppo dei propri fatti privati, si toglie tempo all’impegno per cambiare il mondo.
(da “Il desiderio di essere come tutti” di Francesco Piccolo — Einaudi, 2013 — pag. 93)
Si può fare anche un’altra tv pubblica, diversa dalle risse politiche dei talk-show, dalle ambiguità dell’infotainment, dalle illusioni dei giochi a premio o dai lustrini del varietà. Una televisione che racconta “storie vere”, come quelle che ha messo in onda ieri mattina
Rai Uno nell’omonimo programma quotidiano condotto da Eleonora Daniele. Storie di straordinaria umanità che, oltre a commuovere e a far riflettere, possono promuovere valori come la solidarietà e il volontariato.
Dalla mensa della Basilica di Santa Maria degli Angeli, a Roma, che ospita ogni giorno anziani, persone sole, uomini e donne che hanno perso il lavoro e non hanno più neppure da mangiare; ai disperati che abitano in un’auto abbandonata o in una roulotte senza luce e senz’acqua; fino ai
clochard che dormono alla stazione Termini o sotto i portici, protetti solo dai cartoni e assistiti dai volontari della Croce rossa, è un popolo di “invisibili” che sfugge all’attenzione delle cronache e vive in una dimensione irreale, ai margini di un mondo indifferente.
Al tempo della crisi globale, mentre prevalgono l’egoismo sociale e l’interesse personale, questa narrazione alternativa della realtà richiama tutti a una maggiore consapevolezza e responsabilità. Ecco il servizio pubblico che fa servizio pubblico. Una tv di Stato che, insieme a produrre informazione e intrattenimento, contribuisce anche a “educare” ai buoni sentimenti, alla convivenza civile, all’accoglienza.
Troppi talk show e troppa politica, sulle reti pubbliche o private, minacciano invece di avvelenare ulteriormente il clima generale, fomentando i contrasti, le contrapposizioni, i conflitti generazionali. Alla Rai non si chiede, evidentemente, di trasformarsi in una versione televisiva di Famiglia Cristiana (anche se spesso il settimanale dei Paolini diretto da don Antonio Sciortino è un esempio di modernità) né tantomeno in una tv del cuore. Ma piuttosto di rispettare il proprio ruolo e la propria funzione istituzionale, rappresentando e magari valorizzando gli aspetti positivi di una società complessa che non è fatta solo di degrado, di cattiveria o di violenza.
Occorrerebbe un po’ più di coraggio, di slancio, di spirito costruttivo, ai piani alti di viale Mazzini. Non si tratta di occultare o rimuovere i fenomeni deteriori che inquinano purtroppo la vita collettiva, quanto di compensarli con tante storie quotidiane che — secondo la gerarchia tradizionale dell’informazione di massa — non “fanno notizia” oppure non “fanno ascolti”. E alimentare così, attraverso il servizio pubblico radiotelevisivo, quel senso di appartenenza alla comunità e quel legittimo “orgoglio nazionale” che costituiscono i presupposti per una ripresa del Paese.
Non è ragionevole, allora, riproporre nottetempo altre quattro puntate di Petrolio,
la trasmissione sul nostro patrimonio storico, artistico e culturale affidata a Duilio Giammaria, dopo il buon esito del primo test estivo a cui la sera di Santo Stefano ha fatto seguito un apprezzabile 10,35% di share. La Rai sbaglia a relegare in permanenza le sue scelte editoriali in un palinsesto sperimentale. I “tesori d’Italia”, come i personaggi e le storie d’Italia, meriterebbero una collocazione più stabile e adeguata per rinnovare una produzione ormai obsoleta e rilanciare decisamente l’offerta della tv pubblica.
Sono ancora troppe però le resistenze, le incrostazioni o le posizioni di potere, interne ed esterne, che condizionano la programmazione della Rai. Dai vassalli ai valvassori della politica, dai parenti agli amici degli amici, da certi produttori a certi signori degli appalti tv. Nell’accidentata transizione che sta percorrendo, quello che una volta si chiamava per antonomasia “il carrozzone di Stato” rischia di perdere anche le ruote per strada: fuor di metafora, è lo stesso servizio pubblico che rischia la propria sopravvivenza.
I nodi fondamentali da sciogliere o da recidere, come sanno già i lettori di questa rubrica, sono due: la governance dell’azienda, cioè il sistema di controllo, e la sua autonomia finanziaria. Da una parte, occorre liberare la Rai dalla subalternità alla politica e, dall’altra, affrancarla dalla “schiavit ù dell’audience” e quindi dalla sudditanza alla pubblicità. Senza questa “doppia rivoluzione”, non c’è futuro per la radiotelevisione pubblica.

La Repubblica 28.12.13

Sisma, parlamentari Pd “Norma recuperata nel Milleproroghe”

La dilazione fiscale alle imprese e alle famiglie è stata inserita dal Governo nel decreto. Una buona notizia per chi vive e lavora nelle aree del sisma 2012: la proroga del pagamento delle tasse, inserita in un primo tempo nel decreto Enti locali che però il Governo aveva rinunciato a convertire in legge, è ora parte integrante del decreto Milleproroghe. Entrerà, quindi, immediatamente in vigore con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale: a darne notizia i parlamentari emiliani del Pd che, insieme al commissario straordinario Errani, hanno lavorato, in queste settimane, per conseguire questo importante risultato.

Il Governo Letta ha inserito nel cosiddetto decreto Milleproroghe, tra le proroghe giudicate essenziali, anche quella relativa alle rate dei mutui bancari accesi dalle imprese e dalle famiglie dell’area del sisma per pagare le tasse. Ne danno notizia i parlamentari emiliani del Pd che, insieme al commissario straordinario Errani, hanno lavorato, in queste settimane, per conseguire questo importante risultato: “Con questa decisione l’Esecutivo ha evitato che venisse vanificato il lavoro di questi mesi – confermano i parlamentari modenesi Pd Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari, il ferrarese Alessandro Bratti e il bolognese Claudio Broglia – La dilazione fiscale per le imprese e le famiglie che hanno contratto mutui era una misura molto attesa nell’area del cratere sismico. E finalmente, con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, sarà immediatamente esecutiva”. Com’è noto la misura era stata inserita, in un primo tempo, grazie all’impegno dei parlamentari emiliani del Pd, nel cosiddetto decreto Enti locali, provvedimento alla cui conversione in legge il Governo aveva però rinunciato proprio alla vigilia di Natale. Il pagamento della prima rata delle tasse per le zone terremotate sarebbe scattato con la fine dell’anno: grazie all’inserimento nel decreto Milleproroghe la norma diventerà esecutiva prima di questa scadenza.

“I diritti ignorati dei migranti”, di Chiara Saraceno

Miracolo natalizio. Ciò che non è stato possibile per mesi, è diventato possibile nel giro di ventiquattr’ore. Tutte le persone trattenute nel centro di prima accoglienza di Lampedusa, salvo, assurdamente, i diciassette sopravvissuti al naufragio di ottobre, sono state trasferite in altri centri sulla terra ferma.
Non erano bastate le foto dei materassi gettati per terra, i resoconti giornalistici di povera gente, inclusi molti sopravvissuti del naufragio di ottobre, ammassata in condizioni disumane. La commozione dei politici nel giorno dei funerali era servita solo per consentire loro un’ennesima passerella sui telegiornali. Poi l’attenzione dei politici e dei responsabili si è spostata altrove.
Forse non sarebbe bastato neppure il video delle docce antiscabbia a chiudere una struttura che dovrebbe funzionare solo come tappa di transito veloce. Infatti, la prima reazione del ministro degli Interni è stata di scaricare la colpa esclusivamente sui gestori, non anche sul suo proprio ministero, che trattiene lì a tempo indeterminato chi arriva su quelle coste, al di fuori di ogni legge (inclusa la Bossi-Fini) e ragionevolezza, facendo finta di ignorare le condizioni in cui vivono i profughi lì ammassati e in cui opera chi ci lavora. Una cinica indifferenza che avalla l’idea che i profughi siano persone senza diritti, che possono essere trattate come animali, anzi peggio. Salvo indignarsi ipocritamente quando qualcuno denuncia e rende pubblico l’orrore.
Perché l’indignazione, questa volta, avesse un seguito pratico per i profughi c’è voluto il gesto di un politico che ha preso sul serio il proprio mandato, che non ha sofferto di amnesia, soprattutto che non si è limitato a una visita rituale di solidarietà, e neppure a denunciare, ma è andato a condividere l’intollerabile. Onore quindi a Khalid Chaouki, “nuovo cittadino” che ha preso sul serio la responsabilità di difendere le condizioni di civiltà che il nostro paese dovrebbe garantire a tutti. Speriamo solo che non debba correre a cucirsi anche lui le labbra perché gli immigrati che si trovano nei vari Cie sparsi per l’Italia cessino di essere trattenuti persino oltre i termini lunghissimi previsti dalla Bossi-Fini, senza alcun diritto, neppure quello a mantenere le proprie relazioni famigliari, alla mercé non solo di una burocrazia lentissima, ma della discrezionalità dei sorveglianti. O che qualche deputata non debba condividere la sorte delle ragazzine costrette a prostituirsi per pochi soldi nei Cie o nei Cara, per attirare l’attenzione su un fenomeno tanto noto, quanto ignorato (quando non sfruttato dagli stessi sorveglianti).
È davvero intollerabile che in Italia solo i gesti eclatanti riescano a far attivare quelli che sarebbero diritti umani e civili fondamentali, mettere in moto procedure che dovrebbero essere normali, che sono addirittura previste per legge. Una situazione che incentiva una sorta di corsa al gesto estremo, cui fa da pendant l’insofferenza, o il cinismo rassegnato, di chi assiste. Non succede solo con i migranti e i profughi. Ma nel loro caso sembra che l’eccezionalità non basti mai. Lo testimonia l’esperienza dei diciassette sopravvissuti al naufragio di Lampedusa, gli unici ancora trattenuti lì, “a disposizione dei magistrati” (che per altro operano al tribunale di Agrigento), forse per farli maledire di non essere morti anche loro il 3 ottobre.
Ora si parla di abolire la Bossi-Fini. Bene. Non vorrei tuttavia che, insieme all’indignazione a corrente alternata, questa tipica via di fuga della politica italiana — il cantiere sempre aperto delle riforme annunciate — fosse un modo per continuare a ignorare la mancata applicazione delle norme esistenti, specie di quelle a garanzia dei migranti e profughi. E continuare a chiudere gli occhi su quella che ormai è diventata un’industria dell’accoglienza, a favore di chi la fa, molto meno di chi dovrebbe beneficiarne.

La Repubblica 27.12.13

“Una classe con bambini di tutte le età nel paese dove vive l’idea di don Milani”, di Marco Imarisio

Ala di Stura è un piccolo comune alpino piemontese di una delle tre Valli di Lanzo (dà il nome alla Val d’Ala), composto da diverse frazioni, situate soprattutto sulla riva sinistra del torrente Stura. Si trova a circa 1.200 metri di quota e conta meno di 500 abitanti. Dista da Torino poco più di 50 chilometri
La scuola
È qui che si trova la scuola pluriclasse dove convivono bambini di età diverse. «È un modo per tenere vivo il paese», dice la maestra Maria Elena Maronero, che insegna a cinque bimbi di prima, tre di seconda e quattro di quarta. «Se vanno via loro, va via il futuro»
All’estero
L’Unesco ha promosso le «pluriclassi» nelle regioni in via di sviluppo e diversi Paesi, Francia e Stati Uniti in testa, stanno da tempo cercando di integrare questo modello pedagogico nel loro sistema scolastico. Il modello resta però la Svizzera, dove, anche a causa della geografia del Paese, si è imposto più che altrove questo sistema. In alcuni cantoni di montagna, infatti, quasi il 20 per cento degli alunni sono in pluriclassi e il raggruppamento di bambini di età diverse è una consuetudine: una maestra per tutti, dal primo all’ultimo anno delle elementari.
Quando chiude il bar muore il paese. Vale lo stesso, anzi di più, per le scuole.
L’ultima fermata del treno è Ceres, a 50 chilometri da Torino. Dopo, in un territorio che è grande almeno tre volte quanto tutti i comprensori scolastici che lo circondano, non c’è più nulla, solo una corriera che parte al mattino e torna alla sera. Viene buio presto, tra queste montagne. Se non ci fosse quell’edificio di granito e ardesia piantato in mezzo alla piazza, dal quale entrano ed escono bambini vocianti e i loro genitori, la nota dominante sarebbe quella della desolazione, come spesso accade per questi borghi lontani.
Le Terre alte del Piemonte sono presepi viventi tra montagne e boschi che quasi sempre diventano sinonimo di abbandono, borghi fantasma che nessun programma di recupero potrà riportare in vita, privati come sono ormai dell’anima. Ala di Stura è un Comune di quella valle di Lanzo che è una specie di inganno geografico, perché comincia quasi ai piedi della cintura torinese ma finisce in alto, molto più in alto, dove a essere rarefatta non è solo l’aria ma anche la popolazione, e gli spazi. Ad Ala di Stura, quota 1.200 metri, ci si arriva percorrendo una provinciale che sembra tagliata nella roccia, con gallerie che somigliano a caverne. La strada finisce in piazza, davanti a una scuola primaria che fa parte dell’Istituto comprensivo Leonardo Murialdo, una specie di mosaico che raccoglie gli studenti che giungono da 12 comuni scomposti in un reticolo infinito di frazioni, e più si sale più le distanze tra un borgo e l’altro aumentano. «In altre parole, la scuola come io la vorrei non esisterà mai altro che in qualche minuscola parrocchietta di montagna oppure nel piccolo di una famiglia dove il babbo e la mamma fanno scuola ai loro figli». Don Milani la considerava una utopia civile. Ad Ala di Stura, la pluriclasse è una necessità.
«Un modo per tenere vivo il paese. Se non aiutiamo le nostre piccole scuole, i bimbi se ne vanno. E con loro se ne va il futuro». La maestra Maria Elena di cognome fa Maronero, che è quasi un segno particolare per riconoscere chi viene da questi luoghi. La sua pluriclasse è composta da cinque bimbi di prima, tre di seconda, quattro di quarta. L’aula è al secondo piano. In quella al pianterreno, molti ma non troppi anni fa, sui banchi c’era lei. «Ho insegnato “fuori”, poi sono tornata qui. Anche ai miei tempi di alunna eravamo di età mista. Qui non hai scelta se vuoi tenere viva la scuola. Già così abbiamo bambini che vengono da frazioni distanti 10-12 chilometri. Se dovessero scendere a valle, le distanze diventerebbero esagerate».
Cristina Fiorentin è una mamma «foresta» senza nostalgia della città. «Ma qui in montagna il lavoro è poco. Ormai, che l’adulto sia costretto a viaggiare è quasi scontato. Ma se cominciano a farlo anche i nostri figli, allora non c’è più ragione per restare, tanta vale spostarsi in valle». La famiglie restano perché c’è la scuola, che diventa ossigeno necessario alla sopravvivenza, il centro di tutto, vita sociale, feste, bisogno di partecipazione. «Senza scuola saremmo andati via molti anni fa» dicono tutti. Alcuni insegnanti sono stati allievi, altri hanno i figli in classe, tutti i genitori si danno fa fare.
Quando giunse qui da Torino, Vilma Maria Pont doveva restare per pochi mesi, il tempo di salire in graduatoria e salutare. Adesso, 18 anni dopo, è la preside dell’istituto, la persona che con la determinazione dei miti cerca di mandare avanti il progetto. «In realtà isolate come questa la pluriclasse c’è sempre stata e sarebbe il caso che continuasse ad esistere. Ma è una lotta che non va a migliorare. Dopo i tagli alla scuola del 2009 si rischia sempre di chiudere, ogni settembre è una scommessa».
Sono i numeri a imporre il modello della pluriclasse. Così i bambini di quinta si trovano in classe con quelli di prima, al tempo stesso sono alunni e anche guide dei più piccoli, in una mescolanza che non significa assenza di un preciso programma, critica che spesso veniva rivolta a don Milani. «Al contrario, ce ne sono cinque» spiega la maestra Margherita Martino. «I piccoli ne traggono grandi benefici. È importante seguirli anche a casa, ma spesso ci pensano loro ad aggiustarsi». Laura Maria Maronero, vicepreside, insegnante e mamma, racconta che la figlia ogni tanto torna a casa con domande sul sistema solare o di storia, tutte cose ascoltate in aula dai più grandi, assorbite. «I bambini sono collaborativi e svegli, lo spirito della pluriclasse è questo».
Il dibattito non è nuovo, da noi risale ai tempi del prete di Barbiana. Ma negli ultimi vent’anni le pluriclassi stanno uscendo dalla nicchia dello stato di necessità. L’Unesco ne ha promosso l’adozione nelle regioni in via di sviluppo, e diversi Paesi occidentali, Francia e Stati Uniti in primis, stanno cercando di integrare questo modello pedagogico nel loro sistema scolastico. Il modello è la Svizzera, dove la geografia ha imposto le sue regole. In alcuni cantoni di montagna quasi il 20% degli alunni sono in pluriclassi, il raggruppamento di bambini di età diverse è consuetudine, una maestra per tutti, dal primo all’ultimo anno di elementari.
La Svizzera è lontana da Ala di Stura, dalle nostre Terre alte. Ma a guardare i bimbi nelle aule con i pavimenti di legno, con i genitori che si affacciano alle porte sempre aperte, non viene in mente l’esigenza pratica che da noi è genesi della pluriclasse. «A pensarci bene, siamo solo una comunità che gira intorno al suo bene più prezioso» dice la preside. Una volta era il bar, adesso è la scuola.

Il Corriere della Sera 27.12.13

“Ma le idee non hanno età”, di Paolo Di Paolo

Si può chiedere aiuto a un romanzo di cento anni fa? La svolta generazionale in Italia – la «rivoluzione» di cui parlano anche i media stranieri – non è nuova. Ogni epoca vive la propria forma di conflitto – o di dialettica – fra generazioni. Ma c’è qualcosa, nelle pagine del romanzo «I vecchi e i giovani» di Pirandello, che risuona familiare in modo perfino allarmante.

Leggete qui: «La gioventù? Che poteva la gioventù, se l’avara paurosa prepotente gelosia dei vecchi la schiacciava così, col peso della più vile prudenza e di tante umiliazioni e vergogne? Se toccava a lei l’espiazione rabbiosa, nel silenzio, di tutti gli errori e le transazioni indegne, la macerazione d’ogni orgoglio e lo spettacolo di tante brutture?». Il controcanto è nelle parole del vecchio garibaldino Mortara che, stizzito dalle proteste dei più giovani, sbotta: «Perché questi pezzi di galera figli di cane ingrati e sconoscenti debbono guastare a noi vecchi la soddisfazione di vedere questa comunità, l’Italia, divenuta per opera nostra quella che è? Che ne sanno, di cos’era prima l’Italia? Hanno trovato la tavola apparecchiata, la pappa scodellata, e ora ci sputano sopra, capite?».

Tra queste due frontali posizioni, o tutt’intorno, «l’accidia, tanto di far bene quanto di far male», «radicata nella più profonda sconfidenza della sorte, nel concetto che nulla potesse avvenire, che vano sarebbe stato ogni sforzo per scuotere l’abbandono desolato, in cui giacevano non soltanto gli animi, ma anche tutte le cose». Non vi sembra una perfetta istantanea dall’Italia di fine 2013? Il disincanto generale e l’accentuarsi di un discorso politico che mette al centro l’età anagrafica. Nessuno può negare come il paesaggio politico e istituzionale italiano sia mutato nel corso di quest’anno che sta per concludersi. Ma ha ragione Massimo Adinolfi a ricordare, su l’Unità del 24 dicembre, che tali passaggi – più o meno bruschi – di staffetta si sono sempre verificati. In molti, troppi settori i segni di un potere invecchiato e ostile al cambiamento sono più che evidenti: sono scoraggianti. Ma, pur essendo un trentenne, non ho mai creduto che la patente di giovinezza fosse un valore di per sé. Nel piccolo campo della letteratura e dell’editoria, l’esperienza polemica dei cosiddetti «TQ» (i trenta-quarantenni intruppati in virtù del dato anagrafico) mi era sembrata, qualche anno fa, perfino patetica. E infatti è sfumata velocemente. Quando Croce diceva che l’unico dovere dei giovani è quello di invecchiare, recitava la parte del vegliardo cinico o era più sibillino? Credo che con quel brutale «invecchiare» indicasse la necessità di una maturazione, di un’assunzione di responsabilità, di un potersi esporre in virtù di pensieri e azioni anziché del numero di decenni alle spalle. L’Italia degli anni zero e dei primi anni dieci sta vivendo in modo schizofrenico il tema della giovinezza: il Paese è fra i più vecchi al mondo per età media (forse per questo sui giornali alcuni scrittori indicati come «giovani scrittori» hanno quarantacinque anni). Rischia di avvitarsi su un dibattito che non porta da nessuna parte. Un Paese meno vecchio non è un Paese governato da giovani. Un Paese meno vecchio è un Paese con un alto tasso di natalità, con politiche a favore dei neo-genitori. Un Paese meno vecchio è un Paese in cui certe cariche – istituzionali, politiche, accademiche ecc. – si possono ricoprire per un numero limitato di anni: che tu abbia cinquanta o novant’anni, puoi restare sulla stessa poltrona per un tempo limitato. Il potere si incrosta a ogni età. Un Paese meno vecchio è un Paese che investe sulla ricerca scientifica e sull’innovazione tecnologica, che proietta il proprio immenso patrimonio storico-artistico (il proprio passato) sul presente e sul futuro, ricavandone ricchezza. Un Paese meno vecchio è un Paese che investe sulla scuola, in cui un ministro dell’istruzione, lo dico in generale, si circonda di insegnanti e non solo di burocrati, un ministro che con gli insegnanti va a parlare, anziché considerarli applicatori dell’ennesima, spesso vacua riforma. Un Paese meno vecchio è un Paese in cui i giovani hanno ragioni per restare e i vecchi per non sentirsi ai margini. Le idee non hanno anagrafe: che vengano da un sessantenne o da un quarantenne, se sono buone, non fa differenza. E d’altra parte nel Parlamento italiano è scesa l’età media ma questo non è bastato a far fuori l’incompetenza o la volgarità, vedi certi grillini d’assalto e di poca sostanza. Proviamo a concentrarci sulle scelte: possiamo aspettarci parecchio dal 2014 se i quarantenni di destra e sinistra facessero di tutto per dimostrare ai cittadini che la fiducia in loro – come politici, come persone – non è mal riposta. Mi piacerebbe ricordare solo a posteriori, a cose fatte, che quel capo di governo o quel leader «avevano quarant’anni» quando hanno cambiato l’Italia.

L’Unità 27.12.13

“L’anticapitalismo del Papa”, di Claudio Sardo

Il cambiamento di Papa Francesco non riguarda solo la vita della Chiesa e le forme della sua missione. È un nuovo sguardo sul mondo. Che vuole assumere il punto di vista dei più poveri, di chi è «scartato ». Perciò respinge il dominio assoluto della globalizzazione mercatista. Non parliamo di una nuova ideologia, e forse neppure una nuova dottrina sociale. Mai, però, un Papa aveva pronunciato parole così forti, così radicalmente critiche, nei con- fronti del liberismo e del capitalismo finanziario oggi egemoni. «Questa economia uccide – è scritto nell’Evangelii Gaudium. – Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare». Ai disoccupati e ai cassintegrati di Cagliari Francesco ave- va detto: dobbiamo «lottare per il lavoro», dobbiamo rivendicare «un sistema giusto, non questo sistema economico globalizzato che ci fa tanto male».

Come quelle di Lampedusa sono grida che scaturiscono da un’esperienza, da una condizione umana inaccettabile, non da un’opzione politica precostituita. Tuttavia, la contestazione del Papa tocca il cuore del sistema, la giustificazione etica della ricchezza e delle disparità sociali, il ruolo della finanza e persino del denaro. Da Max Weber a Leone XIII, dai grandi leader europei del secondo dopoguerra ai teorici della Reaganomics, tutti hanno in qualche modo collocato le culture cristiane alle fondamenta dell’economia di mercato. L’etica cristiana come motore di libertà e, al tempo stesso, come fattore di moderazione, di solidarietà: da qui il capitalismo che produce welfare e che distribuisce opportunità. Ma ora il capitalismo si è trasformato, velocizzato, finanziarizzato. E il Papa venuto dalla fine del mondo ha pronunciato parole di rottura.

Naturalmente, si può minimizzare lo strappo: in fondo, «quante armate ha il Papa?». Qualcuno però ha capito che dal centro della cattolicità giunge ora una critica che può delegittimare i principi stessi su cui poggiano l’economia e gli ordinamenti occidentali. Hanno reagito anzitutto i conservatori americani: si è scomodato anche l’intellettuale teo-con più rappresentativo, l’economista e filosofo Michael Novak. Per Novak non è accettabile l’Evangelii Gaudium quando afferma: «Alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesca a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante». Nell’impianto teo-con, il capitalismo è invece un frutto storico della semina evangelica. E la relazione tra cristianesimo e Occidente non può che essere di reciproco sostegno e di- fesa. Emendare in senso sociale va bene. Ma guai a contrapporre etica cristiana e capitalismo.

Francesco è il primo Papa non occidentale. Punta il dito proprio contro l’uso ideologico del cristianesimo compiuto dai conservatori in questi anni, seguendo un modello uguale e contrario a quello di certe correnti della Teologia della liberazione. Il cambio di prospettiva di Francesco è una testimonianza della carità che contiene in sé critica e distacco dal potere costituito, compreso quello generato dal temporalismo della Chiesa. È la sua «teologia del popolo» che lo induce a denunciare: il denaro è diventato «un nuovo idolo» che nega «il primato dell’essere umano». E ancora: lo squilibrio delle ricchezze «procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria. Perciò negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune».

Ai cattolici conservatori e reazionari questo Papa non piace per svariati motivi: perché ha desacralizzato le funzioni del- la Curia e della gerarchia, perché denuncia i privilegi ecclesiastici non meno di quelli dei poteri politici ed economici, perché la sua pastorale del perdono sovrasta le rigidità della teologia morale. Ma viene da chiedersi se il pensiero della sinistra abbia cominciato a fare i conti con questo Papa. E se, per parte sua, il cattolicesimo democratico e sociale sia consapevole del- la rottura prodotta nella sua consolidata cultura. Papa Francesco non propone un progetto di società cristiana. Né tanto meno un partito cristiano. Appare persino lontano da quell’idea di mediazione, che ha ispirato il cattolicesimo politico del Novecento. Forse Francesco è il primo Papa del dopo-Concilio. La sua separazione dalla politica non tollera però disimpegni. La politica resta «un’espressione della carità» e i cristiani devono occuparsene in quanto cittadini. In ogni caso, la Chiesa non può assumere il punto di vista del potere. Se la libertà religiosa è fondativa del- la libertà dell’uomo, la libertà della Chiesa va «usata» proprio nelle frontiere più difficili, dove la libertà dell’uomo è minacciata dalle povertà, dal dominio, dal conformismo, dal pensiero unico.

Quanti leader della sinistra hanno oggi come il Papa la forza di pronunciare parole radicali di critica al capitalismo? Quanti hanno il coraggio di dire che sta avanzando una forma nuova, forse più invasiva, di dominio sulla stessa democrazia? Le politiche, ovviamente, richiedono gradualità, riforme, realismo. Altrimenti rischiano di produrre tragiche illusioni. Ma nel nostro tempo il gradualismo sta diventando impotenza. Lo stesso individualismo sta drammaticamente diventando nichilismo. Non si può vivere, né crescere, senza la speranza di cambiare. Di ridare senso alla fratellanza e all’eguaglianza tra gli uomini. Anche per lottare servono pensieri lunghi. Le fedi religiose possono aiutare le forze del cambiamento, e la stessa sinistra, quando nella solidarietà coltivano un pensiero critico. E quando costruiscono spazi di autonomia e di resistenza ai poteri forti.

L’Unità 27.12.13

“Effetto Renzi? Una grande turbolenza nelle intenzioni di voto Print Friendly”, di Lorenzo De Sio e Aldo Paparo

Turbolenza. Secondo noi è questa la parola chiave che meglio identifica in questo momento le intenzioni di voto degli elettori italiani, così come sono state fotografate dall’indagine Osservatorio Politico del Dicembre 2013 (con interviste condotte tra il 16 e il 22 dicembre, quindi dopo l’acquisizione del risultato dell’elezione di Renzi a segretario del Pd, e prima della pausa natalizia).
Turbolenza che fa registrare in questo momento intenzioni di voto molto alte per il Pd. Ben oltre quei sei punti di “effetto Renzi” individuati da vari istituti nelle ultime settimane. Tanto da spingerci, per la prima volta nella nostra serie di rilevazioni, a non presentare i risultati relativi alle intenzioni di voto.
Non si tratta tuttavia di una decisione dovuta a scarsa fiducia nella qualità della rilevazione, analoga a quelle precedenti. Anche perché – e qui emerge un dato davvero significativo – le alte intenzioni di voto al Pd permangono anche quando si pondera il campione rispetto al voto espresso a febbraio. Spesso infatti – a causa di una maggiore reticenza degli elettori di centrodestra a farsi intervistare – accade che i campioni di intervistati siano sbilanciati verso il centrosinistra: tuttavia la ponderazione rispetto al voto espresso in passato (aumentare il peso degli elettori di centrodestra) corregge quasi sempre in modo adeguato le intenzioni di voto. Ma non in questa rilevazione. Perchè?
Guardando in modo più attento i dati si scopre un motivo molto semplice. Ci sono forti flussi di voto in varie direzioni, che indicano una mobilità significativa – al limite della turbolenza – rispetto al voto espresso appena pochi mesi fa. Un dato per tutti: su 1257 rispondenti che dichiarano il voto espresso a febbraio, appena il 41% rivoterebbe lo stesso partito. Se si considerano le coalizioni, questo tasso di fedeltà sale, ma si ferma comunque al 55%. Poco più di un elettore su due oggi pensa che confermerebbe la coalizione votata a febbraio. Gli altri pensano che cambierebbero coalizione o che si asterrebbero[1].
Ovviamente questo risultato è differenziato in base alla coalizione votata. La Tabella 1 mostra, per gli elettorati delle diverse coalizioni votate a febbraio, le percentuali di coloro che oggi sceglierebbero le diverse possibili opzioni di voto.
Tab. 1 – Destinazioni nelle intenzioni di voto degli elettori delle varie coalizioni delle politiche

Come si può osservare, il centrosinistra è di gran lunga la coalizione che può vantare gli elettori più fedeli. L’80% dei suoi elettori di febbraio dichiarano l’intenzione di rivotare uno dei suoi partiti. Identica è la fedeltà verso il Partito Democratico fra i suoi elettori (qui non riportata). L’unica defezione rilevante, per il centrosinistra, è quella verso l’astensione: circa un elettore ogni sei.
Il centrodestra e il M5s presentano invece una situazione ben diversa, e in questo sono molto simili. Per entrambi si registrano tre aspetti netti: 1) una fedeltà alla coalizione inferiore al 50%; 2) un flusso verso l’astensione superiore ad un terzo del proprio elettorato; 3) rilevanti passaggi diretti verso il centrosinistra. Quest’ ultima categoria appare significativa: si tratta di un sesto degli elettori di Grillo (47 intervistati su 277: non sono pochi), ma anche, tra chi aveva scelto Berlusconi, di uno su otto (39 intervistati su 300). Situazione ancora più grave – stavolta in modo prevedibile – quella del terzo polo, in cui gli elettori fedeli sono circa un terzo. Questo a causa di due importanti flussi verso l’astensione e verso il centrosinistra, e di un piccolo flusso verso il Ncd di Alfano.
Infine, appare interessante che oltre un decimo di quanti si erano astenuti a febbraio, dichiari oggi l’intenzione di votare per il Pd: si tratta di 53 rispondenti su 421.
Come valutare questi dati? Da un lato ovviamente è necessaria molta prudenza. Tutte le rilevazioni delle intenzioni di voto si basano infatti su una evidente finzione: all’intervistato viene infatti tipicamente chiesto “se ci fossero elezioni domani mattina, lei per quale partito voterebbe?”. E’ evidente, tuttavia, che le elezioni non sono la mattina dopo. I partiti non sono in campagna elettorale (anche se sempre di più le nostre democrazie sono in una situazione di campagna permanente); non hanno fatto scelte chiare in termini di alleanze, programmi, candidature; non hanno ancora mobilitato le proprie energie. Gli stessi elettori, in periodo non elettorale, non si sforzano di farsi un’idea, perché sanno di essere lontani dalle elezioni.
Tuttavia, al tempo stesso, appare sorprendente che – a pochi mesi dal voto di febbraio – quote molto importanti di elettori riferiscano che cambierebbero voto. E a nostro parere è difficile non mettere i dati osservati in relazione con l’emersione nel centrosinistra della leadership innovativa (nelle forme senza dubbio, nei contenuti ancora da chiarire) di Renzi. Si sa da tempo che Renzi ha una capacità di comunicazione che va oltre il bacino tradizionale del centrosinistra, e i dati sembrano confermare questa ipotesi. In altre parole, se possiamo prendere queste intenzioni di voto come un indicatore di attenzione, appare chiaro come – con la nuova leadership del Pd – nuovi segmenti di elettorato stiano mostrando attenzione verso questa proposta politica. Se poi – quando arriveranno le elezioni – questa attenzione si tradurrà in effettivi voti, è ancora presto per dirlo.
Riferimenti bibliografici
Corbetta, Piergiorgio, Arturo Parisi, e H. Schadee. 1988. Elezioni in Italia: struttura e tipologia delle consultazioni politiche. Bologna: Il Mulino.
De Sio, Lorenzo. 2008. «Il secondo motore del cambiamento: i flussi di voto». In Il ritorno di Berlusconi. Le elezioni politiche 2008, a cura di Itanes, 57–70. Bologna: Il Mulino.
De Sio, Lorenzo, e H. M. A. Schadee. 2013. «I flussi di voto e lo spazio politico». In Voto amaro: disincanto e crisi economica nelle elezioni del 2013., a cura di ITANES, 45–55. Bologna: Il Mulino.
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[1] In generale, è abbastanza normale che un partito – anche vincente – registri tassi di fedeltà ben inferiori al 100%. Storicamente, nelle ultime tornate elettorali italiane – ed escludendo il terremoto del 2013, i partiti vincenti registrano un tasso di fedeltà di circa l’80% rispetto alle elezioni precedenti, mentre i perdenti sono su livelli sensibilmente più bassi, intorno al 60% (De Sio 2008; vedi più in generale Corbetta, Parisi, e Schadee 1988). Questi valori sono tuttavia relativi al confronto elezione su elezione: nel periodo intermedio tra un’elezione e l’altra è normale che la fedeltà nelle intenzioni di voto sia su livelli sensibilmente più bassi.

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