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“La donna che sfidò i banchieri”, di Federico Fubini

I banchieri dei grandi scambi internazionali sono una categoria così impopolare da far spesso dimenticare un dettaglio: li abbiamo inventati noi. I primi uomini di finanza, capaci di garantire gli scambi di merci, valuta o di debito attraverso le frontiere europee, furono quasi tutti italiani. Fiorentini, pisani, senesi, lucchesi, astigiani, genovesi o parmensi nati nel dodicesimo o nel tredicesimo secolo e cresciuti nell’idea di creare denaro tramite altro denaro, aiutando (in teoria) il prossimo a concludere i propri affari in spezie, tessuti o derrate agricole.
Neanche all’epoca aveva l’aria di essere una professione dignitosa. A Firenze o in Piemonte la pratica di prelevare un tasso d’interesse sui prestiti appariva talmente spregevole da essere riservata unicamente agli ebrei. Questo non impedì al numero di professionisti del settore in Italia di continuare a crescere durante i decenni del «big bang» finanziario e commerciale del basso medioevo. Solo a Firenze, fra il 1304 e il 1314, il numero dei cambiavalute salì da 274 a 314 e le «tavole di cambio» passarono da 93 a 135.
Era una finanza spesso sregolata, da robber barons del capitalismo americano di fine ‘800 o da locuste di Wall Street dei momenti più febbrili delle bolle dell’ultimo
ventennio. Allora come oggi, c’era chi non apprezzava e provava a ribellarsi contro i banchieri che si accaparravano le risorse dei propri stessi clienti. Ma allora come oggi, non era facile prevalere sulla forza del denaro e dei professionisti che esso è in grado di mobilitare. Ce lo mostra un lavoro sorprendente di Amedeo Feniello, uno storico del medioevo con una lunga carriera d’insegnamento negli Stati Uniti e in Francia: la storia di una giovane vedova francese che da sola decide di sfidare in tribunale i banchieri fiorentini che l’avevano raggirata. Avesse avuto qualche altro cliente dalla sua parte, la si potrebbe chiamare la prima “class action” della storia, alla quale avrebbero fatto seguito quelle dei clienti di Lehman Brothers, di quelli di Bernie Madoff, degli obbligazionisti di Parmalat o di quelli del governo argentino.
Purtroppo però la donna, Sybille de Cabris, era sola.
Dalle lacrime di Sybille. Storia degli uomini che inventarono la banca (Laterza, 2013) di Feniello ricostruisce la vita e la battaglia giudiziaria di una ragazza provenzale, figlia di cacciatori di saraceni, che non corrisponde in niente allo stereotipo della donna medievale. Da quello che sappiamo, Sybille fu capace di autonomia di giudizio, tenacia di fronte ai banchieri che le avevano sottratto il patrimonio, spirito imprenditoriale e coraggio. Trasferite sette
secoli più tardi, le vicende drammatiche della sua vita potrebbero diventare la trama di una produzione hollywoodiana. Nel 1335 Sybille sposa giovanissima Annibal de Moustier, cavaliere e signore della valle provenzale d’Entrevennes, oggi nota soprattutto per i campi di lavanda cari agli impressionisti francesi.
Interessante che all’epoca la Germania eravamo noi: la dote portata ad Annibal è della ragguardevole somme di duemila fiorini d’oro di Firenze. Era infatti la città-Stato toscana a battere la moneta emblema di valore, stabilità e affidabilità negli scambi internazionali dell’epoca. Da quando era stato coniato nel 1252, il fiorino d’oro di Firenze si era imposto in Europa in quanto moneta di riserva e di scambio, un po’ come nel ventesimo secolo era successo alla Deutsche Mark sin quasi dalla creazione nel 1948.
Ma neanche il patrimonio in valuta pregiata, a cui si aggiungono i possedimenti in Campania e in Sicilia, permette Sybille e al marito Annibal un avvenire sicuro.
I due sono giovani, belli e, secondo quanto riferisce per lettera un amico di famiglia, realmente innamorati. Lui però muore all’improvviso nel giorno di Ognissanti del 1335, lasciandola vedova a meno di vent’anni e incinta. La famiglia di lui a quel punto complotta contro di lei nel tentativo di impossessarsi dei suoi beni, accusandola di fingere la gravidanza solo per accaparrare l’eredità del marito defunto.
Seguono umilianti prove corporali per dimostrare agli emissari dei suoceri di essere realmente incinta. Sybille si difende e alla fine prevale, ma questo è solo l’inizio delle sue peripezie. Con un sorprendente spirito imprenditoriale, questa vedova del basso medioevo passa in rassegna i suoi beni decisa a valutare quanto le rendano e se abbia senso mantenerli. Molto presto decide di vendere il suo castrum nel Regno
di Sicilia, dal quale l’amministratore non trasmette alcuna rendita da anni, per reinvestire invece a scelta in una di tre proprietà provenzali in quel momento sul mercato. Sybille è una giovane donna capitalista, il cui problema è trasferire il ricavato della sua vendita in Sicilia verso la Provenza.
È qui che i banchieri entrano nella sua vita. I Buonaccorsi di Firenze prendono in consegna il denaro a Napoli e si impegnano, dietro commissione, a produrre una somma equivalente a chi presenti una lettera di credito da loro emessa presso la filiale della banca ad Avignone. Ciò avrebbe evitato il pericoloso viaggio delle monete d’argento attraverso tutta l’Italia e la Costa Azzurra.
Il secondo dramma nella vita di Sybille esplode però all’arrivo ad Avignone: in città non c’è più alcuna filiale dei Buonaccorsi. La banca era fallita e i banchieri erano scappati senza liquidare i clienti, un’esperienza oggi ben nota ma allora quasi incomprensibile. Come in questo secolo, gli uomini di finanza non avevano svolto a dovere il loro mestiere ma potevano prevalere sui clienti anche grazie a quelle che gli economisti chiamano “asimmetrie informative”: conoscevano circostanze che gli altri ignoravano, ad esempio sull’effettivo stato della loro impresa o dei mercati.
Sybille piange, ma non si arrende. Oltre dieci anni più tardi, nel 1355, la troviamo a Firenze dove affida una denuncia contro i Buonaccorsi al tribunale della Mercanzia. Vuole indietro i suoi soldi. Sarà una sfida giudiziaria lunga molti anni, nella quale i banchieri si difendono mettendo in dubbio l’identità giuridica della ricorrente, le qualifiche professionali del suo “notaio” (avvocato) ser Zanobi di Buonaiuto Benucci e mille altri passaggi procedurali. Nel 1362 le parti stavano ancora litigando davanti ai giudici, e dell’esito della loro battaglia legale non resta purtroppo traccia. Certo i grandi banchieri fiorentini si seppero difendere con ogni possibile argomento tecnico a loro disposizione. E se la loro opaca cavillosità oggi ricorda qualcosa, ci sarà pure un perché.

La Repubblica 23.12.13

“Dialogo semiserio sull’anno che verrà”, di Mario Calabresi e Massimo Gramellini

Calabresi: «Spieghiamo subito il titolo. Normalmente che cosa fa uno che ha perso?»
Gramellini: «In Italia? Si lamenta dell’arbitro».
Cal: «Lamentarsi non serve a niente. Farebbe molto meglio a dire: ci riproviamo».
Gram: «Ottimo proposito. Lo metterò in lista, il 31 dicembre».
Cal: «Quest’anno si ha quasi paura di fare la lista dei buoni propositi e dei desideri per il 2014. Paura di restarci male. Esiste una nuova forma di pudore, quello che frena la speranza. Invece bisogna riprovarci, anche se ci siamo fatti male troppe volte».

Gram: «Nei cuori e nelle teste è passato il principio che l’Europa abbia perso la terza guerra mondiale contro la Cina. Dovevamo essere noi a esportare i diritti civili e sindacali in Oriente. Invece sono stati i cinesi a esportare qui i loro stipendi».

Cal: «È proprio questo senso di declino inesorabile che dobbiamo combattere. Il mondo va avanti, il futuro è qualcosa di non scritto».

Gram: «Di sicuro è qualcosa che non possono scrivere gli altri per noi. Un ragazzo, simpaticissimo, mi ha mandato questa mail: “Io amo la mia Patria, anche se lei mi trascura. Ma io sono cocciuto e fedele, non smetterò mai di amarla. Perciò resto qui, fermo e fiducioso, in attesa che la Patria bussi alla mia porta con un lavoro».

Cal: «E tu cosa gli hai risposto?»

Gram: «Di andare nel mondo a cercarselo, il lavoro. Lasciando sulla porta un biglietto con il suo numero di cellulare, casomai la Patria bussasse».

Cal: «Guarda il lato positivo: quel ragazzo crede ancora nelle istituzioni. La nausea verso la politica è forte, ma è più forte il fastidio verso la rissa politica, le urla e le promesse mirabolanti. Gli italiani hanno un bisogno straordinario di normalità: i sondaggi dicono che la maggioranza dei cittadini non ha nessuna voglia di tornare a votare».

Gram: «Si vede che io faccio parte della minoranza. Perché avrei voglia di andare alle urne al più presto, appena qualcuno si degna di apparecchiare una legge elettorale decente. Servono un cambio di passo e un’iniezione di energia, non possiamo permetterci un altro anno di ammuina».

Cal: «Ma non ti ha colpito cosa è successo con il movimento dei forconi? Nel giro di due giorni la protesta si è sgonfiata. Ha prevalso la richiesta di normalità, il rifiuto degli scontri, dei blocchi, delle serrande abbassate. Diciamo la verità: gli italiani non sognano la rivoluzione, ma negozi aperti in cui poter tornare a comprare e strade libere per ricominciare ad andare in vacanza».

Gram: «Ma se non torna a girare l’economia, come faranno a comprare e ad andare in vacanza? So bene che l’Italia deve pagare un mare di debiti accumulati nei secoli dei secoli, però i debiti si onorano quando si è nelle condizioni di farlo. Se per pagarli in tempi di magra si continuano a drenare le tasche dei ceti medio bassi, finiremo come quel malato di cui il medico disse: “Tecnicamente è guarito, ma purtroppo è morto”».

Cal: «Ti ripeto: io vedo in giro rabbia, indignazione, disperazione, ma anche tanto desiderio di normalità. Perfino nei gusti dei bambini. Il cartone animato dell’anno è stato Peppa Pig. I piccoli lo amano perché è semplice, lineare, solare e perché finisce sempre con una risata».

Gram: «E con una rotolata collettiva nel fango, materiale con cui – qui in Italia – abbiamo una certa dimestichezza. È stato un anno di alluvioni, insulti e scandali. Questo Paese è da ricostruire dalle fondamenta, e non è solo una metafora».

Cal: «Bisogna ricostruire e ripartire. Questo inserto che La Stampa pubblica da anni, cercando di raccontare il mondo che verrà, vuole proprio segnalare dove si torna a camminare. Ma soprattutto vuole indicare che la chiave del futuro è il coraggio di scegliere. Di prendere una strada e una direzione, senza perdersi nella rabbia e nel risentimento».

Gram: «La paura è conservatrice. Mi permetto di suggerire ai lettori l’esperimento raccontato da Chiara Gamberale nel suo ultimo romanzo: provare ogni giorno, per dieci minuti, a fare qualcosa che non hai mai fatto prima. Camminare all’indietro, telefonare a uno sconosciuto. È un gioco serissimo che ti scongela il cervello e può cambiarti la vita».

Cal: «Ci proverò. Dovrebbe provarci anche la nostra classe politica, anche se temo che l’appuntamento con le elezioni europee si trasformerà nel solito circo propagandistico in cui non si parlerà di Europa, di quello che ci può dare davvero, ma di irrealistici referendum sulla moneta. E, quel che è più grave, si voteranno candidati improbabili, senza nemmeno controllare se sono in grado di farsi capire a Bruxelles o di portare a casa soldi e finanziamenti».

Gram: «L’establishment sa le lingue, ma ha fallito. I cittadini lo considerano colpevole della crisi, non si fidano più. Mi ha colpito il caso Stamina, messo a nudo proprio dal nostro giornale: il fatto che gli scienziati più autorevoli abbiano bocciato il metodo non ha minimamente scalfito le certezze dei devoti. Intendiamoci: quando sei disperato hai tutto il diritto di illuderti. Ma in Italia c’è qualcosa di più, è passato il principio che qualsiasi cosa provenga dal potere ufficiale sia di per sé menzognera o comunque manipolata. Però nessuno può vivere a lungo senza credere in nulla».

Cal: «E pensare che l’establishment sta cambiando. Guarda cosa è successo in Vaticano… Ma quello che abbiamo vissuto è stato anche l’anno del ricambio generazionale nella politica italiana. Nel 2014 scopriremo se è servito a qualcosa, se i giovani sono capaci di fare meglio o perlomeno di comportarsi in maniera diversa».

Gram: «Magari peggiore, ma diversa… Scherzo: condivido in pieno il ricambio. Non si dovrebbe mai fare lo stesso lavoro per più di dieci anni. A proposito, ne approfitto per comunicarti la mia intenzione di trasferirmi in Brasile come vicedirettore del carnevale di Rio».

Cal: «Basta che mi mandi il Buongiorno anche da lì. L’unica certezza è che, con i Mondiali di calcio, nel 2014 ci ubriacheremo di Brasile. Se ne parler à talmente tanto che samba e carioca ci verranno a nausea».

Gram: «Parla per te…».

La Stampa 24.12.13

“La scuola cade a pezzi. Per fortuna ci sono gli insegnanti”, di Franca Sironi

Ma che sorpresa. Con i tagli alla scuola, i genitori in trincea perché devono portarsi la carta igienica, gli insegnanti che celebrano i tempi del loro scontento condannati al precariato e alla marginalità, che fossero proprio i liceali a darci una soddisfazione internazionale non se lo aspettava nessuno. Eppure scorrendo le classifiche stilate dall’Ocse sulle performance dei quindicenni italiani si scopre che migliorano. E sono forse l’unico “più” che il nostro paese ha portato a casa nel 2013 dal confronto globale. I voti dei liceali sono migliorati di 2,7 punti nei quesiti di matematica, di 3 in scienze, di 0,5 nella comprensione dei testi. Pur restando sotto la media internazionale, si fanno avanti. E gli esperti del settimanale “The Economist” non hanno dubbi su di chi sia il merito. Nel rapporto 2013 sulla scuola realizzato dalla casa editrice Pearson ribadiscono – su solide basi scientifiche, attraverso dati, statistiche, interviste – che l’unico fattore che conta, per l’istruzione di base, sono gli insegnanti. Non il Pil, non le strutture avveniristiche, nemmeno le nuove tecnologie. A pesare è il rispetto di cui godono i docenti.

Il rapporto Pearson arriva mentre la scuola italiana soffoca e loda i professori proprio quando le cronache ci raccontano che a Prato, come prima ancora a Grosseto e ad Avigliana in Piemonte, le casse sono così vuote che si estraggono a sorte i supllenti che riceveranno lo stipendio mensile. E ci rimandano il discorso programmatico del neo-segretario del Pd Matteo Renzi che due volte (dopo l’elezione alle primarie e parlando in chiusura dell’assemblea nazionale del partito) ha messo al centro la scuola e chiesto autorevolezza sociale per i professori, promettendo: «La recupereremo centimetro dopo centimetro».

Già, ma come? Un’idea ce l’ha di sicuro Angela Maria Palazzolo. Ogni mattina, puntuale, arriva nella periferia di Reggio Calabria. Sono le otto meno un quarto e ad aspettarla ci sono mille studenti e 82 professori: il corpaccione del liceo che dirige. La sua regione conquista ogni anno il primato negativo nei test di valutazione degli allievi: in logica, algebra e lettura i ragazzi calabresi arrancano, abbassando la media già traballante dei coetanei. Non al Liceo Scientifico Alessandro Volta, però. Dove, anche quest’anno, i quindicenni hanno battuto la media nazionale. Il 26 per cento di loro ha capacità record nei calcoli matematici: nel resto della regione solo il 17 per cento vanta meriti simili. Ma il Volta è una scuola a sé. I docenti fanno squadra. I ragazzi hanno laboratori e persino uno studio Tv. Si fa lezione nel pomeriggio anche ai più bravi. Per farne dei protagonisti del mondo del lavoro. E nessuno mette in dubbio la reputazione dell’istituto.

Perch é questa è la nota dolente, nelle scuole del bel paese. « Lo so bene che il nostro profilo professionale è ridotto male. Ma a fare la differenza è la reputazione della scuola. All’istituto tecnico in cui lavoravo prima, in provincia, era faticoso. I genitori mostravano chiaramente di non tenere gli insegnanti in minima considerazione. Da quando mi sono trasferito, invece, i padri e le madri che incontro nei colloqui sono collaborativi e il rispetto è reciproco». Gianpaolo Lucca insegna matematica all’Istituto tecnico superiore “Zanon” di Udine, che per punteggi nei test compete con Shanghai e Singapore. Perché, dice lui, «è una scuola seria». Ma come si fa a diventare “una scuola seria”? «Ha una credibilità. I docenti sono affiatati. I corsi strutturati. Le lezioni puntuali. Come altro posso spiegarlo?».

C’è un aspetto su cui studiosi e insegnanti concordano per definire quello che rende “serio” un istituto: i suoi professori non smettono mai di studiare. Lezioni, aggiornamenti, ricerche. È fondamentale per tutti, tanto più per i nostri docenti che sono più anziani che in molti altri Paesi europei: nelle medie superiori 6 su 10 hanno ormai passato il mezzo secolo. Ma i soldi sono scomparsi: per aggiornare oltre 770mila insegnanti i contributi sono passati da 42 a 2 milioni di euro in 10 anni, secondo i dati raccolti dai lavoratori della conoscenza della Cgil.

Il ministro Maria Chiara Carrozza ha provato ad aggiustare il tiro, promettendo 10 milioni per il 2014. «I Paesi che ottengono i risultati migliori nei test», commenta Roberto Ricci, responsabile scientifico di Invalsi, il contestatissimo ente che ha il compito di misurare il livello degli studenti italiani, «sono quelli in cui lo Stato investe per la formazione obbligatoria». Perché i docenti dovrebbero tornare sui banchi non solo per imparare a usare lavagne interattive o tablet per i registri elettronici, ma anche per ripassare le proprie materie, aggiornare i metodi di insegnamento, imparare a conoscere meglio i ragazzi che hanno di fronte.

Tutte cose impossibili senza finanziamenti. Ma se Roma lesina, il miracolo lo ha fatto chi è andato a cercarsi i soldi a Bruxelles. A partire dalle regioni del Sud. Al liceo Scacchi di Bari gli investimenti della Ue hanno permesso di chiamare insegnanti madrelingua per far imparare l’inglese ai prof, e docenti universitari per tenere seminari di economia. Al Volta di Reggio Calabria hanno utilizzato 400mila euro sui 458mila ottenuti grazie a nove progetti presentati all’Europa: una capacità di spesa che manca spesso anche agli amministratori locali. I finanziamenti europei sono serviti per aumentare le ore dedicate all’aggiornamento degli insegnanti, ma anche per organizzare viaggi-studio e laboratori per i ragazzi. L’ultimo è rivolto a chi vuole specializzarsi nei beni culturali: «Sono lezioni di chimica e di biologia coordinate da esperti nel restauro dei libri antichi», racconta Angela Maria Palazzolo: «Un uso pratico di informazioni teoriche, con l’idea che possa anche avvicinarli a una carriera».

Viaggi, gite e attività contano. Ma secondo gli analisti importano meno del rispetto che alunni, famiglie e opinione pubblica riconoscono a chi si occupa di educazione. Tasto dolente, in Italia, dove gli insegnanti sono considerati quei “fannulloni” – come li definì l’ex ministro Renato Brunetta – che «hanno tre mesi di vacanza e lavorano 18 ore a settimana». Per aumentare il prestigio dei suoi docenti l’Istituto nazionale per l’istruzione di Singapore, raccontano gli esperti di Pearson, ha inventato la “Giornata degli insegnanti”, il primo settembre. Ma ha anche equiparato i loro stipendi iniziali a quelli degli ingegneri e degli economisti che entrano nel servizio pubblico. «Da noi invece i contratti sono fermi al 2010», denuncia la Cgil: «E non solo per quanto riguarda i compensi, ma anche per il tipo di lavoro richiesto. Che non è stato aggiornato dopo la riforma». Secondo i tecnici di Pearson gli stipendi dei nostri prof non sono così bassi rispetto alla media, ma il problema è che sono congelati: dai 24mila euro lordi all’anno che prende ad inizio carriera, un docente può aspirare ad arrivare al massimo a 38mila dopo 35 anni di insegnamento. Sono meno di tremila euro al mese, quando va bene. Un terzo di quanto prende mediamente un consigliere regionale. «Sinceramente, guadagnavo di più quando facevo il cameriere o il Babbo Natale nei centri commerciali», ricorda Gianpaolo Lucca: «E oggi con 140 studenti, e 10 verifiche all’anno, ho 1400 compiti da leggere, valutare, spiegare, oltre alle lezioni da preparare, ai consigli di classe, alle riunioni, anche per pensare nuovi progetti». Ma, ovviamente, c’è un ma: «Io sono felice in classe. È una lotta. Che ci rende vivi. Come vive devono essere le conoscenze che trasmettiamo agli studenti».

«La scuola ormai è rimasta sola. Caricata di compiti che vanno ben al di là dei programmi. Si trova a guidare i giovani in una crisi economica e familiare senza precedenti». Lodovico Guerrini insegna da trent’anni. Sempre con la stessa convinzione: che il ruolo di un docente non finisca al suono della campanella. Lo racconta con un esempio: «L’anno scorso in quarta ginnasio mi son capitati sei ragazzi che dopo un semestre erano a rischio bocciatura. Erano intelligenti, però non capivo perché non riuscissero a studiare». Finché un pomeriggio non è andato su Ask.fm, il social network che spopola fra i giovanissimi, messo sotto accusa negli States per i suicidi che avrebbe istigato. «Mi è bastato un minuto per trovarli e scoprire cose che non avrei dovuto conoscere: relazioni, problemi, oltre agli scherzi e alle ingiurie che ricevevano da utenti anonimi. Sono rimasto sconvolto». I genitori non ne sapevano nulla. «Così l’ho detto direttamente ai ragazzi. Per far capire quanto sia pericoloso che un ultracinquantenne come me possa venire a conoscenza dei loro affetti. Si sono vergognati. Da quel giorno hanno cominciato a buttare meno tempo su Ask ».
di Francesca Sironi

Il pomeriggio gli studenti potrebbero passarlo a scuola. Se le aule fossero aperte però. «Qui invece a metà mattinata iniziano a spegnere i caloriferi. Per risparmiare», racconta Luisa Serra, professoressa di italiano al Liceo Peano di Tortona: «E i corsi pomeridiani ci sarebbero, ad esempio per ottenere le certificazioni linguistiche. Ma con i tagli al trasporto pubblico le linee sono state ridotte. Così gli alunni che arrivano dalla provincia non possono fermarsi mai oltre l’orario». E sì che il Peano è uno dei 26 istituti che ogni anno vengono coinvolti dal Consiglio regionale per presentare una proposta di legge: un’iniziativa per avvicinare i giovani alla democrazia. «Quest’anno i nostri studenti hanno portato un testo, scritto insieme a un avvocato, che proponeva stages retribuiti per i liceali durante i mesi di vacanza». Bell’idea. Respinta, però, per mancanza di fondi.

L’Espresso 24.12.13

“L’orchestra dei nazisti, Vienna svela la vergogna”, di Andrea Tarquini

Dopo oltre mezzo secolo di silenzio, i Wiener Philarmoniker si piegano al pressing degli storici e lasciano far luce sulle pagine orribili del loro passato di complicità attiva con il nazismo. La celebre orchestra filarmonica della capitale austriaca ha ritirato le decorazioni che dopo l’Anschluss (l’annessione dell’Austria al Reich) aveva concesso a sei alti gerarchi nazisti. Meglio tardi che mai, ma i decenni di silenzio restano vergognosi. Tanto più che scorrendo i nomi dei sei decorati dai Philarmoniker troviamo alti responsabili della tirannide, condannati al processo di Norimberga.
Lo stesso modo di prendere la decisione — adottata in segreto il 23 ottobre, ma resa nota solo ora grazie all’insistenza d’un team di storici guidato da Oliver Rathkolb — la dice lunga sull’ambiguità di fondo dei Wiener Philarmoniker con il loro passato di adesione entusiasta al nazismo. Basta evocare i nomi dei sei alti gerarchi, decorati fino alla revoca degli onori in ottobre: Arthur Seyss-Inquart, tra i responsabili della Shoah, condannato a morte a Norimberga. O Baldur von Schirach, Gauleiter di Vienna occupata, o Albert Reitter, alto ufficiale delle SS, Friedrich Rainer, governatore di Salisburgo e Carinzia, Rudolf Toepfer, alto dirigente delle ferrovie implicato nell’organizzazione dei treni piombati della morte per spedire gli ebrei ad Auschwitz, o Hanns Blaschke, sindaco di Vienna.
Da anni, Rathkolb e il suo team, dalla giovane Bernadette Mayrhofer al collega svizzero Fritz Truempi, chiedevano invano accesso agli archivi dei Philarmoniker. L’appoggio politico di un deputato verde, Harald Walser, è stata la chiave del loro successo. Walser aveva accusato in pubblico Clemens Hellsberg, dirigente dei Wiener Philarmoniker,
di impedire da anni indagini storiche sul passato.
Aperti gli archivi, sono emerse realtà orribili. Almeno la metà dei membri dei Philarmoniker si iscrissero alla Nsdap, il partito nazista (tra i Berliner Philarmoniker si iscrisse solo uno su cinque). Tutti tacquero quando quindici musicisti ebrei, subito dopo l’annessione con Hitler che arrivò a Vienna accolto da una folla in tripudio, furono licenziati dall’orchestra in virtù delle leggi razziali. Sette di loro morirono, o nei campi di sterminio, o durante la deportazione, oppure a causa di brutali maltrattamenti negli ospedali nazisti.
Dopo la guerra, lo scandalo fu insabbiato dal silenzio dell’orchestra, e nessun’autorità (l’Austria tornò indipendente nel 1955) volle indagare. Fu un silenzio scelto ovviamente per salvarsi, e forse anche per esprimere gratitudine per i mille privilegi ottenuti dal Reich. I Philarmoniker furono spesso ingaggiati per concerti ufficiali, o per performance musicali private per i gerarchi. Ancora nel marzo 1945, due mesi prima della capitolazione, suonarono al “Quartiere del Fuehrer” nella caserma Glasenbach delle Waffen-SS. In cambio, Baldur von Schirach regalò loro per decreto l’esonero dal servizio mi-litare: nessuno di loro dovette mai temere di venire arruolato, e di morire a Stalingrado o in Normandia. Servirono Hitler, ma mai al fronte.

La Repubblica 24,12,13

Sisma, parlamentari Pd “A rischio la proroga delle tasse”

Con la rinuncia al decreto “Salva Roma”, si auspica l’inserimento nel Milleproroghe. La proroga delle tasse per le aree terremotate è a rischio: il Governo ha deciso di rinunciare alla conversione in legge del decreto “Salva Roma” dove il lavoro pervicace dei parlamentari Pd aveva permesso di inserire la misura. “Lavoreremo – spiegano ora i parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini, Matteo Richetti e Stefano Vaccari – e siamo fiduciosi che il Governo accolga la nostra richiesta, per inserire il provvedimento nel decreto Milleproroghe che l’Esecutivo esaminerà il 27 dicembre”.

Il Governo, pressato dalle polemiche, visto anche il parere contrario del presidente Napolitano, ha deciso di rinunciare a convertire in legge il decreto “Salva Roma”: è in quel provvedimento che, grazie al lavoro pervicace dei parlamentari Pd, si era riusciti ad inserire una norma fondamentale per le imprese e i cittadini delle aree del cratere sismico, la proroga del pagamento delle tasse. “Si tratta di una misura attesa, che può dare una boccata di ossigeno alle imprese in difficoltà – spiegano i parlamentari del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini, Matteo Richetti e Stefano Vaccari – Non può essere che venga perduta nel mare della polemica politica. Lavoreremo, e siamo fiduciosi che il Governo accolga la nostra richiesta, per inserire la proroga delle tasse per le zone terremotate nel decreto Milleproroghe che l’Esecutivo esaminerà il 27 dicembre. Spiace, ancora una volta, dover verificare che chi, apparentemente, si presenta come il più probo, in realtà lavora per vanificare il lavoro di chi cerca di rispondere alle sacrosante esigenze dei territori colpiti dal sisma 2012”.

Musei e turismo il «tafazzismo» dell’Italia, di Vittorio Emiliani

Il doping delle tesi preconcette, o precotte, più sbagliate ci è orami entro in vena. Domanda Fabio Fazio al Ministro Massimo Bray perché al Metropolitan Museum vadano molti più visitatori che ai nostri Uffizi. Domanda che non sta in piedi, anzitutto per ragioni fisiche: il milione e 700 mila visitatori degli Uffizi, se raddoppiati o triplicati, non ci «starebbero» (in attesa del raddoppio del Museo) e però il Polo museale fiorentino – che brilla di tante stelle – ha registrato nel 2012 oltre 5 milioni di visitatori, cifra vicina a quella del Met. Che peraltro pratica il prezzo «consigliato», cioè i visitatori danno quanto gli aggrada: circa 10 dollari a testa. Meno di quanto costa, in media, il biglietto in Italia. Agli Uffizi 15 euro, i ridotti 11,75.
Quindi, domanda mal posta. Che ne presuppone in genere un’altra (errata). Perché all’estero i grandi mu- sei «sono macchine da soldi» e in Italia no? Una balla sonora. Allo stesso Metropolitan biglietti e altri proventi coprono soltanto ad una metà dei costi, il resto lo si colma con denaro federale, dello Stato, donazioni. Ugualmente il Louvre che, coi suoi tanto vantati 9 milioni di visitatori e con un apparato di servizi commerciali aggiuntivi da paura ha un 40-45 % di disavanzo annuale. Coperto dal denaro dei contribuenti. Gli inglesi han- no scelto nei musei nazionali la via della gratuità e, secondo i dati del Department for Culture, i visitatori, dal 2001 al 2012, sono cresciuti del 51 %. Quando i musei impongono un biglietto per le mostre, gli ingressi calano subito. Quindi la gratuità dei musei fa aumentare l’indotto turistico. Ed è qui che noi siamo e restiamo deboli, molto deboli.

Il ministro Bray, invece di smentire, dati nazionali e internazionali alla mano, Fazio, ha preferito raccontare la sua tormentata gita ferroviaria a Pompei. E qui cade l’autoflagellazione (o la inarrestabile tendenza «tafazziana») tipica di noi italiani: parlare soltanto di ciò che va male, e a Pompei non v’è dubbio che è andata molto male. Per l’insipienza degli archeologi? No, per tante ragioni fra le quali il commissariamento allucinante di un certo Marcello Fiori che ora Berlusconi ha eletto timoniere della rinata Forza Italia e la sottovalutazione del rischio-camorra negli anni passati. Altra «tafazzata» per la vicenda del gigantesco corno rosso davanti alla Reggia di Caserta: perché non accennare al fatto che la splendida fabbrica, borbonica e murattiana – che ha avuto, certo, problemi seri per i giardini – è stata splendidamente restaurata anni fa dallo Stato?

Bray è stato efficace, va detto, sui Bronzi di Riace finalmente restaurati e di nuovo esposti nel Museo di Reggio Calabria nonostante le pressioni per portarli in città turisticamente più appetibili, o magari all’estero, come sta succedendo al Galata morente dei Capitolini, ai 35 Raffaello mandati nel lontano Giappone o ai tanti Caravaggio fatti viaggiare su e giù in Tir. Con tutti gli stress climatici e fisici del caso. Ma soprattutto sottraendoli ai visitatori stranieri venuti apposta da noi per ammirarli. E imbufaliti. Un’altra scemenza ormai in vena: siamo dei poveretti perché nel centro storico romano non circolano (?) le masse di turisti di Berlino, di Londra, o di Parigi. Trascurando due o tre cosucce: a) che l’Italia può offrire una dozzina di capitali dell’arte oltre a Roma (Firenze, Napoli, Venezia, Palermo, Genova, Torino, Milano, Bologna, magari Mantova e Parma, e pure Assisi e Pompei); b) che a Roma il centro storico romano, medioevale, rinascimentale, barocco, neoclassico, esiste ancora, con una fitta rete di strade, stradette, vicoli e piazzette, che – al pari della Galleria Borghese dove le visite sono ovviamente contingentate per ragioni di sicurezza e di microclima – non possono essere «gonfiate» e trasformate in un totale Divertimentificio essendovi residenti, fissi e saltuari, uffici, pubblici e privati, insomma una città – mentre a Londra (per incendi e speculazioni), a Berlino (per le bombe) e a Parigi (per il barone Haussmann) – il centro storico medievale e successivo non esiste più, se non a brandelli; c) che già la flotta di bus turistici e di quelli dei pellegrini, per ora sgovernata, sta rendendo meno vivibile, a tutti, Roma. Quanto ai dati sul turismo a Roma, ci andrei cauto: quelli ufficiali registrano forse la marea dei B&B in nero sorti di recente e il pianeta delle case religiose offerte a buon prezzo un po’ dovunque? Un’ultima cosa (trascurata dai luoghi comuni calcificati): il turismo che va per chiese, e non solo per mu- sei, chi lo censisce? E però nel Sud le chiese conservano i due terzi circa del patrimonio.

L’Unità 24.12.13

“Scuola, siamo prigionieri delle classifiche” di Giulio Ferroni

Qualche volta viene da pensare che l’umanità contemporanea (in primo luogo nel nostro Occidente) sia minacciata dall’insinuarsi di un universale cretinismo, che si insinua anche dentro le più sofisticate competenze, entro le più fulminee intelligenze, entro le più dinamiche abilità: è quello che scaturisce dall’ossessione della classificazione. Cio è, dall’invadente pratica delle valutazioni accompagnate da conseguenti classifiche. Classifiche che vengono elaborate attraverso strumenti di ben rodata tecnologia, impiego di professionalità di alto livello: tecnologia e professionalità divalidissime nel loro campo specifico, ma convogliate e deformate nel loro tendere a costruire classifiche discriminanti, che giungono a toccare i territori più diversi della vita, computati e misurati numericamente anche quando la loro sostanza sembrerebbe escludere ogni risoluzione in calcoli e ogni comparazione numerica. Che c’è di più impalpabile della felicità? Di quella cosa indefinibile tanto cercata e mai davvero raggiunta, scoperta abbastanza tardi dalla storia umana e sempre sfuggita? (del resto chi ha preteso di imporla sull’insieme sociale ha in genere prodotto infelicità e disastri). Eppure anche della felicità si fa una classifica, al più alto livello «mondiale»: abili e competentissimi tecnici che lavorano per le Nazioni Unite, nel quadro dell’Ocse, ci hanno offerto nei giorni scorsi una formidabile classifica mondiale della felicità. Si tratta del World Happiness Report, che mette in fila, come nella classifica generale di una corsa a tappe, tutti i Paesi del mondo, con in testa la Danimarca e in coda il Togo. Su questo grande schermo del mondo globalizzato la vita collettiva e quella individuale, gioie e dolori, occasioni e perdite, ricchezze e miserie si sistemano così entro parametri statistici; si danno medaglie e riprovazioni oltre ogni opacità, contraddizione, problematicità dell’esistere, si misura senza fine l’incommensurabile. È vero d’altra parte che c’è un filo comune che collega tutte le forme di valutazione e classificazione che si sovrappongono ad ogni momento della vita pubblica, all’orizzonte sociale, all’economia, e che spesso sembrano dare esiti equiparabili a quelli delle competizioni sportive. Non si tratta solo di classifiche della felicità, su cui può essere abbastanza facile ironizzare: dubbi analoghi si possono avere, proprio per restare nel quadro dell’Ocse, sui parametri che vengono usati nella ben nota classifica del Pisa (che non ha nulla a che fare con la città della torre pendente, ma è acronimo di Programme for International Student Assessment), con quei poco credibili spostamenti e variazioni di cui si è parlato recentemente (e rinvio ai rilievi fatti su questo giornale da Benedetto Vertecchi lo scorso 9 dicembre). Dovrebbe essere chiaro, tra l’altro, che queste e simili valutazioni, proprio perché basate su dei test, che per loro natura stimolano tipi di risposte predeterminate, non possono in nessun modo dar conto della specificità delle situazioni a cui si riferiscono. Credo però che sia giunto il momento di sottoporre ad una critica più radicale l’attuale dominio di forme di valutazione che non sono in grado di recepire la concretezza dell’esperienza didattica, lo scambio vitale che essa comporta, la complessità dell’orizzonte culturale entro cui si dispone. Qualcosa di analogo si può dire dei test Invalsi e, per l’università, delle cervellotiche classifiche variamente scaturite dall’apposita agenzia di valutazione, l’Anvur. I parametri volta per volta messi in campo appaiono assolutamente incongrui con la sostanza delle discipline a cui vengono riferiti, ne fissano la specificità culturale e scientifica in ragione di modelli e schemi precostituiti, penalizzano proprio l’originalità e la creatività. Si tende così verso l’appiattimento di ogni forma culturale e scientifica entro il già dato, entro segni economico-statistici che negano ogni autentica dimensione vitale e relazionale. Non sorprende il fatto che molti dei sostenitori di questi schemi di valutazione ne traggano spunto per attaccare la scuola e l’università pubblica, perorando indefinite forme di privatizzazione (così Andrea Ichino, che, commentando l’indagine Pisa sul Corriere della sera del 10 ottobre scorso, ha affermato che lo stato dovrebbe sì continuare a finanziare le scuole pubbliche, ma lasciando «ad altri il compito di gestirne le risorse umane e finanziarie»). Se esistesse ancora un pensiero critico, sarebbe fin troppo facile riconoscere la stretta continuità tra le valutazioni e classificazioni che toccano ambiti di per sé non quantificabili, e quelle che agiscono sul piano economico e finanziario, nel quadro di un liberismo antistatale che si pretende come risolutiva via d’uscita dalla crisi di cui è invece l’origine. Siamo prigionieri di sistemi di potere, di strategie economiche e culturali che si basano su un’assolutizzazione del modello del marketing, su una proiezione artificiosa del calcolo statistico su tutta l’esistenza, mentre l’onnipresenza dei sondaggi allontana sempre più dall’orizzonte pubblico ogni dato di pensiero, di riflessione, di problematicità: su questo terreno la politica diventa sempre più asfittica e dal suo seno fa scaturire un’antipolitica sempre più rabbiosa e distruttiva. Altro che classifiche e valutazioni: avremmo davvero bisogno di una «Critica della ragione valutante» (o classificante). Ma filosofia e critica sembrano prese da altre faccende.

L’Unità 24.12.13