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“Cancellare i Cie è possibile”, di Luigi Manconi

Ma è possibile abolirli, questi Cie? Penso seriamente, ragionevolmente e persino pacatamente di sì. Centri di identificazione e di espulsione possono essere aboliti. Svuotandoli delle loro motivazioni costitutive, mostrandone l’inadeguatezza e l’inefficienza, rivelandone la miseria. Ovvero argomentandone la totale insensatezza. Quelle bocche cucite dei trattenuti di Ponte Galeria, a Roma, ci costringono a parlarne. Quel silenzio auto inflitto con gli aghi ricavati in maniera rudimentale dagli strumenti della vita quotidiana ci forza a dire ciò che finora sembrava indicibile. I Cie non rispondono a nessuna ragione né di sicurezza né di umanità; peggio: deridono la sicurezza e oltraggiano l’umanità. Sono «non luoghi» sprofondati in un non tempo: un tempo totalmente vuoto, privo di qualunque attività che non sia quella meramente fisiologica. Ma, accertato tutto ciò, torna la domanda: possono essere aboliti i Cie?
In questi centri, allo stato di migrante irregolare, magari disconosciuto dal proprio paese d’origine, o in fuga da esso, si aggiunge talvolta il marchio di una condanna penale, seppure per fatti di minimo disvalore sociale. Ecco, questi sono gli «ultimi», cui si offre un rifugio provvisorio, senza possibilità di uscirne, fino a quando qualcuno non decida che fine fargli fare, se rimandarli in un qualche luogo d’origine o magari, beffardamente, nel paese d’origine della famiglia. Come
quel 21enne nato e vissuto sempre ad Aversa, incontrato nel Cie di Roma, che sta per essere espulso in Serbia perché da lì verrebbero i suoi genitori, e che mi dice: «Ma io il viaggio più lungo l’ho fatto per andare a Milano», e non conosce alcuno che abiti in Serbia, non ne parla la lingua, non ne ha mai visto il paesaggio. Inevitabilmente quindi i Cie sono luoghi inospitali, destinati ad accogliere persone che non ci vogliono stare (e che spesso non capiscono perché vi siano costretti) in nome e per conto di una legislazione che non ha alcuna intenzione di «ospitarli», ma vorrebbe solo rimandarli a casa nel più breve tempo possibile.
Un’ospitalità senza desiderio (senza il desiderio di ospitare degli uni e senza il desiderio di essere ospitati degli altri) si risolve così necessariamente in un limbo in cui uomini e donne sono costretti a sopravvivere al minor costo possibile per il tempo necessario al disbrigo di pratiche burocratiche. Queste condizioni che attengono al loro stesso mandato istituzionale fanno dei Cie luoghi in qualche modo irriformabili, di cui è necessario perseguire il superamento attraverso il loro svuotamento di funzioni e di persone. Per questo è importante il primo passo compiuto dal Governo con il nuovo decreto-legge voluto dal Ministro Cancellieri. In esso è prevista l’identificazione dei detenuti stranieri passibili di espulsione sin dal loro ingresso in carcere. In questo modo finirebbe l’inutile trasferimento dal carcere ai Cie di tantissimi stranieri che hanno appena finito di scontare la propria pena: se devono e possono essere espulsi ciò avverrebbe direttamente dal carcere; se vi sono ragioni per cui non debbano o non possano essere espulsi, tornerebbero legittimamente in libertà, avendo saldato i propri debiti con la giustizia italiana.

Alcune stime valutano in un 30-40% gli ex detenuti trattenuti nei Cie. L’ultima indagine di Medici per i diritti umani (maggio 2013) ci dice, invece, che quasi il 57% dei 924 stranieri trattenuti nei Cie proveniva dalle carceri. Basterebbe una buona applicazione della recente norma del governo Letta per dimezzare lo scandalo che è sotto i nostri occhi. Resterebbe, certo, l’altra metà degli «ospiti» dei Cie da liberare, ma anche qui si può fare qualcosa, fin quasi allo svuotamento dei Centri. È un pregiudizio ingiustificato quello che raffigura qualsiasi irregolare come un fuggitivo di fronte alle autorità italiane. Un pregiudizio alimentato dal cattivo uso della lingua italiana, per cui ogni «irregolare» è «clandestino» (parola oscena e violenta che impazza a destra come a sinistra) e tale intende rimanere. Al contrario, come sappiamo, molti degli «ospiti» dei Cie hanno o hanno avuto relazioni significative con le loro comunità nazionali presenti nel nostro paese, con le realtà territoriali (fatte di italiani e stranieri) in cui hanno vissuto e lavorato, con le stesse istituzioni, quando vi hanno avuto a che fare (per un permesso di soggiorno scaduto, per i contributi versati, per le cure mediche ricevute). Non è un caso se solo il 40% scarso dei trattenuti nei Cie nel 2012 sono stati effettivamente rimpatriati, e probabilmente molti di questi provenivano dalla cella.

Insomma, se ci si liberasse dal pregiudizio secondo cui ogni straniero irregolare è un clandestino in fuga e che minaccia la nostra incolumità, si potrebbero adottare altri mezzi per l’accertamento della loro permanenza in Italia e per la loro eventuale espulsione.

Non c’è nulla da inventare: basterebbe un obbligo di firma o un obbligo di dimora, vincoli e limiti ai movimenti (peraltro si tratta di misure già previste ma applicate solo in casi eccezionali) per verificare che l’irregolare soggetto a identificazione, o che ha contestato un provvedimento di espulsione, sia reperibile dalle forze di polizia. E così i Cie sarebbero ridotti a pochi locali, necessari a ospitare per qualche notte chi sia in attesa del rimpatrio ormai esecutivo. È l’unico modo affinché quelle bocche cucite riprendano a nutrirsi e le nostre voci afone possano riacquistare un po’ di credibilità.

L’Unità 24.12.13

“Che gogna che fa”, di Massimo Gramellini

Dopo ben più illustri colleghi, ieri è toccato persino a me. II sito di Grillo mi ha inquadrato come giornalista del giorno, scatenandomi addosso i consueti cinque minuti d’odio. Vaffa qui, vaffa là, servo su, verme giù. Sono rimasto sconvolto. Non dagli insulti, ma dagli attestati di solidarietà. Un collega francese mi ha scritto: «E’ come ricevere la Légion d’honneur. Ti invidio!». Ma cosa ho mai fatto per meritarmi questa medaglia? Poco, purtroppo. Nel raccontare a «Che tempo che fa» lo svarione del Pd sul folle emendamento che puniva gli enti locali ostili al gioco d’azzardo, ho ricordato la parata di Renzi per sventare l’autogol. Secondo Grillo avrei invece dovuto sottolineare che l’emendamento era stato osteggiato dai Cinquestelle. Verissimo. Però è Renzi, non Grillo, che ha costretto il Pd a cambiare idea. Ed era quello il tema del mio intervento, tutt’altro che elogiativo nei confronti dei democratici.

L’Italia naviga intorno al cinquantasettesimo posto nella classifica della libertà di stampa, ma se i politici continueranno a mettere i giornalisti alla gogna rischiamo di farla scendere ancora più in basso, meritandoci così una severa reprimenda da parte dello stesso Grillo. Sempre a «Che tempo che fa» ho parlato delle famiglie italiane intrappolate in Congo con i bambini appena adottati. Avrei preferito che Grillo si occupasse di loro e non di me. Se gli riuscisse di riportarli in Italia, garantisco che canterò in diretta l’inno dei Cinquestelle, ai quali estendo con piacere i miei auguri per un Natale senza più vaffa.

La Stampa 24.12.13

“La mossa del padrone”, di Lucio Caracciolo

La Russia è Vladimir Putin. O almeno così pare. Il padrone del Cremlino decide e revoca, premia e punisce, fissa la rotta e tiene la barra. Lo spettacolare doppio colpo di Natale, con la grazia a Mikhail Khodorkovskij e la scarcerazione delle Pussy Riot, conferma che Putin resta l’alfa e l’omega del sistema. Il vertice della “verticale del potere”, che nella sua visione — in ciò non diversa da quella degli zar o dei bolscevichi — è la condizione stessa dell’esistenza della Russia.
Il titolo di uomo più potente del pianeta, assegnatogli quest’anno prima da Foreign Policy poi da Forbes, è dunque ben meritato. La questione è semmai quanto solidi siano i superpoteri di Putin. E quanto utili al suo paese. Con un tasso di approvazione del 61%, la sua popolarità resta alta. Le recenti performance, dal caso Snowden alla Siria e all’Ucraina, ne esaltano l’abilità strategica e diplomatica.
TALE da permettersi quell’aria di annoiata sufficienza che tanto infastidisce Obama, e non solo lui. La piazza di Mosca, dopo una intensa ma breve stagione di contestazione, sembra di nuovo infiacchita, i suoi fatui leader impegnati a beccarsi più che a organizzare l’opposizione. Insomma, nulla di nuovo sul fronte russo? Non proprio.
Nel febbraio 2002, quando Putin non era ancora il padrone della Federazione Russa e il brillantissimo quanto spregiudicato oligarca Khodorkovskij accarezzava l’idea di succedergli – che gli costerà dieci anni di galera – la rispettata Nezavisimaja Gazeta definiva il paese «un Alto Volta con missili nucleari, grandi atleti e silenziosi funzionari». A tenerlo in piedi, l’immenso tesoro energetico, quasi nient’altro. A minacciarne l’integrità, i separatismi latenti nelle periferie dell’impero e le contese per l’accesso alle ricchezze e alle casseforti pubbliche. Oggi Putin può esibire la riconquistata sovranità della Russia, la ricomposizione delle fratture geopolitiche che dopo il suicidio dell’Urss rischiavano di balcanizzare l’impero. Ma a ben guardare, le cause strutturali dell’arretratezza russa non sono state curate.
L’economia è sempre idrocarburi, armi e traffici mafiosi. I due terzi delle entrate fiscali derivano da gas e petrolio. Per tenere in equilibrio il bilancio dello Stato occorrerebbe che il prezzo del greggio si collocasse stabilmente intorno ai 120 dollari al barile. La demografia resta più che deludente. L’aspettativa di vita dei russi (63 anni per gli uomini, 75 per le donne) è condizionata dall’alcolismo di massa e dalle deficienze della sanità pubblica. La corruzione continua a corrodere Stato e società civile. Non stupisce quindi che nel 2013 l’economia risulti in quasi stagnazione (+ 1,4%, meno della metà del previsto) e che le prospettive per i prossimi anni non siano esaltanti.
È in questa luce che conviene leggere la liberazione di Khodorkovskij e l’amnistia promulgata per il ventesimo anniversario della costituzione russa. Tali mosse non si spiegano con il cedimento alle pressioni dell’opinione pubblica occidentale, né solo con l’imminenza delle Olimpiadi di Sochi, che pure sono costate già 50 miliardi di dollari e rappresentano il massimo investimento d’immagine mai azzardato dalla Federazione Russa. Più convincenti appaiono due altre interpretazioni. In primo luogo, il Cremlino ha bisogno di investimenti esteri per diversificare e modernizzare l’economia, dunque deve dare qualche segnale di apertura alla comunità degli affari. Ma soprattutto, Putin adotta una strategia flessibile per dividere e
cooptare le opposizioni.
Sotto questo profilo, il destino di Khodorkovskij è esemplare. Di fatto, l’ex uomo più ricco della Russia ha scambiato la libertà con l’esilio. In linea con gli altri oligarchi della prima e della seconda ora, ai quali Putin offrì subito l’alternativa secca: o dedicarsi agli affari rinunciando alla politica oppure scegliere fra carcere e gaudente quanto obbligato soggiorno oltre frontiera. Le prime dichiarazioni di Khodorkovskij, fra no comment su Putin e ostentata rinuncia alla politica, hanno rassicurato il Cremlino. Allo stesso tempo, l’ex capo della Yukos ha criticato la debolezza dell’opposizione e la tendenza dei suoi dirigenti a giocare all’“uomo forte”: «Se continuano così, avremo un secondo Putin». Ma se è vero, secondo Khodorkovskij, che la società russa non vuole ancora cambiare sistema per emanciparsi dal paternalismo dello zar di turno, cresce il numero dei cittadini decisi a prendere in mano il proprio destino («molti più di cinque o dieci anni fa»).
Sicché Putin alterna bastone e carota. Nelle stesse ore della liberazione di Khodorkovskij, finiva in carcere il noto agitatore ecologista Evgenij Vitishko, disturbatore della quiete olimpica con le sue campagne nel Caucaso settentrionale. Insieme, negli ultimi mesi il Cremlino ha aperto il dialogo con la parte più addomesticabile dell’opposizione nazional-populista, offrendo cariche e prebende in periferia onde sradicarla dalle basi urbane (Mosca e San Pietroburgo), assai più strategiche per la stabilità del sistema.
Con l’economia in sofferenza e la rendita energetica sempre meno copiosa, la gestione degli oppositori non basta. Conquistato un posto d’onore nel Pantheon della storia patria come salvatore di ciò che residua dell’impero, ma non avendo affatto rinunciato all’idea di recuperare gran parte delle terre perdute nel 1991, Putin non può sperare di offrire un futuro dignitoso alla Russia senza riformare alle radici un regime asfittico. A costo di rischiare quel posto che Khodorkovskij non può pi ù contendergli. Dopo il confronto televisivo del febbraio 2003, quando l’allora petroliere e finanziatore delle opposizioni filo-occidentali lo mise alle strette, Putin confidò al capo della British Petroleum, Lord Browne: «Da quell’uomo ho mangiato più polvere del necessario». Khodorkovskij l’ha pagata cara. Resta da stabilire quanta polvere dovranno mangiare i russi prima di vedere qualcuno – soprattutto qualcosa – di nuovo al Cremlino.

La Repubblica 24.12.13

“Vince il Vecchio Cinema Paradiso così è slittato l’obbligo del digitale”, di Matteo Berdini

Alla fine di ottobre le sale cinematografiche italiane non ancora in regola per il passaggio dalla pellicola al digitale erano più di un migliaio: non avevano ancora trovato i fondi per dismettere il vecchio proiettore 35 mm e comprare il nuovo impianto. Un passaggio obbligato in vista dello storico definitivo tramonto della pellicola previsto per il 31 dicembre 2013. Ma nei primi giorni di questo mese, quando la corsa alla digitalizzazione sembrava ormai persa, gli addetti ai lavori hanno trovato un accordo che, sulla carta, dovrebbe salvare i più deboli e garantire ancora qualche mese di distribuzione in pellicola. In che cosa consiste questo accordo?
Il nostro paese ha accumulato ritardi per motivi ormai noti: le lungaggini burocratiche dei bandi regionali già pubblicati e l’attesa di quelli che sono stati promessi. Non meno rilevante sembra essere l’aspetto legato alla disponibilità degli impianti digitali. Secondo Gino Zagari, direttore dell’Anem (Associazione nazionale esercenti multiplex), i produttori dei sistemi digitali di proiezione non riescono a evadere nei tempi dettati dalle scadenze la crescente domanda che arriva dagli esercizi.
Recepite queste difficoltà, le associazioni di esercenti (Anec, Anem, Acec e Fice), nel corso delle giornate professionali di cinema che si sono tenute a Sorrento dal 2 al 5 dicembre scorsi, hanno proposto alla sezione distributori dell’Anica (Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive e multimediali) di permettere comunque alle sale cinematografiche in difficoltà l’iscrizione nel Registro degli impianti digitali ancor prima di aver cominciato i lavori: basterà una promessa formalizzata dall’accettazione di un preventivo d’acquisto con cui la sala s’impegna a realizzare l’impianto prima del 30 giugno del 2014.
Risultato: l’Anica ha accettato la proposta e ha prorogato l’erogazione del famoso “virtual
print fee” – la quota settimanale che il distributore riconosce all’esercente che ha già adeguato il proprio impianto – per tutto il periodo in questione. Per Zagari il vero problema ora resta trovare il modo di distribuire copie in pellicola nei primi mesi del 2014. La cattiva notizia, secondo Zagari, è che «nessuno produce più la celluloide ». La buona è che, a conti fatti, «le scorte potrebbero essere sufficienti per arrivare fino a marzo».
L’accordo tra esercenti e distributori è di certo un passo importante che dà respiro alle tante sale in attesa di risorse. Gli ultimi dati Anec di ottobre davano le sale italiane digitalizzate attorno al 62 per cento. I dati aggiornati non sono ancora ufficialmente disponibili, ma si può tentare di ricavarli per alcune regioni grazie alle segreterie regionali delle associazioni di esercenti. Mario Lorini, presidente della Fice (Federazione italiana cinema d’éssai), dà la Toscana a oltre il 75 per cento – un dato in crescita, soprattutto grazie alla riapertura dell’ultimo bando con circa 650 mila euro di fondi. Anche il Lazio, grazie all’ultimo bando da 3 milioni di euro, a dicembre ha raggiunto il 72,2 per cento, contro il 52,7 di fine ottobre. E ci si aspetta risultati analoghi dalla Lombardia e dalla Puglia, entrambe ferme intorno al 70 per cento. La più virtuosa è l’Umbria con l’80 per cento circa di sale digitalizzate. Tra le regioni che invece non hanno ancora pubblicato bandi spicca la Calabria, che secondo l’Agis regionale sta per oltrepassare il 70 per cento degli impianti digitali nonostante le evidenti difficoltà.
Non sappiamo cosa ci porterà il 2014, però una cosa appare chiara: per dire addio alla pellicola dovremo aspettare la primavera.

La Repubblica 23.12.13

“L’addio alle Province nel 2015. Risparmi per un miliardo l’anno”, di Alessandra Arachi

Lo chiamano ddl Delrio ed è lo strumento scelto dal governo per abolire le Province. Approvato sabato dalla Camera, adesso si punta a farlo approvare al Senato entro la fine di gennaio. Non è una legge costituzionale, quella è di una riga appena e avrà un iter ben più lungo, ma è un disegno di legge ordinario pensato come prodromo per l’abolizione, necessario per «svuotare» le Province che prende il nome dal ministro degli Affari Regionali, Graziano Delrio, che di questo provvedimento se ne sta prendendo cura.
Fuori la politica
Il primo passo per l’abolizione delle Province è quello di abolire le giunte, i presidenti, i consiglieri. Le Province, secondo il ddl Delrio, dovranno essere gestite direttamente dai sindaci, riuniti in assemblee, e si occuperanno soltanto di funzioni di cosidetta area vasta, come la gestione delle strade, la pianificazione delle scuole. Abolire tutta la gestione politica delle Province dovrebbe portare ad un notevole risparmio complessivo.
Enti snelli
Svuotate dalla politica, le Province in questa fase di transizione diventeranno enti di secondo grado e manterranno soltanto le funzioni di cosiddetta area vasta, come la pianificazione del territorio, dell’ambiente, della rete scolastica del territorio. L’unica funzione di gestione diretta riguarderà la pianificazione, costruzione e manutenzione delle strade provinciali. Con la redistribuzione di funzione e personale tra Regioni e Comuni viene redistribuito sia il patrimonio sia il personale, circa 56 mila persone.
Città metropolitane
Sono enti di nuova istituzione e avranno poteri rilevanti, visto che manterranno le funzioni delle Province. Queste città metropolitane non dovranno sparire dopo la fase di transizione. Il ddl Delrio prevede l’istituzione di nove città metropolitane, alle quali si deve aggiungere Roma capitale con una disciplina speciale. Le nove città sono: Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze Bari, Napoli e Reggio Calabria che però rimane in sospeso visto che la città è oggi commissariata per motivi di criminalità organizzata. Già previste da una legge del 1990, alle città metropolitane vengono trasferiti patrimonio, risorse e personale della Provincia. Il sindaco della città metropolitana coincide con il sindaco della città capoluogo e avrà un consiglio di consiglieri comunali del territorio e un’assemblea dei sindaci.
I tempi
Sabato scorso il decreto ha avuto il primo sì dalla Camera, adesso lo aspetta lo scoglio del Senato dove la maggioranza è meno netta. Ma il ministro degli Affari Regionali Graziano Delrio sembra ottimista: «Fino ad ora abbiamo rispettato abbastanza la tabella di marcia. Ma la cosa importante adesso è una rapida approvazione in Senato così da evitare le elezioni amministrative del 2014. Come obiettivo ci diamo la fine di gennaio». In realtà per evitare le elezioni provinciali di primavera è già stata inserita una norma nella legge di stabilità: sono 52 Province che dovrebbero andare al voto, più altre 20 che sono state commissariate nel 2012. Approvato il disegno di legge, sarà poi la volta dell’approvazione della legge costituzionale, quella che già esiste ed è costituita da una sola riga. Dice, semplicemente: vengono abolite le Province. Le previsioni del ministro Delrio è che questa legge costituzionale possa essere approvata in un anno, cioè nel 2015.
I risparmi
Il ministro Delrio ha fatto due conti: « Per quanto riguarda le Province c’è un dato reale, concreto e immediato sia di riorganizzazione sia di risparmio: non c’è più il personale politico eletto appositamente, presidenti e consigli oltre alle giunte, perché di città metropolitane, unione di Comuni e di quello che resta delle Province fino all’abolizione si occuperanno a titolo gratuito i sindaci e i consiglieri già eletti nei loro Comuni. Questo comporta un risparmio subito superiore ai 100 milioni. L’Istituto Bruno Leoni dice 160. Ma il maggiore risparmio e il maggiore vantaggio si avranno dal riordino delle funzioni e dall’efficientamento delle funzioni di amministrazione e controllo: stimiamo un risparmio intorno a un miliardo l’anno. Le cifre sono variabili, secondo gli studi, ma l’ordine di grandezza è questo».

Il COrriere della Sera 23.12.13

“I guaritori”, di Maria Novella De Luca

Oggi è il metodo Stamina, ieri era la cura Di Bella, settant’anni fa il siero di Bonifacio. Ma anche il veleno dello scorpione cubano o il bicarbonato in vena per sconfiggere il cancro. In mezzo feroci battaglie giudiziarie, processi, manifestazioni, un grande dolore e un’infinità di lutti. L’umanissimo desiderio di guarire, l’algida freddezza (spesso) della medicina ufficiale, e il mercato della speranza, che di volta in volta assume le forme del business spregiudicato, della missione caritatevole, o della semplice e pura illusione. C’è tutto questo dietro la triste battaglia pro e contro il metodo Stamina, qualcosa che in Italia è già accaduto, con i malati in piazza, la comunità scientifica scettica, i tribunali che impongono agli ospedali di non sospendere le cure. Un’anomalia, una contraddizione, che assume la forma estrema dei pazienti che si strappano i respiratori davanti ai palazzi del potere e si tolgono il sangue per gettarlo in faccia ai politici. E i genitori di bimbi malati che dichiarano di essere pronti a tutto, pur di vedere qualche piccolo miglioramento nei loro figli già condannati da malattie neurodegenerative, come la leucodistrofia, o la Sma, l’atrofia muscolare spinale. Celeste, Sofia, Chantal, Noemi. Impossibile non comprendere il dramma umano. Eppure i dati scientifici sulla “cura” inventata da Davide Vannoni bocciano senza appello il metodo Stamina, anzi ne sottolineano tutta la pericolosità. Ma i pazienti non mollano: «Mia figlia sta meglio, questo conta, sono un genitore, come potrei non volere il suo bene?».
Muro contro muro. Di qua la Scienza, quella ufficiale, di là le famiglie, il dolore. Un confine all’interno del quale prosperano guaritori e venditori di illusioni. E il ruolo, particolare, dei tribunali amministrativi, che possono ordinare il ripristino di cure e terapie pur contro il parere dei medici. Bisogna provare a capire. Ascoltare la sofferenza. Perché, spiega lo psichiatra Luigi Cancrini, «la medicina ha ormai raggiunto livelli altissimi nella battaglia alle malattie, ma ha via via perso la capacità di stare con le persone, di comunicare la diagnosi, di accompagnarle nel dolore ». Di fronte alla durezza e alla freddezza dell’istituzione, aggiunge Cancrini, «chiunque offra una possibilità, anche se non suffragata da prove, viene visto come una luce, si creano gruppi, movimenti che si alimentano di quella speranza, è un po’ come andare a Lourdes o a Medjugorie». E se la medicina ha ormai dimenticato la persona, gli altri, quelli fuori dalle istituzioni, missionari per alcuni, stregoni per altri, fanno il contrario, ricorda Cancrini, «abbandonano la malattia e si occupano della persona».
Stamina, la cura Hamer, il metodo Simoncini, la contraddittoria terapia Di Bella. Salvo Di Grazia di professione fa il medico, e come secondo lavoro il “cacciatore di false illusioni scientifiche”. Nel suo sito “Medbunker”, da anni raccoglie prove e testimonianze sulle presunte cure miracolose che di volta in volta catalizzano cuori e anime dei malati. «Non è un caso che questo tipo di terapie nascano per patologie che la scienza ufficiale ritiene ancora incurabili, il cancro, le malattie neurodegenerative. Oggi ci occupiamo di Stamina, ma in Italia ci sono centinaia di persone ammalate di tumore che abbandonano le cure e seguono ad esempio il metodo di Rike Geerd Hamer, il quale afferma che il cancro altro non è che un trauma, e basta risalire a quel trauma per guarire. Decine di persone che si sarebbero potute salvare sono morte così, senza nemmeno le cure palliative…».
Ma Salvo Di Grazia ricorda anche il tragico caso di Luca Olivotto, un giovane di 27 anni affetto da un tumore al cervello, morto esattamente un anno fa fra atroci sofferenze, dopo essersi sottoposto in Albania alla cura di bicarbonato per endovena inventata da Tullio Simonicini, oncologo radiato dall’Ordine dei medici. «Ho enorme rispetto per ciò che dicono i pazienti, come i genitori dei bambini trattati con il metodo Stamina i quali affermano che i loro figli hanno avuto dei miglioramenti. Come non credere ad una madre o ad un padre? E non penso nemmeno che le famose infusioni siano contaminate o infette: ciò che però vorrei sapere è perché Vannoni non mostra veramente i passaggi del suo metodo, perché rifiuta un confronto scientifico reale… Se le sue staminali funzionano, perché tanto segreto?».
Nel muro contro muro, infatti, alla fine chi decide è la giustizia. Ma può un Tar imporre qualcosa che la scienza non ha sperimentato fino in fondo? «Infatti siamo di fronte ad un paradosso», commenta
Filomena Gallo, avvocato e vicepresidente dell’Associazione Luca Coscioni. «Noi siamo sempre stati per la libertà di cura, e proprio per questo chiediamo che le infusioni vengano bloccate
fino a quando Vannoni non renderà pubblico il suo metodo. Esperti di tutto il mondo ne hanno messo in dubbio la validità, allora intervenga la politica a fermarlo, se non verrà dimostrato che la cura è sicura. Come possiamo lasciare che a decidere se applicare Stamina ad un bambino — si chiede Filomena Gallo — sia il giudice di un tribunale ammini-strativo, e non un medico?».
Un gioco di paradossi. Ma dove sotto accusa finiscono ospedali e istituzioni, una sanità sempre più distante dai malati e dalle famiglie, un mondo dove l’handicap è spesso soltanto una tragedia privata, che non trova ascolto né sostegno. E Big Pharma con i suoi giochi opachi di interessi e denaro. Eppure in questa battaglia non ci sono solo i pazienti pro Stamina. Ci sono anche, e sul fronte opposto, i genitori dei bimbi affetti da “Sma”, l’atrofia muscolare spinale, che dalle promesse di Vannoni si sono sentiti offesi. Daniela Lauro è la presidente di “Famiglie Sma Onlus”, ed è anche la mamma di un bambino “Sma” che non c’è più. «Noi vogliamo certezze non illusioni. I bambini trattati con Stamina hanno respiratori e ausili per l’alimentazione esattamente come i nostri, che vengono curati attraverso la ricerca di Telethon, attraverso studi trasparenti fatti di prove ed evidenze scientifiche. Dov’è il miglioramento della cura Vannoni se quei bimbi stanno come tutti gli altri? Magari si fosse trovata una terapia. Ci sentiamo feriti perché per aver chiesto dati certi su Stamina siamo stati trattati come genitori che non vogliono curare i loro figli… ».
«Ministro Lorenzin, venga a vedere come sta Sofia, non spezzi il suo futuro», ha detto pochi giorni fa una delle mamme in prima linea per il metodo Vannoni, Caterina Ceccuti, che da sempre dichiara i miglioramenti della sua piccola affetta da leucodistrofia metacromatica. Il 28 dicembre, subito dopo Natale, pazienti e genitori dei bambini in cura agli Spedali riuniti di Brescia si daranno appuntamento a Roma per mostrare le loro cartelle cliniche, i certificati che attestano i miglioramenti dei loro cari in trattamento con le infusioni di Stamina.
Daniela Lauro è scettica: «Perché soltanto adesso tirano fuori le cartelle cliniche? Perché non le hanno consegnate agli esperti del ministero? Che senso ha mostrarle in piazza?».
Dice ancora Luigi Cancrini, neuropsichiatra di lungo corso: «Entrare in questa dimensione del dolore è arduo, difficile, ma il medico non si può sottrarre. Invece è quello che accade nei nostri ospedali. Ci vuole una rieducazione psicologica di chi fa il medico, il cui compito è anche sostenere il paziente nella sofferenza».

La Repubblica 23.12.13

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“SE LA SCIENZA È SENZA CUORE SI FANNO LARGO I FALSI PROFETI”, di GIORGIO COSMACINI

Medicina e ciarlataneria sono territori spesso contigui; talvolta càpita che l’una sconfini nell’altra. La medicina è basata su modalità comunicative utilizzate anche dalla ciarlataneria: essa, infatti, si fonda sul dialogo, sullo scambio verbale, su una efficiente ed efficace modalità applicativa di quella che oggi viene chiamata “scienza della comunicazione”. Tale applicazione al rapporto interpersonale consta di parole trasmettitrici di competenza e motivate da disponibilità; ma talora càpita che tali parole siano chiacchiere o ciarle.
Tre esempi storici, con varie sfumature, possono essere significativi al riguardo. Il grande malato non immaginario Molière, divorato dalla tisi, al Re Sole che gli domandava:
«Che cosa vi consiglia il vostro medico?» rispondeva riassumendo la relazione interumana tra medico e paziente in due sole parole: «Sire, chiacchieriamo». Il re di Spagna Filippo IV, volendo distinguere tra scienza vera (teologia) e scienza fittizia (medicina), annotava in margine a un suo documento, conservato nell’archivio storico di Simancas, questa frase: «Parlar di scienza è ciarlare».
Il medico Jean Paul Marat, prima d’essere (con Danton e Robespierre) il padre trinitario della rivoluzione francese, pubblicò sul proprio giornale, L’ami du peuple, dodici lettere intitolate Les charlatans modernes e dirette contro il “ciarlatanismo accademico”. A proposito di ciarlatanismo medico, ha scritto Roberto Satolli (“La salute consapevole”, Bari 1990, p.300): “Chissà se qualche lettore non faccia una divertente scoperta, trovando tracce o dosi consistenti di ciarlataneria anche in personaggi insospettabili, come medici famosi, primari d’ospedale e direttori d’istituto?”.
Sull’annosa questione del possibile intreccio fra ciarlataneria e medicina (o della ciarlataneria in medicina) si fece carico fin dal 1910, anno della sua fondazione su scala nazionale, l’Ordine dei medici. Ponendosi anzitutto quale coscienza sanitaria della nazione, l’Ordine neofondato aveva tra i suoi fini la lotta senza quartiere all’abusivismo e alla ciarlataneria, ovviamente al di fuori dei propri ranghi. Tale finalità ha conosciuto fino ad oggi, nell’arco di un secolo, alti e bassi, venendo a confrontarsi anche con fatti non esterni, ma interni alla categoria: negli anni Cinquanta il caso Bonifacio, negli anni Sessanta il caso Vieri, negli anni Novanta il caso Di Bella. Quest’ultimo caso è esploso nel 1997. Il professore Luigi Di Bella, già docente di fisiologia nelle Università di Parma e di Modena, non era il primo venuto: sapeva di scienza e tuttavia sottraeva la propria “multiterapia del cancro”, a base di somatostatina, alla regola aurea che esige per ogni trattamento medico il vaglio preliminare di una rigorosa sperimentazione scientifica e l’osservanza ineludibile del principio di precauzione.
La Cuf (Commissione unica per i farmaci) confermò che la “cura Di Bella” non aveva né credibilità scientifica, né utilità pratica. Tanto bastò per far scattare in molti incauti o sprovveduti opinionisti, e in larga parte dell’opinione pubblica, assalita da notizie condite d’imprecisione e d’iperemotività, il sospetto di una persecuzione di casta da parte della medicina ufficiale nei confronti dell’anziano guaritore — un omino mite per molti un sant’uomo — che prometteva ai malati di guarirli del loro male inguaribile. In più, la questione assunse una coloritura politica, partitica. Si assistette a una ondata emotiva cavalcata da destra a favore, in nome di una presunta “libertà di cura” e di un malinteso “diritto alla vita”, e da sinistra a sfavore, in nome della “responsabilità dei medici” e del loro rifiuto di ogni “ricatto verso i pazienti”.
Il disorientamento della classe medica, assillata da pazienti e da loro familiari in trepidante attesa, era grande e non mancavano autorevoli esponenti di gran nome che invece di dire parole chiare e distinte si barcamenavano in chiacchiere e in ciarle. A commento di tutto ciò, le riviste medicoscientifiche internazionali Lancet e Nature parlavano senza mezzi termini di “commedia all’italiana”. Personalmente ricordo che fra i non pochi commedianti, giunse a fare chiarezza la voce dell’allora neo-eletto presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici, Aldo Pagni, portatore di una ritrovata vocazione ordinistica contro i guaritori con laurea atteggiati a profeti osteggiati e contro i medici atteggiati a soloni ma incapaci di una presa di posizione veramente scientifica e umana.
Per riuscire vittoriosa sulla ciarlataneria contemporanea, la medicina deve ritrovare rapporti di cura più affabili e modi di azione più affidabili. Il ciarlatano o sedicente guaritore non profitta soltanto della credulità e fragilità altrui; profitta anche della ragione saccente e della scienza distante. Fin che queste troveranno cittadinanza, la ciarlataneria, in medicina, vivrà.
(L’autore è uno storico della scienza, docente a contratto all’università San Raffaele)

La Repubblica 23.12.13

“Microimprese. Una grande spia della crisi italiana “, di Carlo Buttaroni

In Italia, le microimprese, cioè quelle con meno di 10 dipendenti, rappresentano il 95,1% delle imprese attive. Se si considerano anche quelle fino a 15 dipendenti, la quota sale al 97,4%. Una galassia d’imprese con, mediamente, 2 ad- detti e che rappresenta il 60% del mercato del lavoro italiano e la quasi totalità del tessuto imprenditoriale.

La retribuzione lorda di un dipendente di una microimpresa è meno di 18 mila euro, mentre quello di una grande impresa è di circa 30 mila euro l’anno. Il costo del lavoro a carico dell’azienda è poco meno di 25 mila euro nelle microimprese e poco più di 42 mila euro nelle grandi. Nonostante la grande differenza del costo del lavoro, il valore aggiunto per addetto è meno di 30 mila euro nelle microimprese e più di 71 mila euro in quelle grandi. Il valore aggiunto è l’incremento di valore che si ottiene nell’ambito della produzione. L’impresa, cioè, acquista una certa quantità di beni e servizi necessari a produrre altri beni e servizi e nel processo di trasformazione delle materie prime crea una certa quantità di valore.

VALORE AGGIUNTO

La differenza tra il valore finale e quello dei beni e servizi acquistati è il valore aggiunto, che è, quindi, indicatore economico sulla capacità delle imprese di creare valore dai processi produttivi. Se una relazione sembra esserci non è quella tra retribuzione dei lavoratori e capacità di incrementare il valore della produzione. Semmai è il contrario, e cioè che a retribuzioni più basse corrisponde una minore capacità di creare valore aggiunto. Al sud, dove le retribuzioni sono media- mente più basse, il plus valore della produzione è inferiore a quelle delle imprese del nord. La relazione che sembra, invece, esserci (e ben evidente) è con gli investimenti. La media degli investimenti per addetto nelle microimprese è pari a 4.400 euro, mentre in quelle grandi è di 11.700 euro. Cioè quasi tre volte. Investire significa innovare sia prodotti che processi. Nei Paesi occidentali, la capacità di creare valore dai processi di trasformazione delle materie prime è ciò che ha per- messo la crescita economica dal dopoguerra fino alla fine del secolo e una diffusione del benessere senza precedenti.

Un processo di sviluppo che si è accompagnato a una crescita delle retribuzioni e a forti investimenti che hanno visto in una posizione non subordinata, soprattutto in Italia, il settore pubblico. Creare valore aggiunto dai processi produttivi significa disporsi strategicamente su mercati diversi da quelli delle economie emergenti. Significa mettere a valore competenze e talenti. Pensare di competere con la Cina o con la Corea comprimendo il costo del lavoro è una follia. Così com’è stato un suicidio, in questi anni, la scelta di alcune imprese di delocalizzare per abbattere il costo del lavoro, pensando di spostare la produzione dove un lavoratore costa meno per vendere a prezzi più competitivi sui mercati italiani ed europei. Al contrario, sarebbe stato molto più conveniente produrre in Italia e vendere in quei mercati in espansione, dove la crescente classe benestante esprime una domanda di «valore aggiunto» rappresentato dalla qualità dei prodotti. Un fenomeno che si è alimentato della convinzione che per rendere più competitive le imprese bisogna comprime- re il costo del lavoro (agendo peraltro sulle retribuzioni e non sulle imposte). Una subcultura che si è sposata con l’assenza di una politica industriale che, negli ultimi dieci anni, ha avuto come effetto un deterioramento delle competenze, tanto che le nuove quote di occupazione hanno riguardato prevalentemente la produzione di servizi a basso contenuto professionale e una diminuzione del «valore aggiunto» espresso dalla trasformazione delle materie prime.

Le imprese italiane che, in
questi anni, hanno retto meglio la
crisi sono quelle esportatrici. E sono
anche quelle che hanno fatto registrare investimenti, livelli di produttività del lavoro, retribuzioni per dipendente e margini di profitto lordo notevolmente superiori a quelli medi.

IL MERCATO

Sono un po’ più grandi della dimensione media delle imprese italiane che, tra l’altro, è tra le più basse d’Europa; 3,7 la media degli addetti. Condividiamo il gradino con il Portogallo e sotto di noi ci sono solo la Slovacchia, la Repubblica Ceca e la Grecia. La stragrande maggioranza delle nostre microimprese ha un mercato che non esce dai confini comunali, al massimo un perimetro regionale. Un vero e proprio mondo che avrebbe bisogno di una politica industriale che incentivi capitalizzazione e investimenti, che dischiuda nuove opportunità verso nuovi mercati. È impensabile pensare a una ripresa senza un sistema di accesso al credito degno di questo nome, senza allentare la pressione fiscale e alleggerire il peso della burocrazia. Basti pensare che tra il 2010 e il 2011 gli investimenti sono diminuiti del 25,9%, mentre l’incidenza dei costi amministrativi sul volume d’affari è notevolmente cresciuta.

I PROBLEMI DELLE AZIENDE

Un’azienda che oggi ha bisogno di una fidejussione bancaria deve immobilizzare un importo di pari valore. Spesso non è sufficiente nemmeno mettere a garanzia il patrimonio personale, visto che il più delle volte è richiesto un deposito in titoli della banca stessa. Un imprenditore deve, quindi, prima acquistare le azioni (assumendosene naturalmente il rischio) e bloccarle per il numero di anni previsti dalla polizza riducendo, di conseguenza, la sua capacità di investimento e il potenziale incremento del valore aggiunto. In questo modo, sono le imprese a finanziare le banche e non viceversa e il sistema del credito diventa una tassa occulta anziché una leva dello sviluppo.
È facile intuire il motivo per cui da noi la crisi è più dura e il futuro più opaco. E che la ripresa dei mercati esteri non sarà sufficiente a far recuperare il terreno perduto in questa lunga fase recessiva. Si possono fare tutte le riforme del mercato del lavoro possibili, ma la soluzione non passa da questo fronte. È dagli anni Novanta che si cerca di far crescere la competitività delle imprese facendo leva su retribuzioni e garanzie dei lavoratori, col risultato che il mercato del lavoro si è progressivamente deteriorato e il valore aggiunto dei processi produttivi è cresciuto in maniera insignificante. Tra l’altro, non vi sono casi documentati secondo cui questa strategia può avere successo. Se una cura non funziona, bisogna cambiarla. E questo è il momento.

L’Unità 23.12.13