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“L’autodeterminazione delle donne”, di Francesca Izzo

C’è di che preoccuparsi per quel che sta accadendo in Europa sull’aborto. I fatti di questi giorni: tra una scia di polemiche, non è stata accolta dal Parlamento europeo la mozione della deputata socialista portoghese Estrela sui diritti sessuali e riproduttivi, tra cui l’aborto; in Spagna il governo Rajoy presenta al Parlamento una legge drasticamente limitativa delle possibilità di abortire, anteponendo il diritto del concepito alla libertà e alla salute della donna.
I commenti dominanti, come si può facilmente immaginare, da una parte puntano il dito contro un’ondata reazionaria che sta attraversando l’Europa, mentre dall’altra inneggiano alla restaurazione di principi etici. Si profila un nuovo capitolo di una guerra tra «laici» e «cattolici» di cui vorremmo fare a meno. Non c’è dubbio che sia in atto una reazione di una parte larga della popolazione europea, e il rischio da evitare è che la autodeterminazione delle donne resti schiacciata nello scontro tra «liberal-progressisti» e «conservatori-reazionari». Bisogna che ci riprendiamo pienamente la parola, meglio le nostre parole, se non vogliamo che la libertà di scelta delle donne – conquista di civiltà irrinunciabile – venga insidiata dal conflitto tra diritti.

Cos’è che non va nella mozione Estrela, al di là di singoli aspetti discutibili? È la definizione, la classificazione stessa dell’aborto. Viene collocato tra «i diritti sessuali e riproduttivi» che a loro volta sono considerati diritti umani individuali. Così l’aborto si configura come un diritto umano soggettivo. Vale a dire che il potere generativo proprio del corpo femminile si traduce in un diritto individuale di vita o di morte da esercitare nella più totale autonomia. Essen- do catalogato tra i diritti umani non sorprende che ne siano pienamente titolari tutte le donne dal momento in cui diventano capaci di procreare, quindi anche le adolescenti. La maternità a sua volta diventa un diritto individuale, non più effetto e principio di relazioni fondamentali per la socialità umana, e per logica conseguenza nella mozione si chiede di garantire individualmente il diritto alle scelte riproduttive e alla procreazione assistita. Nella legge 194, che vogliamo difendere in ogni sua parte contro i vari tentativi di boicottaggio, non si fa menzione di alcun «diritto» all’aborto, si parla invece di «autodeterminazione», proprio perché la grammatica dei diritti risultò, innanzitutto alle legislatrici che vi lavorarono, fuorviante, inadeguata ad esprimere il nesso indissolubile di libertà e responsabilità compreso nella mente-corpo femminile. Ricorrendo al concetto del tutto nuovo di autodeterminazione fu possibile affermare la libertà femminile senza cadere nella rivendicazione di un diritto individuale all’aborto che avrebbe attivato un corrispondente diritto del concepito, in para- dossale conflitto con la madre. Sono persuasa che la 194 venga considerata una delle migliori leggi al mondo in materia di interruzione volontaria di gravidanza proprio per- ché fa perno sul principio di autodeterminazione, su un principio che manifesta l’irriducibile distanza della libertà femminile dal diritto dell’individuo neutro.

Ora a quasi 40 anni dalla sua approvazione, invece di sviluppare le implicazioni di quel principio, pare che la frontiera più avanzata su cui attestare la libertà delle donne sia quella di esprimere la propria differenza in termini di «diritti sessuali e riproduttivi». Ma questi termini non solo riducono la potenza femminile – che include in sé la relazione con l’altro – a mera richiesta di diritti, ma aprono anche la strada alle operazioni più esplicitamente reazionarie, misogine e punitive come quella del governo Rajoy, che cerca di colpire la libertà femminile brandendo l’arma del diritto del concepito. Opponiamoci con forza a questo attacco in nome dell’autodeterminazione delle donne, va- le a dire in nome della loro libertà e della loro responsabilità verso l’altro.

L’Unità 23.12.13

“Se l’Europa divide l’Italia”, di Claudio Sardo

Senza l’idea di Europa, senza l’aggancio all’euro, la nostra unità nazionale molto probabilmente non avrebbe resistito alle tensioni e agli strappi degli anni Novanta. Ora invece è proprio l’Europa che rischia di diventare il detonatore della polveriera Italia, stremata dalla crisi e dal collasso istituzionale della seconda Repubblica. La campagna elettorale delle prossime europee – con Berlusconi, Grillo e la Lega che si apprestano a cavalcare l’onda anti-euro, più o meno con gli stessi argomenti dei movimenti populisti e xenofobi diffusi nel Continente – può produrre effetti devastanti. Non solo per gli equilibri di Bruxelles e Strasburgo: le parole peseranno come macigni sul Paese e la delegittimazione colpirà inesorabilmente anche gli sforzi di cambiamento delle politiche. Che segno avrà il semestre italiano di presidenza Ue se a maggio le liste euroscettiche conquisteranno da noi, per la prima volta nella storia, la maggioranza dei consensi?

Nelle classi dirigenti e nell’opinione pubblica non sembra esserci coscienza del quadro che si sta componendo e dei pericoli cui andiamo incontro come nazione. Si può reagire con un’alzata di spalle al nuovo corso leghista di Matteo Salvini, il quale ad ogni comparsata in tv ripete che la moneta unica è «un crimine contro l’umanità»? Si può considerare un vaffa tra i tanti di Grillo e Casaleggio la proposta di un referendum per uscire dall’euro? Si può trattare con Berlusconi sulle riforme costituzionali mentre lui stesso usa l’anti-europeismo come arma di ricatto contro il governo e contro il Parlamento che ne ha decretato la decadenza da senatore? Siamo diventati talmente cinici che ormai non diamo peso a ciò che si dice. Tutto sembra ridotto a tattica. Berlusconi? Vuole «soltanto» fare le elezioni politi- che insieme alle europee. Se Renzi accettasse il patto, il Cavaliere potrebbe anche ammorbidire le sue posizioni sul- le riforme e sull’Europa. Altrimenti, sarà guerra totale. Berlusconi è pronto a gareggiare con Lega e Cinquestelle negli attacchi contro l’euro, contro il presidente della Repubblica, contro le istituzioni «illegittime». E solo dei superficiali possono immaginare che tutto ciò non avrà conseguenze sul sistema, sulla società, sul senso comune, sulla fiducia dei cittadini e delle imprese. I Forconi hanno appena abbandonato le piazze: davvero qualcuno pensa che, se venisse meno la prospettiva europea, l’Italia riuscirebbe a mantenere quel minimo di coesione sociale indispensabile all’unità politica e territoriale?

Si dirà che il marcio sta in Europa, prima che da noi: le politiche deflattive, il rigore tedesco, il deficit di solidarietà e di investimenti, le tecnocrazie che sterilizzano le istituzioni democratiche, le banche che valgono più delle domande sociali e dei diritti. Anche in questi giorni l’intesa tra i governi sull’unione bancaria ha consentito un piccolo passo verso la sicurezza finanziaria, ma non si può certo dire che l’Europa sia andata incontro ai giovani senza lavoro, alle famiglie in sofferenza, ai cittadini che vedono sfiorire la qualità del modello sociale. I compromessi europei sono sempre piccoli. Mentre le domande crescono, e crescono pure in modo insopportabile le differenze all’interno dell’Europa. Se non si cambia, si muore. Proprio perché l’Europa è la migliore opportunità che abbiamo. Senza Europa è difficile pensare il futuro. È un paradosso che, mentre molti di noi vedono l’Europa come un ostacolo, in Ucraina e nei Balcani la bandiera dell’Unione viene sventolata come un simbolo di speranza.

Il punto per noi è che l’idea stessa di nazione – e persino l’ordinamento dello Stato – oggi è inseparabile dal processo europeo. Se la ribellione ai morsi e alle ingiustizie della crisi si saldasse all’antipolitica e all’antagonismo contro l’Europa, non ci sarebbe uno spazio nazionale in grado di rigenerarsi da solo. Non ci sarebbe neppure un’uscita indolore dalla moneta unica: né se dall’euro fossimo espulsi, né se dall’euro dovesse uscire la Germania. Sarebbe un dramma anzitutto sociale, con prezzi decuplicati in termini di povertà, disoccupazione, welfare e diritti violati. Del resto, l’in- dubbia crescita su scala continentale dei movimenti populisti e delle destre antieuropee non ha prodotto una politica alternativa. Al contrario, ha accentuato gli elementi di chiusura e gli errori compiuti in questi anni dai governi europei. Non ha liberato risorse, non ha accelerato il processo di integrazione politica che è mancato dopo Maastricht: la verità è che l’onda populista ci porta ancora più a destra e comprime ulteriormente il modello sociale europeo.

Il compito del Pd e della sinistra – nelle prossime elezioni europee, e poi nel semestre di presidenza – è molto difficile. L’Europa, con tutti i suoi gravissimi limiti, è parte di noi. Il suo fallimento ci taglierebbe le gambe. Ma è proprio l’europeismo a imporci oggi un cambiamento profondo dell’Unione. Non si può reagire efficacemente alla deriva euroscettica di tutte le opposizioni italiane, se non proponendo e attuando una svolta, che coinvolga il nostro governo, ma anche Bruxelles e Berlino. Romano Prodi sostiene che bisogna formare un polo con Parigi e Madrid, capace di sposta- re il baricentro del Continente. Anche questa è la battaglia. Cruciale per il decennio che abbiamo davanti. Certo, se le elezioni politiche dovessero sovrapporsi alle europee, il confronto pubblico verrebbe dirottato sulle vicende e le leadership domestiche. Ma non è probabile che ciò accada. Le europee di maggio avranno quindi un grande impatto. Saranno una prova decisiva per Renzi, per Letta, per alleati e avversari. Saranno soprattutto un test di verità sull’Italia.

L’Unità 23.12.13

“Buone idee e meno piagnistei”, di Piero Bianucci

Da due giorni all’ospedale Georges Pompidou di Parigi un uomo vive con un cuore artificiale totalmente autonomo. Il direttore dell’azienda che ha costruito questo dispositivo d’avanguardia è italiano: Marcello Conviti. L’azienda invece è francese. Fondata nel 2008, si chiama Carmat. È nata da un investimento del gruppo industriale Matra Defence e dalle idee di Alain Carpentier, cardiochirurgo oggi ottantenne, con una laurea «honoris causa» all’Università di Pavia.

Bastano questi pochi dati per concludere che gli italiani sanno padroneggiare tecnologie avanzate e i francesi sanno finanziarle. Di conseguenza gli italiani in gamba vanno dove ci sono i finanziamenti. Cioè all’estero.

Un cuore artificiale totalmente autonomo e impiantabile non si improvvisa. Carpentier ci lavorava da decenni. Chi ha una certa età ricorda che negli Anni 50 un cuore artificiale incominciarono a svilupparlo a Torino anche Achille Mario Dogliotti e un giovane ingegnere del Politecnico. I tempi non erano maturi, materiali biocompatibili e microelettronica erano di là da venire. Però l’idea c’era.

Neppure l’industria è del tutto latitante: a Saluggia abbiamo la Sorin Biomedica Cardio, specializzata in valvole cardiache e stent coronarici. Quanto a Matra, è una potenza economica e tecnologica, ma non è infallibile: era suo il software bacato che fece esplodere il primo razzo «Ariane 5» quaranta secondi dopo il lancio da Kourou nel 1996.

Insomma, se non siamo peggio degli altri, e forse in qualche caso siamo persino meglio, cos’è che non funziona?

La risposta è che non funziona il sistema paese. I cervelli sono essenziali, senza creatività domestica non resta che comprare brevetti stranieri: e la nostra creatività scientifica di solito non è domestica perché è costretta a emigrare. In secondo luogo un’azienda ha bisogno di finanziamenti. La Carmat sorge nel 2008 mentre si annunciava la crisi finanziaria mondiale; in Italia il credito si arroccava nei forzieri delle banche, dove rimane. Ancora: un’azienda funziona se ha a disposizione la banda larga, servizi efficienti, ricerca di base pubblica, una giustizia veloce. Tutte cose che qui scarseggiano. Sarà un caso, ma alla Sorin è ancora aperta una vicenda giudiziaria che ha origine da questioni finanziarie datate 2003. C’è infine un altro parallelismo inquietante: Matra è una grande azienda spaziale, noi avevamo l’Alenia, che ora non è più italiana se non in parte ed è controllata dalla multinazionale francese Thales. Curiosa simmetria.

Un giovane con dottorato di ricerca costa mezzo milione di euro. Quando se ne va all’estero, oltre alla fuga del cervello c’è la fuga di un capitale. Queste sono le cose alle quali Letta, Renzi e il ministro Maria Chiara Carrozza dovrebbero mettere mano, appena Brunetta e Casaleggio li lasceranno lavorare.

Non bisogna però esagerare con i piagnistei. In certi casi non servono soldi, bastano le buone idee. I russi Geim e Novoselov con una matita e un po’ di nastro adesivo hanno trovato il grafene, materiale dalle proprietà rivoluzionarie, e nel 2010 hanno vinto il Nobel per la fisica. Una storia simile me l’ha segnalata qualche mese fa Giovanni Appendino, professore di chimica all’Università del Piemonte Orientale: un gruppo di ricercatori (non italiani) ha scoperto che il velo lasciato dal tè verde sulla tazza contiene polifenoli dall’adesività eccezionale e con mirabili virtù antibatteriche e antiruggine. Se poi il tè verde vi sembra troppo esotico, bene, gli stessi polifenoli ci sono anche nel vino. Non è merce cara.

La Stampa 23.12.13

“Tra le donne di Teheran che sfidano gli ayatollah”, di Adriano Sofri

Sono partito per l’Iran dopo aver sentito Lucio Caracciolo, dunque affidabilmente, riferire di un’indagine secondo cui i Paesi del mondo più americanizzanti sono l’Iran e il Vietnam. Notizia che vale quanto un Bignami di storia contemporanea.
Su un cambiamento nel regime e nella posizione internazionale dell’Iran la politica estera guidata da Emma Bonino ha puntato la sua posta più impegnativa, a ridosso delle decisioni sulla catastrofe siriana. Gli sviluppi, preparati segretamente da tempo, hanno mostrato come questa carta pesi per un vasto schieramento internazionale e specialmente per Obama. E anche come sia insidiata dentro e fuori. Negli Stati Uniti, l’opposizione è forte e rumorosa. In Iran, dove la grottesca bancarotta dei mandati di Ahmadinejad ha fatto terra bruciata, il partito dei duri ha dovuto rassegnarsi a un ricambio che si augura provvisorio.
Ancora una volta, si può dubitare che la partita si giochi tutta all’interno del regime, tra la sua ala più fanatica e superstiziosa e quella più aperta, e i diversi interessi che rappresentano. La linea era stata: se hanno fame, mangino nucleare e preghiere. Le sanzioni hanno arricchito i profittatori; i protagonisti del ricambio promettono di dare respiro a produzione e commerci.
Della dilapidazione di Ahmadinejad si parla con vergogna, come di una lunga ubriachezza molesta. Ma al centro del cambiamento sta una doppia questione anagrafica: i giovani e le donne. Gli iraniani sono più di 76 milioni, l’età media è di 27 anni, contro i quasi 44 dell’Italia. Persone che non hanno conosciuto il regime dello scià, la rivoluzione khomeinista, gli otto anni di guerra con l’Iraq. Le donne subiscono costrizioni mortificanti: nell’abbigliamento, nelle separazioni in scuole, mezzi di trasporto, avvenimenti pubblici. Perfino la demagogia stracciona di Ahmadinejad promise di ammetterle come spettatrici negli stadi: è appena venuto il Milan, e nemmeno le signore italiane di Teheran sono potute entrare. Allo stesso tempo, le ragazze sono maggioranza e si distinguono negli studi e nell’insegnamento, guidano l’auto, taxi compresi, altrettanto spietatamente dei maschi (titolo di un thriller necessario: “Attraversare la strada a Teheran”), hanno avuto e avranno una parte di protagoniste nelle ribellioni, come quella bella e generosa del 2009 che anticipò da lontano le primavere arabe e poi ha lavorato in modo sotterraneo per arrivare all’esito attuale. (I persiani, come si sa, non sono arabi).
Una nuvola copre l’Iran, bieca come la cappa di smog in cui l’aereo entra per atterrare a Teheran, ed è la questione di genere e più peculiarmente sessuale. Il fanatismo dei duri del regime, e lo stesso populismo plebeista (e negazionista) che ha egemonizzato così a lungo il governo, ha il suo nocciolo nella sessuofobia e nella paura che le donne evadano dalle loro galere portatili. Nel 1988 la guerra finì, ma le spedizioni punitive contro capelli e gonne no. Un giorno sarà istruttivo confrontare il populismo plebeista che vuole tenere le donne chiuse dentro un sudario nero col populismo ricchista, diciamo così, che va pazzo per gli spogliarelli.
L’apertura internazionale appena inaugurata grazie alla rottura del tabù, vero o recitato, sul nucleare (tabù vero dovrebbe essere, e universale), costringe a confrontare l’Iran, per la condizione femminile come per il sostegno al terrorismo islamista, con l’alleato incrollabile, e il più scandalizzato, più di Israele, dal paventato “cedimento”: l’Arabia Saudita. La Siria è diventata il terreno martoriato del loro cimento, per interposta barbarie alauita e terrorismo sunnita. E’ evidente quale enorme sconvolgimento geopolitico porterebbe il disgelo iraniano, fino a Cina e Russia, che sull’Iran incattivito e rintanato fanno fior di affari economici e politici. E’ altrettanto evidente come si tratti, da parte dei suoi attori, di una scommessa ad alto rischio: con la parziale rassicurazione che lasciare che le cose vadano come vanno garantisce disastri.
In questa scommessa il governo italiano, e personalmente Emma Bonino, si sono impegnati con una risolutezza inaspettata e ancora, in Italia, poco percepita, tanta era l’assuefazione alla rinuncia a una politica estera — cioè a una politica. La posizione di Bonino sull’eventualità dell’intervento in Siria all’indomani della strage mica poteva sembrare estemporanea e contraddittoria con la stessa antica campagna dei radicali (non soli: anche di un Wojtyla, per esempio) per il cosiddetto diritto-dovere di ingerenza. In realtà l’intervento in Siria era stato reso pressoché impraticabile dalla lunga viltà con cui si era abbandonata una popolazione alla repressione feroce della dittatura prima, e poi all’irruzione di un’internazionale del terrore. Appellandosi prima al suo collega russo, Lavrov — che nei fatti avvenne, a metà fra intelligente e furbo, ed esonerò Obama da una promessa solenne che non vedeva l’ora di mancare — poi alla partecipazione iraniana, Bonino aveva maneggiato un’emergenza drammatica (arrivò ad alludere a una Terza guerra mondia-le, e, credo, fece male) per imboccare una strada dotata, una volta tanto, di un orizzonte. Quella strada è diventata, o si è rivelata, comune alla presidenza americana e a una parte consistente benché sconclusionata dell’Unione Europea. Bonino contava su alcuni punti forti: è insospettabile di pregiudizi anti-israeliani, e caso mai sospettata del contrario. Si è procurata una conoscenza non libresca dei paesi arabi e del vicino oriente. E, ciò che mi pare
più contare, è una donna.
Ieri, aprendo la conferenza stampa accanto al collega iraniano Zarif, pieno quanto a lui di buonumore e accoglienza, si è congratulata per la ressa di telecamere, fotografi e giornalisti: «Vedo con particolare piacere tante giornaliste iraniane e mi rallegro con la loro intelligenza, franchezza e professionalità ». Mi sono voltato a guardare le tante giornaliste iraniane, molto giovani quasi tutte, e
ne ho vista una dal viso che rimaneva serio serio, ma solo perché stava ancora aspettando che si completasse la traduzione, per aprirsi poi in un sorriso infantilmente felice, come per un regalo. Sono contento di stampare qui quel sorriso, perché non passi inosservato e inadempiuto. E anche di registrare, in una conferenza stampa distesa quanto vaga, che voleva essenzialmente trasmettere una decisione di reciproca cordialità e ospitalità, la risposta di Bonino sul piazzamento dell’Italia nella gara agli affari (c’è molto da scavare, in questo Iran ibernato dal suo regime, per archeologi e petrolieri, e archeologi petrolieri) che si aprirebbe, si è aperta già, ai primi scricchiolii del disgelo: che vinca il migliore.
Iraniani fiduciosi e preoccupati dicono che se la delusione seguita al fallimento di Khatami si ripetesse oggi col pragmatico Rouhani, la mortificazione della gente sarebbe irreparabile. La popolazione sarebbe disperata se dipendesse dall’insipienza o dal tradimento dei nuovi governanti ed esasperata, e capace di incendiare le piazze, se dipendesse da colpi di coda dei vecchi. Purché non dipenda da insipienza e colpi di mano del resto del mondo.

La Repubblica 23.12.13

“Storia di una crudele illusione”, di Pietro Greco

Cronaca di un rapporto annunciato. La rivelazione de “La Stampa” sul rapporto top secret elaborato lo scorso 4 dicembre dai medici degli Spedali Civili di Brescia sulle cartelle cliniche dei 36 malati trattati con il cosiddetto «metodo Stamina», pone fine – si spera in maniera definitiva – a una vicenda che, vista dall’estero, è risultata persino difficile da credere.

Un signore, laureato in psicologia, senza esperienza scientifica e/o medica nel settore, sostiene di aver messo a punto un metodo, a base di cellule staminali mesenchimali, capace di curare decine di malattie degenerative. Chiede di essere creduto sulla parola, perché non rivela né i risultati di test e neppure il contenuto della sua pozione. Incredibilmente un ospedale, quello di Brescia, applica il metodo a un certo numero di pazienti. I genitori di due bambini e un adulto sostengono di aver ottenuto miglioramenti dopo la cura. Ma ora gli stessi Spedali Civili rivelano che nessun medico ha trovato il minimo riscontro a queste affermazioni.

I documenti pubblicati da La Stampa rivela che gli stessi medici degli ospedali Civili hanno utilizzato il trattamento non seguendo certo alla perfezione le normali procedure cliniche. Non registrando, per esempio, la reale condizione dei pazienti prima del trattamento. Sulla base di affermazioni soggettive da parte dei genitori di due bambini e di un adulto si scatena una campagna di stampa a favore della cura miracolosa. Molti genitori di bambini ammalati e senza speranza, si aggrappano a questo appiglio e chiedono che il «metodo Stamina» venga somministrato anche ai loro figli.

Incredibilmente un numero elevato di tribunali, contro il parere dell’intera comunità scientifica nazionale e internazionale, ordina che il «metodo Stamina» venga somministrato come «cura compassionevole». Molti pazienti protestano, perché questa decisione non è uguale per tutti, ma solo per alcuni. E non si sa bene sulla base di quali considerazioni un tribunale dica sì e un altro no. Grande e inaccettabile l’incertezza del diritto. Il Ministero nomina una commissione scientifica perché verifichi se è il caso di procedere comunque a una sperimentazione. La commissione studia la vicenda e sostiene che non ci sono le condizioni minime per iniziare il trial. Incredibilmente il Tar del Lazio ordina al Ministero della salute di nominare una nuova commissione, paritetica. Ovvero con una congrua delegazioni di ricercatori «favorevoli» alla cura. Intanto Vannoni continua a rifiutare di svelare il contenuto della sua pozione. E, soprattutto, a centinaia di ammalati viene data una falsa speranza.
La prima domanda, al termine (speriamo) di questa triste e incredibile vicenda, è: chi ripagherà gli ammalati e i loro parenti per questa crudele illusione? Questa vicenda, più grave persino di quella Di Bella, che divampò nel Paese 15 anni fa, è stata un formidabile cortocircuito tra medicina, comunicazione di massa e diritto a danno di decine e decine di ammalati. Non solo alcuni medici, ma addirittura un grande ospedale hanno seguito procedure non ortodosse. Dovrebbero spiegare perché. Alcuni mass media hanno contribuito a diffondere le false speranze. Molti tribunali hanno pensato di potersi sostituire alla medicina clinica e alla scienza biomedica, indicando quali cure devono essere somministrate col denaro pubblico e addirittura chi e come deve condurre esperimenti scientifici.
Per un volta l’unica componente a comportarsi bene è stata la politica. Il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha cercato di opporsi a questo delirio. Onore al merito. Tutte le persone coinvolte in questa sconcertante vicenda – medici, giornalisti e giudici – dovrebbero assumersi le propria responsabilità. Tuttavia è proprio la politica a doversi muovere per evitare che in futuro succedano fatti analoghi. In particolare è il Parlamento, ascoltata la comunità scientifica, che deve stabilire bene, con una legge chiara e inequivocabile, cosa debba intendersi per cura compassionevole. E deve stabilire che non tocca ai magistrati, ma, appunto, alla comunità scientifica, stabilire, con chiarezza e trasparenza, cosa è scienza e cosa non lo è. È questo l’unico modo per ripagare, almeno in parte, gli ammalati per le false speranze che sono state date loro.

L’Unità 22.12.13

“America ok, ma soltanto per se stessa”, di Francesca Guerrera

Big Ben ha detto stop. Dubito che Ben Bernanke abbia mai visto Portobello, ma la frase ormai storica di Enzo Tortora descrive perfettamente il momento cruciale dell’economia americana. Da mercoledì pomeriggio, gli Usa devono ritornare a camminare con le proprie gambe perché Big Ben ha cominciato a togliere le stampelle della Federal Reserve. Ridurre lo stimolo che la Fed pompa nell’ economia americana ogni mese da 85 miliardi a 75 miliardi non sembra granché ma è in realtà una decisione storica.

Il messaggio lanciato da Bernanke un mese prima di lasciare la banca centrale americana è chiaro: la ripresa è solida, i consumatori stanno ritornando in negozi e agenzie immobiliari, le aziende sono in buona salute, i mercati in grande spolvero.

A cinque anni dalla crisi finanziaria più devastante del dopoguerra, la Fed incomincia a togliersi di mezzo, lasciando l’economia più capitalista del mondo e i liberi mercati a fare il loro mestiere.

A dire la verità, Bernanke e i suoi hanno aggiunto una dose di zucchero alla pillola un po’ amara del taglio di stimolo: la promessa di tenere tassi d’interesse bassissimi a lungo – un impegno che i mercati adorano.

Come ha detto Michael Fredericks, che gestice 5,5 miliardi di dollari per il gigante dei fondi di investimento BlackRock, ai miei colleghi del «Wall Street Journal»: «Negli ultimi anni, abbiamo vissuto nello scantinato dei nostri genitori, ora i genitori ci hanno detto di andare a vivere da soli».

Funzionerà? È una domanda che vale miliardi di dollari e il futuro dell’ economia del pianeta.

La risposta immediata degli investitori è stata entusiasta. Ero al telefono con un operatore di Borsa alle 2 di mercoledì, quando la Fed ha annunciato la sua decisione e ho trascritto (e tradotto) parola per parola la sua reazione: «Oh… oh… merd… tagliano… tagliano di 10… tassi bassi… ottimo… compra, compra, compra, devo andare». Ha messo giù il telefono e si è messo a comprare azioni a destra e a manca. Così hanno fatto quasi tutti i suoi colleghi e i mercati azionari sono andati quasi in tilt, infrangendo un altro record.

Persino i mercati asiatici, che avevano ricevuto buona parte del denaro a poco prezzo lanciato dalla Fed nelle tasche degli investitori, non sono crollati, fiduciosi che l’economia Usa trascinerà il resto del mondo.

Ed è qui che la situazione si complica e l’ottimismo di investitori e commentatori potrebbe essere eccessivo. I problemi sono due, entrambi fondamentali, ma profondamente diversi. Il primo è se l’economia americana riesce a sorreggersi con la Fed in ritirata. Il secondo è se la stessa economia riesce a sorreggere il resto del mondo.

La risposta al primo quesito è più semplice. Con la disoccupazione in calo, i tassi bassi e l’energia a basso prezzo, gli Usa dovrebbero mantenere una velocità di crociera accettabile.

Anche perché non bisogna esagerare il ripiegamento della Fed. La parola inglese per la manovra di Bernanke è «taper», un verbo preso in prestito dalla sartoria dove vuole dire «restringersi» come i pantaloni verso la fine della gamba. L’idea è quella di un ritiro graduale e preciso, non drammatico e repentino.

E infatti la lunga mano della Fed è ancora presente nel mercato immobiliare. La banca centrale finanzia quasi il 90% di nuovi mutui, tenendo i tassi artificialmente bassi e permettendo a milioni di americani di comprare (o ricomprare) case. E la decisione di tenere i tassi bassi aiuterà i consumi e gli investimenti, dalle spese sulle carte di credito all’acquisto di nuove fabbriche da parte di società. Big Ben ha detto «pausa» più che stop.

In questo senso, i dati sul Pil usciti venerdì – crescita del 4,1% nel terzo trimestre dell’anno – sono molto incoraggianti. L’America è fuori pericolo e quasi alla fine della convalescenza del dopo-crisi, ma non è in condizione di fare la locomotiva per il resto del mondo.

C’è un dato agghiacciante che gli ottimisti dovrebbero tenere a mente. Dalla fine della recessione nel 2009, l’economia americana è cresciuta di solo 2,3% l’anno, quasi la metà della media delle altre espansioni nel dopoguerra. Immaginate quanti posti di lavoro, prodotti e servizi sono stati persi a causa della ripresa anemica degli ultimi quattro anni.

Se gli Usa fossero cresciuti ad un ritmo «normale», oggi l’economia avrebbe aggiunto l’intero prodotto interno lordo di un Paese come il Messico.

A questi livelli, l’economia americana ce la fa a mala pena a trainare se stessa. Con la Cina in fase di transizione politica e l’Europa sempre in crisi, non ci sono altri candidati seri a guidare il resto del mondo. Il che è un problema anche per l’economia americana, soprattutto per l’industria manifatturiera che avrà difficoltà ad esportare i suoi prodotti.

«Nessun uomo è un’isola» disse il poeta inglese del ‘600 John Donne, e lo stesso vale per le economie del 2013. Nell’era della globalizzazione, la crescita economica deve passare da continente a continente per rimanere forte e sostenibile.

In questo momento, l’America è un’isola. Un’isola felice, ma pur sempre un’isola. L’aiuto di cui gli Usa hanno veramente bisogno non risiede nell’ufficio di Big Ben, ma dietro la muraglia cinese, nei piani alti dei grattacieli di Francoforte e nei corridoi del potere di Bruxelles.

Come dicevano i tre moschettieri: «Tutti per uno, uno per tutti».

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del «Wall Street Journal».

La Stampa 22.12.13

“Cassa integrazione record, 1 miliardo di ore”, di Riccardo Rimondi

Non ha ancora superato il miliardo, ma lo farà entro fine anno, per la terza volta dall’inizio della crisi. Secondo la Cgil, anche nel 2013 il numero di ore di Cassa integrazione oltrepasserà quella barriera psicologica già scavalcata nel 2010 (1,2 miliardi) e nel 2012 (1,1 miliardi). «Si prospetta l’ennesimo anno record in termini di ricorso alla Cig da quando, ormai sei anni fa, siamo stati investiti da una violenta crisi» afferma il segretario confederale della Cgil, Elena Lattuada, attaccando la Legge di Stabilità «che non mette in campo misure per invertire la tendenza. La discussione sulla riforma degli ammortizzatori sociali è mossa solo in termini di taglio delle risorse e mancano misure di contrasto alla crisi. Il Paese è in ginocchio e la situazione sociale diventa sempre più insostenibile: serve una svolta e serve ora».
A tutto il 30 novembre sono stati accumulati 990 milioni di ore, un dato sostanzialmente invariato rispetto all’anno scorso (—1,41%). Un numero che lo studio del sindacato traduce in oltre mezzo milione di persone a zero ore, circa 517 mila, ciascuna delle quali perderebbe 7300 euro all’anno al netto delle tasse. In totale, infatti, i lavoratori in Cassa hanno visto un taglio del reddito pari a circa 3,8 miliardi di euro, più o meno l’importo delle entrate statali dell’Imu sulla prima casa nel 2012. Nell’ultimo mese, le ore non lavorate sono state 110 milioni, venti milioni in più rispetto a ottobre. E, dall’anno scorso, è cresciuto del 18% il numero di aziende che hanno fatto ricorso, tra gennaio e novembre,
all’ammortizzatore: nel 2013 sono state quasi seimila. Aumentano quelle che lo fanno per crisi aziendale, mentre diminuiscono gli interventi che prevedono percorsi di reinvestimento e rinnovamento strutturale. «Un segnale evidente del progressivo processo di deindustrializzazione in atto nel Paese », sottolinea lo studio della Cgil. E si creano anche situazioni difficilmente sostenibili sui contributi Inps. Come nel caso della Fiat, che riceverebbe in cassa integrazione più di quanto versa all’istituto previdenziale. Altre aziende, come l’Alcoa, hanno rinnovato la cassa integrazione all’inizio di quest’anno, dopo aver minacciato la chiusura l’anno scorso. Il Centro Studi di Confindustria prevede un miglioramento a partire dall’inizio del 2014, ma le prospettive sono tutt’altro che rosee: secondo il Csc, infatti, proprio la diminuzione della Cig avrà effetti negativi sull’occupazione, che nel 2014 rimarrà sostanzialmente invariata e nel 2015 potrebbe aumentare — nella migliore delle ipotesi — di mezzo punto percentuale. Non migliorerà molto nemmeno il tasso di disoccupazione, che rimarrà superiore al 12% per i prossimi due anni. Un dato, questo, particolarmente preoccupante soprattutto alla luce del fatto che il tasso di disoccupazione non considera le persone inattive: le persone, cioè, che non sono alla ricerca di un’occupazione. E, tra queste, è in continuo aumento l’esercito di quelli che il lavoro non lo cercano perché hanno perso le speranze di trovarlo. Sono i cosiddetti “lavoratori scoraggiati”, che dall’inizio della crisi a oggi sono aumentati del 54,1%.

La Repubblica 22.12.13