Latest Posts

“Noi e loro muti d’orrore”, di Concita De Gregorio

Dice: sono marocchini, tunisini. Se ne stiano al paese loro. Cosa volete che ce ne importi degli africani, non vedete che non c’è da mangiare per noi. Dice: non li vedete i forconi in piazza, e voi ancora lì al tepore delle vostre belle case a menarla con la solidarietà, con l’accoglienza. Dice: pensate agli italiani, prima. Va bene, allora cominciamo da qui. Da una conversazione qualsiasi di quelle che toccano ogni giorno, a volerle ancora sostenere. Quando sei in fila all’Agenzia delle entrate o alle Poste a pagare un bollettino, al forno a comprare il pane. Non ce n’è per noi, cosa volete che ce ne importi di quelli, che poi alla fine sono anche mezzi criminali. Sempre, quasi sempre. Va bene. Allora diciamo che sì, è così: se non ti salvi tu non puoi salvare gli altri, te lo spiegano bene ogni volta che l’aereo decolla. Prima assicurati di aver messo la tua maschera di ossigeno e il tuo giubbotto, poi aiuta il vicino. Il bambino, la donna incinta, il vecchio. Non importa. Prima metti al sicuro te stesso. Perfetto, è giusto. Se poi c’è di mezzo la paura, la diffidenza, il sospetto che il vicino possa essere o diventare un nemico, figuriamoci se c’è bisogno di dirlo. Sono anche mezzi criminali, quasi sempre. La tua maschera di ossigeno, prima.
Però poi arriva, un giorno, il gesto che azzera la rabbia livida del tuo personale benessere negato, il gesto che ti ricorda cosa siamo, tutti, prima dei nomi che ci danno e che ci diamo: esseri umani, siamo. Lo riconosci, quel gesto, perché lascia muti. La conversazione consueta si spegne in uno sguardo che si abbassa, una voce che borbotta, la replica che tarda ad arrivare, non arriva. Cos’hanno fatto? Si sono cuciti la bocca. Come cuciti? Cuciti. Ma le labbra? Le labbra, una insieme all’altra. E come? Con una specie di ago ricavato dal ferro di un accendino, e col filo di una coperta. Otto hai detto? Otto. Quattro tunisini e quattro marocchini. I nomi no, non li so. Non li dicono mai i nomi degli stranieri, solo il numero. C’è una ragione. Il nome ti porta diritto dentro una storia, dentro una vita. Il numero fa numero, e basta. Però dicono l’età. Questi sono ragazzi: vent’anni i più giovani, trenta i più vecchi. Hai detto venti? Venti, sì. Ce l’avete un nipote di vent’anni? Come vi sentireste se tornando a casa lo trovaste con la bocca cucita con ago e filo? Ve lo riuscite ad immaginare? Ecco, così. Tornate e lo trovate col sangue che cola dalla bocca cucita. Allora magari uno torna a casa e va a vedere su Internet le foto del posto dove è successo, il Cie di Porta Galeria a Roma. Cie, che vuol dire Centro di identificazione ed espulsione. Ci si può stare fino a un anno e mezzo in quel posto lì, con le sbarre delle gabbie ricurve verso l’interno, come quelle delle bestie pericolose in certi zoo. Che ora si chiamano bioparchi, in genere, e quelle gabbie non ci sono più nemmeno per le tigri. Allora magari anche se è il sabato prima di Natale e devi andare a comprare il bagnoschiuma per tua nuora, con quei pochi soldi che hai, ecco magari allora ci pensi che in Italia c’è una legge che si chiama Bossi-Fini (ha proprio i nomi di quelli che l’hanno fatta, Bossi e Fini, se ti concentri te li ricordi tutti e due) che autorizza a tenere in quel lager degli esseri umani che hanno l’età di tuo figlio, di tuo nipote, e certo anche tuo figlio e tuo nipote non hanno lavoro ma almeno non vengono annaffiati nudi d’inverno con una sistola, almeno parlano una lingua che la gente intorno capisce, almeno hanno te e se sono in pericolo ti possono chiamare al telefono, vienimi a prendere che c’è un problema serio. Loro no. Quelli che si sono presi le labbra con la mano sinistra e con la destra se le sono cucite non hanno nessuno da chiamare: si possono solo dare fuoco, e certo anche gli italiani lo fanno a volte, si possono ammazzare, anche questo capita senza bisogno di venire dall’Africa, o anche — ti possono dire con questo speciale martirio di ago e filo — nemmeno la parola gli è rimasta più per gridare. La parola, che viene dal pensiero e distingue l’uomo dalla bestia. Non serve più a niente nemmeno quella. Ecco, magari dieci minuti, allora, prima di uscire a comprare il pandoro, ci pensi.

La Repubblica 22.12.13

“Se questa è una scuola”, di Mila Spicola

Mi contatta una mamma e mi segnala che il figlio, chiamiamolo Mario, che frequenta il primo superiore di un noto Istituto Tecnico di Palermo, a scuola è stato aggredito dai compagni «più anziani» e sbattuto contro il muro più volte. «O cavolo, e i miei colleghi?» «I professori non c’erano, i ragazzi erano soli da tre ore perché mi han detto che non ci sono soldi per chiamare i supplenti». Lei se n’è lamentata, coi professori, con il dirigente scolastico ma purtroppo la scuola non ha fondi, non si possono sempre chiamare i supplenti e la mancanza di personale ATA impedisce la custodia dei ragazzi quando c’è un buco. La cosa è stata verbalizzata nel consiglio di classe e così la scuola s’è messa il ferro dietro la porta. Cosa è stato verbalizzato? Che in una scuola italiana si possano lasciare dei minori (con evidenti problemi disciplinari) senza custodia? Ma stiamo scherzando?

«Mi fai vedere questo verbale?» Certo. Lo leggo e si scoperchia il pentolone noto a me ma, parrebbe, ignoto ai più, dell’andamento gestionale da folli, causa mancanza risorse e causa disorganizzazione a tutti i livelli, scolastico, amministrativo locale, regionale e nazionale, degli istituti tecnici e professionali siciliani, estendo, delle scuole in Italia. Torniamo però al caso specifico delle scuole professionali, quelle che dovrebbero forma- re la forza lavoro siciliana (regione in cui la presenza di Neet – cioè coloro che non studiano né cercano lavoro – è massima) e italiana insomma. Chi accolgono al primo anno? Accolgono gli studenti «scartati», quella della fila «vai a sinistra» dell’orientamento scolastico, in cui non vale la predisposizione personale a un ambito disciplinare ma vale solo e soltanto il livello di rendimento, spesso coincidente con il livello sociale. I deboli che «non hanno voglia di studiare» vengono «orientati» alle scuole tecnico professionali. Se va bene le finiscono, nel 30% dei casi invece a Palermo, assolto l’obbligo le abbandonano. Come mai? L’Italia intera si riempie la bocca di parole come «lotta alla dispersione» e «qualità della scuola», in pochi poi scendono da cielo dei discorsi al livello dei singoli casi.

Quello di sopra è uno. Considerate se questa è una scuola. I ragazzi fragili verranno subito bocciati al primo anno, lo frequenteranno un’altra volta e saranno i «compagni più anziani» che si ritrova il Mario di cui sopra. Le prime classi sono un girone infernale. Dimenticate da Dio e dagli uomini. Affollate con una media di 30 alunni per classe, di cui 30 su 30 hanno carenze in lettura e calcolo. Come le recuperi carenze simili in classi di 30? Laboratori eliminati per taglio fondi, strutture fatiscenti, impossibilità di chiamare supplenti. Personale Ata, cioè i bidelli, in rapporti infimi. Mi dice la signora che all’inizio dell’anno scolastico erano 3 bidelli per 1500 alunni. E invece dovrebbero essere come una clinica svizzera, per le cure speciali offerte. Il verbale che ho letto io dovrebbero leggerlo tutti. È di pochi giorni fa la notizia che in questo istituto è caduto un pezzo di soffitto. Tra le righe leggo l’amarezza e lo sconforto dei colleghi, che è anche il mio. Vorrei capire però dal ministro e dai dirigenti degli uffici scolastici regionali, dai presidenti delle regioni del Sud, da chi amministra e gestisce quali sono le azioni che stiamo mettendo in campo.

Quale aiuto e supporto, e non impedimenti di ogni genere, state dando a quei docenti e, soprattutto a quei ragazzi. Sono esattamente quelli di cui i rapporti rilevano la povertà e gli scarsi rendimenti. Mancano i bidelli e mancano i supplenti. Mi spiegate com’è possibile visto che i dati dicono che «docenti e bidelli son troppi»? Chi sbaglia? Parliamoci chiaro: o la dispersione scolastica la combattiamo sul serio, o i livelli di rendimento scarsi li colmiamo sul serio con politiche compensative, con azioni didattiche organizzate sul serio per tutto ciò, con supporti e azioni che non siano la bocciatura o evitiamo di riempirci la bocca con le solite cavolate. Sono scelte dirigenziali. Gestionali e organizzative. Ad ogni livello, d’istituto, locale, regionale e nazionale.

L’INFERNO NORMALIZZATO

Non esiste proprio nemmeno nella grazia di Dio che si lascino dei minori in una classe soli per tre ore a scannarsi. Benvenuti all’inferno normalizzato e accettato di una scuola tecnico professionale della città di Palermo (ripeto, non credo che altrove cambi molto). Sì, è vero, non son tutte così, lo so «ci sono anche le eccellenze», e tutto il mantra annesso e connesso. Io dico senza timore di sbagliare che son quasi tutte così e finiamola di giocare con la vita dei ragazzi. Finiamola con le cacchiate dell’Imu e ricominciamo a pensare alle cose vere e urgenti. Non si lascia una classe piena di minori difficili incustodita. E i responsabili di tutto ciò hanno nomi, cognomi e scelte compiute. Dal ministro all’ultimo dirigente.

Sulla scuola, per favore, meno ipocrisia, meno slogan, meno qualunquismi. La realtà è in quel verbale. Sulla scuola siciliana poi vige il blocco totale di azioni. La lotta alle corruzioni si combatte a scuola dando loro la normale efficienza di funzionamento, non riempendo la testa di questi ragazzi con parole vuote: la legalità è rendere le scuole sicure e funzionanti. Non basta la «didattica innovativa del bravo docente». I fondi d’istituto sono stati tagliati fin quasi allo zero in tutte le scuole, è vero, da Duino a Lampedusa. Ma ciò è ancor più drammatico in scuole come queste e lo è ancor di più in Sicilia dove Regione e Enti locali non hanno attivato azioni di compensazione dei tagli presenti in altre aree.

Sono le scuole come quella di Mario che poi determinano le classifiche tragiche su cui si accaniscono esimi commentatori. Scuole in cui la legalità non è la pratica quotidiana dell’agi- re e quello che prevale è l’orribile lotta alla sopravvivenza, senza regole, senza rispetto e con la prepotenza, a cui la vita li ha già messi di fronte dalla nascita.

E poi mandiamo in galera docenti che alzano la voce in un rimprovero? Che Paese folle siamo diventati? Co- me può un preside lasciare abbandonata e senza custodia una classe di minori, e che minori, per tre ore? Come può un ministro, primo o ultimo che sia, non capire che tagliare i fondi di funzionamento delle scuole significa chiuderle? Come può un ministro non capire che bisogna urgentemente mettere mano all’Autonomia Scolasti- ca non dimenticando gli infernali corridoi degli Uffici Scolastici Provinciali e Regionali?

«Auguri di un produttivo quinquennio», così si conclude il verbale. Non ci sono cattivi ragazzi, ci sono adulti incapaci.

L’Unità 22.12.13

“Chi spara sull’euro”, di Mario Pirani

È difficile interpretare in quale fase si trovi l’Italia. De Rita, nell’ultimo rapporto Censis, indica come la più grave fra le convinzioni che dominerebbero i flussi dell’opinione pubblica, la paura che il Paese si trovi sospeso sull’orlo del baratro: un improvviso ritiro dei sottoscrittori internazionali dalle aste del debito pubblico, difficoltà nei pagamenti degli stipendi e nei rapporti interbancari, accentuarsi incontrollato dei disordini politici potrebbero imprimere un precipitare agli inferi e la perdita del controllo politico e sociale. Nei momenti più bui lo sconforto e la sfiducia prevalgono, poi un dato ottimistico sulla diminuzione dello spread,
sull’aumento delle esportazioni mani-fatturiere, su un passeggero miglioramento della Borsa spingono a dar fiducia alle voci governative secondo cui il peggio sarebbe superato. Ma troppi annunci salvifici ci hanno in precedenza vaccinato.
Oggi si presenta, però, un fatto nuovo, la conquista clamorosa della direzione del Pd da parte di Matteo Renzi, i tre milioni di voti che l’hanno accompagnata con relative manifestazioni di entusiasmo — un evento ormai ben raro — il diffondersi di un ottimismo di sinistra, di cui persino la nostalgia era andata persa. Si tratta certamente di uno stato d’animo positivo di cui vanno colte le potenzialità di un Paese in cui evidentemente lo spirito politico non si è del tutto spento, anzi è pronto a rimettersi in gara. Eppur tuttavia sotto la cenere non si è spenta la brace mefitica dell’antipolitica, il lievitare dei consensi per il M5S, il riconsolidarsi della Lega, l’avvio della riedizione di Forza Italia.
Ma ciò che con più attenzione va colto è il coagularsi sotto diverse cifre di uno spirito antieuropeista, con caratteristiche pecu-liari, riassumibili in una serie di slogan contro l’euro, tutt’altro che innocui. Non bisogna, infatti, illudersi su due cose. La prima che una politica di rilancio e, quindi, di ripresa della spesa pubblica sia alle porte e non abbia fin qui decollato per il convincimento ideologico negativo di una destra testardamente inchiodata a una politica di austerità monetaria e di rientro nei limiti di bilancio. La seconda considerazione, fa invece leva su una rimozione della realtà che porta a ignorare che il domicilio dell’euro e relativi rulli è situato esclusivamente a Francoforte, spirito della realtà che dovrebbe ricondurre a buon senso i riottosi di un ripristino della moneta nazionale. L’alimentazione di questa attesa, destinata al fallimento, rischia così di generare una illusione foriera di forte malcontento. Tornerà la richiesta, che oggi unisce tutte le destre, di un referendum o di una uscita tout court dall’euro e ancora di altre formule dello stesso tipo (un euro forte del Nord e uno più leggero e agile del Sud)? Quando non per virtù magica, un reintegro immediato della lira? Questi slogan porterebbero, anche se soltanto minacciati, a conseguenze rovinose. Il populismo basato sulla facile richiesta della “riconquista della sovranità monetaria!” e, quindi, della possibilità di stampare lire per ossigenare una ripresa che l’austerità dei detentori dei torchi dell’euro ci impedisce, costituirebbe il fulcro della nuova politica internazionale antieuropea. Solo un forte ed efficace coordinamento economico e monetario, incentrato sugli organismi brussellesi, e sul nuovo governo della Merkel, profumata di spirito federale, potrebbe riportare speranza e slancio per disseccare la fioritura populista. Il tutto accompagnato da una forte ripresa della domanda.
Non sarà facile e non dimentichiamo quanti di noi, pur essendosi battuti per l’entrata nell’euro, con lo scoppio della crisi e la sua permanenza, non si sono certo pentiti, ma hanno riflettuto sull’essersi addentrati con troppa fretta e scarsa strategia cooperativa in una avventura senza precedenti priva di ammortizzatori stabilizzati. Forse troppo pessimistiche, ma non certo al vento, le parole del più grande economista del secolo scorso, Milton Friedman, premio Nobel, padre del liberismo moderno, che, richiesto negli anni ’80 sul possibile fallimento dell’euro, rispose: «Spero di sbagliarmi perché un’Europa di successo è nell’interesse sia degli europei che degli americani. Ma non vedo l’autonomia e la flessibilità dell’economia e dei salari… Finora le economie come quella italiana avevano una serie di libertà, fino a quella di lasciar muovere il tasso di cambio della moneta. Ora non avranno più quella opzione».
Naturalmente ve ne sono state altre, come la diminuzione dei tassi nella emissione di prestiti all’estero, ma in realtà vi è un solo potente dissuasore, in caso di crisi dal ripiegare sulla moneta nazionale: il costo enorme che tutta l’economia mondiale in questo caso dovrebbe sopportare. E quando il tema viene affrontato anche in puri termini di principio, la risposta è univoca: «Non si può fare!».
Un noto saggio di Barry Eichengreen (Vox, maggio 2010) spiega minuziosamente perché l’adesione all’euro sia irreversibile. Abbandonare l’euro imporrebbe lunghi preparativi che, tenuto conto della prevista svalutazione, innescherebbero la madre di tutte le crisi finanziarie. Le aziende e le famiglie sposterebbero i depositi in altre banche della zona euro provocando una corsa agli sportelli di dimensioni enormi. Gli investitori nel tentativo di andarsene creerebbero una crisi del mercato dei titoli. Un altro motivo di dissuasione dall’uscita è legato ai costi economici, all’aggiornamento o al cambio di tutti gli strumenti elettronici e contabili e, in rapida successione, a una immediata svalutazione della nuovo moneta con conseguente rivendicazione sindacale di massa e il cambio di valore di salari e stipendi. Infine i tassi di interesse del Paese uscente verrebbero immediatamente super valutati.
Si può forse immaginare che fantasiosi economisti potrebbero sbandierare immaginose soluzioni alternative. Difficile però che siano convincenti, almeno per soggetti razionali.
Resta però che l’opzione dell’uscita non sarebbe in realtà motivata da ragioni economiche o finanziarie ma da un movimento politico eversivo, più o meno di massa. Quale l’esito di un simile catastrofico mutamento dei rapporti di forza, alimentato da una fantasia populista di assai difficile contenimento? Altre volte negli anni ’20 e ’30 Paesi e regimi sono deflagrati in nome di movimenti che alla loro base tutto avevano, meno che una spinta razionale. È immaginabile che solo una forte ripresa della solidarietà politica ed economica dell’europeismo potrebbe ristabilire le basi di una ordinata ripresa dell’ordine e dello sviluppo. Allo stato delle cose è un cammino di cui non si intravede ancora la possibile rotta. Si dovrebbe, però, sapere che altro percorso non è in vista.

La Repubblica 22.12.13

Legge di stabilità 2014, dichiarazione di voto del capogruppo Pd Roberto Speranza

Signor Presidente, abbia un po’ di pazienza, quando non si è abituati alla democrazia ci vuole un po’ di tempo per imparare le regole (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico). Io penso, signor Presidente, onorevoli colleghi, che questa sessione di bilancio arriva in un tempo politico nuovo e a noi parlamentari, a noi partiti politici tocca comprenderlo e viverlo con coraggio. Diremo la verità, tutta la verità perché dire la verità è il primo punto di svolta di questo tempo nuovo e diciamo subito, senza tentennamenti, che la crisi economica è durissima, che ha messo alla prova le nostre famiglie e le nostre imprese e non ne siamo fuori.
  Sappiamo che questa legge di stabilità sta dentro una crisi economica enorme ma il punto, la grande domanda a cui siamo chiamati a rispondere è la seguente: che cosa fa politica ? Quale è la scelta che noi decidiamo di fare per rispondere a questa crisi, a questa inquietudine enorme che arriva dal profondo della nostra società ? E guardate ci sono due strade, due strade diverse, direi due strade opposte, due impostazioni radicalmente diverse. Una prima che abbiamo visto anche qui: urla, insulti, minacce, minacce tremende, le urla di questi giorni, gli attacchi incredibili al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, cui va tutto il nostro sostegno (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico), il cardine delle nostre istituzioni democratiche; gli insulti alla magistratura paragonata addirittura alle brigate rosse: voglio dare anche a loro solidarietà (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Sinistra Ecologia Libertà e Scelta Civica per l’Italia). Noi siamo per la riforma della giustizia ma sappiamo che riforma della giustizia non può significare impunità per uno solo. E poi ancora cose che non avremmo mai voluto sentire: la lista dei giornalisti sgraditi, una vergogna peggiore dello squadrismo del ventennio (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Sinistra Ecologia Libertà) !

  E ancora le foto dei parlamentari che non volete fare entrare in questo Parlamento: ma che fine ha fatto quella parola ? In quest’aula si alzavano Pertini, Berlinguer, Aldo Moro, cosa ci tocca ascoltare ?
  Cosa ci tocca ascoltare (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico) ! E questa è l’Italia che noi non vogliamo. Questa è l’Italia, Presidente Letta, che noi fermeremo. C’è un partito dello sfascio: lo ascoltino bene gli italiani che ci sentono in diretta. Berlusconi e Grillo a braccetto, oggi votate insieme. Voi oggi votate nello stesso modo per affossare l’Italia: ma non passerete, non passereste mai (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Scelta Civica per l’Italia) !
  Signor Presidente, poi c’è un altro modo: il modo delle persone miti, delle persone perbene, il modo di chi dice che vuole assumere fino in fondo l’impegno solenne di provare a cambiare le cose, non chiacchiere ma cambiare le cose.
  E guardate noi ci impegniamo: la legge elettorale entro gennaio, le riforme istituzionali subito, non più il Senato, riduzione del numero dei parlamentari….

  EMANUELE PRATAVIERA. Cosa c’entra con la finanziaria ? Parla delle finanziaria !

  ROBERTO SPERANZA. … e poi un lavoro quotidiano, non scontato (Commenti dei deputati dei gruppo MoVimento 5 Stelle) per prosciugare quel malessere fortissimo che non si può far finta di non vedere. Presidente Letta, serve umiltà e serve coraggio: due parole distinte che sembrano lontane. L’umiltà per capire in che Paese viviamo, quanta sofferenza arriva dal basso e poi il coraggio, il coraggio di provare a cambiare le cose.
  Io penso che in questo tempo difficile c’è chi crede, in questo Paese, che si possa alimentare questo disagio per un misero tornaconto elettorale. Per noi non è così. L’Italia viene e verrà sempre prima di tutto e lo dimostreremo in ogni passaggio (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
  Non è una legge perfetta quella che stiamo approvando, non è una legge perfetta, ma è un’inversione di tendenza. Dopo anni, caro presidente Brunetta, di tagli devastanti, lineari, alla sanità, alla pubblica istruzione, dopo anni di nuove tasse drammatiche che voi avete messo, io penso che noi siamo qui per provare ad aprire una nuova stagione. E lo abbiamo fatto in questo passaggio, seguendo due cardini, due parole d’ordine: crescita ed equità. Crescita, Presidente Letta, la parola che lei, in Europa, sta provando a far emergere con forza, perché il risanamento non basta, abbiamo bisogno di investire sulla crescita. E dal mio punto di vista, dal punto di vista di questo gruppo del Partito Democratico, i provvedimenti per la crescita sono quelli che guardano lontano. E permettetemi di dire che per me guardare lontano significa partire dall’istruzione, dalla conoscenza, dalla formazione (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
  E dico con orgoglio che, grazie a questo partito, a questo gruppo, grazie a noi, abbiamo portato i soldi per le borse di studio da 12,8 milioni, che erano all’inizio previsti per il 2014, a più di 150 milioni: grazie al Partito Democratico (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico). Perché studiare non è un privilegio, è un diritto costituzionale e, se non si parte da qui, non si può costruire un’Italia migliore. Lo dimostra questa scelta, come quella per gli specializzandi in medicina e come quella per gli LSU della scuola.
  E ancora: ridurre la tassazione sul lavoro, quel cuneo fiscale, la distanza inaccettabile tra il salario percepito dal lavoratore e quanto un’impresa paga. È un primo passo avanti, certo non basta, ma per la prima volta, dopo molti anni, tantissimi cittadini italiani avranno in busta paga il segno «più». È la prima volta e lo rivendichiamo con orgoglio, perché è una scelta giusta e con i soldi della spending review vorremmo farla crescere ancora di più.
  E ancora: il Fondo di garanzia consentirà alle banche di riaprire i rubinetti del credito, con l’estensione dell’operatività della Cassa depositi e prestiti: un altro passaggio in continuità con il decreto dei pagamenti, che dà ossigeno alle nostre imprese.
  E ancora: continuiamo a puntare su ecobonus e riqualificazione di tutte le strutture. E l’altro punto, Presidente Letta: l’equità. L’equità è per noi un punto decisivo, significa dare soldi, significa scegliere sempre, in ogni momento, che dare soldi a chi sta peggio conviene anche a chi sta meglio. Il Partito Democratico non rinuncerà mai a questo principio, perché siamo convinti che una società più eguale, una società più solidale è anche una società più competitiva. Per questo abbiamo deciso l’indicizzazione delle pensioni, l’adeguamento al costo della vita, per questo abbiamo deciso una soluzione forte per 17 mila esodati: 17 mila esodati, non le «marchette» di cui parlate voi (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico) !
  E ancora: il contributo di solidarietà per i redditi più alti, sulle pensioni, sui vitalizi, il tetto al cumulo tra pensioni d’oro e altri incarichi pubblici, che proprio noi del PD abbiamo voluto. E ancora, Presidente Letta, mi consenta di dirlo con forza, ci siamo spesi per mettere 400 milioni di euro al servizio delle forze dell’ordine. Noi siamo orgogliosi delle forze dell’ordine di questo Paese e riteniamo sia giusto investire su esse (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l’Italia e Sinistra Ecologia Libertà).
  Ancora: i comuni. Qui ci sono tantissimi sindaci. Il gruppo del Partito Democratico è un gruppo pieno di persone che sono state consigliere regionale, consigliere comunale, assessore comunale, sindaco. Io penso che faccia bene, questo Governo, ad ascoltare il grido di dolore che arriva da questi sindaci con le ultime scelte di queste ore…

  PRESIDENTE. La invito a concludere.

  ROBERTO SPERANZA. … eppure io penso che noi abbiamo cambiato, anche qui, la strada: un miliardo di euro, dopo anni in cui questo Patto di stabilità ci massacrava, finalmente è stato allentato.

  Non siamo più ai tempi di Tremonti, presidente Brunetta, quando si facevano quattro manovre in due mesi e si consideravano i comuni come la cassaforte di un Paese sul baratro (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico – Commenti del deputato Brunetta). Noi amiamo i comuni d’Italia, noi rappresentiamo i sindaci di questo Paese.
  Concludo, Presidente. Il Partito Democratico terrà ancora una volta la barra dritta, la terremo con forza, con umiltà e con coraggio, come dicevo prima. Noi siamo la più grande comunità di donne e di uomini del Paese, lo diciamo con orgoglio, a testa alta, forti dei 3 milioni di persone, non qualcuno nascosto in una stanza: 3 milioni di persone (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico)…

  RENATO BRUNETTA. Andiamo a votare !

  ROBERTO SPERANZA. …che sono venute, hanno scelto una nuova leadership che ci guiderà tutti insieme per portare questo Paese fuori dalla crisi (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico – Congratulazioni).

www.camera.it

“Lo specchio di un paese fragile”, di Giovanni Orsina

Il caso Stamina – osservato qui da un punto di vista non tecnico ma, in senso lato, politico – pare contenere in sé svariati elementi indicativi dello stato di avanzato disfacimento della nostra vita pubblica. mMostra per l’ennesima volta quanta ragione avesse Ennio Flaiano quando scriveva, sconsolato, che in Italia, «paese che amo, non esiste semplicemente la verità» – che se «paesi molto più piccoli e importanti del nostro hanno una loro verità, noi ne abbiamo infinite versioni». Anzi: mostra che da quando Flaiano l’ha formulata quarant’anni fa, questa riflessione è diventata, ahinoi, ancor più vera.

La vicenda Stamina può essere considerata emblematica. In primo luogo, del modo caotico, urlato e prepotente – e in definitiva autolesionistico – nel quale ormai da decenni, ma da ultimo sempre più spesso, le esigenze di questo o quel gruppo vengono imposte all’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni. Certo, qui stiamo parlando di un caso limite, di persone e famiglie disperate che nel metodo vedono la loro unica e ultima possibilità di salvezza. Quelle persone e famiglie, nondimeno, hanno contribuito anch’esse allo sconcerto crescente di un’Italia preoccupata, avvilita e in crisi d’autostima più del solito – un’Italia che ogni mattina si ritrova in piazza un ricatto morale in più: un nuovo diritto sacrosanto, una nuova esigenza imprescindibile, una nuova esasperazione incontenibile. E in questo caso, per altro, un ricatto fondato sulla malattia, la disabilità e la morte. Perciò moralmente irresistibile, forse più scusabile, ma anche, nella sua violenza, meno tollerabile – come ha ben scritto l’altroieri Franco Bomprezzi sul blog «inVisibili » del Corriere della Sera, che da tempo riflette con acume e pacatezza proprio sul problema della «visibilità» dei disabili, dei loro bisogni e dei loro diritti.

Il secondo aspetto della nostra vita pubblica che la vicenda di Stamina evidenzia – tutt’altro che disconnesso dal primo, per altro – è la profondissima crisi di fiducia nei confronti non soltanto delle istituzioni ma pure del sapere tecnico, soprattutto (non soltanto) quando anch’esso proviene dall’interno delle istituzioni. Alla luce di questa diffidenza radicata la lentezza e prudenza del ministero, invece di apparire il frutto necessario della complessità del caso, dell’impossibilità di comprimere i tempi di sperimentazione, dell’esigenza sacrosanta di rispettare protocolli internazionali consolidati, sono immediatamente diventate agli occhi di una larga parte del Paese una conseguenza nel migliore dei casi della sordità e del disinteresse del «Palazzo», nel peggiore della sua subordinazione a interessi occulti e inconfessabili. Là dove invece, stando alle informazioni assai negative che sono uscite sul metodo Stamina da ultimo, ma che nelle istituzioni a quel che sembra erano note da mesi, pare lecito concludere piuttosto che il «Palazzo», se in questo caso ha sbagliato, lo ha fatto non perché ha dato troppo poco ascolto alla «gente», ma al contrario perché gliene ha dato fin troppo. Come di consueto, inoltre, la diffidenza è stata potentemente alimentata dai media – nell’occasione, da un giornalismo televisivo d’inchiesta superficiale e non equilibrato.

La vicenda Stamina è emblematica dello stato della nostra vita pubblica, infine, perché anche in questo caso il percorso è stato complicato dall’intervento della magistratura. Secondo la quale la commissione di esperti nominata dal ministero, avendo i suoi componenti pubblicamente criticato il metodo, non dava sufficienti garanzie di imparzialità. Il tribunale amministrativo ha argomentato la sua decisione sostenendo che la valutazione della commissione dovesse essere al di sopra di ogni sospetto, ossia pretendendo un sovrappiù di fiducia. Nell’immediato, però, ha contribuito piuttosto ad alimentare la diffidenza verso le istituzioni pubbliche e i tecnici che si mettono al loro servizio. Tanto più che, considerate le molte polemiche che hanno circondato il caso Stamina, non solo in Italia, e l’orientamento prevalente degli studiosi, non sarà facile trovare degli esperti di rilievo che non si siano espressi contro il metodo. E tanto più che siamo pur sempre nel Paese dell’assurda condanna inflitta agli scienziati della commissione grandi rischi per non aver previsto il terremoto dell’Aquila.

Perfino nella Penisola, col tempo e un po’ di fortuna, le molte verità di Flaiano talvolta riescono a convergere in una verità unica. Sembra che sul caso Stamina questo traguardo non sia poi troppo lontano, e speriamo che ci si arrivi quanto prima. L’intera vicenda resta però esemplare della fragilità delle nostre istituzioni e della diffidenza che le circonda. Diffidenza non del tutto ingiustificata, certo. Eccessiva, però. E controproducente.

La Stampa 21.12.13

“Europa, il dilemma del prigioniero”, di Tommaso Nannicini

Il consiglio europeo di questi giorni si è concentrato sulle regole dell’Unione bancaria, ma c’è da augurarsi che inizi presto un confronto su come rafforzare l’architettura dell’unione economica senza nasconde- re un altro tema scottante sotto il tap- peto. Le misure sulla disciplina di bilan- cio, inclusa la famigerata regola per cui il deficit non deve sforare il 3%, so- no controproducenti in un periodo di crisi? È sensato ammorbidirle o accon- sentire deviazioni temporanee?

In Italia, si sente ripetere spesso che quella del 3 percento è una regola stupida, decisa e gestita da un manipolo di tecnocrati. In verità, le regole attuali sono il frutto di decisioni tutte politiche prese dai governi europei. E l’Italia si è autoimposta il pareggio strutturale di bilancio con una riforma costituzionale approvata a stragrande maggioranza nel 2012. Chi non ama le regole fiscali dovrebbe esprimersi anche sulla nostra Costituzione.

Detto questo, le regole fiscali sono sempre un po’ stupide, perché ti legano le mani anche quando avresti bisogno di discrezionalità. Ma non sono lì per stupidità. Esistono, piuttosto, per assenza di fiducia. Gli europei le hanno

introdotte perché non si fidano l’uno dell’altro. E gli italiani le hanno recepite perché non si fidano di loro stessi.

L’Europa è bloccata da quello che gli scienziati sociali chiamano «dilemma del prigioniero», cioè l’incapacità di cooperare in vista di un obiettivo comune. Come nel caso di due imputati: se entrambi non confessano, se la caveranno con poco; ma se uno confessa e l’altro no, quello che tiene la bocca chiusa si beccherà una pena severa. Entrambi finiscono quindi per confessare, temendo che l’altro faccia lo stesso. L’Europa si dibatte in un dilemma del genere. I paesi del centro, Germania in testa, dovrebbero accettare un po’ d’inflazione in più e un po’ d’austerità in meno, ma hanno paura che i paesi della periferia si limiterebbero a vivacchiare senza fare riforme per rilanciare la produttività. I paesi della periferia temono che la sola disciplina fiscale li avviti in una spirale recessiva. Come uscirne? Di sicuro, non andando a Bruxelles per sbattere i pugni sul tavolo, come invoca qualcuno. I pugni aumentano solo la sfiducia e la conflittualità, aggravando il dilemma del prigioniero. Purtroppo, l’Italia ha un deficit di credibilità agli occhi dei partner europei e dei mercati. Per colpa dell’alto debito pubblico, ma anche di scelte sbagliate nel passato recente. Non basterà dire che siamo cambiati. Servono azioni concrete.

Il nostro Paese dovrebbe presentarsi ai prossimi appuntamenti europei con misure in grado di rilanciare la crescita potenziale, come la riforma della pubblica amministrazione e della giustizia, la liberalizzazione dei mercati dell’energia e dei servizi alla persona. Con un profondo ripensamento delle priorità della spesa pubblica e un piano credibile di dismissioni per ridurre il debito pubblico. Tutte scelte che non sono a costo zero, perché rimuovere rendite, anche le più ingiustificate, significa imporre rinunce a qualcuno, con potenziali effetti recessivi. Nell’immediato, quindi, c’è un solo modo per farle passare: usare la leva fiscale riducendo in maniera sostanziale le tasse su imprese e lavoratori. E per farlo non si può andare troppo per il sottile. Può rendersi necessario sforare il vincolo sul deficit per qualche anno.

Fare una passo del genere senza pagare un costo enorme di credibilità, senza far scattare un attacco speculativo sui nostri titoli e senza mettere a repentaglio la costruzione europea, richiede interventi coraggiosi e irreversibili, magari attivando qualche forma di «contractual arrangement» (uno strumento che potrebbe essere usato per andare oltre la mera sorveglianza sulla disciplina di bilancio e sugli squilibri macroeconomici, guardando appunto alla crescita potenziale).

Di sicuro, non possiamo pensare di cavarcela con proclami generici. Ma la cosa non deve spaventarci, perché si tratta di fare interventi nel nostro interesse, per salvaguardare il benessere delle generazioni future.

Insomma, se c’è la volontà politica in Italia e la lungimiranza di cooperare a livello europeo, la forma si trova. Le regole fiscali sono come i controlli di velocità: cerchi di rispettarli, ma se scatta l’emergenza premi il piede sull’acceleratore e metti in conto il rischio di una multa. L’importante è non esagerare, mettendo a rischio la propria sicurezza e quella degli altri.

L’Unità 21.12.13

“Pagamento supplenze: siamo ad un punto di non ritorno”, di R.P. da La Tecnica della Scuola

Fino a quando pagavano direttamente le scuole quando il budget era esaurito i supplenti venivano comunuqe pagati, attingendo ad altri fondi. Ma adesso non si può più fare. Si dovranno usare i “risparmi di sistema” che servono anche per gli scatti stipendiali?
La “grana” del pagamento delle supplenze sta finalmente arrivando al capolinea e, a questo punto, Miur e MEF dovranno correre ai ripari per evitare di trovarsi inguaiati in problemi giudiziari non facili da risolvere.
Facciamo il punto: fino a un paio di anni fa i supplenti temporanei nominati dai dirigenti scolastici venivano pagati direttamente dalle scuole che ricevevano dal Miur un apposito budget. Molto spesso il budget era insufficiente e quando la scuola capiva di non avere più fondi a disposizione chiedeva un reintegro al Ministero e, al tempo stesso, iniziava a tenere un po’ di più sotto controllo le nomine effettuate.
Spesso, soprattutto a fine anno, la scuola chiedeva ulteriori fondi al Ministero ma intanto iniziava a liquidare gli stipendi utilizzando la disponibilità di cassa.
In questi casi il Miur comunicava che avrebbe provveduto al reintegro e in tal modo le scuole potevano inserire queste somme nei cosiddetti residui attivi e cioè nei fondi che si è certi di incassare magari nel corso dell’esercizio finanziario successivo.
In questo modo i supplenti venivano retribuiti in tempi ragionevoli, ma purtroppo non sempre il Ministero ha onorato gli impegni tanto è vero che a tutt’oggi le scuole vantano ancora crediti per un totale di almeno un miliardo di euro nei confronti dello Stato.
Da due anni a questa parte il meccanismo è cambiato: il Miur continua ad assegnare un budget che però è solamente “virtuale” nel senso che si tratta di una sorta di “borsellino elettronico” al quale la scuola attinge per disporre i pagamenti dei supplenti che però vengono effettuati concretamente dal Ministero attraverso il cosiddetto “cedolino unico”.
Nel frattempo il Miur ha anche diramato più di una nota per chiarire che le supplenze vanno comunque conferite indipendentemente dal fatto che nel “borsellino elettronico” vi sia la disponibilità necessaria in quanto il “budget virtuale” viene comunque adeguato tenendo conto dei contratti di supplenza inseriti a sistema.
Ma, evidentemente, questo meccanismo ha prodotto una vera e propria “esplosione” della spesa tanto che deve aver messo in seria difficoltà la tenuta dei conti del Miur che, per poter alimentare il capitolo di spesa per le supplenze, deve necessariamente chiederne il reintegro al Ministero dell’Economia.
Adesso, oltretutto, non esiste nemmeno più l’ancora di salvezza delle eventuale liquidità di cassa delle scuole perché il pagamento viene effettuato con il meccanismo del cedolino unico.
Quale possa essere la via d’uscita è difficile dirlo.
D’altronde, a questo, tutto è possibile e non è da escludere che per onorare gli impegni contrattuali assunti con i supplenti il Miur decida di attingere all’unico capitolo ormai di fatto esistente e cioè ai risparmi di sistema che però devono servire anche per gli scatti di anzianità.
Insomma, come avrebbe detto Ennio Flaiano, la situazione è drammatica ma non seria.

La Tecnica della Scuola 21.12.13