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“Malati d’azzardo”, di Daniela Amenta

Già 700mila i giocatori patologici stimati mentre il business di slot, Bingo e poker on line cresce in modo esponenziale. Un affare da 80 miliardi di euro sul quale ha messo le mani anche la malavita organizzata. A curare le ludopatie i presidi sanitari pubblici. «Sono dipendenti senza sostanza, una battaglia impari»

«Per quanto sia ridicolo che io mi aspetti tanto dalla roulette mi sembra ancora più ridicola l’opinione comune accettata da tutti che è assurdo e stupido aspettarsi qualcosa dal gioco. Perche ́ il gioco dovrebbe essere peggiore di qualsiasi altro mezzo per far quattrini?». Così nel 1866 Fëdor Dostoevskij ne Il giocatore, libro mirabile, scritto proprio per pagare i debiti di gioco collezionati dall’autore. La sindrome di cui soffriva anche il romanziere ora ha un nome scientifico: Gap, ovvero gioco d’azzardo patologico. Mercoledì in Russia verranno chiusi tutti i casinò e le sale giochi. Da noi, invece, continuano a moltiplicarsi. Quasi 3 milioni gli italiani a rischio, 700mila stimati come dipendenti. Siamo, d’altraparte, il Paese d’Europa con il più grande mercato «ludico». Le cifre diffuse dal Dipartimento Politiche Antidroga indicano che in Italia, in sette anni, il settore ha registrato un aumento di affari del 450% passando da 22 miliardi di euro nel 2004 agli 80 miliardi del 2011. Giocano tutti: uomini, donne, pensionati, ragazzini, disoccupati. Anzi, la crisi economica ha incentivato addirittura la diffusione di roulette, slot, Grattaevinci, poker on line. E naturalmente, fiutato l’affare, anche la malavita organizzata ha voluto mettere le mani nel grande business, la tassa occulta che gli italiani pagano senza battere ciglio. Sul tema è in atto anche una battaglia politica: proprio mercoledì è stato votato in Senato un emendamento proposto dal Ncd, sostenuto da un pezzo del Pd e da Scelta Civica, che consente al governo di ridurre il trasferimento alle Regioni e agli enti locali che emanano norme restrittive contro il gioco d’azzardo. Renzi ha parlato di «una porcata», il governatore del Lazio Zingaretti è furibondo: «Siamo stati tra i primi a combattere le ludopatie e le mafie che spesso si nascondono dietro questo affare. Non abbiamo alcuna intenzione di fermarci». Anche la Caritas chiede un ripensamento. La questione è complessa, certo. Ma Alfio Lucchini, ex presidente della Federazione italiana degli operatori dei dipartimenti e dei servizi delle dipendenze (FederSerD), non ha dubbi: «Se non si fanno leggi o interventi seri tra cinque anni dovremo prepararci a gestire una vera e propria emergenza. Senza contare che quello che facciamo nelle strutture pubbliche è del tutto privo di fondi. Semplicemente per poterci occupare di Gap rubiamo tempo alle altre dipendenze». E non è un gioco affrontare i malati d’az zardo. Psichiatri, psicologi, medici e assistenti che combattono il problema sul territorio per conto delle Asl sono pochi e con pochi mezzi.

Parliamo di una dipendenza senza sostanze ma dagli effetti devastanti. Chi gioca quasi sempre dilapida conto in banca e affetti: famiglie distrutte, lavoro perso, giri illegali fino al capestro dell’usura. Una patologia che colpisce tutte le classi sociali. Rolando De Luca, responsabile del Centro di terapia di Campoformido (Udine), va giù duro: «È grave che sia lo Stato a fare cassa, nascondendosi poi dietro al più classico dei “non esagerare”: «L’istituzione ha dato il “la” al consumo di massa, e che cosa fa per difendere i cittadini? Inserisce l’azzardo patologico nei livelli di essenziali di assistenza, senza però destinare un euro in più». De Luca ha creato l’Agita, associa-ione degli ex Giocatori d’Azzardo e delle loro famiglie, gestisce dieci gruppi di terapia alla settimana, ha messo su un sito, racconta la disperazione dei malati che non si sentono malati e vanno incontro alla rovina senza alcuna consapevolezza.

Funziona proprio come per l’eroina, la coca, l’alcol. «Un processo di desensibilizzazione dell’organismo che è costretto ad aumentare le dosi per provare le stesse sensazioni». Così il giocatore scommette sempre di più, e più alza la posta, più allontana l’immagine negativa e per- dente di se stesso. Vive in una realtà parallela, inventa bugie per giustificarsi come fanno i tossicodipendenti. Quando ne ha coscienza è in gene- re molto tardi: la patologia si è già cronicizzata. Uscirne è difficile, anche per l’offerta sempre più aggressiva di giochi fuori e dentro casa, ma si può. Lo racconta in un documentario il regista palermitano Francesco Russo. Si intitola Zero- per. Rimettersi in gioco. Titolo quanto mai significativo e, in fondo, pieno di speranze.

L’Unità 21.12.13

“La casa dei Bronzi”, di Francesco Erbani

È la casa dei Bronzi di Riace, ma non solo. Quello che si apre oggi a Reggio Calabria è un Museo archeologico restaurato e in gran parte nuovo. Il suo allestimento è ancora provvisorio: adesso si limita ad alloggiare i due guerrieri, forse eroi mitologici, di cui poco si sa, salvo che sono capolavoro di autori diversi e che risalgono al V secolo avanti Cristo. Ma quando fra sei mesi verrà completata, la sistemazione del Museo documenterà con tanti materiali inediti sia la stagione della Magna Grecia sia altre vicende della storia antica di quella regione. E diventerà un prezioso polo d’attrazione culturale, provando a rovesciare una storia spesso portata ad esempio di trascuratezza verso i beni culturali.
Giunge così a conclusione, con una forte accelerazione finale, e dopo ripetuti stop and go, uno dei cantieri più impegnativi che investono tutela e valorizzazione del patrimonio artistico italiano. Il vecchio museo di Marcello Piacentini è stato integralmente e filologicamente restaurato dallo studio romano Abdr (Paolo Desideri e i suoi collaboratori), dotato di norme antisismiche e di moderni impianti di aerazione. Inoltre l’edificio, risalente al 1937, prima opera pubblica in cemento armato, è stato ampliato e potrà così ospitare reperti finora custoditi nei depositi.
Spiega Simonetta Bonomi, soprintendente archeologica della Calabria: «Con l’allestimento definitivo, mostreremo oggetti mai visti e anche oggetti già visibili, ma in maniera del tutto nuova, privilegiando il loro contesto storico e culturale. Inoltre daremo spazio ai fenomeni precedenti la colonizzazione greca, con materiali provenienti da Sibari e da Caulonia. E metteremo l’accento su fasi ancora in via di approfondimento, come l’età del bronzo e l’età del ferro, o quella dei contatti con i Micenei. Una sezione documenterà la presenza degli Enotri, l’antica popolazione presente in Calabria e in altre regioni meridionali nell’XI secolo avanti Cristo. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’ingrandimento degli spazi espositivi».
Intanto da oggi, con l’inaugurazione cui parteciperà anche il ministro Massimo Bray, il Museo esibisce i suoi pezzi più celebrati. I due Bronzi vennero recuperati nel tratto di Ionio davanti alla spiaggia di Riace nel 1972. Furono esposti al Quirinale nel 1981, suscitando una memorabile ondata di entusiasmo, con file chilometriche che si ripeterono per giorni e giorni. Da allora sono diventati un simbolo, ma la loro immagine è stata anche svilita e deformata ad uso di spot pubblicitari. E tuttora si immagina di trasferirli un po’ dovunque, messaggeri di una malintesa eccellenza italiana. Ora le due statue, restaurate dall’Iscr (Istituto superiore di conservazione e restauro), sono tornate dov’erano, nel museo reggino, ma in sale integralmente nuove. I due guerrieri sono sistemati su piedistalli di marmo separati da un’intercapedine e da quattro sfere, sempre di marmo, che hanno il compito di assorbire le scosse sismiche (l’intervento è stato curato dall’Enea).
Ai due Bronzi fanno da cornice una serie di capolavori forse meno noti, ma di pregio indiscusso e già ospitati nel vecchio museo piacentiniano: le teste di uomini barbuti provenienti dal relitto di una nave affondata al largo di Porticello, a Villa San Giovanni, oppure la testa di Basilea e la testa del Filosofo (entrambe del V secolo a.C.), o, ancora, la testa in marmo di Apollo, il kouros (giovane) di Reggio Calabria. A contrasto con l’antico, nel grande cortile ora coperto da un’avveniristica copertura in tensegrety («un insieme continuo di cavi e puntoni mai realizzato in queste dimensioni in Italia», sottolinea Desideri), le pareti sono impreziosite da un intervento dell’artista calabrese Alfredo Pirri che, sfruttando la luce proveniente dal soffitto, crea una serie di giochi d’ombra.
Il Museo ora avrà un proprio laboratorio di restauro, una biblioteca e, sul tetto, una caffetteria dalla quale l’occhio spazierà interamente sullo Stretto di Messina. Di un nuovo Museo archeologico a Reggio, che fosse all’altezza del grande patrimonio custodito, si parla dal 2006. Originariamente l’allora direttore regionale dei Beni culturali, Francesco Prosperetti, pensò che si potesse costruire un edificio sul lungomare. Ma l’idea venne accantonata e si optò per il restauro del palazzo piacentiniano. Fu sempre Prosperetti ad avviare lo studio preliminare, che venne poi ereditato da Desideri. Il progetto fu approvato da una commissione presieduta da Salvatore Settis e il cantiere venne avviato nel 2010 ad opera di un’impresa di Altamura, la Cobar. Nel giro di un anno e mezzo i lavori erano praticamente conclusi (nel frattempo Prosperetti era tornato a dirigere i Beni culturali in Calabria). Ma mancavano i finanziamenti per l’allestimento interno, sempre curato dallo studio Abdr. Sono stati prima Fabrizio Barca, ministro della Coesione territoriale nel governo Monti, e poi Massimo Bray, a imprimere una svolta. Che ora giunge al suo approdo.
Racconta Desideri: «Abbiamo curato con attenzione la pulizia dell’aria: di fatto i pochi visitatori che a turno entreranno nella sala dei Bronzi saranno puliti da tutte le contaminazioni chimiche e batteriche. Una specie di lavaggio. La parte impiantistica è stata realizzata rispettando la struttura di Piacentini. Abbiamo studiato a fondo i suoi disegni e abbiamo trovato anche le sue lettere a Mussolini nelle quali si lamentava che il ferro previsto per le finestre era stato dirottato per farne cannoni».

La Repubblica 21.12.13

“Questione docente e Leadership educativa di scuola”, di Antonio Bettoni e Antonio Valentino

Recentemente (dal 5 al 7 dicembre scorso) si è svolto a Roma un Convegno Internazionale su “La Leadership educativa nei Paesi dell’Europa Latina: autonomie, identità, responsabilità”(capofila dei soggetti organizzatori l’Università Roma Tre e European Policy Network on School Leadership EPNoSL) che ha visto la partecipazione di 16 paesi dell’Unione Europea.

In quella circostanza l’Associazione professionale Proteo Fare Sapere, coinvolta anche nell’organizzazione, ha presentato un proprio contributo che prende le mosse da un’indaginecondotta su e con un gruppo di Dirigenti Scolastici (DS) e docenti di varie regioni (28 in totale, 12 dirigenti e 16 docenti impegnati a vario titolo o iscritti all’Associazione Proteo) e che nasce in prima battuta come risultato della rielaborazione di una pluralità di apporti raccolti attraversoquestionari e interviste in profondità.

L’ipotesi di lavoro che ha guidato l’indagine e il contributo presentato può essere così sintetizzata: individuare i tasselli più significativi di una gestione democratica (versus gestione leaderistica) delle scuole, considerata non solo come opportuna ma anche potenzialmente più efficace, e di un modello organizzativo (figure e dispositivi, relazioni e condizioni di successo) su cui sollecitare successivamente riflessioni e approfondimenti su una più ampia platea di DS, docenti, altre professionalità della scuola (con particolare riferimento ai Direttore Servizi Generali Amministrativi – DSGA -) ed esperti.

Se ne riportano di seguito in estrema sintesi (tutte le tabelle e le analisi specifiche si potranno trovare sul sito di Proteo Fare Sapere) i risultati dell’indagine e, in modo più disteso, considerazioni e proposte sul tema, sollecitate in gra parte da tali risultati.

Pare utile, rispetto all’indagine e all’ipotesi di lavoro, dare risalto a quanto emerge a proposito dello staff di scuola, che rappresenta una modalità diffusa di organizzazione dei nostri Istituti, per considerarne i diversi modelli e capire se e in che modo possa offrire indicazioni per i nostri ragionamenti.

Aspetti dell’indagine

Lo staff

L’idea prevalente di staff che emerge gli attribuisce le seguenti caratteristiche:

– è comprensivo, oltre che dei 2 collaboratori scelti, anche delle Funzioni Strumentali – FS – (opzione pressocchè plebiscitaria; e non era scontato), anche, per quanto in misura ridotta, del DSGA, ma non dei coordinatori di dipartimento e dei consigli di classe. Scelta quest’ultima che pone interrogativi, ma che è tuttavia comprensibile perché lascia intravedere una visione dellostaff come organismo ‘agevole’ e ‘veloce’;

– in esso i ruoli tendono a rimanere stabili (la rotazione è praticata piuttosto raramente anche per ragioni legate – viene ricordato in qualche risposta – alla precarietà, e quindi al carosello di un buon 20-30% del personale, e, in parte. alle vicende connesse, in questa fase, col fenomeno delle reggenze);

– rispetto alle funzioni, le risposte al questionario presentano diversificazioni tra DS e docenti su alcuni aspetti che vale la pena richiamare. Entrambi ritengono, a maggioranza, che lo staff sia, nella loro esperienza (che probabilmente coincide con la loro visione), “Strumento di collaborazione col DS sul funzionamento didattico-organizzativo della scuola”. Ma, stranamente (?), i DS considerano lo staff meno rilevante come “Strumento di collaborazione col DS sul funzionamento organizzativo-gestionale della scuola” e più funzionale rispetto alla prospettiva di una “leadership aperta, allargata”.

Da annotare qui una voce di dissenso rispetto alla posizione più ‘gettonata’, perché solleva un problema con il quale dovere fare i conti nella costruzione di una ipotesi di lavoro che abbia gambe solide per camminare.

Il dirigente che l’ha espressa così ne parla: “Sono contrario al concetto di staff. Il rischio è che diventi un “cerchio magico” e che allontani la collegialità per arrivare ad una sorta di dirigismo delegato”.

Quanto poi ai dispositivi legati allo staff emerge che:

quasi ovunque non ci sono criteri codificati per la scelta di funzioni e figure;
i compiti non sono sempre declinati in termini di risultati attesi di cui rendere conto al DS o al CD (anche se alla rendicontazione viene data grande importanza soprattutto dai docenti nel funzionamento dello staff);
le riunioni sono saltuarie e raramente legate alla preparazione dei Collegi.

Profilo DS e Leadership educativa

Si può dire – è l’interrogativo – che dai comportamenti e dalle scelte operative non sembra emergere con sufficiente chiarezza una consapevole strategia di allargamento effettivo e di condivisione costruita (attraverso una partecipazione diffusa) dell’area delle decisioni?

Difficile una risposta univoca. Anzi si coglie piuttosto, ancora largamente prevalente, un’ idea di Leadership della scuola che sembra ruotare sostanzialmente attorno alla figura del DS. Al quale si richiede da parte dei docenti – ma dentro la stessa logica si muovono i DS – di essere anche garante della gestione didattica ed educativa della scuola. Nessun riferimento, nelle considerazioni di entrambe le figure, a responsabilità condivise.

Ma, forse, con maggiori probabilità, l’interpretazione dell’oscillazione tra le due posizioni – che si riscontra soprattutto nelle risposte al questionario – è da ricondurre al fatto che ci si muove ancora su un terreno non completamente esplorato ai vari livelli.

Indicazioni comunque utili per dare al quadro fin qui emerso maggiore chiarezza vengono dalle posizioni raccolte a proposito del ruolo specifico da affidare al DS nella eventuale prospettiva di una Leadership che interpelli contemporaneamente e contestualmente DS e docenti.

La maggior parte sia dei DS che dei docenti dà per scontato che la direzione di lavoro sia la costruzione di una Leadership Educativa Diffusa (LED) e che sia prioritario compito del DS costituire a tal fine, con l’assenso del Collegio Docenti, un gruppo di lavoro formato dalle figure di coordinamento e collaborazione dell’Istituto.

Tendenze condivise, incertezze, ambiguità

Ma le posizioni più interessanti al riguardo sono quelle espresse dai docenti. Delle quali si riportano quelle più significative, anche ai fini della costruzione di una proposta operativa. E che fanno riferimento ad azioni:

– di coinvolgimento attivo nella promozione di una LE, sia pure con ruoli e funzioni diverse, del personale e dei “portatori d’interesse”, tramite articolazioni organizzative (Collegio, Staff, Dipartimenti, Consigli di Classe – inclusi Consiglio d’Istituto, staff di Segreteria, RSU, Comitati di genitori), intese anche come contesti di relazione;

– tese (le azioni) a costruire una rete di soggetti dialoganti (collaboratori, FS, DSGA, referenti di progetto, responsabili di dipartimento, coordinatori di classe), capaci di riflettere e progettare, a partire da una continua analisi del lavoro svolto (autovalutazione), al fine di individuare i bisogni che via via emergono e cercare di dare ad essi risposta.

Da sottolineare anche – e conclusivamente – l’orientamento plebiscitario di docenti e DS (tutti) per i riconoscimenti di tipo giuridico – ai fini della progressione di carriera – ed economico, legati all’esercizio – da parte degli insegnanti – di responsabilità connesse a compiti di coordinamento specifico e di leadership condivisa.

Considerazioni provvisorie in 4 punti.

Ai fini di un ulteriore approfondimento e di una proposta operativa al riguardo, sono stati di seguito condensati in 3 punti sia il tipo di approccio specifico alla teoria della LE, sia gli aspetti dell’indagine considerati più interessanti:

Una LED se vuole essere effettivamente educativa e centrata sull’apprendimento deve puntare in modo non equivoco sul protagonismo e sulla responsabilità dei docenti.

D’altra parte abbiamo tutti constatato che nessun rinnovamento si dà avendo gli insegnanti in posizione defilata e passiva (se non addirittura ostile).

Questo riporta in primo piano una diversa considerazione sociale del lavoro docente, un diverso modo di reclutamento, strategie incentivanti e premianti di vario tipo.

Ma anche e contemporaneamente un diverso status in cui peso e responsabilità nel funzionamento didattico-organizzativo complessivo della scuola non siano parole vuote o ambigue.

Oggi gli insegnanti vivono una sostanziale situazione di marginalità e impotenza che va superata in tempi brevi per arrestare l’attuale situazione di declino e rilanciare le sorti della scuola pubblica.

La crescita esponenziale dei livelli di complessità e problematicità del nostro sistema – e dei sistemi di istruzione in generale – è tale che nessun percorso di miglioramento è possibile intravedere all’orizzonte, se non si parte dalla considerazione che nessuna leadership educativa è possibile in assenza di una struttura reticolare interna, nei cui gangli si collochino i docenti come risorsa della scuola come organizzazione.
D’altra parte, nessun DS oggi, per quanto attrezzato professionalmente, può da solopensare di dare corpo ad una LE efficace.

Idea di Leadership Educativa e modello scuola in 10 tesi

A mo’ di sintetiche tesi, si esplicitano di seguito tra le diverse idee sulla LE che vanno per la maggiore, quelle ritenute più coerenti con le considerazioni e gli aspetti di cui ai punti precedenti.

Una LE efficace e promettente o è diffusa/distribuita o non è (non si dà).

In quanto educativa e centrata sull’apprendimento[1], interroga e sollecita nella stessa misura, anche se in modi diversi, gli attori centrali dei processi formativi. Essa riguarda perciò in egual misura DS e Insegnanti. E degli insegnanti, in primo luogo, quanti si dimostrino più disponibili a prendere sul serio le funzioni proprie di una gestione unitaria della propria scuola. E quindi a condividere la vision che la caratterizza e le responsabilità che ne conseguono.

L’idea di Leadership che punta a valorizzare essenzialmente la figura del DS e ad attrezzarlo perché si ponga come Leader educativo è certamente un passaggio importante e preliminare, ma non interpreta adeguatamente la radicalità del passaggio che si richiede nell’attuale fase del nostro sistema (e non solo), in fatto di collaborazione e responsabilità diffuse.
Una LED necessita di incardinarsi in una struttura organizzativa senza la quale l’attività di coordinamento e sintesi operativa non è in grado di produrre:

a) equità (e quindi il superamento – dentro le scuole – dei disequilibri tra classi e corsi);

b) un tessuto identitario comune;

c) disseminazione interna delle pratiche educative.

La struttura reticolare – che non è qui mero dispositivo organizzativo – risponde all’idea di scuola in cui le varie articolazioni del Collegio e della scuola (trama e reti) costituiscono spazi autonomi di elaborazione, ricerca, verifica e sviluppo professionale, presidiati da unafigura leader riconosciuta che sia espressione del gruppo, ne favorisca il funzionamento e ne stimoli la produttività. La scuola tende a configurarsi pertanto come una “costellazione di piccole comunità autonome“ (Serpieri [2]), unità operative le cui figure leader si coordinano all’interno di una struttura (team) che ha nel capo di istituto il proprio punto di riferimento organizzativo (e non solo).

La LE espressa da questa struttura si connota pertanto come sostegno e sviluppo della partecipazione, condivisione e collaborazione responsabile dei docenti in prima istanza. In altri termini, “è il contesto scolastico inclusivo che consente una leadership diffusa e inclusiva” (G. Moretti)[3].

La ricerca internazionale ha posto opportunamente l’accento su altri requisiti di una scuola che voglia adottare un modello organizzativo orientato alla LED. In primo luogo, la scuola come comunità di pratica, in cui la progettazione, la sperimentazione e lo scambio di esperienze didattiche e di strategie educative, diventano strumenti e occasioni di sviluppo professionale. Ma anche la scuola come Organizzazione che Apprende (Learning Organization) e mette in circolo le proprie esperienze e i propri apprendimenti in spazi opportuni (Conferenze di Istituto e altro, come luoghi di rendicontazione, bilancio e riprogettazione). Pensare la scuola come Organizzazione che Apprende significa fare riferimento a strategie – come quelle dell’ApprendimentoCooperativo tra adulti – che poggiano su “condizioni positive di setting e di clima relazionale, su pratiche condivise, sulla fiducia e il sostegno tra pari, sull’autovalutazione continua” (V. Ellerani)[4], come dimostrano le esperienze condotte soprattutto in Finlandia.
La Leadership – è aspetto metodologicamente e politicamente importante – non deve essere vista come scelta di sistema, ma piuttosto come opportunità, riconosciuta alle scuole, di poterla sviluppare e coltivare come opzione qualificante e identitaria. La sua costruzione va pensata come progetto a medio termine perché fa propria un’idea di scuola che, per diventare pervasiva e solida, necessita di tempi adeguati e politiche scolastiche coerenti.
Lo staff aperto alle FS e al DSGA, diffusamente presente nelle nostre scuole, può rappresentare una iniziale, potenziale risorsa – importante ma non sufficiente – in direzione di un modello in funzione di una LED. Ma anche le altre figure di coordinamento, presidio e collaborazione come i coordinatori dei dipartimenti, dei Consigli e dei gruppi di progetto (in altri termini, l’insieme delle funzioni aggiuntive all’insegnamento; cioè di quei docenti più coinvolgibili e interessati a confrontarsi con la scuola come organizzazione complessa) vanno considerati come potenziali risorse da valorizzare. L’esercizio integrato e coordinato delle loro funzioni è leva per un funzionamento più coeso ed efficace dell’organizzazione didattica ed espressione di una Leadership diffusa e non più personale/individuale, come è generalmente oggi.
In un modello organizzativo orientato alla Leadeship diffusa, quella specifica del DS si connota come valore aggiunto di una Dirigenza che fa della centralità dell’apprendimento e della cura della crescita professionale – sua e del personale della scuola – un valore portante, che valorizza e motiva il personale e fa da interfaccia tra i vari soggetti coinvolti nel patto educativo. Una scuola organizzata secondo tale modello non ha bisogno di figure eroiche e necessariamente carismatiche. Un profilo DS per la LED potrebbe essere individuato in un agire professionale volto a ricercare un equilibrio tra due dimensioni tra loro apparentemente divaricate: la direzione, attraverso poteri autonomi, prevista dal D.Lvo 165 (art. 25) e una leadership distribuita, “centrata sull’apprendimento”.

Gli autonomi ed esclusivi compiti del DS vanno visti, in questa ottica, come l’altra faccia – quella istituzionale – della Leadership, di cui il capo di Istituto è soggetto motore.

I compiti e le funzioni delle figure leader all’interno sia delle loro unità operative, siadel team di coordinamento previsto, dovrebbero connotarsi per la loro natura squisitamente relazionale. Ad esse dovrebbe essere pertanto estranea ogni visione gerarchica e leaderistica dei rapporti nel gruppo. La LED è un’idea di scuola e quindi di relazioni, di organizzazione scolastica e di organizzazione della didattica che si ritengono coerenti e efficaci rispetto alla missione.
Puntare sulle figure di coordinamento nella costruzione di una LED non significa relegare sullo sfondo tutti gli altri attori del fare scuola: la scelta della struttura reticolare e delle caratteristiche dei vari nuclei operativi (autonomia coordinata del gruppo e reciprocità nelle relazioni, di cui si dirà più approfonditamente in seguito) ha anche il senso di rendere possibile un protagonismo diffuso degli insegnanti – come gruppo professionale e figure istituzionali – e di una Leadership educativa distribuita.

Una proposta operativa: 3 condizioni e 5 passaggi

In un percorso operativo coerente con i paletti indicati nelle precedenti analisi e considerazioni, c’è da chiarire preliminarmente il discorso sulle condizioni e sugli orientamenti metodologici.

Quanto alle condizioni

È già stato segnalato che possibili leve ed elementi motori possano essere quei docenti che in questa fase rivestono funzioni aggiuntive rispetto all’insegnamento; e soprattutto, tra questi, i collaboratori, ‘le funzioni strumentali’ e i coordinatori di dipartimento nella scuola secondaria.
Il riferimento al 25-30% – secondo la ricerca Treelle del 2004 – di docenti disponibili per progetti di miglioramento, può valere come possibile punto di forza.
È chiaro che funzioni così impegnative che implicano anche responsabilità, per quanto delegate in ordine ai risultati di una LED, vanno riconosciute e valorizzate, prevedentomisure incentivanti sia sotto il profilo giuridico che economico. D’altra parte, i risultati dell’indagine, di cui alla prima parte del presente contributo, confermano con pochissimi dubbi quanto il dibattito generale sull’argomento ha evidenziato.
Comunque, in mancanza – soprattutto – di scelte contrattuali in proposito, ma anche di indicazioni normative adeguate (per esempio, norme di autogoverno che permettano di inscrivere questa scelta all’interno di una possibile autonomia statutaria delle scuole, qualequella prevista dal Disegno di legge approvato, nella scorsa legislatura, in uno solo dei due rami del Parlamento), resta comunque aperta la via della sperimentazione che andrebbe in ogni caso riconosciuta e soprattutto sostenuta economicamente dal Ministero. Non sembra questa una richiesta da luna nel pozzo. Né può costituire alibi la pesante situazione economica del Paese.

Si tratta di capire come tale sperimentazione possa essere sostenuta e se associazioni professionali e organizzazioni sindacali di docenti e DS, ma anche reti di scuola interessate, possano sentirsi elementi di pressione radicale per un’operazione di questo tipo.

Quanto alla proposta, se ne indicano di seguito i punti cardine:

1. Lo staff che conosciamo, anche nella versione allargata alle FS e al DSGA, èorganismo non adatto per l’obiettivo previsto. Non dovrà trattarsi di una struttura di supporto alla DS, ma finalizzato a sostenere e orientare – sulla base di indicazioni e stimoli “circolari” della scuola – la partecipazione delle varie comunità autonome nelle quali si articola il Collegio docenti sulla base del POF di scuola. In essa il DS, per quanto attiene alla Leadeship educativa, non è “il capo”, ma il primus inter pares con funzioni – e responsabilità primaria, dato il suo ruolo istituzionale -, in ordine agli aspetti di raccordo, di coordinamento, di garanzie rispetto alle condizioni ‘materiali’ di lavoro del team.
2. La struttura o team ( nella letteratura in materia del mondo anglo-sassone si parla dileading group) potrebbe essere costituita dalle figure di coordinamento delle varie Unità operative[5], per usare terminologia e costrutti di Piero Romei[6], già operanti nella maggior parte delle nostre scuole (i collaboratori del dirigente scolastico i coordinatori dei dipartimenti disciplinari, le figure delegate per le FS …).
Il modello proposto può rientrare dentro lo schema di ragionamento della Leadershipeducativa diffusa, a condizione però che le figure leader si rappresentino e si esprimano in coerenza con i tratti di profilo specifici delle funzioni aggiuntive e di Leadership di scuola, oltre che di quelli del proprio insegnamento disciplinare.
La rendicontazione sociale dell’attività della struttura di coordinamento, all’interno di una bilancio complessivo, è momento fondamentale di qualsiasi sperimentazione sul tema, oltre che opzione identitaria qualificante.

Questioni aperte

Nei ragionamenti fatti sono rimaste in ombra – assieme al tema della formazione che richiede approfondimenti a parte – soprattutto le questioni che riguardano i rischi possibili del modello proposto.

Se ne riportano di seguito quelli emersi non solo nell’analisi dei questionari, ma anche nelle interviste:

1. il rischio che il team di coordinamento (o comunque lo si voglia chiamare) si trasformi in un centro di potere e dia luogo ad una sorta di middle management di ruoli fissi e definiti in cui le figure leader si snaturino nella funzione di controllori;
2. il rischio di una opacizzazione del ruolo del Collegio dei Docenti;
3. il rischio di figure leader cristallizzate, inamovibili; speculare all’altro rischio della temporaneità dell’incarico e della possibile conseguente dispersione delle competenze.

Come pure sono ancora da approfondire le problematiche riguardanti la formazione dei docenti interessati, le loro attese, la natura dell’incarico. ecc..

Questioni aperte che il dibattito potrà riprendere e approfondire.

da scuolaoggi.org

“La corte dei ricatti”, di Filippi Ceccarelli

Per dimostrare un’opinione, o provarci, a volte tocca essere ruvidi e necessariamente sboccati. Così, per dare un’idea del rapporto instauratosi fra Lavitola e Berlusconi occorre rifarsi a un lacerto di intercettazione telefonica: «Io sinceramente — dice il primo all’allora premier — non credo che ci sia una donna al mondo che se lei le telefona e le dice: “Vieni qua a farmi una pompa”, quella non viene correndo. Dottore, lei mi perdoni se mi permetto ».
LÀ dove lo scopo dell’argomento è ingraziarsi il Cavaliere solleticandone l’immensa e malata vanità; ma rimarchevole è anche il sussulto, vero e proprio fiocchetto con cui Lavitola impacchetta la confezione: «Dottore, lei mi perdoni se mi permetto ».
E sempre un po’ dispiace andare a cercare nei bidoni dell’audio-spazzatura, ma solo rimestando lì dentro si ottiene la prova che Valterino era perdonato in partenza, e dunque senz’altro si poteva permettere quella lusinga. I più esperti fra gli operatori ecologici e giornalistici di questa sozza stagione sanno bene, oltretutto, che fra le mansioni del cortigiano Lavitola quelle attinenti alla sfera intima berlusconiana erano piuttosto secondarie, e a quanto emerso dalle cronache limitate a remoti luoghi tipo Brasile o Panama.
Per incombenze più ravvicinate, da Palazzo Grazioli a Villa La Certosa passando per certe cliniche del benessere nella campagna umbra, il Cavaliere disponeva dei servigi di un altro curioso tipo, Gianpy Tarantini, di cui, con il consueto senso di colpa, comunque si segnala un altro brano telefonico intercettato, per quanto meno triviale del-l’altro, e tuttavia altrettanto rappresentativo. E quindi: «Lei mi deve spiegare una cosa — chiedeva Gianpy — ma alle donne cosa fa? In tanti anni di amici, di frequentazioni che ho fatto, non ho mai visto uno che fa impazzire così tanto le donne, perché ora lei — e qui compare il nome di un’attrice molto bella e popolare — mi ha detto: “Berlusconi è il mio sogno proibito”».
Ora, anche a prescindere dalla reale e invocatissima questione della «ricattabilità », il punto sensibile della vicenda è che i piaceri e le comodità del potere cortigiano prima si trasformano in vizi e poi si risolvono nel loro contrario spintonando il sovrano verso la catastrofe. Non per caso Tarantini e Lavitola parlavano del Cavaliere come di un povero vecchio, e insieme come di un ricco bancomat: «Quello là» lo chiamano, «lo teniamo sulla corda», «con le spalle al muro», «ha il cervello da un’altra parte », «stava cacato nelle mutande».
Tale scomoda condizione, oltre che da un fervido participio passato barese, era sostenuto dalla circostanza che Berlusconi doveva distribuire soldi per far calare il silenzio. Nel caso di Patrizia D’Addario, già illusionista e assistente del Mago Oronzo, questo non fu possibile.
E neanche con Ruby, dopo tutto. Le cene eleganti di Arcore, d’altra parte, vedevano come animatori altri due personaggi, Lele Mora ed Emilio Fede, che su certi prestiti giocavano per così dire in proprio, e che anche per questo la saggezza popolare ha etichettato come il Gatto e la Volpe. Ma ecco che anche loro, da servizievolissimi ancorché ben onerosi cortigiani, si sono mutati in pericolosissimi testimoni.
Il caso di Nicole Minetti e di tante stipendiate olgettine pare lievemente diverso, ma la minaccia che si tramutino in mine vaganti è abbastanza concreto. Da questo punto di vista, esemplare è la recente e subitanea metamorfosi di Dragomira Michelle Bonev, e tanto più lo sarà se avranno seguito gli sviluppi processuali dopo la querela di Francesca Pascale.
Tutto questo e tutti costoro non tolgono nulla alla «massima contemporanea» che uno dei pi ù acuti studiosi di scandali politici, il sociologo Ciro Tarantino, ha intestato all’eterno protagonista di questi anni: «Ognuno è artefice del proprio festino».

La Repubblica 21.12.13

Vignola (mo) – Convegno: Scuola e Impresa: camminare insieme ai giovani verso l’Europa del futuro

PROGRAMMA CONVEGNO 1 FEBBRAIO PRESSO LA SALA DEI CONTRARI
ROCCA DI VIGNOLA
Scuola e Impresa: camminare insieme ai giovani verso l’Europa del futuro.

Ore 9.00/9.15 Saluti iniziali
Valerio Massimo Manfredi, Presidente della Fondazione di Vignola

Ore 9.30 Orizzonte Europa
Introduce Daria Denti, Presidente dell’Unione Terre di Castelli

Intervento di Marco Bellini, Presidente Sistemi Formativi Aziendali srl Confindustria Bergamo
Intervento di Laura Garavini, Deputata Circoscrizione Estero Europa (in attesa di conferma)

Ore 10.15 La Scuola e le opportunità in Europa
Introduce Francesco Lamandini, Assessore alla Pubblica Istruzione

Intervento di Michela Grandi, studentessa partecipante al Progetto M.A.R.I.O. 2013
Intervento di Manuela Ghizzoni, Vicepresidente Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati

Video stage 2013 – Coffee Break (momento con la stampa e TRC per riprese video)

Ore 11.30 Giovani e lavoro
Introduce Emilia Muratori, Vicepresidente dell’Unione Terre di Castelli

Intervento di Franca Popoli, imprenditrice del territorio
Intervento conclusivo di Maria Cecilia Guerra, Viceministro del lavoro e delle politiche sociali

Ore 12.30 Consegna degli Europass agli studenti del progetto M.A.R.I.O. a.s. 2012/2013.

“Coscia PD smentisce Chimienti su Spending review e tagli alla scuola”, orizzontescuola.it

Ci ha chiesto diritto di replica, inviandoci un comunicato, l’On Maria Coscia del Partito Democratico, relativamente ai “presunti tagli alla scuola con la futura spending review”. E noi ne riportiamo il comunicato.

“Le notizie che circolano”, leggiamo nella nota, “sono totalmente prive di fondamento”. Il riferimento è all’audizione informale di ieri del commissario Cottarelli in VII Commissione cultura

“Il commissario Cottarelli – continua lla nota – nel corso dell’audizione proprio in commissione ha anzi precisato e ribadito quanto l’istruzione sia importante e centrale per promuovere crescita e sviluppo e il rilancio del nostro Paese. E per rafforzare questo assunto ha citato numerose indagine internazionali alle quali ha dato il suo contributo. Infine, ha precisato continua la deputata democratica, che il lavoro è ancora nella prima fase e cioè quella dell’acquisizione dei dati da parte di tutti i settori dell’amministrazione pubblica.”

Sulla faccenda, ieri, subito dopo l’audizione, abbiamo ricevuto il comunicato del M5S, con le dichiarazioni dell’On Chimienti che, invece, puntavano su tutt’altra direzione. “Abbiamo chiesto – affermava il comunicato – di avere la garanzia che non si toccheranno neanche per scherzo le spese per la sicurezza degli edifici, per il personale scolastico, per il diritto allo studio. Le risposte non sono state soddisfacenti e il fatto che non si siano ancora individuati settori “intoccabili” dal punto di vista della spesa ci preoccupa e ci indigna perché negli altri paesi europei funziona diversamente: la revisione della spesa parte sempre dall’individuazione dei settori che ne saranno oggetto.”

Vedremo quale versione sarà confermata, saranno i fatti a parlare.

da orizzontescuola.it

“Meno scuola e meno cultura per tutti”, di Raffaello Masci

Meno scuola e meno cultura per tutti. Diciamola così, parafrasando (in negativo) un vecchio slogan elettorale. Questa mattina è stato presentato l’Annuario statistico italiano 2013, realizzato dall’Istat e – tra i tanti dati che emergono dalle 828 pagine del Rapporto – il dato di maggiore impatto è che i giovani italiani non credono più nella scuola come investimento, sia loro che gli adulti – poi – hanno ridotto i consumi culturali. Ma mentre il primo fenomeno (la disaffezione all’istruzione) è il segno di una delusione cocente rispetto all’illusione generata dallo , la caduta della spesa per cultura è sola l’ennesima conseguenza del grattare il fondo del barile quando i soldi non ci sono più.

Per quanto riguarda l’istruzione, l’Istat conferma che nel corso degli anni c’è stato un costante innalzamento del livello di scolarizzazione della popolazione, al punto che ormai quasi 35 (34,9) italiani su 100 hanno un diploma di scuola media superiore e i laureati sono quasi il 12 per cento (11,8) con un’enorme crescita considerando che solo negli anni ottanta erano appena il 4%. Tuttavia l’investimento sulla scuola non convince più di tanto, e nell’ultimo anno ci sono stati 8 mila studenti in meno che si sono iscritti alle superiori, confermando un trend costante degli ultimi anni. Quanto all’università, peggio ancora: le immatricolazioni sono scese di 10 mila unità (9.400): dal 2004 ogni anno sempre meno.

Meno scuola e meno cultura vanno di pari passo, e così – dovendo risparmiare su qualche cosa, con questi chiari di luna – si lesina sui musei, tant’è che i visitatori paganti sono scesi di 4 milioni (3,8 per l’esattezza) e se lo scorso anno 64 italiani hanno partecipato almeno ad uno spettacolo fuori casa, quest’anno siamo a quota 61. Si vendono anche meno libri e, ovviamente, se ne pubblicano di meno: 59 mila titoli contro i 63 mila dell’anno precedente.

In quest’Italia che batte la fiacca culturale, però, ci si sposa un po’ di più (solo un po’, sia chiaro): considerato un costante declino dell’istituto matrimoniale, dalla fine degli anni Settanta in poi, quest’anno c’è stata un lieve inversione di tendenza: 6 mila matrimoni in più rispetto all’anno precedente, ma si tratta di seconde nozze per lo più: I matrimoni religiosi, pur essendo il genere più frequentato (58% del totale) battono in costante ritirata, ma ad alzare la media c’è un forte contributo del Sud (quasi il 75%), mentre al nord sono il 46% e al centro il 49%.

La Stampa 20.12.13