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“No a premi di coalizione”, di Claudio Sardo

La riforma elettorale è necessaria. E non può che nascere da un compromesso. Ma non tutti i compromessi sono equivalenti. Dalla qualità della mediazione dipende l’efficacia del sistema democratico. Bisogna scegliere una rotta nel negoziato. E non dimenticare le ragioni che hanno portato al fallimento di questa cosiddetta seconda Repubblica. Una di queste ragioni è il maggioritario di coalizione: anomalia assoluta del nostro sistema, principio sconosciuto a qualunque Paese occidentale, causa non secondaria del collasso politico.

Il maggioritario di coalizione – entrato nel sistema piegando il Mattarellum, e poi ossificato dall’abnorme premio del Porcellum – ha anzitutto imbrogliato gli elettori. Aveva promesso loro di renderli arbitri delle alleanze di governo, invece li ha derubati. Le liste coalizzate hanno incassato il premio in seggi e, una volta spartito il bottino, si sono separate. Il trasformismo è cresciuto a dismisura, con centinaia di parlamentari che nel corso di una legislatura passano da un gruppo

all’altro. Il maggioritario di coalizione doveva essere la garanzia della stabilità e il nostro «presidenzialismo» all’amatriciana: è diventato invece la garanzia dell’instabilità. E anche una causa della destrutturazione dei partiti. Invece di presentare un proprio programma e una propria classe dirigente, da noi i partiti impiegano il tempo per comporre coalizioni ingannevoli, per ripartirsi aree sociali di influenza, e ogni singola componente chiede il voto per sé in quanto distinta e diversa dai propri alleati.
È decente immaginare un’altra legge con questi difetti del Porcellum? È sensata una riforma che spinga Alfano ad allearsi ancora con Berlusconi, magari per ridividersi il giorno dopo le elezioni? È decoroso un centrosinistra che si propone di riprodurre quella coalizione Pd-Sel, che ha appena preso il premio in seggi più grande della storia repubblicana e non è rimasto insieme neppure un giorno della legislatura?
Ovviamente ha ragione chi dice che gli elettori devono conoscere prima del voto le alleanze eventuali dei partiti. Ma, in tutta evidenza, il premio di maggioranza non dice la verità agli elettori. Forse, investendo su partiti più grandi (e su meccanismi di trasparenza), si può ottenere una maggiore linearità.

In ogni caso, dire no al maggioritario di coalizione non vuol dire affatto rassegnarsi alla frammentazione della legge proporzionale. Si può, anzi si deve costruire un sistema maggioritario che abbia qualche parentela con l’Europa. La condizione minima è che alle elezioni si presentino i partiti, e non coalizioni inevitabilmente finte. Se invece si volesse affidare al suffragio universale la scelta del capo del governo, allora andrebbe cambiata la Costituzione in senso presidenziale e sarebbe intollerabile usare il sotterfugio del Porcellum.

Il sistema parlamentare può essere rafforzato da una legge elettorale maggioritaria, che favorisca governi efficaci e responsabili. Ma vanno appunto premiati i partiti più grandi, non il valore marginale dei partiti più piccoli. Speriamo che la vocazione maggioritaria di Renzi non sia dilaniata nella trattativa. Due sembrano le ipotesi in campo: una riedizione aggiornata del Mattarellum oppure un doppio turno con voto di lista. In entrambi i casi, il compromesso può portare a un ritorno nella gabbia della seconda Repubblica oppure a una liberazione. Il Mattarellum – sistema misto, in parte collegi uninominali-maggioritari, in parte competizione tra liste – può rigettarci nelle coalizioni preventive e fasulle se viene confermato il doppio voto. Se, invece, il voto diventasse unico, i partiti non potrebbero più scambiare collegi con voti di lista. Dovrebbero scalare il governo con la loro proposta e i loro uomini. Gli alleati minori, se davvero omogenei, verrebbero incoraggiati a confluire nella medesima lista, rendendo così il partito più forte e potenzialmente più capace di una disciplina interna.

È vero che il Mattarellum non assicura la maggioranza assoluta dei seggi. Ma nessuna legge elettorale al mondo garantisce di per sé la maggioranza dei seggi. Più che invocare il bipolarismo come se fosse una fede religiosa, è più utile ai fini della governabilità affidare alla sola Camera il voto di fiducia e introdurre la sfiducia costruttiva. Comunque, un sistema misto (con almeno il 50% di collegi maggioritari, senza scorporo e con uno sbarramento non aggirabile) può dare una maggioranza di seggi, anche in una competizione tripolare, se uno dei tre partiti maggiori distacca gli altri di più di 5-7 punti. Se poi una coalizione parlamentare fosse inevitabile, in un sistema così concepito si potrebbe almeno sperare che l’alleanza sia composta da due soli partiti e non da un variopinto guazzabuglio.

Anche il doppio turno può farci precipitare di nuovo nel passato, ammettendo al ballottaggio le prime due coalizioni. Il volto del sistema invece cambierebbe radicalmente se fossero ammesse le due liste più votate al primo turno. A quel punto, i partiti e i loro leader dovrebbero garantire l’omogeneità politica della lista. Ma la legge elettorale può aiutarli rafforzandoli.

L’Unità 20.12.13

“Lezioni americane”, di Silvano Andriani

Mentre in Italia la legge di stabilità si appresta a ottenere il voto di fiducia alla Camera (nonostante le critiche di Confindustria, comuni e sindacati) dagli Stati Uniti giungono segnali del tutto diversi per quanto riguarda le politiche per il rilancio dell’economia e l’uscita dalla crisi. Al di là dell’oceano, Barak Obama ha proposto di aumentare il salario minimo da 7,25 a 10,10 dollari l’ora e la grande maggioranza degli statunitensi è d’accordo con lui. Nel frattempo gli Stati della California e del Massachusets hanno già portato il salario minimo oltre i dieci dollari, la città di Washington sembra orientata ad elevarlo nelle prossime settimane a 12,50 dollari e da qualche parte si propone il livello di 15 dollari. Uno dei punti principali dell’accordo di governo in Germania è l’introduzione di un salario minimo pari a 8,50 euro non lontano da quello già esistente in Francia che, essendo pari al 62% della retribuzione media, risulta il più alto fra quelli esistenti in Europa.

Il motivo più immediato di tali decisioni sta nella volontà di fare fronte alla situazione di indigenza in cui si sono venuti a trovare milioni di lavoratori in tutti i Paesi capitalisti e di porre un limite allo sfruttamento del precariato, dilagato anche in un Paese di relativo successo quale la Germania, ma la tendenza che ha provocato la svalorizzazione del lavoro è di ben più lunga durata e risale alla rottura del rapporto tra dinamica delle retribuzioni reali e crescita della produttività. Edward Luce sul Financial Times ci ricorda che se negli ultimi trenta anni i salari avessero tenuto il passo con la produttività media del sistema economico le retribuzioni della maggioranza dei lavoratori statunitensi pari oggi a 26000 dollari l’anno, sarebbero oggi di 40000 dollari. O, per dirla con The Economist, se il salario minimo dal 1968, anno in cui fu creato, fosse aumentato in linea con la produttività, esso dovrebbe essere oggi di 21,72 e non di 7,25 dollari. Questi dati danno la misura della perdita di valore del lavoro, fenomeno generale, e spiegano perché in tutti i Paesi capitalisti la maggioranza della popolazione ritiene che il futuro sarà peggiore del passato.

C’è dunque un motivo più generale che induce ad aumentare le retribuzioni minime nella speranza che elevando il pavimento l’intera struttura delle retribuzioni aumenti ed è che tale aumento, per dirla con il Financial Times, «… inietterebbe nella anemica ripresa economica uno stimolo più che dovuto senza impegnare un dollaro dei contribuenti». E qui veniamo al punto chiave quello del rapporto tra crescita economica e distribuzione del reddito. Nella recente apologetica commemorazione di Margaret Thatcher, il sindaco di Londra, Boris Johnson, dopo avere tessuto l’elogio delle disuguaglianze, rilancia l’antico mantra per cui il problema principale è aumenta- re la dimensione della torte e non ridistribuirla. Quelli come lui non vogliono apprendere ciò che oltre un secolo di crisi economiche dovrebbe insegnarci: che la distribuzione del reddito condiziona il ritmo, la qualità e la sostenibilità della crescita economica.

Ha ragione Paul Krugman a sostenere che senza un così forte aumento delle disuguaglianze l’attuale crisi non sarebbe scoppiata: la crescita degli ultimi decenni è stata trainata dall’aumento dei consumi privati tale aumento non sarebbe stato possibile, visto che le retribuzioni, i redditi delle grande maggioranza della popolazione, stagnavano, senza l’enorme crescita dell’indebitamento delle famiglie ed è da questo eccesso di debito che è nata l’attuale crisi. Nei trenta anni gloriosi, successivi alla seconda guerra mondiale, quando le retribuzioni reali crescevano in linea con la produttività non ci sono state crisi economiche, né è aumentato il livello del debito privato e pubblico rispetto al prodotto lordo. Coloro che si ostinano a sostenere che aumentare i salari significa ridurre l’occupazione ignorano la realtà che non solo ci mostra che singoli Paesi, tipo Australia, con un salario minimo più che doppio rispetto agli Usa hanno un tasso di disoccupazione nettamente più basso, ma ci mostra che alla generale riduzione delle retribuzioni corrisponde un aumento della disoccupazione. Essi si ostinano a considerare le retribuzioni esclusivamente come un elemento del costo di produzione e non come una componente fondamentale della domanda interna senza l’aumento della quale l’economia non marcia.

Lo stimolo alla domanda interna attraverso l’aumento del deficit pubblico è una misura irrinunciabile in tempo di crisi. E non è un caso che i Paesi che lo hanno usato di più e soprattutto che di più lo hanno finanziato attraverso la banca centrale, come Usa e Inghilterra, vadano meglio. Ma non può durare all’infinito. E non è infinita neanche la capacità redistributiva del bilancio pubblico, che pure deve essere ancora usata. Se la distribuzione del reddito all’origine, cioè tra capitale e lavoro, è squilibrata la redistribuzione attraverso il bilancio dello Stato, supposto la si voglia fare, alla lunga non sarà in grado di riequilibrarla. Perciò parlare di redistribuzione non basta bisogna parlare di distribuzione cioè di ripartizione del prodotto tra capitale e lavoro. La crescita sistematica delle retribuzioni, del reddito della grande maggioranza della popolazione, è una componente insostituibile di una ripresa economica e di una crescita sostenibile.

Alla fine un paio di domande sorgono spontanee. Perché in Italia nessuno, né sindacati, né partiti, propone di introdurre per legge il salario minimo? Eppure si fa un gran parlare di precariato. Perché, visto che aumenta l’interesse per il tema distributivo, non proporre di definire una politica dei redditi di dimensione europea tale da consentire l’aumento delle retribuzioni europee in linea con la produttività nella media dell’Unione europea, tenendo conto delle differenze di competitività esistenti tra i vari Paesi.

L’Unità 20.12.13

“Piano: lo stipendio da senatore a vita per giovani architetti”, di Curzio Maltese

Questo è un racconto di Natale della politica. Ci voleva, in fondo a un altro anno di storiacce e scandali. Sembrava impossibile a molti e ancor di più ai sei architetti di trent’anni, tre donne e tre uomini, che da oggi e per un anno potranno lavorare a rendere più belle le periferie grazie allo stipendio da senatore a vita di Renzo Piano. Con tanti cari saluti agli eroi dell’antipolitica a Cinque Stelle che, dopo aver menato vanto di una riduzione dello stipendio del dieci per cento, avevano polemizzato a lungo contro la scelta di «buttare via soldi pubblici per dare un vitalizio ad altri senatori a vita».
Li abbiamo incontrati ieri gli eletti, nello studio dell’architetto a Genova. Avevano le facce di bambini convocati nella fabbrica di cioccolato di Willy Wonka. Ecco l’elenco: Francesco Giuliano Corbia, 29 anni, di Alghero, laurea a Firenze e master a Barcellona in urbanistica; Eloisa Susanna, 32 anni, Cosenza, laureata alla Sapienza e collaborazione nello studio di Massimiliano Fuksas; Michele Bondanelli, 38 anni, Argenta (Ferrara), studi a Venezia e specializzato nel restauro di centri storici; Federica Ravazzi, 29 anni, Alessandria, esperta in progettazione di scuole; Francesco Lorenzi, 29 anni, romano, laureato alla Sapienza, con esperienze in Spagna, Argentina e Polonia; Roberta Pastore, 32 anni, di Salerno, laureata a Napoli e ora impegnata nel nuovo auditorium di Salerno.
Sei magnifici giovani italiani di talento, quasi tutti con la valigia pronta per tornare all’estero, dove hanno già studiato e lavorato. Finché non è arrivato questo strano bando anonimo su Internet «per un progetto sulle carceri», senza la firma di Piano, per evitare troppa pubblicità. «Non mi aspettavo davvero di finire qui oggi», dice Roberta, «era soltanto uno dei cento curriculum che mandi in automatico e in genere rimangono senza risposta». «O ancora peggio – aggiunge Francesco – che ottengono soltanto proposte indecenti di sfruttamento selvaggio per progetti orrendi. Quando una domenica sera ha telefonato lo studio Piano per fissare l’incontro ho pensato come tutti a uno scherzo». Era invece l’occasione che ti cambia la vita e forse anche il futuro di un pezzo di Paese. Perché i lavori dei sei giovani (coordinati da tre tutor, l’ingegnere Maurizio Milan e gli architetti Mario Cucinella e Massimo Alvisi) diventeranno proposte di legge, materiale per interrogazioni parlamentari, magari
progetti concreti per le disastrate periferie di Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova.
L’idea era maturata in Renzo Piano un’ora dopo la telefonata del 30 agosto nella quale il presidente Napolitano gli annunciava la nomina. «Era l’occasione per completare un percorso», dice Piano, «prima la nomina ad ambasciatore dell’Unesco per le periferie, poi la Fondazione, dove ogni anno accogliamo decine di giovani architetti da tutto il mondo. È anche un modo per dare un segnale di controtendenza a una generazione d’italiani ricchi di qualità, ma ormai rassegnati a non vedere riconosciuti i propri meriti. Ormai l’Italia è l’unico paese d’Europa dove i concorsi, quelli veri, non si fanno più. Qui nessuno ha avuto bisogno di conoscere nessuno, di farsi raccomandare, sono stati selezionati fra oltre seicento candidati e quasi tutti con curriculum notevolissimi » .
Il rapporto fra città e periferia è l’argomento della vita per
Piano. «Fin dalla nascita, sono nato a Pegli, periferia occidentale di Genova. Da studente sessantottino a Milano andavo rigorosamente in periferia per fare politica e anche per divertirmi, ad ascoltare
il jazz al Capolinea, in fondo ai Navigli. E in fondo anche oggi i miei progetti più importanti sono la riqualificazione di ghetti o periferie urbane, dall’università di New York ad Harlem, al nuovo palazzo di giustizia di Parigi nella banlieue ». Senza contare la concorrenza. Nei centri storici italiani hanno lavorato Michelangelo, Bernini, Brunelleschi, Filarete e così via, piuttosto bene. «Appunto, quella bellezza non è merito nostro, ce l’hanno lasciata in eredità. E per fortuna abbiamo smesso di distruggerla negli anni Settanta. Il nostro compito è lasciare a chi viene belle periferie. Le cose da fare sono tante e meravigliose, se soltanto ci fosse la volontà politica. Si potrebbero ridurre in pochi anni i consumi energetici degli edifici del 70-80 per cento, consolidare le 60mila scuole a rischio sparse per l’Italia, rivoluzionare e rendere sostenibile il trasporto pubblico, fecondare le periferie con migliaia di luoghi d’incontro come piazze, mercati, ma anche auditorium, musei, palazzi pubblici. Non è possibile che l’unico luogo d’incontro delle periferie siano i centri commerciali. Sono tutti interventi che creerebbero lavoro, ricchezza, risparmio. E proietterebbero l’Italia all’avanguardia della green economy mondiale».
È un libro dei sogni che da oggi sei giovani architetti italiani proveranno a tradurre in materiale concreto di lavoro per una nuova politica. L’anno prossimo il progetto si rinnoverà con altri sei e così ogni anno. Per questo e molto altro, lunga vita a Renzo Piano.

La Repubblica 20.12.13

Ritorno a Prato tra gli schiavi “Questo non è Made in Italy”, di Adriano Sofri

Manuele Marigolli ha 57 anni, operaio tessile dai 16 ai 30, poi sindacalista, segretario della Camera del Lavoro di Prato, è oggi alla Cgil Toscana. «Due anni fa si rivolse a noi una lavoratrice cinese e fece causa: vinse, ma tornò in patria. Non avrebbe più trovato lavoro, e temeva per la propria incolumità «Abbiamo sbagliato, pensando che col tempo si sarebbero integrati. Pensavamo: quando uno è così sfruttato, prima o poi si ribella. Il clandestino è uno che vuole mettersi alle spalle una storia disperata, non ha un’andata e un ritorno. Il cinese no, entra col visto turistico, diventa clandestino quando scade. Non la vive come una persecuzione, ed è così debole che non può rivendicare niente. Anche quando hanno formalmente un lavoro subordinato, è un vassallaggio. Il castellano col servo della gleba: gli dai da mangiare, da dormire, gli fai fare la guerra, e gli scali tutto: cibo, loculo, Inps, Inail, Irap, tasse».
Manuele Marigolli ha 57 anni, operaio tessile dai 16 ai 30, poi sindacalista, segretario della Camera del Lavoro di Prato, è oggi alla Cgil toscana.
«Due anni fa si rivolse a noi una lavoratrice cinese e fece causa: vinse, ma tornò in patria. Non avrebbe più trovato lavoro, e temeva per la propria incolumità. Dovremmo riservare a queste scelte la tutela che si dà ai collaboratori di giustizia. I neonati cinesi a Prato hanno superato gli italiani. Però i cinesi li mandano a scuola, i bambini. E non si addormentano più sui banchi per aver lavorato di notte come Coretti nel libro Cuore.
Quella dei cinesi è un’epopea silenziosa. Arrivano a San Donnino e Campi a fare pelletterie, anche per le griffes. (C’è differenza fra griffes, marchi e semplici nomi). Si spostano su Prato e prendono la parte finale della maglieria, la più povera. Soppiantano gli italiani nel lavoro a domicilio, il “taglia e cuci” dei pezzi di lana per i maglioni. Era avvenuto là il decentramento degli anni ’60 e ’70, il tessuto greggio andava nelle case e le donne smollettavano i nodi, ripassavano un filo, le tavole da pranzo avevano i mattoni sotto per inclinarle di 30 gradi, e sotto la pezza giocavano i bambini. Da bambino mi chiedevo perché la gente andasse a piedi per Prato con la bicicletta da donna caricata da un grosso rotolo di pezza. Alla fine degli anni ’70 c’erano 70mila addetti al tessile, un dipendente del Comune guadagnava sì e no la metà. In 4 sabati, lavorando la notte in un’altra fabbrica, nel 1973, a 3.000 lire l’ora, mi comprai il motorino. La crisi forte arrivò a metà anni ’80, e la città della lana sentì la mutazione della domanda, le giacche a vento al posto dei cappotti, e passò ad altre fibre. È lì che si liberano gli spazi, capannoni artigiani, lavorazioni a monte, tessiture, filature. E questi cinesi cominciano come formichine a risalire la filiera, dalla maglieria fino al capo finito, e poi alle bancarelle, ai negozi. La lunga marcia si salda con l’interesse dei locali: pagano affitti esosi per la fatiscenza dei capannoni, e la città che ha smesso di produrre, piccoli artigiani, magari compagni della Casa del Popolo, gli affittano 10 telai… Ricordati che alle 4.000 confezioni di oggi corrispondono 4.000 affittuari, una rendita ingente (e largamente al nero). E consumano, mesticherie rifioriscono per tirar su i soppalchi negli stanzoni. Tutti hanno fatto finta di non vedere. Nei cinesi che ci dormivano vedevamo una replica dei mugellani di don Milani, che facevano lo straordinario, perdevano la corriera e restavano a dormire sulle pezze.
Cos’abbiamo fatto? Denunciato, ti dò le relazioni. Mai abbiamo avuto un rapporto fiduciario coi cinesi. Abbiamo fatto volantini, tatzebao in cinese. Forse ora cambia. Siamo in un tempo che somiglia al mutuo soccorso delle nostre origini.
Arriva la crisi del tessile, dal 2001: dietro c’è l’avvento della produzione cinese, ma della Cina. C’era una domanda alta di immobili, gli imprenditori chiudono e lucrano. Noi volevamo favorire chi si associasse per fare capannoni più ampi, ma li davano ai cinesi. L’illegalità fa lievitare i prezzi, ma loro hanno disponibilità enormi di liquido. L’illegalità è reciproca: gli abusi dei capannoni riguardano i proprietari. Senza la corresponsabilità dell’affittuario non si viene a capo della separazione fra luogo di lavoro e luogo in cui si mangia dorme e vive. Quanto agli sfruttatori cinesi, bisogna colpire gli interessi: l’integrazione coi discorsi non si fa. L’interesse primo è della Cina: e se non si interviene sulle rimesse, non negoziano.
Arrivano le pezze scadenti, sdoganate a Napoli. Hanno comprato le tintorie perché hanno acqua e scarichi, e invece hanno riconvertito a tintoria e stamperia aziende a umido. Bisogna seguire il viaggio della pezza fino alla notte fonda in cui vengono i camion a caricare. L’assessore-poliziotto va dove cuciono e dormono, ma non è là il nevralgico della produzione. La confezione chiusa passa al prossimo. Se verifichi le bolle dei camion, la composizione chimica delle stoffe, colpisci l’equivalente di 200 aziende di prestanome. E mentre difendi la legalità devi premiare chi denuncia gli aguzzini: anche in forme inedite, perché i cinesi sono inediti. Li vedo ancora come un’occasione, un nostro figlio che vada a scuola con un ragazzo cinese è un’opportunità per ambedue. Io non ho avuto un amico cinese nella vita, e sono triste. Qualche giorno fa si sono persi tre cinesi in Calvana, il monte dei pratesi. Che abbiano avuto voglia di salirci fa sentire fino a che punto possano aver voglia di ambientarsi.
La tracciabilità che abbiamo concordato con Gucci, sull’intera filiera, non si può applicare a volumi enormi come a Prato. Però le fasi di lavorazione sono accertabili: 1) dove si è filato; 2) tessuto e 3) confezionato. E l’etichettatura deve comprendere la salubrità, le tinture nocive: le informazioni che dai sugli alimenti. Chi acquista sceglierà sul rapporto prezzo-qualità. Quando ci si copre non più per il bisogno ma per il desiderio, c’è qualcosa di emotivo che si comunica col prodotto –brand, taglio, design- ma dev’esserci anche la garanzia. E non si può fare senza cambiare la normativa del Made in Italy. Nel 1995 feci fare, da segretario dei tessili, uno studio sulle città italiane nel mondo. Le più conosciute erano Palermo (Napoli inclusa) per la mafia, e Firenze, la culla della bellezza. Proposi il marchio toscano sui nostri manufatti. La Confindustria toscana era contraria, perché li obbligava alla trasparenza. La stessa miopia dei pratesi che affittavano. Se nella 5th Avenue vedi una cosa italiana a 1.000 dollari e pensi che l’hanno fatta i cinesi bruciati a Prato… Bisogna ristabilire una barriera fra l’illegalità e la bravura e il gusto: il lavoratore ci mette del suo, nel dettaglio, tante sfumature di grigio, davvero, modi di cucire. Per la “nobilitazione” del tessuto, cardatura, cimatura, non c’è posto al mondo come Prato. Qualsiasi balla greggia te la fanno splendere. Ti presento Marino Gramigni, ha 76 anni, il più grande esperto di rifinitura, e prima suo padre. Il pettinato lo sanno lavorare tutti, ma nel cardato si allineano fibre corte, perse nelle filature a pettine e recuperate come materia prima. I cinesi che vogliono possono davvero continuare la filiera. Il Made in Italy, così com’è, ce lo appiccicano su, e non è illegale. Riempiono l’Europa dell’est di un prodotto che si vanta italiano. Il venerdì a Prato si muovono migliaia di tir. Dev’esserci una clausola sociale: quando lo acquisti devi sapere che c’è lo sfruttamento del lavoro, ma non lo schiavismo».

La Repubblica 20.12.13

“Sempre meno iscritti alle superiori, quasi 2 su 10 fermati al primo anno”, di Alessandro Giuliani

A sostenerlo è l’Istat, attraverso l’Annuario 2013: nell’a.s. 2011/12 si sono persi 7.800 allievi. Ma non è una novità: la tendenza negativa è al quarto anno consecutivo. In compenso la scolarizzazione è passata in 12 mesi dal 90% al 93%. Ma la Commissione europea ricorda che nello stesso periodo l’Italia è stata tra le peggiori cinque d’Europa (su 28) per abbandoni: lasciano i banchi troppo presto il 17,6% di alunni contro la media Ue del 12,7%.
Nell’anno scolastico 2011/2012 il numero di studenti iscritti alle scuole superiori si è complessivamente ridotto di circa 4.600 unità rispetto a quello precedente. A sostenerlo è l’Istat, attraverso l’Annuario 2013. Nel rapporto annuale, l’istituto di statistica ha quantificato in 8.961.159 gli studenti iscritti. Con la riduzione di alunni confermata per il quarto anno consecutivo. A scendere di numero sono soprattutto gli iscritti alle scuole secondarie di secondo grado (-7.800 unità circa).
L’Istat ha anche rilevato che il tasso di scolarità si attesta ormai da qualche anno intorno al cento per cento per la scuola primaria e per la secondaria di primo grado, mentre presenta una ripresa – dal 90% del 2010/2011 al 93% – quello della scuola secondaria di secondo grado.
Considerando tutti gli ordini scolastici, l’aumento della scolarizzazione ha prodotto, nel corso degli anni, un costante innalzamento del livello di istruzione della popolazione italiana: la quota di persone con qualifica o diploma di scuola secondaria superiore raggiunge il 34,9% (34,5% nel 2010/2011), mentre sale all’11,8% la quota di chi possiede un titolo di studio universitario (11,2% nel 2010/2011).
Tuttavia, c’è poco da gioire: secondo la Commissione europea, nel 2012 in Italia il tasso di abbandono scolastico ha continuato a rimanere alto: rispetto alla media dei 28 Paesi dell’Ue, scesa al 12,7%, e all’obiettivo del raggiungimento del 10% entro il 2020, ci sono ancora cinque Paesi ancora molto lontani dalla meta. Tra questi figura l’Italia, oggi al 17,6%, che per numero di 18-24enni che hanno lasciato gli studi prima del tempo è riuscita a fare peggio anche della Romania, che è al 17,4%.
“Non può consolarci sapere – rileva l’Anief – che in Spagna lasciano la scuola prima del tempo, acquisendo al massimo il titolo di licenza media, il 24,9% dei ragazzi. E che anche Malta (22,6%) e il Portogallo (20,8%) sono degli esempi da evitare. Mentre sono sicuramente da prendere in considerazione quei 12 Paesi dell’Unione che hanno già raggiunto e superato l’obiettivo del 10% di dispersione. E pure Germania, Francia e Regno Unito, quasi prossimi al raggiungimento della soglia”. Il numero di alunni che lasciano gli studi troppo presto risulta particolarmente alto “in Sicilia, Sardegna e Campania, dove vi sono aree con punte di abbandoni scolastici del 25%. E il periodo più a rischio abbandono rimane quello dei 15 anni, quando i ragazzi frequentano il biennio delle superiori”.
“L’allontanamento dall’Europa in merito alla dispersione scolastica – ha commentato Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – non è un dato casuale. Ma è legato a doppio filo ai tagli a risorse e organici della scuola attuati negli ultimi anni”.
Tornando ai dati Istat, per quanto riguarda gli esami di terza media, l’istituto nazionale di statistica ha rilevato che sono superati dalla quasi totalità degli studenti (99,5%). Però, solo il 6% supera l’esame con il voto più alto, mentre il 58,2% consegue il titolo con un voto uguale o inferiore al ‘sette’.
A proposito del numero di alunni respinti, invece, l’Istat ha calcolato che quelli che ripetono l’anno nelle scuole secondarie di secondo grado sono il 6,3% degli iscritti (7,9% maschi e 4,5% femmine): le ripetenze scolastiche sono maggiori nel passaggio dal primo al secondo anno. Infatti, in questo periodo formativo superiore la percentuale di alunni respinti sale al 17,5%. Una percentuale che attraverso delle attività di orientamento più incisive si potrebbe sicuramente ridurre.

La Tecnica della Scuola 20.12.13

Napolitano su Lampedusa: “Episodi inammissibili”, di Francesco Viviano

Anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, interviene sullo scandalo scoppiato nel centro di accoglienza di Lampedusa dopo la diffusione delle immagini sui migranti nudi “innaffiati” all’aperto per curare la scabbia. «Voglio che Lampedusa sia soprattutto un simbolo di impegno umanitario e solidale del nostro Paese, che non può essere messo in ombra e screditato da episodi inammissibili come quello venuto in questi giorni alla luce». Parole durissime che arrivano mentre il Cie viene adesso svuotato per consentire la ricostruzione della struttura parzialmente distrutta da un incendio di tre anni fa e che, fino ad ora, non ha mai garantito condizioni umane per le migliaia di emigranti approdati nell’isola. Un centro, quello di Lampedusa, che di fatto sta per essere smantellato e che, dopo la diffusione delle immagini del Tg2, girate da un profugo siriano, ha decapitato i suoi vertici, Cono Galipò e Federico Miragliotta, “licenziati” dal ministro degli Interni. Alfano ha rescisso il contratto con la loro cooperativa che gestiva il centro dal 2007 e che adesso sarà probabilmente affidato alla Croce Rossa Italiana. «Una decisione dura, ma sui principi non si transige. Lo Stato e il governo italiano non possono accettare che sul proprio territorio nazionale ci siano situazioni di violazione dell’integrità e della dignità della persona », ha dichiarato Alfano. «Abbiamo voluto che l’opinione pubblica, anche internazionale, lo avesse ben chiaro». Un intervento che sarebbe stato apprezzato dalla Ue. I fondi dunque non saranno bloccati, anche se l’Italia resta sotto osservazione.
Ieri dal Cie sono stati trasferiti in altre località italiane quasi duecento migranti. Attualmente quelli rimasti nell’isola sono poco più di duecento anche loro in attesa di essere trasferiti in altre strutture. Tra questi c’è anche l’autore del video shock, Kalid, che ha scritto una lettera al presidente Napolitano chiedendo “l’immediato trasferimento” dal Centro di accoglienza di Lampedusa dove si trova dal 3 ottobre, il giorno del naufragio in cui morirono 366 profughi. Kalid ha iniziato anche lo sciopero della fame assieme ad altri sei connazionali: vuole andarsene al più presto perché teme ritorsioni a causa del video.
Quella doccia anti-scabbia ha messo in pessima luce gli operatori del Centro. Una donna medico trentenne, ieri, quando ha incontrato due parlamentari di Sel in visita al Cie, Nicola Fratoianni ed Erasmo Palazzotto, è scoppiata in lacrime: «Ero arrivata a Lampedusa il giorno prima — spiega — e c’era una situazione sanitaria insostenibile. Non c’era un posto dove poter curare quegli oltre 100 migranti che avevano la scabbia, i dirigenti del centro mi hanno detto che lo spiazzo all’aperto era l’unico posto dove si poteva eseguire il trattamento. Non avevo scelta, o li curavo lì oppure la scabbia si sarebbe diffusa. Adesso sono diventata il “mostro di Lampedusa”, ma nessuna di quelle persone è stata maltrattata. Però qui la situazione resta invivibile».
Non è l’unico caso. Proprio ieri c’è stata una rivolta tra i 500 ospiti del Cara di Mineo, stanchi di essere “reclusi” da mesi: hanno bloccato
le strade del Catanese provocando violenti scontri con le forze dell’ordine intervenute con manganelli e gas lacrimogeni per bloccare i più rabbiosi che lanciavano pietre contro i poliziotti.

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“Più ispezioni e chiudere i Cie inadeguati e a chi mi attacca rispondo con i fatti”, VLADIMIRO POLCHI
«Aumentare le ispezioni nei centri, rivedere le gare d’appalto al ribasso, chiudere le vecchie strutture inadeguate e garantire l’effettivo diritto alla salute». All’indomani delle immagini shock di Lampedusa, il ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge traccia la sua road map di intervento. Inserita dalla rivista americana Foreign Policy tra i cento intellettuali più influenti del mondo, la Kyenge si deve però difendere ora dal fuoco amico, di chi anche all’interno del suo partito (Pd) le chiede di «passare dalle parole ai fatti ».
Condivide la decisione del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, di rescindere il contratto con l’ente gestore di Lampedusa?
«È una decisione forte e condivisibile, ma la verità è che dovremmo essere così rigorosi ovunque si verifichino comportamenti non idonei al rispetto dei diritti umani e a standard dignitosi di accoglienza. Le immagini di Lampedusa devono spingerci a una nuova riflessione ed essere di stimolo per accelerare un processo di riforma dei centri e per rafforzare il nostro monitoraggio al loro interno».
Dietro al business dell’accoglienza, si scoprono gare d’appalto aggiudicate con un ribasso del 30%. Così come si possono garantire standard dignitosi per i migranti?
«Va ripensato tutto il sistema dell’accoglienza e ci stiamo muovendo in tal senso. Quando si prevedono 30 euro al giorno per migrante, la conseguenza non può che essere il peggioramento della qualità della vita all’interno dei centri. Ogni ditta che partecipa a un appalto deve garantire non solo i servizi di base, ma anche un personale adeguato».
Non crede che alcuni centri, come il Cara di Mineo, siano troppo sovradimensionati?
«Non si può chiudere un centro da un giorno all’altro, ma è giusto privilegiare un modello di accoglienza più diffusa, in nuclei più piccoli soprattutto nel caso di affidamento dei minori stranieri non accompagnati».
Cosa pensa delle continue fughe dal centro d’accoglienza Elmas di Cagliari?
«Quel centro è costruito dentro una zona aeroportuale. Non va bene né per gli ospiti interni, né per il funzionamento dei servizi esterni».
Perché spesso le Asl non possono lavorare dentro i centri?
«È vero, vanno fatti dei protocolli anche con le Asl per garantire a tutti i migranti il diritto alla salute, come riconosciuto dall’articolo 32 della Costituzione ».
Per il deputato Pd, Khalid Chaouki, lei «deve passare dalle parole ai fatti». Cosa risponde?
«Non commento mai gli attacchi, rispondo sempre con i fatti e i fatti ci sono e sono tanti».
Eppure la Bossi-Fini sta lì e la riforma dei Cie non è decollata.
«I lavori parlamentari sono spesso rallentati. In questo periodo dobbiamo tenere conto dell’impegno sulla legge di stabilità. Io faccio politica, certo, ma resto anche un medico ocu-lista, miro alla concretezza e chiedo che sulle riforme si vada fino in fondo».
Anche l’introduzione dello ius soli pare ancora un miraggio.
«In questi giorni stiamo lavorando a un’accelerazione della riforma della cittadinanza. Bisogna sensibilizzare tutti i gruppi parlamentari, affinché non sia solo la riforma di una parte, pronta a essere cancellata a ogni cambio di maggioranza. Il mio impegno quotidiano è coltivare una migliore conoscenza del fenomeno migratorio e cambiare il linguaggio: tutti sforzi che danno risultati solo a distanza di anni. Ma certo la nuova cittadinanza resta il mio obiettivo prioritario».
Cosa accadrà se alla fine della sua esperienza ministeriale la riforma della cittadinanza sarà ancora su un binario morto?
«Va capito che la diversità è una risorsa. Se non portiamo a casa questa riforma, non sarà solo una sconfitta personale, ma una sconfitta di tutti».

La Repubblica 20.12.13

“Abbandono scolastico, Italia tra i 5 paesi peggiori d’Europa”, da repubblica.it

L’Italia è tra i paesi peggiori d’Europa per abbandono delle aule: lascia i banchi troppo presto il 17,6% degli alunni, con punte del 25% nel Mezzogiorno. A renderlo noto è l’Anief (l’associazione che riunisce gli insegnanti italiani), che sottolinea come ci stiamo allontanando troppo dalla media dei 28 Paesi dell’Ue, scesa quest’anno al 12,7%, e all’obiettivo comunitario del raggiungimento del 10% entro il 2020. Sono ancora cinque le nazioni ancora molto lontane da questa meta; tra loro anche l’Italia, che per numero di 18-24enni che hanno lasciato gli studi prima del tempo è riuscita a fare peggio anche della Romania, che è al 17,4%.

“Non può consolarci sapere – continua l’Anief – sempre dalla Commissione europea, che in Spagna lasciano la scuola prima del tempo, acquisendo al massimo il titolo di licenza media, il 24,9% dei ragazzi. E che anche Malta (22,6%) e il Portogallo (20,8%) sono degli esempi da evitare”.

Nel quadro europeo, invece, sono sicuramente da prendere a modello quei 12 Paesi dell’Unione che hanno già raggiunto e superato l’obiettivo del 10% di dispersione, con largo anticipo. Ma anche nazioni più grandi, come Germania, Francia e Regno Unito dove, nonostante la popolazione numerosa, si è prossimi al raggiungimento della soglia.

Tornando all’Italia, la situazione risulta particolarmente critica in Sicilia, Sardegna e Campania, dove vi sono aree con punte di abbandoni scolastici del 25%. Mentre la fascia di età in cui c’è il picco degli abbandoni rimane quello dei 15 anni, quando i ragazzi frequentano il biennio delle superiori.

Ma le associazioni di categoria, oltre a constatare la drammaticità dei dati, lanciano anche una polemica nei confronti delle nostre istituzioni: “L’allontanamento dall’Europa in merito alla dispersione scolastica – ha detto Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – non è un dato casuale. Ma è legato a doppio filo ai tagli a risorse e organici della scuola attuati negli ultimi anni”. In particolare, secondo l’Anief, negli ultimi sei anni sono stati cancellati complessivamente 200mila posti, sottratti 8 miliardi di euro e dissolti 4mila istituti a seguito del cosiddetto dimensionamento (poi ritenuto illegittimo dalla Consulta). “Ora -sottolinea Pacifico – siccome è scientificamente provato che i finanziamenti sono correlati al successo formativo, questi dati non sorprendono: più si taglia e più la dispersione aumenta”.

Dall’associazione fanno sapere anche che s’inizia a registrare un calo dell’interesse alla formazione anche in ambito universitario, con le immatricolazioni che sono scese al 30% dei neo diplomati. Anche in questo caso, polemizza l’Anief, punta il dito sulla progressiva riduzione del personale docente e dei corsi di laurea. E alla perdita dei ricercatori, sempre più orientati verso l’estero. Con il risultato che il numero di giovani che oggi raggiunge la laurea rimane tra i più bassi dell’area Ue.

Come se non bastasse, poi, in Italia la spesa in istruzione è sempre più misera: tanto che (dati Ocse alla mano) il nostro Paese si piazza per investimenti nella scuola al 31esimo posto tra i 32 considerati. Solo il Giappone fa peggio di noi. Per non parlare degli stipendi degli insegnanti, tra i più bassi: con 32.658 dollari l’anno nel 2010 nella scuola primaria (contro i 37.600 della media Ocse), 35.600 dollari nella scuola media (39.400 Ocse) e 36.600 nella secondaria superiore contro 41.182 dell’area Ocse.

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