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Speranza: «Esodati e diritto allo studio, la manovra è più sociale», di Bianca Di Giovanni

«Questa legge di Stabilità ha un forte segno politico impresso dal Pd, che va verso l`equità e la crescita». Roberto Speranza, capogruppo dei democrat, ci tiene a segnalare il contributo del suo partito alla legge di bilancio nel passaggio alla Camera. Il presidente dei parlamentari Pd sa bene che alcune componenti della società si aspettavano forse di più. «Non ci nascondiamo dietro a un dito – spiega – sappiamo che l`intervento è limitato, ma resta il fatto che c`è un`inversione di tendenza».

Speranza parla mentre in commissione Bilancio continua la maratona sugli ultimi emendamenti da votare. Alcune partite sembrano ancora aperte. Quali sono i segnali di equità che avete voluto dare?
«Prima di tutto le modifiche al taglio del cuneo che sono state introdotte. Riducendo essenzialmente la platea dei beneficiari ai lavoratori sotto i 27mila euro di reddito annuo, garantiamo oltre 200 euro in più in busta paga a 12 milioni di persone, da erogare in unica soluzione nel mese di marzo. Lo so che alcuni alzeranno il sopracciglio, asserendo che la somma non è così alta: ma ci sono famiglie per cui quei 200 euro sono molto importanti. Inoltre c`è la creazione del fondo alimentato dai proventi della spending review. Ebbene, la decisione di destinare all`abbassamento delle tasse i proventi dei tagli di spesa è nata qui alla Camera, con una risoluzione voluta dal Pd».

Quali altre misure considera qualificanti per il Pd?
«Voglio ricordare che si sono trovati i fondi per altri 17mila esodati e si è migliorata l`indicizzazione delle pensioni, che è prevista al 100% per gli assegni fino a 3 volte il minimo e al 95% per quelli fino a quattro volte il minimo. Sono risposte forti a bisogni sociali molto urgenti».

E per la crescita?
«Considero misure per la crescita quelle che garantiscono il diritto allo studio. Abbiamo alzato a 150 milioni il fondo per le borse di studio. Ricordo che era una voce ferma a 12 milioni, aumentati poi a 100 con il decreto scuola e oggi a 150. Abbiamo anche collocato 30 milioni per i medici specializzandi. Sul fronte degli investimenti, abbiamo garantito risorse per il dissesto idrogeologico.
Da non dimenticare anche le misure contro le disparità e i privilegi».

Cioè?
«Penso al cosiddetto “galleggiamento”, che abbiamo eliminato. Cioè la possibilità che si aveva nel pubblico di mantenere un benefit economico legato a un incarico temporaneo anche quando quell`incarico è terminato. E ancora, c`è il divieto di cumulo tra redditi da lavoro e pensione fissato a livello del primo presidente della Corte di Cassazione, cioè intorno ai 300mila euro».

Non sembra molto basso…
«Le posso assicurare che tocca parecchie persone, almeno stando al numero di telefonate che ho ricevuto in cui mi si chiedeva di rinunciare a questa misura».

A leggere le cronache sembra che il Pd proceda in ordine sparso. Si pensi alla web tax, su cui da giorni il neosegretario spara ad alzo zero.
«Quel tema non faceva parte del pacchetto di proposte che il gruppo ha ritenuto qualificanti, ma è nato dalla libera discussione in commissione. Non parlerei di ordine sparso: capita spesso che alcuni deputati sostengano misure non concordate con il partito».

Ci sono ancora nodi da sciogliere?
«Credo che si stia studiando la questione dell`aliquota Tasi, su cui l`Anci continua a chiedere un livello più alto. La discussione è ancora in corso».

Cosa replica a chi dice che si fa troppo poco?
«Replico che siamo ancora dentro la crisi. Dire il contrario sarebbe sbagliato. Ma altrettanto sbagliato sarebbe non vedere che invertiamo la tendenza: non ci sono tagli drastici, anzi c`è un primo segnale di redistribuzione».

Si aspetta sorprese dal voto?
«Finora abbiamo retto, la maggioranza è solida. C`è stata una discussione vera, a volte intensa, ma serena. Mi aspetto la tenuta del gruppo, anche perché l`impronta del Pd si vede nei passaggi che ho detto. C`è l`equità e c`è anche la crescita. Certo, si tratta dei primi piccoli passi, ma la direzione è segnata».

L’Unità 18.12.13

“Le università online non passano l’esame”, di Corrado Zunino

Diciannove pagine del ministero dell’Istruzione seppelliscono le undici università telematiche italiane. Sei mesi di lavoro della commissione interna dedicata (due professori emeriti più il vicecapo di gabinetto), tre riunioni, diverse audizioni, i pareri del Cnsu (Consiglio degli studenti) e i dossier dell’Anvur (i valutatori). A fine ottobre la sentenza, attesa in verità: le università telematiche italiane hanno pochi (o più spesso nessuno) insegnanti a tempo indeterminato, hanno pochi studenti, pochi immatricolati e spesso un numero di lauree incongruo rispetto agli iscritti. A volte hanno problemi infrastrutturali. Chi non risolverà presto queste assenze, queste chiare mancanze, dovrà chiudere. «Pena l’estinzione dell’università stessa», aveva già scritto l’Anvur.
Dice ora il ministro Maria Chiara Carrozza, a sintesi del lavoro: «Basta alle deroghe per le telematiche. Devono avere regole certe come le università tradizionali, devono seguire criteri stringenti per l’accreditamento e il reclutamento del personale docente. Dobbiamo poter valutare, con gli stessi criteri validi per le università tradizionali, l’efficacia e l’efficienza dei corsi impartiti. Lo faremo nel prossimo piano triennale». Fino ad oggi i corsi sono stati valutati prima, mai dopo. Ancora il ministro Carrozza: «Le università telematiche devono aumentare il numero di docenti con contratto stabile, oggi ci sono troppi precari. Devono aumentare l’attività di ricerca, oggi piuttosto scarsa». O gli atenei Mooc si attrezzano o il Miur non le riconoscerà più.
Il numero degli studenti immatricolati negli atenei online italiani è stato in crescita dal 2004 al 2011, per iniziare poi una progressiva diminuzione anche nelle strutture più grandi: Marconi, Uninettuno e Unicusano. Stesso trend per i laureati: flessione dopo il 2011. La commissione ministeriale ha segnalato l’assenza di “criteri determinati e chiari” per la valutazione qualitativa del-l’offerta formativa, nessuna regola per l’istituzione delle scuole di dottorato e nessuna chiarezza nel passaggio di docenti e ricercatori alle università tradizionali. Le telematiche, si scopre, possono far partire l’anno accademico in qualunque momento della stagione. Organizzano esami e danno crediti “non idonei a garantire il raggiungimento delle previste competenze”. La Pegaso, aveva già scritto l’Anvur, “rischia di produrre titoli legali il cui contenuto non è comparabile con quello delle altre istituzioni universitarie”. Tutte le “online” non hanno, o hanno in maniera inadeguata, attività di laboratorio. Riassume la commissione: «I laureati delle università telematiche hanno una minore preparazione rispetto ai laureati delle università convenzionali».
È interessante segnalare come, nel corso del 2013, sette euniversity abbiano richiesto accrediti per 47 nuovi corsi di laurea (18 E-Campus, 7 Pegaso, 7 Unicusano, 7 Uninettuno, 5 Giustino Fortunato, 2 Mercatorum, 1 Benincasa). L’Anvur ha fatto passare solo i due corsi della Mercatorum. E-Campus, Pegaso e Unicusano hanno ottenuti i corsi in seconda istanza, a colpi di Tar e Consigli di Stato. Nell’ultimo rapporto l’Anvur aveva sottolineato — nel caso della romana Universitas mercatorum legata alle camere di commercio italiane e della Giustino Fortunato di Benevento — un conflitto d’interessi rispetto ai proprietari. La commissione ministeriale ha chiesto che “alcune tipologie di corsi” non siano impartibili a distanza: non tutto si può insegnare su Internet. «I finanziamenti pubblici saranno assegnati in ragione della qualità dell’attività didattica e dell’attività di ricerca», ha chiosato il ministro.

La Repubblica 18.12.13

“Quota 96”, la suprema Corte dice no!, di Pasquale Almirante

Con Ordinanza 318/2013 depositata il 17/12/2013 la Corte Costituzionale non riconosce al personale della scuola della “Quota 96” il diritto alla pensione. Tutto torna in mano alla politica, se ad essa piaccia
La Consulta dunque nella sentenza emessa oggi, 17 dicembre, dichiara la “manifesta inammissibilità” della questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, ma non entra affatto, tuona il prof. Giuseppe Grasso dal blog dei “Quota 96”, nel merito dell’ordinanza emessa dal Tribunale del Lavoro di Siena, che aveva accolto la richiesta di pensionamento di una docente, e quindi viene giudicata “manifestamente inammissibile per una pluralità di ragioni”.
“Ritenuto che nel corso di una controversia di natura previdenziale proposta da una docente a tempo indeterminato nei confronti del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, il Tribunale ordinario di Siena, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 38, 97 e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo richiamato in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la legge 4 agosto 1955, n. 848 – questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, «nella parte in cui non appresta per il lavoratore pubblico una gradualità di uscita al pari del lavoratore privato, in ogni caso nella parte in cui (comma 3) non differenzia, con particolare riguardo al settore scolastico, rispetto alla data del 31 dicembre 2011, il dies ad quem della maturazione dei requisiti pensionistici secondo la normativa previgente»;
che il Tribunale di Siena osserva come la lavoratrice ricorrente avrebbe avuto diritto, in base alla previgente normativa, ad essere collocata in pensione alla data richiesta; infatti, secondo la previsione dell’art. 1, comma 6, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria), in linea con quanto stabilito dall’art. 59, comma 9, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), la cessazione dal servizio sarebbe potuta avvenire a decorrere dal 1° settembre (data di inizio dell’anno scolastico) dell’anno 2012 per coloro i quali, come la ricorrente, maturavano i requisiti necessari entro il 31 dicembre 2012 (sessanta anni di età e trentasei di contribuzione);
che nell’anno 2011 si sono avute varie manovre correttive della finanza pubblica, che hanno fatto venire meno il diritto della lavoratrice al collocamento in pensione alla data prevista;
che, a questo proposito, il remittente richiama l’art. 1, comma 21, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, che ha spostato di un anno in avanti la possibilità di essere collocati in pensione per coloro i quali maturavano i requisiti per il pensionamento con effetto dal 1° gennaio 2012;
che l’art. 24, comma 3, del d.l. n. 201 del 2011, mentre ha fatto salvo il diritto al conseguimento della pensione secondo la normativa previgente per coloro i quali raggiungevano i requisiti entro il 31 dicembre 2011, ha completamente innovato il regime delle prestazioni previdenziali a decorrere dal 1° gennaio 2012, sicché la lavoratrice ricorrente non può più accedere alla pensione di anzianità, potendo solo aspirare all’ottenimento della pensione di vecchiaia, sulla base dei requisiti di cui ai commi 6 e 7 del censurato art. 24, oppure della pensione anticipata, secondo i requisiti dei commi 10 e 11 del medesimo articolo;
che, in particolare, per le lavoratrici dipendenti del settore pubblico sono richiesti, a decorrere dal 1° gennaio 2012, requisiti di età e di contribuzione che la docente ricorrente non possiede, per cui la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata «è l’unica strada percorribile per conseguire il riconoscimento del diritto affermato»
In altre parole la Corte Costituzionale, come spesso accade, ha deciso di non decidere nello specifico ma esprimendosi solo sulla “forma” della sentenza e non sulla sostanza effettiva dell’ordinanza del Giudice del Lavoro di Siena.
Ma soprattutto, secondo una prima sommaria lettura di quanto dice la suprema Corte, lascia inevasi sia il problema temporale della intrata in vigore della legge Fornero e sia quello della disparità di trattamento pensionistico fra pubblico e privato.
Viene inoltre non considerato, e i lavoratori della scuola per questo sono molto contrariati, la questione delicatissima della specificità del personale della scuola che può contare solo su una finestra di uscita, corrispondente con la chiusura dell’anno scolastico.
Il punto dunque torna al suo inizio e cioè alla politica che in molti incontri, nel corso di questi due anni (governo Monti e successivo Governo Letta) aveva riconosciuto questa penalizzazione, per cui tocca ad essa risolvere un marchingegno legale penalizzante.
Per questo, sempre il prof Grasso tuona dal suo osservatorio: “Resta ancora da vedere, dopo questa sentenza, se alcune porte potranno aprirsi, soprattutto sul versante politico, o se invece si chiuderanno definitivamente per noi”.

La Tecnica della Scuola 18.12.13

“Legge elettorale con chi ci sta. Renzi sonda i berlusconiani”, di Mario Lavia

Primo confronto con Brunetta, il Mattarellum come ipotesi di intesa. Mentre il presidente del consiglio fa mostra di ottimismo: «Mangeremo il panettone anche l’anno prossimo». Il tiki taka continua e si può essere certi che non finirà tanto presto. Enrico Letta e Matteo Renzi, Matteo Renzi ed Enrico Letta: il 2013 si va chiudendo all’insegna di questo enigmatico tandem tutto made in Pd.

Anche nella sonnacchiosa giornata politica di ieri – si sente che Natale si avvicina – sono stati loro due a “fare i titoli” dei siti d’informazione, con il premier tutto proteso a spargere ottimismo («Mangeremo il panettone anche l’anno prossimo») e il secondo che ha twittato per un’ora sempre dando l’impressione di correre, di avere fretta. E di volersi muovere a tutto campo, oltre i confini della maggioranza, e infatti ha cominciato a sondare i berlusconiani. Ieri sera un uomo del leader del Nuovo Pd, Dario Nardella, ne ha parlato con Renato Brunetta.

Giorgio Napolitano, uno che mastica politica come nessun altro, è arciconvinto che Letta e Renzi debbano marciare insieme: e in questo senso non appare incoerente il senso del suo messaggio alle Alte cariche dello stato – ripreso in molti punti ieri nel saluto al corpo diplomatico – tutto teso a invocare la coesione del quadro politico. Un monito rivolto erga omnes: e dunque certamente anche al nuovo leader del Pd.

Il quale continua a “mettere fretta” al governo. Non c’è niente da fare: Renzi ha bisogno di dare al paese l’idea che nella politica italiana qualcosa è cambiato, che non è più tempi di giochini. La pietra angolare è la legge elettorale: nulla di nuovo nel merito (anche se la sensazione, come scriveva ieri Europa, è che alla fine il Mattarellum possa diventare una base seria per superare lo stallo imposto dalla Consulta), ma il punto resta quello delle intese. Entro gennaio serve avere un testo approvato alla camera «con chi ci sta».

Lo ripeterà oggi ad Alfano, questo «con chi ci sta» che al capo del Ncd, il più timoroso di un’intesa che lo tagli fuori, non piace per nulla. Un «con chi ci sta» che viene visto con sospetto anche a palazzo Chigi e al Quirinale, perché nei due palazzi non si tollera l’idea che la maggioranza possa essere bypassata su un tema dirimente come la legge elettorale. Ma Renzi ha cambiato spartito. Si rivolge a tutti, compresi un nervoso Grillo (ancora “provocato” da Renzi, «perché non vuole le riforme?») e un Berlusconi oscillante fra termini opposti come pacificazione e golpe, che dovrà presto scoprire le sue carte.

da Europa quotidiano 18.12.13

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Renzi: “Legge elettorale con chi ci sta”, di GOFFREDO DE MARCHIS

I tempi: entro gennaio. Con chi: con tutti, anche fuori dei confini della maggioranza. Quale legge: il Mattarellum corretto, il doppio turno, ma «le questioni tecniche mi interessano poco. L’importante è che sia un sistema maggioritario». Matteo Renzi torna sulla riforma elettorale. Corregge in parte il capo dello Stato perché sembra pronto a muoversi a prescindere dalla coalizione che regge l’esecutivo Letta. «La legge elettorale si può fare non necessariamente con i partiti della coalizione, meglio
farla con il più ampio schieramento possibile perché sono le regole del gioco». Bene. Ma se ci sono problemi col Nuovo centrodestra di Alfano? «Le riforme si fanno naturalmente con tutti quelli che ci vogliono stare».
Con queste parole il neosegretario del Pd esclude una sovrapposizione tra il superamento del Porcellum e l’abolizione del Senato. A Largo del Nazareno, questo collegamento viene valutato come un modo per prendere tempo, aspettare le motivazioni della Corte costituzionale che ha cassato una parte della legge Calderoli e ridare fiato ai tifosi del proporzionale. «Una cosa è certa: su questo tema basta scherzi, votando alle primarie l’Italia ha chiesto di cambiare», avverte Renzi.
Qualcosa già si muove. Il presidente della commissione Affari
costituzionali della Camera Francesco Paolo Sisto di Forza Italia riunisce oggi l’ufficio di presidenza. Si capiranno meglio i tempi dell’iter parlamentare che comunque ha la procedura d’urgenza. Ossia, 30 giorni per arrivare a un testo da mandare in aula che diventeranno qualcuno in più considerando le feste di Natale. Oggi Renzi e Alfano si vedranno alla presentazione del libro di Bruno Vespa. È l’occasione per un primo abboccamento tra i due su questa materia. Ma il leader del Pd gioca a tutto campo. Il partito di Berlusconi spinge sull’acceleratore. Vuole presto
una riforma che consenta di andare a votare il prima possibile. E Forza Italia è sicura di avere dalla sua parte Renzi. Pronostica persino una possibile data delle elezioni: il 25 maggio in coincidenza con la consultazione delle Europee.
Non è certamente questa la strada indicata dal presidente della Repubblica. Già lunedì Giorgio Napolitano aveva escluso elezioni prima del varo delle riforme istituzionali. Era anche tornato a ventilare l’idea delle sue dimissioni nel caso di fallimento delle Camere. Ieri il capo dello Stato ha confermato il concetto:
«La nostra fase difficile e sofferta non ha però mancato di rafforzare la convinzione, in una parte sempre più larga dell’opinione pubblica, che tra i doveri delle istituzioni vi sia quello di garantire alla nazione stabilità politica e governabilità». Perché uno dei mali italiani è stata ed è la «fragilità endemica» dei governi.
Per rispondere alle sollecitazioni del Quirinale, il governo sta preparando un crono-programma delle modifiche costituzionali. D’accordo con Renzi, Letta ha escluso interventi sulla legge elettorale. L’ha lasciata alle Camere e alla gestione dei nuovi
vertici del Pd. Ma l’abolizione del Senato e la revisione del Titolo V, da approvare con le regole dell’articolo 138, richiedono una forma di organizzazione alla quale sta lavorando il ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello. Non è solo un calendario. A questo programma si lega il destino del confronto tra Renzi e Alfano. Il segretario del Pd si tiene le mani libere, con il traguardo di un voto anticipato. Ma per ottenere un quadro più chiaro e più ordinato in cui governare sta attuando un pressing sul Nuovo centrodestra per vedere se sono davvero disponibili a scegliere
un sistema maggioritario in tempi brevi. In quel caso, Renzi può muoversi diligentemente nell’area della maggioranza di governo e aspettare un anno, prima di lanciare la corsa alla premiership.
Enrico Letta è convinto che finirà così. Ha parlato ai dipendenti di Palazzo Chigi per gli auguri di fine anno. Mostrando ottimismo: «Nonostante molti fuori da qui non ci credessero, abbiamo mangiato il panettone e se continuiamo a lavorare bene contiamo di mangiarlo anche il prossimo anno».

La Repubblica 18.12.13

“Qualche idea per dare diritti senza toglierli a chi li ha”, di Cesare Damiano

Da un po’ di tempo a questa parte nel dibattito politico va di moda contrapporre i diritti e le tutele delle vecchie generazioni a quelli delle generazioni più giovani. Mettendo da parte gli eccessi polemici proviamo a fare qualche ragionamento di merito. Con la riforma Dini del 1995 il sistema previdenziale ha adottato il contributivo pieno per coloro che entrano nel mondo del lavoro a partire dal 1°gennaio 1996. Questa data diventa, simbolicamente, lo spartiacque tra due modalità di calcolo, retributivo e contributivo. Il primo consente di avere condizioni più favorevoli: ad esempio, la pensione erogata con il sistema retributivo dopo 40 anni di lavoro equivale all’80% della media delle retribuzioni degli ultimi 10 anni, di solito i più favorevoli sotto il profilo della busta paga. Questa modalità di calcolo è stata conquistata

nel 1969, dopo le imponenti mobilitazioni sindacali dell’epoca. Il metodo contributivo, invece, eroga una pensione calcolata sulla base dei versamenti effettuati lungo l’intero arco della vita di lavoro e, attraverso i coefficienti di trasformazione, è collegato all’andamento del Pil: un indicatore negativo, va ricordato, in questi anni di recessione economica. Di recente, Renzi ha dichiarato nel corso di un incontro con Landini, che «si tratta di pensare anche ai non garantiti, senza eliminare diritti ma dandoli a chi non li ha». Condivido e vorrei continuare la mia riflessione seguendo questa indicazione. Forse è giunto il momento di ricordare che il sistema retributivo è convissuto con il periodo della inflazione a due cifre e con la «svalutazione competitiva», che rendevano carta straccia pensioni inizialmente sostanziose. Ora siamo in un’altra situazione e, non a caso, dal 1996 é stato introdotto il metodo contributivo. Come garantire ai giovani, nella nuova situazione, un futuro pensionistico dignitoso ed adeguato? Seguendo il ragionamento di Renzi non dobbiamo toccare i diritti acquisiti: si tratta di un argomento che abbiamo sempre sostenuto, anche se negli ultimi 20 anni ci sono state numerose riforme che hanno significativamente innalzato l’età pensionistica: ma questo è avvenuto con la concertazione e assumendo il criterio della gradualità.

Invece, altra musica si è suonata con il Governo Monti. Secondo la Ragioneria Generale dello Stato, tra il 2020 ed il 2060, si risparmieranno con l’ultimo intervento sulle pensioni targato Fornero oltre 300 miliardi di euro, circa il 15% del nostro debito pubblico e la indicizzazione delle pensioni è stata sostanzialmente bloccata. Con le pensioni si è foraggiata la diminuzione del debito pubblico: oltre non si pu ò andare, anzi, è giunto il momento di restituire pensando ad interventi di correzione e di manutenzione per migliorare il sistema. Innanzitutto dovrebbe esserci l’introduzione di un criterio di flessibilità universale, che valga per le vecchie e le nuove generazioni, che cancelli in questo modo le iniquità della «riforma» Fornero. Per i giovani l’obiettivo di non avere pensioni «da poveri» si persegue affrontando il problema da più versanti. È evidente che le pensioni più ricche sono quelle sostenute da maggiori e migliori contributi: chi versa per 40 anni senza interruzioni avendo una buona retribuzione, potrà aspirare ad un risultato migliore. E qui sta il punto: le giovani generazioni approdano più tardi al lavoro, incontrano inizialmente una attività precaria che comporta basse retribuzioni e una discontinuità occupazionale. Di conseguenza, il risultato previdenziale non potrà che essere basso. É su questi punti che occorre intervenire. In primo luogo occorre abbassare l’età di ingresso all’impiego attraverso una sperimentazione di modalità di alternanza scuola-lavoro a partire dall’ultimo biennio di istruzione superiore: una normativa contenuta nel

recente Decreto del ministro Carrozza che noi abbiamo sostenuto con forza. Inoltre sarebbe necessario garantire un equo compenso per tutte le forme di impiego che non hanno a riferimento un contratto nazionale di lavoro e prevedere contributi figurativi nei momenti di disoccupazione. Queste misure pongono le basi per consentire il raggiungimento di un risultato pensionistico, per le nuove generazioni, come quello previsto nel Protocollo del 2007 sottoscritto da Governo e parti sociali: un tasso di sostituzione stipendio/pensione pari al 60%.

È giunto il momento di riflettere sull’attuale sistema previdenziale in previsione, tra vent’anni,del pensionamento delle attuali giovani generazioni che adottano integralmente, dal 1996, il «contributivo». Non c’è tempo da perdere se vogliamo sviluppare un discorso strategico e, soprattutto, se vogliamo sgombrare il campo da stupidi luoghi comuni sul nostro sistema pensionistico.

L’Unità 18..12.13

“A chi torna utile un Parlamento diviso”, di Franco Cordero

Nove contro sei, mercoledì 4 dicembre la Consulta emette una sentenza bivalente, sicché rimane oscura l’intenzione politica sommersa: da un lato pungola assemblee ignave (così finirà l’Italia se non riformano la macchina elettorale); dall’altro, dissotterra una proporzionale pura consolidando i cimiteri delle “larghe intese” (in lingua diretta, “lasciamo le cose quali sono”). Attori più o meno importanti hanno un tornaconto nell’immobilità. Identifichiamoli salendo dai piccoli con pennacchio governativo, quali sono i sedicenti postberlusconiani: l’altro ieri gli rendevano servizi declamando col cuore in mano; e nella partita elettorale maggioritaria hanno tutto da perdere fino al grado zero (vedi Italia dei Valori, Verdi, Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Futuro e Libertà). Non era pensabile la propensione suicida al doppio turno. Infatti, scatta l’ultimatum d’una colomba ministeriale furiosa perché l’iter del ddl sulla riforma elettorale passa alla Camera dal Senato, dove dormiva sonni profondi: altolà; e fissa un termine, 15 giorni, scaduti i quali il governo cade. Stanno ancora peggio i resti d’un centro che sarebbe dovuto nascere sul tronco del governo Monti. La microgalassia vuol sopravvivere, quindi difenderà i meccanismi che frantumavano gli schieramenti parlamentari italiano (1919-21) e tedesco (1920-33), aprendo la via a due dittature.
Dai numeri bassi saltiamo alle Cinque Stelle, ora secondo partito e terzo presumibile concorrente nell’ipotetico sistema maggioritario (le eclissano centrosinistra e centrodestra). Da tempo i pentasiderei invocano le urne. Con quale regola del gioco? Stupirebbe l’assenso alla riforma; i meno forti pretendono seggi esattamente commisurati ai voti. In più la rediviva Forza Italia: le sonde l’accreditano d’un 21%, 10 punti meno del Pd; nell’ovvia coalizione recupera i fuorusciti (Nuovo Centrodestra e Fratelli d’Italia, satelliti), però ha poche chance testa a testa col Pd trascinato dal nuovo leader, anche acquisendo i superstiti leghisti. Tra i due condottieri è partita ìmpari (li separano 40 anni): non è più la primavera 2001 o 2008, quando Berlusconi suonava il piffero stregando le piazze; sconta l’età, condanne penali, gesta storte, la noia del vederselo davanti dopo vent’anni, spettacolo ormai triste; e parlano chiaro i consuntivi fallimentari (fallimento rispetto al paese: gli affari suoi fioriscono). Ora, non è da Caimano l’avventura spericolata: gli alligatori regnano in acque torpide; finché non succeda niente, il tempo sta dalla sua e logora l’avversario; quanto più ne passa, tanto meglio. L’uomo nuovo deve agire perché, costretto all’immobilità, perde i carismi, mentre lui soffia sugli umori, sfrutta malesseri collettivi, almanacca i soliti mirabilia, nella quale arte nessun Dulcamara lo eguaglia. Benvenuta quindi la stasi paludosa.
Al nuovo Pd, soggetto politico eminente, conviene l’ordalia in due turni, senonché gioca un fattore atavico. In misura ragguardevole discende dal vecchio Pci, partito-chiesa, quindi dogmi, mistica, liturgia, clero, gerarchie. Post guerra fredda riesce imperfetta la metamorfosi laica: cadono le verità dogmatiche; emergono nuovi stili, ma la disinvoltura pragmatica era carattere ereditario, motivato dalla presunta infallibilità dei vertici che dettano strategie e tattica, spesso convertendo il bianco in nero; e qualche junior resta ecclesiocrate. Nell’ultimo quarto di secolo il prototipo è un bolscevico convertito al liberismo: mai che lo sfiorino dubbi; parla ex cathedra; ghigliottina i concorrenti. E quanti disastri combina sotto la maschera d’un lieve sorriso: rimette in orbita lo sconfitto pirata plutocrate, al quale ha garantito l’impero mediatico, «patrimonio italiano»; intavola riforme i cui modelli vengono dal Venerabile Licio Gelli; abbatte Prodi, il cui posto piglia a Palazzo Chigi navigando molto male; figura tra gli affossatori del secondo governo centrosinistro, guidato dallo stesso; e sabato 21 aprile 2013 è capolavoro d’intrigo togliere al predetto (terzo omicidio morale) i 101 voti che lo porterebbero al Quirinale. Così gli oligarchi reincoronano l’uscente, prossimo alla nona decade: non s’era mai accorto della colossale anomalia berlusconiana, anzi s’adoperava nel tentativo d’acquisirgli assurde immunità, predicando “larghe intese” ossia opposizione dolce o, meglio ancora, politica subalterna. L’Olonese ha mansalva nel governo, stando cautamente fuori. Quando poi, con sbalordimento e grave dispetto dei quietisti pacificatori, passa in giudicato una condanna inflittagli, va in scena l’indecorosa manfrina della grazia. La esige sull’unghia,
motu Praesidentis e, deluso, rompe i ponti. Sul retroscena testimonia il già citato ministro nelle cui mani stanno le riforme costituzionali (mercoledì 27 novembre): «escludo ogni complotto» (id est, intese preventive ad clementiam); o che l’augusta persona covasse riserve mentali (lasciarlo alla deriva); «vero il contrario » ma B. s’è guastata la causa vituperando parlamento e governo. Sia concesso dirlo, non era dialogo edificante. Da allora risuonano discorsi truculenti. L’ultimo è: «rivoluzione se mi arrestano» (12 dicembre); e i forzaitalioti mettono mano a una legge che vieti la custodia cautelare oltre i 75 anni.
Tiriamo le somme. Nel Pd esiste un residuo oligarchico misoneista, soccombente nelle primarie ma nient’affatto rassegnato. Vogliono “larghe intese”: Letta nipote, nato democristiano, è la guida perfetta d’un angolo piatto governativo dalla destra forzaitaliota al malleabile centrosinistra, dove l’inaffondabile Bicamerista regga gli Esteri o, vacando il Colle, vi rampi. Tale disegno politico richiede un parlamento diviso, quale sarebbe se fosse rieletto su base proporzionale. Una delle innumerevoli note quirinalesche bolla il «frastuono» delle polemiche «dannatamente» elettorali, non essendovi elezioni «dietro l’angolo», e l’inconsueto avverbio segnala un nervo scoperto (11 dicembre). L’agonista fiorentino sa quali rischi corra nella stretta mortale dei tatticismi. Speriamo che li eluda, altrimenti il vivo finisce ghermito dal morto.
Finis Italiae.

La Repubblica 18.12.13

“La nostra vergogna”, di Adriano Prosperi

Il telefonino di Khalid ha catturato e messo in circolazione la scena di quello che accade da giorni abitualmente nel centro di accoglienza di Lampedusa. L’abbiamo visto tutti, non abbiamo scuse. Abbiamo visto come ogni giorno decine di uomini nudi vengano sottoposti al getto d’acqua di una pompa a motore, all’aperto, sotto il cielo dell’isola. Si tratta, dicono, di una pratica necessaria per disinfettare quei corpi.

Per combattere in particolare il pericolo di un’epidemia di scabbia.
Giusto disinfettare, curare, garantire la salute — la nostra, perché è per questo che lo si fa. Del resto qualcuno ricorda ancora, in questo paese nostro che fu un tempo non lontano quello di un’emigrazione italiana di proporzioni bibliche, che cosa accadeva alla visita d’ingresso negli Stati Uniti, quando a Ellis Island i nostri antenati dovevano sottoporsi a rozzi, elementari esami fisici destinati a scoprire le eventuali malattie di cui erano portatori. Ma non venivano fatti oggetto di questa pratica brutale del denudarsi in pubblico per sottoporsi a un trattamento che disumanizza, degrada, porta automaticamente a una discesa dal livello della comune umanità a quello di cosa. Perché una cosa è chiara: non c’è nessuna ragione perché la disinfezione debba essere fatta così, collettivamente e all’aperto.
Denudare pubblicamente un essere umano vuol dire togliergli quella difesa elementare, quel segnale di umanità che consiste nel coprirsi, nel proteggere la propria nudità. Gli esseri umani si distinguono dalle bestie perché si coprono istintivamente. Dice la Bibbia che Adamo
ed Eva, quando lasciarono l’Eden, scoprirono la loro umanità col senso di vergogna per il corpo nudo. Dunque la domanda che viene spontanea è sempre quella formulata da Primo Levi: diteci, voi che siete al coperto nelle vostre tiepide case, se sono uomini questi esseri nudi nel dicembre che sa ormai di Natale, esposti al getto d’acqua che la pompa scarica sui loro corpi. E poiché la risposta è sì, né può essere diversa, bisogna passare all’altra domanda: dobbiamo chiederci chi siamo noi, responsabili in solido di questa riduzione a bestiame dell’umanità che sbarca a Lampedusa a rischio della vita e si aspetta di trovare da noi, se non le immagini dorate trasmesse dalla televisione, almeno non un simile livello di disumanità. Giusi Nicolini, la bravissima sindaca di Lampedusa, ha risposto per tutti noi: queste immagini ricordano i campi di concentramento. Nei lager non c’erano i telefonini. Oggi questo strumento ci toglie l’ultimo alibi: la difesa del non vedere, del non sapere.
Ma se quello odierno è uno scandalo, si deve riconoscere che gli scandali sono necessari perché senza di essi non riusciamo ormai più ad aprire gli occhi. E speriamo che anche questa volta tutto non si riduca a un’emozione epidermica e che domani non ci si trovi di nuovo davanti all’impasto abituale di provocazioni leghiste e di politiche fatte di parole benevole quanto vane, di intenzioni mai seguite da fatti. Finora nemmeno l’escalation di quegli annegamenti di massa che hanno fatto del Mare di Sicilia un immenso cimitero marino è bastata a cambiare le cose. L’episodio di Lampedusa, teatro all’aperto di ciò che l’Italia — ma anche, dietro di lei, l’Europa tutta — sa offrire a chi tenta di varcarne le soglie deve essere per una volta la scossa finale che porti una buona volta a raddrizzare il legno storto dei diritti così come vengono intesi e praticati da noi. Dobbiamo prendere atto che questo è solo l’ennesimo episodio di un sistema che ha preso forma di legge, si è radicato nel costume e nelle istituzioni: col risultato che l’umanità difettiva dell’immigrato rischia di apparirci di fatto come quella di un animale pericoloso, portatore di malattie: e questo perché sempre più decisamente si sono create da noi le premesse di una discriminazione sul terreno dei diritti primari che ha fatto scivolare sempre più l’Italia sulla china di un razzismo tanto più reale quanto meno confessato. È tempo perché le chiacchiere buoniste, l’esibizione delle buone intenzioni, i rimedi della carità cedano il posto a misure di legge che riconoscendo dignità e diritti agli immigrati restituiscano anche a tutti noi la possibilità di non doverci ogni giorno vergognare.
Il dossier dei diritti civili deve essere riaperto subito. Non si può più rinviare la riforma della Bossi-Fini, perché mantenendola continueremmo a tenere in vita un sistema di disparità della popolazione della penisola italiana nel campo dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino che ha fatto regredire l’intero paese e ne ha alterato perfino il linguaggio: si pensi al significato che ha assunto oggi la parola “accoglienza” in un paese come il nostro che, con tutti i suoi difetti, era noto un tempo almeno per questa speciale virtù dei suoi abitanti.

La Repubblica 18.12.13