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“Cura poco miracolosa”, di Eugenia Tognetti

Non che sorprenda, in verità, ciò che sta emergendo in queste ore sulla formula Stamina, uscita finalmente da un cono d’ombra. Non solo non ci sono evidenze che la terapia funzioni, come si era sempre sospettato. Ma la sua somministrazione potrebbe perfino essere pericolosa e aprire la strada al rischio di trasmissione di malattie infettive, compresa l’Hiv, in assenza di controlli delle cellule dal donatore. O, ancora, alla contaminazione del morbo della «mucca pazza», la variante umana dell’encefalopatia spongiforme bovina, che deve il suo nome ai danni devastanti che produce sul cervello.

E ora? Davanti ai fatti emersi in queste ore, c’è da chiedersi se si potrà continuare a chiamarle «compassionevoli» quelle cure, ammesse in mancanza di alternative e al di fuori del normale iter di sperimentazione. Non solo non arrestano e non fanno regredire patologie come le sindromi neurodegenerative infantili, ma il metodo Vannoni non assicura nemmeno che non si traduca in un aggravamento del male o presenti altri pericoli. Tra polemiche, vicende giudiziarie, manifestazioni di piazza, il caso Stamina – che ha attirato più volte l’attenzione della comunità scientifica internazionale sull’Italia, espresse, qualche giorno fa, in un duro editoriale di «Nature» – si guadagna un posto tutto speciale nella storia infinita, antica come la malattia, della ricerca di cure miracolose, in ogni tempo e in ogni epoca, di fronte al fallimento dei trattamenti convenzionali. Basta pensare al cancro, agli innumerevoli metodi messi in campo, che promettevano di guarire, con la stessa cura tutte le neoplasie. Ma, naturalmente, i guaritori e i dispensatori di cure del passato non avevano la capacità di mobilitazione di quelli del nostro tempo. La tremenda angoscia di coloro che hanno bambini, piccoli e piccolissimi, è un’arma potentissima.

Quei malati e i loro familiari, trafitti dal dolore, che, questi giorni, tumultuano davanti ai palazzi del potere, contro la politica e la medicina ufficiale, affidando la propria esistenza malata al metodo Stamina, si sentono all’ultima spiaggia, e non vogliono essere defraudati della speranza. Per uscire dal circolo vizioso in cui è entrato «il caso Stamina» occorrerebbe un cambio di passo e una precisa distribuzione dei ruoli. Non fanno il bene dei bambini malati i giudici che autorizzano l’uso in un paziente di cellule provenienti da altri senza considerare il pericolo di rigetto. Non fanno il bene alla scienza i politici che agiscono sotto la pressione della piazza, forte come non mai, anche in nome della libertà di cura. Pressione che porta a passare direttamente dal laboratorio ai pazienti, saltando pericolosamente la fase della sperimentazione clinica, e contro il metodo scientifico, che si basa su ipotesi che devono essere validate o falsificate, con esperimenti riproducibili. Non ci sono scorciatoie per una medicina fondata su basi etiche. Eppure, le lezioni del passato dovrebbero aver insegnato qualcosa circa le cure prive di una documentata efficacia terapeutica. Non si può pensare di tornare indietro rispetto alle conquiste della Medicina basata sull’evidenza, che ha imposto la necessità di sviluppare metodi limpidi per una ricerca scientifica in grado di assicurare risultati sempre migliori, a vantaggio dei malati e dei sani, dei politici, dei ricercatori e dei medici. Senza queste basi, la ricerca fallisce nello scopo di aiutare i malati ed i medici che devono fare tutto il possibile per alimentare la speranza, ma non pericolose illusioni.

La Stampa 19.12.13

“Il mio ideale? Crescita felice”, di Franco Bolelli

No, non si può mai smettere di crescere. Proprio mai. Perché quando una società, una cultura, un’azienda, una squadra, una relazione sentimentale, un essere umano, smette di crescere, inesorabilmente appassisce, deperisce, comincia a morire. E’̀ una legge biologica, non se ne esce. Provate a pensarci. Con un bambino, è tutta questione di crescita. Anche con le tecnologie, e con la scienza. Mettiamoci poi i progetti inventivi, dalla letteratura all’urbanistica e a tutto quello che ci sta in mezzo. E i linguaggi, e i paradigmi di pensiero. Consideriamo che anche una storia d’amore non può non lavorare sui propri margini di miglioramento se non vuole scivolare nel letale ingranaggio della routine. Alla fine, non c’è attività umana che può dirsi viva se non cresce. Tanto più adesso, che anche i confini dell’età anagrafica si sono irresistibilmente espansi, perché in questo nuovo mondo connesso e globale a qualunque età noi abbiamo la possibilità di entrare in contatto con conoscenze ed esperienze impensabili fino a pochi anni fa.

Ecco perché la popolare idea di decrescita non riesco a non considerarla rovinosa. Sì, lo so che i teorici della decrescita puntano il dito ammonitore soprattutto contro gli stili di vita e il consumo e il mercato, ma – al di là che, se è stato un errore madornale mettere l’economia e il mercato al posto di comando è non meno sbagliato demonizzarli- non si può non vedere che l’idea di fermare la crescita ha un effetto dissuasivo e deprimente sull’intera nostra percezione delle cose, sulla totalità dell’orizzonte vitale.

Nell’intera storia umana, ogni nostra evoluzione la dobbiamo non certo a chi ha frenato e delimitato ma a chi ha costruito, espanso, sperimentato, esplorato, allargato frontiere, compiuto imprese, messo al mondo qualcosa che prima non c’era o migliorato qualcosa che già c’era. È a questo Dna che dovremmo collegarci, tanto più in una situazione di crisi e di difficoltà: perché è proprio quando le co- se sono così disfunzionali che abbiamo ancora più bisogno di mettere a fuoco soluzioni e suggestioni per migliorare la nostra esistenza. Se diffondiamo la rinunciataria idea che si può decrescere, otteniamo il catastrofico risultato di indicare il movimento e il mutamento come pericoli e allontaniamo dalla natura propulsiva dell’intero progetto vitale. Che poi questa idea di decrescita qualcuno l’addobbi con il fiocco dell’aggettivo «felice» a me sembra francamente imbarazzante: perché questo pensiero può essere certamente virtuoso e mostrare i disastri del modello fondato sullo spreco e sul depredamento delle risorse naturali, ma non produce slanci, non suscita senso dell’impresa, non spinge al dispiego delle nostre capacità inventive, non evidenzia e non valorizza la nostra potenza vitale. Se allora le esigenze da cui nasce l’idea di decrescita sono sacrosante, il sistema di pensiero che ne consegue finisce per risultare tristemente regressivo, devolutivo.

Loro sentenziano che «i limiti della crescita sono definiti». Forse anche no. Perché è vero che ci sono preziosissime sorgenti naturali pericolosamente vicine all’esaurimento – e guai a sottovalutare il problema -, ma è altrettanto e ancora più vero che in tutta la nostra storia noi siamo sempre stati capaci di trovare possibilità inesplorate a problemi apparentemente in- solubili. È questo che intendo quando parlo di crescita: che nella nostra mente, nei nostri muscoli, nel sistema nervoso, nell’intero organismo, noi abbiamo risorse che abbiamo fin qui sperimentato solo in minima parte. Soltanto negli ultimi dieci o vent’anni, noi abbiamo creato una nuova relazione fra biologico e tecnologico, siamo passati da una mente verticale a una orizzontale e connettiva, stiamo per esplorare il nostro Dna individuale, abbiamo costruito una rete potenzialmente illimitata di relazioni istantanee, abbiamo inventato e reinventato mille aspetti della nostra esistenza. Evidenziare tutto questo non significa pensare beatamente positivo – trascurare crisi e disfunzioni sarebbe davvero troppo stupido: significa pensare vitale. Senza una strategia per la crescita – politica ed economica ma prima ancora antropologica e psicologica e vitale – non si va da nessuna parte.

L’Unità 19.12.13

“Manconi: in quei centri le persone diventano cose”, di Alessandra Ziniti

«Noi stiamo assistendo a un processo di “reificazione”, come avrebbe detto Carlo Marx. Quello che ha scandalizzato tutti è il filmato trasmesso dal Tg2, ma quello che ho visto nei Cie o in alcuni campi di raccolta di pomodori in Puglia o in Campania è la riduzione dei corpi a cose, di esseri umani a mezzi uomini. Un processo terribile che si sta verificando in quei luoghi come nelle carceri». Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, ha presentato un’interrogazione al ministro Alfano per sapere se fosse informato delle pratiche di disinfestazione al centro di accoglienza di Lampedusa.
Senatore Manconi, cosa chiede al ministro?
«Sarebbe il caso di valutare se, dal momento che questo tipo di infezione viene normalmente curata con appositi medicinali e con l’adozione di adeguate misure igieniche, le attuali modalità di “disinfestazione” possano essere sostituite con pratiche mediche consolidate e rispettose della privacy e della dignità delle persone».
Lei ha visitato quasi tutti i centri italiani.
Sono così terribili come si dice?
«Ci sono una pluralità di centri che si presentano con nomi differenti che mutano nel tempo. Quello di cui parliamo non è il Cie, il luogo dove vengono trattenuti per l’identificazione, ma dovrebbe essere un centro di accoglienza, destinato ad offrire un’assistenza di primo livello in attesa
di una diversa destinazione sul territorio. Quelli che sbarcano a Lampedusa sono, in maggioranza, richiedenti asilo, e sono persone che quell’asilo o una qualche forma di protezione, in percentuale elevata, lo ottengono in base alla Costituzione italiana e alle convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro Paese. Sono quindi persone che dovrebbero godere di ampia tutela e di assistenza adeguata perché la nostra legge riconosce loro protezione in quanto fuggitivi da guerre, conflitti tribali, persecuzioni politiche, religiose o sessuali. Non sono emigranti economici, sono profughi che vengono in prevalenza da Eritrea e Somalia, zone sconvolte dalla guerra e che rimandano alla storia meno nobile del nostro Paese».
Perché l’Italia non è in grado di garantire loro un’assistenza dignitosa?
«Questi centri vengono gestiti da enti che si aggiudicano bandi al ribasso, dove la spesa pro-capite pro-die arriva anche a 21 euro a persona. E questo, credo, spiega tutto».

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“Più ne arrivano, più guadagnano quel business da 2 milioni al giorno consumato sulla pelle dei migranti”, di ALESSANDRA ZINITI

Più ne stipano in una camerata meglio è, più a lungo restano meglio è, e se sono minorenni ancora meglio, lo Stato paga di più. Ad ogni barcone che arriva, i “professionisti dell’accoglienza” mettono mano alla calcolatrice e le cifre hanno sempre molti zeri. Più di 1.800.000 euro al giorno: tanto, nel 2013, ha speso l’Italia per garantire l’accoglienza ai 40.244 migranti sbarcati sulle nostre coste. Un letto, i pasti, il vestiario, i farmaci necessari e un minimo di pocket money: 45 euro al giorno è la spesa media per ogni immigrato che mette piede in uno dei 27 tra centri di accoglienza, centri di identificazione ed espulsione e centri per richiedenti asilo. Una cifra che aumenta fino a 70 euro se si tratta di minori (8.000 quelli arrivati quest’anno) in considerazione della particolare assistenza che dovrebbe essere loro garantita.
È una torta luculliana quella che in Italia si spartiscono ormai da dieci anni veri e propri “colossi” del business dell’accoglienza: dalla Legacoop alle imprese di Comunione e Liberazione, dalle aziende vicine alla Lega alle multinazionali. Le gare bandite dal Viminale, in genere, vengono aggiudicate con un ribasso medio del 30 per cento sulla base d’asta. Peccato che, in ogni centro, si tengano stipati per mesi almeno il doppio o il triplo degli ospiti. A danno delle condizioni di vivibilità di questi centri, da molti definiti lager, ma a tutto vantaggio
delle tasche dei gestori. «La ragione per cui questo avviene è che in Italia molti servizi per l’immigrazione vengono affidati sulla base di un solo principio: quello del-l’offerta economica più vantaggiosa. C’è un business dell’immigrazione inaccettabile, parliamo di commesse da milioni di euro su cui molti si stanno arricchendo, dove i diritti delle persone scompaiono », denuncia Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati.
Gli aspiranti allo status di rifugiato costituiscono la fetta più ghiotta della torta. Ecco perché quella che è diventata una vera e propria città di richiedenti asilo, il Cara di Mineo, ospitato nel “Villaggio degli aranci” prima abitato dagli ufficiali americani di stanza a Sigonella, è diventato il motore dell’economia di questa parte della provincia di Catania. Quattromila persone di 50 etnie diverse, il doppio della capienza, fruttano al “Consorzio Calatino Terre di accoglienza” la cifra di 50 milioni di euro all’anno. Dentro ci sono tutti, da Sisifo (Legacoop) che gestisce il centro di Lampedusa, alla Senis hospes e alla Cascina Global Service (vicina a Cl), la Croce Rossa, il Consorzio Casa Solidale (vicino all’ex Pdl). E non hanno voluto rimanere fuori dall’affare i Pizzarotti di Parma, i proprietari del complesso edilizio requisito nel 2011 ai tempi dell’emergenza Nordafrica dietro pagamento di un canone di 6 milioni di euro annui. Ora che l’emergenza Nordafrica è finita, sono entrati anche
loro nel Consorzio gestore. Quello che Berlusconi nel 2011 presentò come un modello di accoglienza europea, adesso — stando alle denunce delle associazioni umanitarie — si è trasformato in una sorta di lager dove, solo qualche giorno fa, si è suicidato un giovane siriano in attesa del permesso di soggiorno da mesi.
Trattenere gli ospiti molto più a lungo del previsto è uno dei “trucchi” utilizzati dai gestori di molti Cara. A Sant’Angelo di Brolo, la procura ha accertato che alcuni ospiti rimasero anche 300 giorni dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno, portando illegittimamente 468.000 euro nelle casse del consorzio Sisifo, lo stesso che si è aggiudicato l’appalto di Elmas Cagliari, del Cara di Foggia e del centro di Lampedusa da dove si
calcola siano passati più di 100 mila migranti. Due milioni e mezzo di euro è la cifra dell’appalto per la capienza ufficiale di 250 posti. Per gli ospiti in più, il Viminale paga l’extra. E questo vale per tutti: così l’Auxilium di Potenza degli imprenditori Pietro e Angelo Chiorazzo per il centro di Bari Palese, per Ponte Galeria a Roma o per Pian del Lago a Caltanissetta incassano molto di più dei 40 milioni di euro previsti dai bandi di gara.
Da tempo hanno fiutato l’affare anche i francesi della Gepsa, specialisti delle carceri, e la multinazionale Cofely Italia, che non disdegnano l’associazione con l’Acuarinto di Agrigento o la Synergasia di Roma per gestire il Cara di Castelnuovo di Porto a Roma o al Cie di Gradisca d’Isonzo. E a reclamare la sua fetta di torta c’è anche la Misericordia del pretemanager di Isola Capo Rizzuto che da dieci anni, per 28 milioni di euro all’anno, gestisce un Cara in cui la maggior parte degli ospiti dormono anche in dieci in vecchi container.

La Repubblica 19.12.13

“Se scompare la norma contro i super editori”, di Giovanni Valentini

In quell’happening parlamentare che è diventata ormai l’approvazione della legge finanziaria, ribattezzata eufemisticamente legge di Stabilità, la
norma non compare. E non c’è neppure nel cosiddetto “decreto milleproroghe” che il governo si appresta a presentare entro l’anno, come i saldi di
fine stagione.
Se nessuno di lorsignori se ne ricorderà in tempo, il 31 dicembre prossimo decadrà perciò il divieto di incroci fra televisione e carta stampata, stabilito nella famigerata legge Gasparri per compensare il trattamento di favore riservato al Cavaliere e rassicurare i suoi avversari. Dal 1° gennaio 2014, quindi, il titolare di una concessione tv potrà acquistare anche la proprietà di un quotidiano: per esempio, Silvio Berlusconi potrà riprendere il controllo diretto del “Giornale” che a suo tempo finse di cedere al fratello Paolo; o magari, conquistare il “Corriere della Sera”, “La Stampa” o qualsiasi altra testata nazionale che il legittimo editore sia disposto a cedere.
Il divieto, in realtà, scadeva già l’anno scorso. Ma la legge di Stabilità del governo Monti, approvata a dicembre del 2012, stabilì appunto una proroga di dodici mesi. E ora ci risiamo.
Intendiamoci: nell’ottica della multimedialità, un’editoria moderna dovrebbe articolarsi su più mezzi e svilupparsi su diverse piattaforme. Imperniata sul bit, la comunicazione digitale non fa più distinzioni tra carta, televisione e radio. E Internet è il “medium dei media”, la grande rete che coinvolge e contamina tutti i contenuti, i codici, i linguaggi. Un divieto del genere, dunque, non dovrebbe avere più ragion d’essere.
La situazione italiana, però, fa ancora eccezione. Con una concentrazione televisiva così abnorme, e tre reti generaliste in mano a uno stesso operatore privato, l’eventualità di un incrocio proprietario fra tv e carta stampata risulterebbe un’ulteriore minaccia al pluralismo dell’informazione e alla libera concorrenza. Tanto più che si tratta di un soggetto che, benché “decaduto” da parlamentare, è pur sempre il leader immarcescibile di un partito politico, già pronto a ricandidarsi alle prossime elezioni europee.
Oggi, verosimilmente, Berlusconi ha tutt’altro a cui pensare: deve ancora capire se finirà in carcere, a leggere magari l’ultimo libro sul suo amico Bettino Craxi; oppure se verrà affidato ai servizi sociali per andare a “pulire i cessi” — come ha paventato recentemente lui stesso — nella comunità di don Mazzi. E quanto al fido Gasparri, anche lui ha qualche pendenza con la magistratura, dalla quale è stato accusato di peculato per aver utilizzato a fini personali 600mila euro dei fondi assegnati al suo gruppo parlamentare, poi restituiti un anno dopo.
Il problema, tuttavia, non è né Berlusconi né tantomeno Gasparri. La questione riguarda piuttosto l’assetto del sistema televisivo italiano e più in generale quello dell’informazione. Evidentemente, non si può andare avanti a colpi di proroghe all’infinito. Un altro anno di tempo sarà utile senz’altro per arrivare a una soluzione definitiva: bastano tre righe per spostare il termine al 31 dicembre 2014. Ma, dopo che saranno state affrontate le principali emergenze economiche e sociali, sarà opportuno che la “maggioranza della decadenza”, formata da Pd, Sel e Movimento 5 Stelle, metta mano a una riforma complessiva che assicuri finalmente il pluralismo dell’informazione e la libera concorrenza.

La Repubblica 19.12.13

“Cervello e salute, l’età non si misura in anni”, di Edoardo Boncinelli

Avere quarant’anni, cinquantacinque, settanta o ottantacinque, sembra che siano oggi solo espressioni verbali, utili ma non decisive, orientative ma non descrittive. «Ognuno ha l’età che si sente addosso», si sente anche dire spesso e se questa frase viene presa con spirito e parsimonia sembra essere quella che meglio descrive la situazione. Non stiamo parlando ovviamente di gravi patologie, e soprattutto stiamo parlando del nostro tempo, nel quale la vita si sta allungando di più di un trimestre ogni anno che passa. Molti anziani vivono così una vera e propria «età guadagnata». Con un bonus particolare per le donne, che vivono in media sei-sette anni più dei maschi. Lo conferma una recente ricerca pubblicata dalla Population and Development Review , rivista scientifica americana che ha messo in relazione l’età anagrafica con altri fattori che contribuiscono a determinare l’«età reale»: salute, tasso di disabilità, funzioni cognitive. E lo confermano anche i risultati di una ricerca pubblicata poco tempo fa sul British Medical Journa l, relativa a coppie di gemelli: dei due viveva di più quello che si sentiva (e appariva) più giovane.
Allora l’età non conta? Conta, conta, ma come un disegno potenziale, che se non viene sviluppato e portato in primo piano nemmeno si vede. Queste sono parole di speranza, ma non sono dolciastra melassa o follia consolatoria, sono un invito a viversi la vita secondo le proprie aspirazioni e le proprie aspettative; i propri sogni direi. È questa una grande nuova libertà, e anche un poco una nuova responsabilità.
Due sono le forze portanti di una giovinezza protratta: la progettualità e l’attività. Mai chiudersi gli orizzonti e sentire il proprio futuro accorciarsi. Dietro abbiamo una vita e perché non pensare di averla anche davanti? Se c’è la passione, ovviamente, e magari più passioni. In fondo è la passione che dà spessore alla nostra vita e ne determina la dimensione reale: non necessariamente una vita lunga, ma una vita piena, libera e calda, e in questo il cervello conta molto. A fronte del dilagare di consigli di tutti i tipi per invecchiare meglio, il mio motto è: «Mangiare di tutto con moderazione, fare sport senza esagerare, adoperare il cervello senza paura di esagerare».
Perché il cervello? Non lo sappiamo, ma si è osservato da più parti che il cervello deve gestire sostanze che controllano in qualche modo il procedere dei nostri anni, e anche in caso di gravi patologie neurodegenerative chi ha vissuto adoperando di più il proprio cervello sta decisamente meglio. Prima o poi capiremo perché, e ne faremo un caposaldo della nostra condotta.
Nel frattempo che fare? Non strafare in niente, ma semmai straimmaginare, se il verbo esistesse, e aspettarsi tanto dai giorni a venire e «affacciarsi» su quelli. In fondo gli anni sono fatti di giorni. Non mangiare troppo né troppo poco, bere con moderazione e non fumare, sono i punti essenziali, ma anche andare dal medico e curarsi. Non curarsi è da stupidi, non da eroi. Ascoltare i consigli del medico e farsi le analisi prescritte. Sembra ridicolo, ma molti appassiscono tristemente per non avere osservato queste elementari precauzioni, magari facendosi forti del fatto di essere sempre stati sani.
Avere buoni geni non guasta certamente, ma avere un buon rapporto con se stessi è ancora più importante. In fondo tutte le religioni hanno spinto a farsi una sorta di «esame di coscienza», in solitario o con qualche «saggio». Penso che sia fondamentale. Ogni sera guardarsi nello specchio e dire: «Puoi guardarti a testa alta? Hai fatto quello che si deve, ovviamente, ma anche quello che ti senti di fare? Hai guardato il mondo e te nel mondo? Hai pensato che se ti trascuri, psicologicamente o fisicamente, puoi procurare un inatteso dolore alle persone che ti sono più care? Hai messo in moto qualche piccolo nuovo meccanismo e hai seminato qualche seme? Ti piacerebbe che dopo morto si parlasse di te come ora vorresti che si parlasse di te? Come tu, nel tuo intimo, parli di te? Sai immaginare come chi ti conosce parlerà di te?». Così facendo anche la morte si esorcizza e diviene uno dei tanti episodi della vita. In fondo la paura della morte è la paura della (brutta) vita. È della vita e di una eventuale sua malaconduzione che si deve avere paura.
E soprattutto è importante poter dire «Ho vissuto», senza sprecare occasioni e opportunità, senza rinunciare per paura. Nessuno ci vuole più bene di chi si aspetta tanto da noi. Compresi noi stessi.

Il Corriere della Sera 18.12.13

“L’insostenibile incertezza del diritto”, di Marco Cattaneo*

È di venerdì scorso l’ultimo editoriale di «Nature» sulla vicenda Stamina. E come al solito non lesina critiche a quanto sta accadendo da quasi un anno a questa parte, se è vero che si intitola Stem-cell fiasco must be stopped. Prende spunto dalla recente sentenza del TAR del Lazio con cui è stato sospeso il decreto di nomina del Comitato scientifico del Ministero della Salute che ha bocciato il metodo Stamina, per invocare un atto del ministro: “Lorenzin should bring a stop to this uncertainty”.
Il ministro Lorenzin, dunque, dovrebbe mettere fine a questa incertezza.

Forse i colleghi di «Nature» non ne sono consapevoli, ma hanno messo il dito su una piaga che è tra le ferite più dolorose di questa infelice stagione del nostro paese. L’incertezza. Che è sì quella della crisi economica, ma pure quella in cui per settimane, per mesi, non si sapeva che cosa sarebbe diventata la tassa sulla casa, giusto per limitarsi a un esempio. A margine tutto questo c’è anche un’incertezza, insostenibile e forse pure inaccettabile, del diritto. Che si è fatta palese con la sentenza del TAR, e non solo.

Ma cominciamo da qui. Secondo la sentenza, il fatto che alcuni esperti avessero già espresso parere negativo in riferimento al cosiddetto metodo Stamina non avrebbe garantito «l’obiettività e l’imparzialità del giudizio, con grave nocumento per il lavoro dell’intero organo collegiale».
In questo senso, la sentenza del TAR è singolare, perché sembra che si riferisca al giudizio del Comitato come se questo avesse dovuto esprimersi su faccende giudiziarie, oppure politiche, non su questioni tecniche.
Questo aspetto è cruciale, al punto che lo ha colto anche Amedeo Santosuosso, già giudice del Tribunale di Milano e presidente del Centro di ricerca Interdipartimentale European Centre for Law, Science and New Technologies (ECLT) dell’Università di Pavia. Sempre «Nature», infatti, riferiva il 4 dicembre il commento di Santosuosso, secondo il quale «un comitato tecnico richiede esperti tecnici… La decisione della Corte scardina la funzione di un comitato tecnico».
E in effetti il punto è semplice. Il Comitato ministeriale non era chiamato a dare un’opinione su una materia in qualche modo scivolosa. Era chiamato a esprimere un giudizio tecnico su una materia in cui le opinioni non hanno cittadinanza. E se sono plausibili le indiscrezioni apparse sulla stampa, come queste, difficilmente un comitato avrebbe potuto accettare un protocollo che forse non è nemmeno corrispondente a quello adottato presso gli Spedali Civili di Brescia.

Nelle questioni scientifiche, chi è chiamato a esprimere un’opinione mette in gioco la propria credibilità come esperto e come scienziato. E non credo che nessuno dei membri del comitato potesse pensare di farla franca dando un parere negativo se poi invece il metodo Stamina si fosse dimostrato non solo idoneo, ma efficace. In soldoni: nelle cose di scienza, se una cosa ha senso e io dico che non ne ha, faccio una figuraccia planetaria, e al prossimo congresso nessuno mi rivolge più il saluto. Chi butterebbe all’aria una brillante carriera solo per il gusto di bocciare un metodo che invece ha solidi fondamenti?

Ma c’è dell’altro, come dicevo. Non più tardi di quindici mesi fa, il TAR della Lombardia emetteva una sentenza (TAR LOMBARDIA – BRESCIA, SEZ. II – ordinanza 5 settembre 2012 n. 414–a) in cui scriveva: «Appare legittima l’ordinanza dell’AIFA recante il divieto “con decorrenza immediata, di effettuare: prelievi, trasporti, manipolazioni, colture, stoccaggi e somministrazioni di cellule umane presso l’Azienda Ospedaliera Spedali Civili di Brescia, in collaborazione con la Stamina Foundation ONLUS, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 142 del d. lgs. 219 del 2006″, atteso che tale ordinanza è stata motivata facendo puntuale riferimento alla mancanza dei requisiti di cui alle lettere a) e c) del quarto comma dell’art. 1 del D.M. 5 dicembre 2006 (sulla “utilizzazione di medicinali per terapia genica e per terapia cellulare somatica al di fuori di sperimentazioni cliniche e norme transitorie per la produzione di detti medicinali”) e all’inosservanza del disposto di cui al successivo sesto comma. Infatti i requisiti ai quali il citato art. 1 del D.M. 5 Dicembre 2006 subordina l’impiego dei medicinali di cui qui si tratta su singoli pazienti debbono essere compresenti affinché un tale utilizzo sia consentito (3)».

Uno dei problemi è che i ricorrenti non avrebbero prodotto un’adeguata documentazione in relazione all’ormai famoso Decreto ministeriale del 5 dicembre 2006, e in particolare dell’articolo 1, comma 4 lettera a). «Vi era una mancanza di evidenza scientifica che consentiva la sperimentazione – scriveva il TAR – atteso che, a sostegno della sussistenza di tale requisito, i ricorrenti avevano prodotto un’unica pubblicazione, di tre pagine, redatta dal dott. Marino Andolina su una rivista edita in Corea; dal complesso del documento prodotto (oltre al testo dell’articolo, le referenze della rivista) e dalle deduzioni dei ricorrenti non era dato evincere se si tratti di “accreditata rivista internazionale”…». La sola pubblicazione su una rivista coreana che abbiamo trovato a nome di Marino Andolina è questa, apparsa nel maggio 2012 su «International Journal of Stem Cells».
Insomma, secondo il TAR della Lombardia nel settembre 2012, il metodo Stamina non avrebbe dovuto essere somministrato, perchè mancante dei requisiti necessari secondo il Decreto del 5 dicembre 2006.

A fronte di tutto questo, nelle ultime settimane due tribunali – quello di Pesaro e quello dell’Aquila hanno autorizzato, e nel secondo caso ordinato l’infusione d’urgenza della «cura» Stamina in due bambini affetti da gravi malattie. Singolare, addirittura, la sentenza dell’Aquila, intervenuta dopo che solo due settimane prima lo stesso Tribunale si era pronunciato diversamente e dopo altre due sentenze negative del Tribunale di Chieti.

L’incertezza, dicevamo. È quella che ha trasformato il caso Stamina da una questione medico-scientifica in questione politica prima e infine in questione giudiziaria in cui i contorni delle leggi sono talmente interpretabili che ogni sentenza trova una sua ratio in sfumature diverse. E a ben pensarci forse è proprio per questo che il TAR del Lazio ha bocciato la costituzione del Comitato ministeriale. Perché in giurisprudenza il corpo delle leggi è interpretabile, evidentemente a discrezione di chi è chiamato a giudicare, e dunque sulla base di convinzioni personali, più o meno radicate.
Nella scienza non è così. Nemmeno nella ricerca medica. Perché una qualunque metodica diventi una cura occorre che i suoi effetti siano verificabili e riproducibili da ricercatori indipendenti. Ci siamo quasi stancati di scriverlo. È così per tutti, e da un sacco di tempo. Se esiste un metodo Stamina, dunque, a questo punto sarebbe bene che fosse finalmente reso pubblico, una volta per tutte, e messo sotto il giudizio dell’intera comunità scientifica.

E, d’altra parte, a mettere in fila tutte le sentenze – favorevoli e contrarie – che si vanno susseguendo sulla questione Stamina c’è da farsi venire il capogiro. Per questo sarebbe quanto mai opportuno che la politica tornasse a chiarire i riferimenti di legge in relazione alle terapie cellulari. Perché il Far West non aspetta. Il Far West è già qui.

*direttore de Le Scienze, Mente e Cervello e National Geographic

da http://cattaneo-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/

Sisma, parlamentari Pd “Sono 16 i nostri emendamenti accolti”

Grande risultato complessivo del lavoro congiunto dei parlamentari modenesi del Pd. “C’è chi fa chiacchiere e lancia accuse, chi organizza viaggi turistici e spot, e c’è chi, come il Pd, porta a casa risultati concreti, spesso ottenuti con fatica e senza clamore mediatico”: concluso il lavoro della Commissione Bilancio della Camera sulla Legge di stabilità e in fase di conclusione anche la discussione sul decreto Enti locali al Senato, i parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini, Matteo Richetti e Stefano Vaccari, tracciano un bilancio complessivo del frutto del loro pervicace impegno, di queste ultime settimane, sui temi attesi nell’area del cratere sismico. Facendo un conto totale sono ben 16 gli emendamenti targati Pd accolti, in diversi provvedimenti legislativi. Introducono tutti importanti novità legislative richieste a gran voce nelle zone colpite dal sisma del 2012. Eccone l’elenco completo in ordine di accoglimento:

1) la proroga di tre anni del pagamento delle tasse

2) l’esclusione dal computo del patto di stabilità delle risorse destinate ai lavori di ricostruzione dei fabbricati danneggiati dal sisma anche per i Comuni capoluogo, ovvero Modena, Bologna e Reggio Emilia

3) il commissario straordinario Errani potrà utilizzare parte delle risorse stanziate con il primo decreto n.74 per “agevolazioni in forma di contributo in conto capitale alle imprese che abbiano realizzato o realizzano investimenti produttivi nei territori dei Comuni colpiti dal terremoto”

4) la proroga per altri sei mesi dei termini per la verifica di sicurezza dei capannoni industriali

5) la proroga dei “comandi del personale della Pubblica amministrazione che lavora presso gli uffici territoriali del ministero per i Beni culturali presenti nelle province di Modena, Bologna e Reggio Emilia”

6) l’allentamento del patto di stabilità dei Comuni colpiti per un valore di 20,5 milioni di euro nel 2014 e 10 milioni di euro per la Regione Emilia-Romagna

7) la sospensione per il 2014 del pagamento delle rate dei mutui da parte dei Comuni accesi con la Cassa Depositi e prestiti per un valore complessivo di 12,1 milioni di euro

8) il riconoscimento del danno subito anche per i cittadini residenti nei Comuni limitrofi all’area del cratere, per chi non ha la residenza anagrafica nei Comuni in questione, per chi risiede all’estero

9) il riconoscimento del danno subito anche dai beni mobili strumentali e dalle scorte di magazzino e di quello conseguente ai costi di delocalizzazione dell’attività

10) la proroga al 31 dicembre 2014 della possibilità di accedere al credito e agli aiuti previsti per le aziende agricole zootecniche e casearie

11) la proroga fino al 2015 della possibilità per i Comuni di assumere personale a tempo determinato per far fronte all’emergenza sisma

12) la possibilità, attraverso i piani della ricostruzione, di usufruire dei contributi previsti in caso di demolizione dell’edificio danneggiato anche per acquistare immobili già edificati per l’edilizia sia residenziale che produttiva che commerciale

13) fermo restando il contributo massimo del 100%, si apre la possibilità di usarne fino al 30% per l’acquisto di terreni

14) la possibilità di cedere a terzi la ricostruzione degli immobili da parte dei proprietari che non intendono ricostruire

15) il commissario straordinario avrà la possibilità di utilizzare fino a tre milioni di euro per risarcire gli interessi dei muti accesi dai privati nel 2012

16) un solo condomino delegato o l’amministratore del condominio potranno firmare per il recupero dell’intero edificio danneggiato

“Il Movimento 5 Stelle – aggiungono i parlamentari modenesi del Pd – solo nello scorso fine settimana in tour nella Bassa modenese, aveva provocatoriamente lanciato l’accusa “A Roma nessuno parla di voi”. Ci permettiamo di dire, alla luce anche dei risultati ottenuti, che non è vero che a Roma nessuno parla dei cittadini, delle imprese e delle amministrazioni delle aree del cratere sismico, lo fa il Pd portando a casa questi risultati. E’ vero piuttosto che, nonostante l’offensiva mediatica, è proprio il Movimento 5 stelle ad essere muto su questi temi, come ha dimostrato anche con il voto (o meglio il non voto) per la proroga del pagamento delle tasse. L’ascolto dei territori – concludono i parlamentari modenesi – il Pd lo pratica con continuità e a tutti i livelli, ma l’ascolto non può rimanere fine a se stesso: deve necessariamente essere accompagnato da fatti concreti. Ecco, noi siamo in grado di stilare un elenco. Gli altri?”.