Latest Posts

“Statali in cura dimagrante. 200 mila in meno in 4 anni”, di Michele Di Branco

«La riduzione del personale conferma l’efficacia delle politiche di contenimento del turn over introdotte per la generalità dei comparti a partire dal 2008». Fredda ma efficace, la sintesi della ragioneria del ministero dell’Economia fotografa la situazione: grazie alle strategie messe in campo negli ultimi 4 anni da governi di ogni colore lo Stato ha tagliato 200 mila dipendenti. Una massiccia operazione fatta di prepensionamenti, esodi, scivoli e di una severa riduzione delle assunzioni. Tanto è vero che a decine di migliaia, pur avendo vinto un concorso, aspettano da anni il proprio ingresso in ruolo. I numeri del conto annuale 2007-2012 parlano di una delle più incisive cure dimagranti che abbiano mai riguardato i travet. Con conseguenze importanti sui posti di lavoro, sulle retribuzioni. E, ovviamente, sulla spesa. Via XX Settembre certifica che alla fine del 2012 i lavoratori pubblici erano 3 milioni e 238 mila, con una diminuzione di 198 mila unità rispetto al 2008 quando erano 3 milioni e 436 mila. Un calo del 5,7% che ha avuto un’accelerazione proprio tra il 2011 e il 2012, fase nella quale si è registrata una diminuzione di 45 mila unità (-1,4%). La ragioneria dello Stato sottolinea che la variazione, tra il 2007 e il 2012, sarebbe più marcata (-6,3%) se calcolata a parità di enti, ossia escludendo dal confronto quelli entrati per la prima volta nella rilevazione dal 2011. Il settore che più ha contribuito alla riduzione del personale è la scuola (125 mila unità in meno tra il 2007 e il 2012 con un -10,9% in cinque anni).
TEMPI DURI

Ed anche se i tecnici sottolineano che «la diminuzione di 2 mila persone nel 2012 ha rappresentato una sostanziale stabilità», il comparto presenta valori in calo per tutto il periodo. Una emorragia di tali proporzioni che la scuola, da sola, ha contribuito per il 60% alla riduzione complessiva del personale nel pubblico impiego. Tuttavia la variazione negativa ha interessato quasi tutti i comparti. Sacrifici pesanti per i ministeri (-11,5% dal 2007 e -2,6% tra il 2011 e il 2012), le autonomie locali (-5% nel quinquennio, -2,6% nell’ultimo anno) e gli enti pubblici non economici (-17%, – 3,3% solo nell’ultimo anno). Un trend che, secondo le valutazioni del ministero dell’Economia, si confermerà anche nel 2013. «A fine anno – annotano i tecnici – è probabile che ci sia una riduzione del personale sui livelli del 2012». Infatti nei primi sei mesi dell’anno nel quale si è confermato il blocco del turn over si è registrata una riduzione di personale dello 0,62%. Il taglio dei posti di lavoro ha centrato l’obiettivo principale per il quale era stato programmato: la riduzione del costo del lavoro. La spesa per le retribuzioni che nel 2008 valeva 167,8 miliardi si è ridotta a 160,4 nel 2012. E solo tra il 2011 e il 2012 è diminuita di circa 5 miliardi (-2,8% ). Pesanti anche i riflessi sui portafogli. Lo stipendio medio nel 2011 era di 34.899 euro, mentre nel 2012 è scivolato a 34.576 con un calo dello 0,9%. Ma non tutte i comparti hanno tirato la cinghia e i magistrati (che non hanno contratto ma retribuzioni stabilite per legge) hanno avuto nel 2012 un aumento dell’8% sul 2011 raggiungendo una retribuzione media di 141 mila euro. Nel frattempo, è cresciuta la presenza femminile negli uffici pubblici: nel 2012 ha raggiunto il 55,5% del totale (era al 54% nel 2007 ). L’incremento della quota rosa, fanno notare da Via XX Settembre, «è dovuto sia al maggior numero di assunzioni rispetto agli uomini (circa 5mila in più) sia al minor numero di cessazioni (17mila in meno)». Quanto alla distribuzione territoriale dei dipendenti, ad eccezione della Liguria tutte le regioni del nord hanno aumentato il loro peso. La Lombardia è la regione con il maggior numero di statali (il 12,5% del totale ).

Il Messaggero 17.12.13

Napolitano, ultimo avviso «Incarico legato alle riforme», di Marcella Ciarnelli

̀ E’ ai rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e della società civile chiamate al Quirinale per gli auguri di fine anno che il presidente della Repubblica ha elencato i mali (molti) che l’Italia ogni giorno si trova ad affrontare; le ragioni (poche) di ottimismo; le responsabilità di chi non ha saputo dare risposte al malessere sociale crescente che richiede invece la massima attenzione; la necessità di arrivare a riforme che garantiscano la stabilità senza inseguire l’idea che elezioni anticipate possano essere la panacea di tutti i mali.

Sono queste le ragioni per cui Napolitano, nell’aprile scorso, venne meno alla «convinta e motivata» conclusione del suo mandato e accettò il reincarico. Quell’atto, che «nessun tentativo di spudorato rovesciamento della verità» può oscurare, fu compiuto, ha ricordato il Capo dello Stato, indicando «inequivocabilmente i limiti entro cui potevo impegnarmi a svolgere ancora il mandato di presidente. Anche di quei limiti credo abbiate memoria ed io doverosamente non mancherò di rendere nota ogni mia ulteriore valutazione della sostenibilità, in termini istituzionali e personali, dell’alto e gravoso incarico affidatomi».

Parole che risuonano come un ultimo appello al senso di responsabilità di quanti debbono dare risposte al Paese. O la strada, che appare chiara da tempo, viene percorsa con senso di responsabilità oppure il presidente potrebbe anche prendere in considerazione l’ipotesi di lasciare il suo incarico ad altri. Possibilità, peraltro, già adombrata, nel caso la road map delle riforme non fosse stata percorsa nei tempi previsti, già nel suo discorso d’insediamento davanti ai grandi elettori che lo avevano appena confermato al Colle.

Ma, per il momento, Napolitano si è voluto ancora «concedere il condizionale della speranza» sollecitando ancora una volta misura, serenità, consapevolezza nel fare politica, a quanti in questi mesi sono stati interlocutori che troppo spesso hanno perso il senso di una responsabilità comune mentre l’Europa ci guarda.

Confermata la fiducia nel Parlamento «rinvigorito da più giovani forze e da nuove leadership in diverse formazioni politiche» (Renzi era lì ad ascoltare), il presidente non ha mancato a richiamarlo «a fare la sua parte per sollecitare, discutere, sostenere scelte efficaci di governo» e ad impegnarsi «a fondo sul terreno delle riforme costituzionali e della nuova legge elettorale» senza più «pestare l’acqua nel mortaio».

IL CONTRIBUTO DI TUTTI

Per quanto riguarda le riforme costituzionali il presidente ha sollecitato Forza Italia a non abbandonare il percorso intrapreso anche se ha lasciato la maggioranza di un governo «che poggia sul- le sue forze». In questo campo «la ricerca della più larga convergenza resta sempre uno sforzo da compiere e non ha niente a che vedere con il concordare o il contrastare larghe intese o grandi coalizioni di governo». Mancare ancora una volta questo obbiettivo sarebbe comunque una sconfitta per tutti. Però a Berlusconi, assente alla cerimonia, il presidente ha voluto ricordare che nessuno è autorizzato ad «evocare immaginari colpi di Stato e oscuri disegni cui non sarebbero estranee le nostre più alte istituzioni di garanzia. Queste estremizzazioni di ogni giudizio e reazione non giovano a nessuno e possono provocare guasti nella vita democratica». Ed anche che, pur comprendendo il trauma davanti alla condanna definitiva che lo ha portato fuori dal Parlamento, «sempre e ovunque negli Stati di diritto non può che riaffermarsi il principio della divisione dei poteri e quindi del rispetto, da parte della politica, delle autonome decisioni della magistratura». Il che non toglie che qualunque azione per ottenere una giustizia che si afferma di non avere avuto sia legittimo in qualunque sede in Italia e all’estero.

Sulla legge elettorale ha dovuto decidere la Consulta. Il rammarico del presidente è evidente. Troppe volte ha sollecitato il Parlamento a non farsi sconfiggere da un’altra istituzione, a svolgere fino in fondo il proprio impegno. Non è andata così. Le motivazioni della Consulta chiariranno il percorso che ha portato i quindici giudici a quella sentenza. Ma ora una legge bisogna farla. Una legge che, partendo dalla Camera com’è stato deciso, arrivi a compimento dopo un’analisi spedita delle diverse opzioni possibili «per dare al Paese una legge che soddisfi con corretti meccanismi maggioritari esigenze di governabilità proprie di una democrazia governante, di una democrazia dell’alternanza».

Tante reazioni positive al discorso del presidente con l’eccezione di Forza Italia. Qua e là, in premessa, sottolineano il «doveroso rispetto istituzionale». Ma dai toni con cui i berlusconiani commentato si capisce che da quelle parti non è più tempo di giri di parole. Renato Brunetta si dice «sconcertato», Daniela Santanché parla di intervento «omertoso» visto che sorvola sul «tradimento del patto politico» di «pacificazione» su cui nacque il governo Letta, mentre la delegazione azzurra che era presente al Quirinale si premura di far sapere di essere stata a un passo dall’alzarsi e andare via. L’accusa è esplicita: il capo dello Stato «non è più un garante» non è più un «arbitro imparziale ». Insomma, travalica il suo ruolo.

L’Unità 17.12.13

“La scuola come l’ex Iugoslavia”, di Mila Spicola

Spesso mi chiedono: qual è la prima cosa da fare per la scuola italiana? È possibile avere un’altra scuola? Cerco di approfondire, perché per desiderare un’«altra scuola» bisogna prima capire cosa sappia della scuola chi se ne auspica un’altra. E in genere ne sa poco. Molto poco. E quel poco è pieno di narrazioni falsate. Di opinioni personali derivanti dai propri ricordi, dai «bollettini di guerra» elaborati ad ogni rapporto nazionale sulle Invalsi o sui test Pisa in modo sommario e poco approfondito, o dalle complesse articolazioni dei personali rapporti con «l’insegnante di mio figlio». Credo però che tutti i cittadini debbano sapere e ogni volta, mi siedo con calma e comincio a discuterne, sempre, con chiunque. In rete, come al bar, come alla cena tra amici, come nell’azione politica, come nelle cose che scrivo. Vorrei che si capisse che la «scuola italiana» non esiste come unicum, ma esiste come una sorta di confederazione fatta di realtà e di esperienze e di razze e di persone così diverse, frammentate e varie che forse solo la Jugoslavia di Tito potrebbe rendere l’idea. E come quella è pronta a esplodere ad ogni azione governativa poco attenta. È una scuola che va dalle eccellenze mondiali del Nord Est alle disastrate realtà scolastiche della Sicilia. E anche lì, immagino che il dirigente dell’Istituto d’arte di Monreale possa bacchettarmi e ricordarmi che la scuola da lui diretta, un istituto tecnico, smentisce la vulgata dei pessimi istituti tecnici specie al Sud. E così l’Istituto alberghiero di Catania. Ma insieme a questi ci sono le 13 scuole che a Palermo i Vigili del fuoco hanno dichiarato inagibili. Ci sono i ragazzi della classe di un altro Istituto tecnico lasciati da soli senza prof e senza vigilanza per tre ore a scannarsi perché la scuola non ha i fondi per i supplenti, ci sono quelli che non hanno potuto occupare la propria scuola perché è caduto il solito cornicione dal tetto. Forse questa volta con gli auspici di genitori in apprensione. Ci sono i docenti scoraggiati e affannati che non trovano il tempo di posare manco la penna, altro che aggiornarsi, ma ci sono anche quel 20% di docenti italiani che rappresentano il gruppo più numeroso e qualificato in sede europea di sperimentazione nella didattica digitale e di condivisione metodologica. E però c’è quell’insegnante di italiano che, mi segnala la figlia di un’amica, «non ci guarda mai negli occhi» a fronte di «quella di filosofia» che ci incanta per un’ora. E poi ci sono le 8 ore trascorse a scuola dagli studenti lombardi e le 4 ore scarse passate sui banchi dai bambini siciliani e tutti là a dire che «non conta la quantità ma la qualità». Sfido la Lombardia a dimezzare il tempo scuola. Ci sono quei somari degli adulti che non sanno fare più due più due e non ci pensano che un bambino della periferia di Palermo, al di là della «qualità della didattica», fattore decisivo, lo so, ha bisogno innanzitutto di esser tolto dalla strada, di trascorrere a scuola non dico 8 ore, ma 12. Per vivere sano, prima che per imparare. Allora qual è il problema della scuola italiana? Se non la frammentazione? Se non la necessità di offrire a tutti i bambini pari opportunità di offerta formativa, anzi, offrire loro, nei casi in cui sono disgraziati per condizione e destino, magari di più? Perché a via di ripetere le frasi di Don Milani sulle fette di torta ne abbiam fatto una barzelletta mediatica mai un programma di governo. E qual è il problema della scuola italiana, se non la frammentazione di formazione dei docenti e di selezione? Jugoslavi anche noi per provenienza, formazione, selezione e professione? Chi forma i docenti? Come e a che cosa? Chi seleziona i docenti? Come e a che cosa? C’è una babele formativa e selettiva e gestionale. Eppure non sembra preoccupare nessuno. Sono tante le cose da fare per la scuola, intanto non pensare di desiderare un’altra scuola, ma pensare di fare finalmente la scuola italiana. Cercando di ottenere un’offerta uniforme ed equa, da Bolzano ad Agrigento, provincia tra le più povere d’Italia, e di mettere a sistema le mirabili eccellenze che noi abbiamo in ambito scolastico. Poi, possiamo metterci ad elencare i singoli ambiti di azione, docenti, gestione, organizzazione, strutture, valutazione e risorse… e magari lo faremo su questo giornale. Ma la prima cosa è dare ai bambini e alle bambine d’Italia pari opportunità, soprattutto a quelli poveri. Perché non è possibile che accada ancora oggi quello che raccontava il prete di Barbiana: che gli incapaci e immeritevoli nascano soprattutto tra i poveri. Lui lo vedeva, noi docenti lo vediamo. Oggi lo certificano i test Ocse Pisa. Se c’è qualcuno là fuori batta un colpo.

L’Unità 17.12.13

“Dopo sei anni di crisi c’è un’Italia che va settanta innovatori pronti a fare squadra”, di Federico Fubini

n questa Italia decresciuta già più che nella Grande Depressione, è ancora possibile credere all’impresa e al successo: quello che crea lavoro, conoscenza, il senso di non essere tagliati fuori dal mondo. Incredibile a dirsi nel sesto anno di crisi, in Italia è ancora possibile credere che un imprenditore riesca a beneficiare gli altri beneficiando se stesso.
Non è certo a priori che in tutto questo Moncler si confermerà. Il progetto c’è ma il titolo ieri senz’altro è stato sospinto al rialzo anche da riflessi speculativi e dalla quantità di denaro a rimasto a lungo nascosto e come paralizzato dai traumi recenti. Ma un domanda 30 volte l’offerta su Moncler contiene anche un messaggio più ampio: dopo una caduta del Pil del 9% in pochi anni, qualcosa di mai visto in tempo di pace, gli italiani credono ancora al fare impresa. Anche in aziende che partono (o ripartono) da zero o da un punto difficile. Un gruppo di professionisti italiani fra Londra e New York si messo in rete, si è dato un nome (“Action Institute”) e fra le iniziative che ha preso per aiutare il Paese ne ha lanciata una sorprendente: ha stilato una lista dei settanta innovatori d’Italia, imprenditori capaci di venire dal niente e creare qualcosa.
L’ambizione è metterli in rete, se non altro per scambiarsi consigli o modelli vincenti. La sorpresa è che dietro i nomi ormai noti di Cucinelli o Yoox nella moda, Eataly nell’alimentare o Technogym negli attrezzi di fitness, c’è una generazione. Innovatori che spesso volano sotto i radar ma dimostrano che in Italia, malgrado tutto, si può inventare, attrarre investitori e crescere in pochi anni.
Fra i settanta di “Action Institute” non mancano imprese partite anche solo pochissimi anni fa e capaci di arrivare a centinaia di milioni di fatturato. Malgrado le tasse, la burocrazia o la recessione. Nel mondo del web è il caso per esempio del gruppo Banzai, fondato da Paolo Ainio e Andrea Di Camillo nel 2008 e già arrivata a un fatturato di 130 milioni di euro nel 2012 (e centinaia di posti di lavoro) anche grazie al commercio elettronico. Ma fra gli innovatori il cui successo è pari solo alla discrezione, l’esempio di spicco è quello di Laura Buoro: vent’anni fa questa imprenditrice che non fa mai parlare di sé ha fondato a Oderzo, in provincia di Treviso, la Nice for You. Pochi ne hanno sentito parlare fuori dalla cerchia degli addetti, ma Nice è un leader globale nell’automazione domestica (dagli allarmi alla domotica avanzata), capace di passare da zero a 274 milioni di fatturato in vent’anni. Con l’indotto, sono molte migliaia di posti ricchi di capacità manifatturiera, tecnologia, ricerca. Nei vent’anni più difficili della storia economica dell’Italia unita, Laura Buoro senza frasi a effetto ha dimostrato come restare “medio-piccoli” per il made in Italy non è né un destino, né una virtù. Buoro ha affrontato la sfida di stare in Borsa (nel segmento Star), ha aperto in Cina, Stati Uniti, Turchia, Sudafrica, Medio Oriente, ha fatto acquisizioni e ora è presente in cento Paesi. A riprova che l’apertura globale non è una condanna, per lei l’80% del fatturato, con la prosperità e le competenze che porta in Italia, è nel resto del mondo.
Una promessa unica nel suo genere è invece quella di Luca Rossettini. Dottorato al Politecnico di Milano, borsa di studio a Silicon Valley finanziata per puro merito da una rete di imprenditori italiani (tramite la Fullbright Best), Rossettini ha attratto l’interesse della Nasa: con la sua impresa, la D-Orbit, sta sviluppando un dispositivo da attaccare ai satelliti per controllare e eliminare i detriti spaziali, in modo da ridurre il rischio di impatti in orbita. Poteva farlo restando a Silicon Valley, ma è rientrato e ora è a un passo dai primi contratti con grossi costruttori di satelliti in Europa e negli Stati Uniti. «Fare impresa in Italia non è facile: la burocrazia spesso non capisce le nostre esigenze e le regole sul lavoro non aiutano», dice. Ma ha notato qualcosa: «In Italia ci sono le condizioni per fare impresa, perché c’è voglia di farlo: molti mi chiamano per chiedermi come ho potuto riuscire».
È il potere dell’esempio, che a volte funziona in modo inatteso. Furio Francini, 43 anni, ha alle spalle una carriere di banchiere di primo livello a Ubs e in Mediobanca. Ma portare in Borsa Cucinelli lo ha aiutato a cambiare rotta. Ha lasciato la finanza («un mondo parassitario») per qualcosa di diverso: l’Accademia della Moda e del Costume di Roma. Era una scuola languente, fondata da sua nonna, è diventata un’impresa del settore educazione con fatturati in crescita a doppia cifra. Innovazione basata sulla tradizione. C’è chi la fa funzionare in un Paese schiacciato da tasse, inefficienza, demeritocrazia. Meglio non chiedersi, senza zavorra, cos’altro potrebbe fare.

La Repubblica 17.12.13

******

La New Economy del lusso
FRANCESCO MANACORDA

La new economy del lusso spinge alle stelle i valori – come è successo ieri in piazza Affari per Moncler – e ci fa scoprire nuovi paradigmi.

Quel produttore di piumini che ieri al suo debutto si è visto attribuire un valore «monstre» di 4 miliardi di euro è il simbolo concretissimo di una rivoluzione che unisce gusto e saper fare artigianali, competenze industriali e la nuova forza di Internet.

Ha senso – è la domanda che tutti ci poniamo – far volare le azioni e valutare un’azienda oltre 20 volte il margine di profitto atteso per quest’anno? Nel mondo del lusso (ma qui forse bisogna parlare di «lusso accessibile» visti i prezzi non proibitivi) la scommessa è che abbia senso perché quello che si compra non è tanto il risultato attuale, quanto una proiezione sui prossimi anni, con la scommessa che i clienti in grado di spendere un migliaio di euro per un piumone crescano dappertutto, da Hong Kong alla pur calda Florida, e aumentino sempre di più.

Se però si guarda dietro lo scintillio del brand e il fascino indiscusso della moda, si vede che la crescita industriale e adesso lo sbarco in Borsa di Moncler sono state preparate con tempi lunghi – due anni fa un’altra offerta di azioni non si era concretizzata – e riflessioni approfondite. Attenzione estrema, ad esempio, oltre che alla qualità del prodotto, anche alla catena della distribuzione perché il prodotto deve arrivare al cliente, che ormai è un cliente globalizzato e mondiale, solo nei negozi monomarca controllati dalla stessa azienda: non è solo ciò che si compra, ma dove lo si compra e addirittura come lo si fa. E’ la stessa ricetta che da anni perseguono marchi di grande successo come Prada e Luxottica. E se non è il negozio, per comunicare e per vendere ci sarà Internet. Le nuove tecnologie, ideali proprio per i brand globali perché con un semplice click raggiungono chiunque dovunque, possono aggiungere la loro forza. Non è un caso che il leader indiscusso di questo nuovo commercio elettronico per i gruppi del lusso sia anch’essa una società italiana, partorita dalla creatività di un italiano che prima di farcela si è visto chiudere parecchie porte in faccia.

Vince il «Made in Italy», insomma, ma non è automatico che vinca tutto il «Made in Italy». Da ieri i banchieri d’affari staranno tempestando di offerte ancora più del solito, le aziende della moda non quotate perché approfittino del momento propizio per lanciarsi in Borsa. Ma non tutte avranno il metodo e le prospettive di successo di Moncler e di altri nomi che si sono quotati con ottimi risultati negli ultimi due anni. E poi bisognerà guardare anche oltre la moda, che pure è un settore importante dal punto di vista dei numeri e fortemente simbolico. Ci sono eccellenze da far crescere anche nella meccanica, nelle biotecnologie o nell’alimentare per sperare in una vera rinascita del «Made in Italy».

La Stampa 17.12.13

“L’aborto diventa fai da te. Le pillole abortive in vendita on line”, di Marco Bucciantini

Nel Paese dell’obiezione di coscienza e delle difficoltà e lentezze burocratiche nell’accedere alla legge 194 fiorisce il mercato dell’aborto fai-da-te, con diversi canali. Per le associazioni femminili può essere anche il modo più sicuro e sereno di operare.
Il feto aveva sedici settimane e le acque si erano rotte. Nell’Irlanda occidentale, sulla baia di Galway, una dentista indiana di 31 anni, Savita Halappanavar, capì in fretta che non sarebbe diventata madre. Un feto così piccolo non può sopravvivere. Chiese ai dottori di praticare l’aborto terapeutico per scongiurare rischi alla propria salute. Le risposero che nel feto batteva il cuore: la legge irlandese proibisce l’interventoLa richiesta diventò una supplica. Niente. L’indomani il feto muore, ma Savita non lo sa: ha già perso conoscenza, con la setticemia nelle veneNon riuscirà più a parlare con il marito Praveen. Morir à tre giorni dopo il feto.
In Italia l’aborto è legale: tutti lo sanno. Anche le organizzazioni che inviano a domicilio l’Ru486. Sono molte, esistono, crescono, in America, in Francia, in Inghilterra (dove si spostano circa 6mila irlandesi l’anno, e dove Savita non pot é andare per la salute compromessa). Un sito olandese (womenonwaves.org) fa da distributore automatico di mifepristone (con il misoprostolo uno dei principi che provoca l’interruzione di gravidanza). Se nel domicilio del richiedente viene scritto «Italia», appare una schermata perentoria: «Nel tuo paese l’aborto è legale. Un aborto legale è sempre meglio di un aborto clandestino».
Questi sono posti dove ci “porta” Lisa Canitano, presidentessa dell’associazione Vita di Donna, onlus per la tutela della salute femminileLei è la “guida” di questa pagina che poteva cominciare anche in modo strano, con una preghiera che si trova su Internet nella pagina di benvenuto del sito dei farmacisti cattolici. «Dio mio, Tu sei l’unica fonte della vita, della luce e della verità! (…) Fai che noi farmacisti cristiani, istituiti a servizio della Vita, non dimentichiamo mai che possediamo la vita eterna soltanto se viviamo in Te, ma che la estinguiamo se abbandoniamo Te e la Tua legge». Il presidente di questo gruppo molto influente è Piero Uroda, che è il paladino di chi rifiuta di vendere farmaci contraccettivi d’emergenza (questo è un punto fondamentale: la pillola e la spirale del giorno dopo non sono farmaci abortivi ma contraccettivi d’emergenza, tra l’altro con una efficacia superiore al 99%). Davanti al paradosso di una farmacia di soli obiettori, Uroda reagisce così: «Perché dovrei lavorare con colleghi che non condividano il rispetto della vita?», situazione che impedisce al cliente di godere di un diritto dello Stato, ma anche questo non tormenta Uroda, che anzi si accende: «Il nostro diritto di non vendere questi farmaci è superiore a quello di chi richiede il prodotto». Superiore: una gerarchia che non esiste nella legge, ma alligna in quella preghiera.
Fra la penosa storia di Savita e questo spostamento nel trascendentale la strada è lunga solo in geografia (da via della Conciliazione fino a Galway). Fra queste posizioni limite e lo “spaccio” internet (o al mercato sotto casa, come si legge nell’intervista a fianco) la distanza è invece troppa, ma la verità non sta nel mezzo. C’è un diritto intestato dalla legge, c’è una difficoltà oggettiva a disporneNon solo in Italia: questo dato «sovranazionale» è decisivo per capire la tendenza netta e irreversibile dell’aborto fai-da-te, tramite farmaci reperiti lontano dalle farmacie, e interventi praticati lontano dalle struttureIn America dove i rigurgiti antiabortisti affiorano ciclicamente e ammorbano anche i legislatori dei vari Stati l’Istituto di salute pubblica è arrivato a teorizzare la pratica individualeFornendo dati, e premettendo (la premessa è fondamentale), che le «donne abortiscono da tempo immemore, ma la criminalizzazione dell’aborto è invece un fenomeno più recente, grossomodo datato al XIX secolo, supportato da norme sociali patriarcali connesse al ruolo domestico femminile, oltre che da un desiderio di controllo della sessualità delle donne»E poiché il misoprostolo (si usa per indurre contrazioni) «è sicuro ed efficace», l’uso del farmaco ha significativamente aumentato l’accesso a un aborto sicuro per migliaia di donne, specialmente povere, giovani, cronicamente poco assistiteProprio da questo spaccato (le immigrate dal Sudamerica) è emerso l’uso “improprio” del Cytomec, nome commerciale del misoprostolo, farmaco da banco venduto per curare la gastrite, con la controindicazione che poteva indurre l’abortoIl passaparola ne ha esteso l’uso. Se assunto in associazione al mifepristone, l’efficacia nell’indurre l’aborto completo arriva al 98%Forti di questi dati, le donne negli Stati Uniti stanno prendendo in mano la questioneIn Francia (womenonweb.org/fr) e in Inghilterra (bpas.org/bpaswoman) la questione dell’autodeterminazione è dibattuta e la pratica della pillola assai radicata (in Francia la metà degli aborti si fanno con la Ru486)Nell’Italia dell’obiezione di coscienza che riguarda quasi l’80% dei medici (c’è anche chi si rifiuta di operare le gravidanze extrauterine, che è condizione mortale nella donna), nell’Italia dell’obbligo dei tre giorni di ricovero (e dell’assenza di posti letto, con i tempi d’attesa che diventano “pericolosi”), dei consultori chiusi di sabato e domenica (giorni “caldi”, quando per rimediare a un preservativo rotto potrebbe bastare la contraccezione d’emergenza), questo mercato alternativo è giocoforza destinato a crescere, anche perché l’assistenza di esperti è garantitaQualcuno, come Lisa Canitano, lo speraAltri preferirebbero un percorso comunque ospedaliero.
Intanto le donne s’informano, si rivolgono dove trovano accesso e possibilità, per le strade di un mercato, rivolgendosi alle associazioni femminili, comprando online, appoggiandosi ai dottori fuori confine (Svizzera, Grecia), che dietro un consenso informato somministrano la Ru486 e il Cytotec (per 600 euro). Semplicemente, anche le donne italiane si appropriano di un loro diritto, come possono, dove possono.

l’Unità 17.12.13

******
«Porta Palazzo, il farmaco a 300 euro»
di M. Buc.

«Il nome no». Questa è la situazione di Porta Palazzo, la città parallela, il mercato torinese dove si vende tutto, anche l’anima. Chi si spende per “assorbire” un po’ dell’illegalità e per aiutare chi fronteggia un momento triste della vita, vuole e deve restare anonimo, perché un nome e cognome, in mano a chi comanda a Porta Palazzo, sono un volto da cercare e non certo per chiedere spiegazioni.
Porta Palazzo è il più grande mercato all’aperto d’Europa, è grossomodo in mano alle molte comunità straniere di Torino, i pochi italiani che ancora vendono la merce fanno comunque gestire le bancarelle agli stranieri. C’è chi piazza frutta e verdura, chi piazza se stesso (muratori, facchini), c’ è chi vende refurtive varie e c’è chi spaccia le pillole contraccettive e quelle abortive, «con il principio attivo identico a quelle di marcaInfatti funzionano». Dunque, a Porta Palazzo si va anche per abortire, lontano dai dottori, dagli ospedali, dagli impacci burocratici, dagli obiettori di coscienza e dalle norme minime di sicurezza personale. «Infatti noi siamo qui, a presidiare, a dare una mano, a evitare che un’emorragia si trasformi in qualcosa di irreparabile». Succede nella città del Sant’Anna, dove Silvio Viale iniziò la somministrazione della pillola Ru486. Qui, nella regione leader in Italia nella somministrazione di questo farmaco. Chi governa il mercato abusivo delle pillole abortive?
«I cinesi, da sempre, perché in Cina si produce questo farmaco con il principio attivo identico alle Ru486 e perché loro hanno messo le mani su quest’affare, e quando i cinesi afferrano qualcosa che rende bene, non si fanno più strappare il tesoro».
Chi sono le clienti?
«Quasi sempre donne straniere, spesso arabe. Per loro l’arrivo in Italia è anche la scoperta del sesso “libero”, poi però diventa difficile giustificare una gravidanza. Non sono sposate ma sono incinte: per la loro cultura, per la loro religione, per il loro ruolo nella società, diventa una situazione drammatica».
Anche l’aborto è un dramma.
«Lo sanno. Ma hanno urgenza, vogliono fare in fretta e conoscono poco i loro diritti».
Sono molte le prostitute?
«Sì, ma non sono la maggioranza».
Vengono anche le italiane?
«Sì, non molte, ma ci sono anche loro, circa il 10% del totale. Soprattutto quelle emarginate dal “sistema” e coloro che vogliono evitarsi le lunga trafila delle strutture pubbliche».
Conosce i numeri di questo mercato?
«Sono giganteschi. Non abbiamo dati, ma vediamo ogni giorno questo spaccio, e anche pochi minuti fa è arrivata da noi una ragazza (italiana) che aveva preso la pillola. Stava male, l’abbiamo monitorata per alcune ore».
Quanto costa la pillola procurata in questo modo?
«Fra i 300 e i 400 euroPer l’aborto fai-da-te girano migliaia di euro al giorno, e sono tanti in un mercato dai prezzi bassi, dove un Pc usato e forse rubato viene venduto a 100 euro».
Che efficacia ha?
«100%».
Quante donne ha soccorso in questi anni e per quali motivi?
«Molti casi di allergia, con pruriti e gonfiori e due volte anche donne in emorragia, che ho dovuto portare all’ospedale, nonostante le resistenze: temevano di essere denunciate per il reato di clandestinità».
È accaduto?
«No».

L’Unità 17.12.13

Legge stabilità, Ghizzoni “Stanziati 150 milioni per diritto allo studio”

La parlamentare modenese sottolinea l’incremento dei fondi rispetto ai bilanci precedenti. “Un significativo passo avanti è stato fatto per le politiche della conoscenza: si incrementano e finalmente si stabilizzano i fondi per il diritto allo studio.” Soddisfazione viene espressa dalla parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni per l’emendamento relativo ai fondi per il diritto allo studio inserito nella Legge di Stabilità.

“Si incrementano e finalmente si stabilizzano i fondi per il diritto allo studio, e finisce l’altalena che si ripeteva ogni anno per stabilire l’entità di questi fondi. I 50 milioni in piu’, oltre i 100 già iscritti a bilancio grazie al decreto 104 ‘La scuola riparte’, sono il risultato di una battaglia che come Pd abbiamo condotto in questi mesi e di cui siamo particolarmente orgogliosi” – lo afferma Manuela Ghizzoni, vicepresidente Pd in Commissione Cultura alla Camera – “C’era su questo punto l’impegno del Governo e del Presidente Letta, e il fatto che sia stato presentato dal relatore questo emendamento ci porta a dire che un significativo passo avanti e’ stato fatto per le politiche della conoscenza. Certamente si può fare ancora di più e nei prossimi mesi noi continueremo a indicare la conoscenza come una priorità assoluta, ma vogliamo sottolineare che i fondi previsti dal bilancio precedente erano appena 12,8 milioni. Da 12,8 a 150 possiamo dire che il miglioramento è stato significativo. C’è, dunque, la conferma di una netta inversione di tendenza operata dal Governo Letta, su pressione di tutto il Pd, rispetto agli investimenti sul diritto allo studio e sul diritto di accesso alla conoscenza e alla formazione. E’ questo un punto da cui non si torna indietro – conclude l’on. Ghizzoni – ed è un’ottima notizia per tutti coloro che come noi si sono battuti in questi mesi per la scuola, per l’istruzione, per il futuro dell’Italia”.

“Legge elettorale. Rischio rinvio a dopo la Befana”, di Andrea Carugati

Complice anche la sessione di bilancio, non sarà facile per la Camera iniziare l’esame della legge elettorale prima della pausa natalizia. E il rischio, che Renzi e i suoi vogliono disinnescare, è che la discussione si insabbi fino a dopo l’Epifania, rendendo assai improbabile il via libera dei deputati entro fine gennaio.

Nonostante il passaggio del dossier elettorale dal Senato alla Camera, che dovrebbe velocizzare i tempi, la discussione è ancora imprigionata nei «tatticismi», come ammette una fonte renziana. Oggi si riunirà la Commissione Affari costituzionali, ma l’argomento non è all’ordine del giorno. Possibile che si inizi a discutere a fine settimana, dopo che sarà approvata la legge di Stabilità, ma sul tavolo ci sono ben 23 disegni di legge, e ancora nessuna intesa su quale adottare come testo base. Inoltre, il presidente forzista della commissione, Francesco Paolo Sisto, non sembra avere alcuna fretta e proprio a l’Unità ha spiegato che «sarebbe meglio prime attendere le motivazioni della Corte costituzionale sul Porcellum». È esattamente quello che Renzi non vuole: significherebbe perdere altre settimane preziose. Settimane di chiacchiere senza risultati, di spazio lasciato alle pro- vocazioni di Berlusconi e Grillo, che a parole sembra- no marciare compatti sul Mattarellum, ma nel concreto non muovono un dito in questa direzione. Lo scambio di ieri tra Brunetta e il renziano Dario Nardella fotografa bene la situazione: «Noi aspettiamo che Renzi ci risponda. Siamo pronti a tornare al Mattarellum. Lui che fa? Si allea con Alfano?», dice il capogruppo di Forza Italia. Nardella replica: «Bene, ne prendiamo atto. Brunetta avanzi subito una proposta scritta di ripristino del Mattarellum e il Pd sarà pronto a prenderla in considerazione».

Naturalmente la proposta non c’è. Ma anche dentro la maggioranza la nebbia non si è ancora diradata. Il Nuovo centrodestra di Alfano a parole spinge per il doppio turno sul modello dei sindaci, che è esattamente il sistema preferito dal Pd. Ma non si fida: teme che con una legge nuova zecca Renzi stacchi la spina e si torni alle urne. E dunque Alfano e i suoi cercano di posticipare la riforma, di fare prima gli interventi sulla Costituzione sul bicameralismo e il numero dei parlamentari. E minacciano: «Se non c’è l’intesa con noi il governo va in crisi». Ma i renziani non ci stanno: «Il tempo dei rinvii è finito, ora bisogna mostrare le carte», fa sapere Matteo Richetti. Per questo la nuova guardia Pd tiene aperto un canale di confronto anche con il M5S e Forza Italia. Per stanare Alfano e i suoi. Per far capire che anche un’in- tesa trasversale con Grillo e Berlusconi sul Mattarellum non viene scartata a priori. «Gli strumenti tecnici per assicurare che la sera del voto si sappia chi governa si trovano», assicura Nardella a l’Unità.

Nei prossimi giorni la nuova responsabile delle Riforme Pd Maria Elena Boschi farà un primo giro di consultazioni con tutti i partiti, partendo dal ministro Quagliariello e compresi grillini e forzisti. Lo stesso Renzi vedrà Alfano mercoledì a palazzo Chigi, pre- sente anche Letta. L’ipotesi è di tenere aperta la com- missione della Camera tra Natale e Capodanno, per mostrare agli italiani che «stiamo facendo sul serio». Ma i dubbi sulle reali intenzioni di M5S e forzisti non mancano. «Appena vede che Renzi è avanti nei sondaggi Berlusconi torna a sostenere il proporzionale», sussurra Enrico Morando. Quanto a Grillo, basta ascoltare quello che dice il senatore Mario Giarrusso: «Il proporzionale uscito dalla Consulta, con preferen- ze e senza premi di maggioranza, è il modello che più si avvicina alla proposta che abbiamo elaborato».

E allora la palla torna dentro il perimetro della maggioranza. A quella road map che prevede le riforme costituzionali al Senato e una nuova legge elettorale alla Camera. In fondo, il doppio turno di coalizione (con ballottaggio tra i primi due) è il modello partorito dalla commissione dei saggi guidata da Quagliariello. E, al di là dei tatticismi, solo su un meccanismo del genere è possibile trovare una sintesi che tenga unita la maggioranza. Quanto alla riforma del Senato, ci vogliono almeno 10 mesi, con due letture da parte di ogni Camera. Il ministro Quagliariello ha già pronto il testo del disegno di legge che elimina il bicameralismo paritario. Potrebbe arrivare il Consiglio dei ministri già venerdì. Ma non è sicuro. L’intesa con Renzi, che vorrebbe un Senato di soli sindaci e governatori, non è ancora chiusa. La discussione si intreccia con quella sul contratto di coalizione per decidere il programma del governo nel 2014. Le variabili in gioco sono molte. «Ma legge elettorale non può arrivare per ultima», avvertono i renziani.

L’Unità 17.12.13