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“Quel patto da rifondare”, di Michele Ciliberto

Cosa significa che tre uomini, come in una scena western, inseguano un ladro, prima lo picchino e poi lo ammazzino? E che vuol dire il movimento dei forconi, e i mezzi di cui si serve e che cominciano a spaventare i suoi stessi promotori? Si tratta, in entrambi i casi, di qualcosa che, in modi diversi, tocca il fondamento dello Stato di diritto rivelando un’indifferenza e perfino un disprezzo per la legge che può spingere lo scontro politico a un punto aspro, per certi aspetti inedito.
Cosa sta accadendo? Certo, queste forze sono spinte a scendere in campo anche per la crisi del blocco politico e sociale che ha fatto capo, per venti anni, a Berlusconi; né c’è alcun dubbio sulla presenza di frange di estrema destra che acutizzano lo scontro e vogliono servirsene per giocare una partita contro lo Stato democraticoDel resto, di questo è profondamente rivelatore l’atteggiamento due giorni fa di Berlusconi, che voleva addirittura ricevere i forconi in pompa magna e ieri di Brunetta, il quale si esprime in termini che non lasciano dubbi sullo sforzo che Forza Italia sta facendo per cercare di dare rappresentanza politica a una «folla» che oggi se ne sente privaPerché queste forze sono venute alla luce proprio oggi e vogliono svolgere un ruolo, prescindendo dai loro tradizionali riferimenti politici? La risposta è semplice: perché non era mai stato così profondo e terribile lo scarto tra cerchi sociali e politica, tra mondi della vita e istituzioni politiche e statali. Uno scarto che sta diventando una diretta contrapposizione allo Stato, alle sue leggi. Se questo accade, vuol dire che si stanno corrodendo le radici dello stato repubblicanoForse l’unica forza politica che ha avvertito che il terreno oggi può franare e che lo Stato nazionale italiano è entrato in un altro e più drammatico stadio della sua lunga crisi, è la Lega che anche per uscire dall’angolo ha rimesso al centro la parola d’ordine dell’«indipendenza», facendo forza sul disinteresse, se non sul discredito, che l’idea dell’Europa, e il progetto degli Stati uniti di Europa hanno oggi presso molti cittadini italiani.
Ma questi sono epifenomeni politici. Il punto di fondo è un altro: quello che comincia ad apparire chiaro è l’incrinarsi del patto da cui è nata la Repubblica, il rompersi del vincolo repubblicano con tutto quello che ciò può comportare per il destino della democraziaUno stato democratico nasce da un «patto» e si basa su un vincolo che, a sua volta, si esprime in una Costituzione, in un sistema di leggi, che funzionano e sono riconosciute se quel patto regge e se quel vincolo funzionaIl nostro Stato democratico nasce dal patto fondato sulla lotta al fascismo, sulla Resistenza. Ed è qui che sta il problema della nazione italiana oggi: queste radici si sono affievolite negli ultimi decenni, a cominciare dagli anni Settanta. Nel ventennio berlusconiano si sono fortemente indebolite; ed ora, sotto i colpi della crisi e delle politiche degli ultimi anni, esse appaiono ulteriormente inariditeI fatti sopra citati non sono inattesi, vengono da lontano, da una crisi che continua a degenerare, senza riuscire a risolversi. Eppure è un processo degenerativo di cui si possono comprendere agevolmente le ragioni. Si sa: un «patto», per durare, implica il consenso e l’adesione dei cittadini che, a loro volta, dipendono dal rispetto e dalla condivisione da parte di tutti di quel «patto» e delle condizioni su cui il «patto» in questo caso la nostra Costituzione è stabilito. Ora, chi oserebbe dire che la vocazione civile e sociale della nostra Carta oggi è viva e partecipata, non nelle affermazioni di principio ma nel nostro vivere civile, nella realtà quotidiana della Repubblica? È questo il problema: quando il patto si indebolisce, i cittadini che in esso si sono riconosciuti cominciano a protestare, a ribellarsi, a spezzare il «vincolo». Non perché lo considerino ingiusto, ma perché ritengono che esso sia stato infranto, e non da loroAllora cominciano a organizzarsi contro lo Stato e a farsi giustizia da soli, iniziando ad incrinare le fondamenta del comune vivere civile.
Problema enorme che va affrontato alla radiceRiproporre di fronte a sommovimenti di questo genere il primato della legge e condannarli perché violenti è giusto e necessario; ma è un gesto elementare, e distantissimo dal fondo reale del problema che è, e resta, la crisi dura del nostro PaeseÈ da qui che bisogna partire, ed è qui che la politica democratica deve far sentire, se ne è ancora capace, la propria voceOccorre ricostituire, ed ampliare, il patto costituzionale, rinvigorire il vincolo su cui è fondata la Repubblica, agire in modo che i cittadini nativi o immigrati si sentano parte di una comunitàMa si può farlo in un solo modo: avviando subito politiche radicali in grado di confrontarsi con la radicalità della crisiC’è ormai pochissimo tempo per tutti, anche per il PdLe parole dette in questi giorni lavoro, jus soli, eliminazione della Bossi-Fini, interventi per la cultura e la scuola, nuova disciplina sui matrimoni, legge elettorale di tipo bipolare vanno finalmente nella direzione giustaNaturalmente se diventano fatti.

L’Unità 17.12.13

“I fascisti che vogliono impugnare i forconi”, di Gad Lerner

Colpisce la nuova estetica fascista sfoggiata dalla destra italiana, tornata protagonista visibile nelle piazze del malcontento. Casa Pound, che dell’eterno fascismo nostrano è la versione più contemporanea, à la page,
ha rivestito come manichini anonimi e minacciosi i suoi militanti romani: giacche a vento scure col cappuccio sollevato, il volto coperto da una maschera tricolore, al collo una fune col nodo scorsoio; così si sono fatti immortalare in marcia fino alla sede della Commissione europea, per sottrarne la bandiera azzurra dell’Unione. Potessimo scherzarci, somigliavano maledettamente all’esercito di modelli in piumino schierati ieri da Moncler davanti alla Borsa di Milano per festeggiare la trionfale quotazione. Solo che i fascisti romani sul sito di Casapound diffondono messaggi come questo di Andrea Marin: «Bruciamo gli stracci blu esposti negli uffici pubblici in Italia e sostituiamoli col tricolore». Trasmettono la voce di Mussolini mixata a un rock metallico che inneggia alla «guerra civile», al sole di Spagna che «brilla sulle nostre camicie nere». E solo un paio di settimane fa hanno ricevuto con tutti gli onori una delegazione dei neonazisti greci di Alba Dorata nella loro sede.
Spiace che costoro possano ergersi a vittime per via dell’inutile arresto del loro vicepresidente Simone Di Stefano (già condannato per il furto della bandiera). Ora diffondono la sua foto in maschera e col cappio sormontata dallo slogan: «Amare la nazione non è reato». Questa estrema destra che a Milano è riuscita a riprendersi piazzale Loreto, con gli striscioni senza il simbolo di Forza Nuova ma dagli inequivocabili caratteri celtici già familiari nelle curve degli stadi, ha meticolosamente preparato il suo ritorno in campo. Adopera la maschera di una finta apoliticità per farsi accettare dai Forconi, che ora si dividono sull’opportunità di usufruire della sua forza organizzata. Ma intanto occupa uno spazio nella protesta di piazza che le era precluso dai tempi del “boia chi molla”, la rivolta di Reggio Calabria del 1970.
Gli avvoltoi che volteggiano intorno ai protagonisti della sofferenza sociale sono numerosi. Confidano che la storia si ripeta, e dunque che dal caos possa emergere un nuovo uomo forte? “Pronta la marcia su Roma”, era il titolone evocativo sulla prima pagina de Il Giornale di ieri. Demenziale ma significativo. Forza Italia dichiara di sentirsi al fianco del popolo dei Forconi, e pazienza se ha governato fino a ieri: si fa in fretta a gridare “tutti a casa” confondendosi nella folla dei diseredati. Chi volete che se ne accorga?
Pure altri ex ministri come La Russa e la Meloni gongolano sperando che Fratelli d’Italia possa trarre vantaggio elettorale, magari con l’aggiunta del simbolo di An, dal fatto che l’inno di Mameli è l’unico cantato nei blocchi stradali, così come la bandiera tricolore è l’unico simbolo ammesso. Ma non c’è dubbio che il network organizzativo dispiegato a partire dal 9 dicembre scorso, dopo una lunga preparazione, non è opera dei vecchi rottami governativi, bensì delle sigle più marcatamente fasciste, da Forza Nuova a Casapound. Gli stessi che l’estate scorsa minacciavano Cécile Kyenge mostrandole dei manichini insanguinati. Gli stessi che da anni introducono le croci celtiche negli stadi di calcio e che hanno reclutato nelle curve degli ultrà una nuova militanza giovanile, affascinata dall’iconografia littoria e dal linguaggio mussoliniano.
Essendo la retorica nazionalista il collante di ogni raduno — non fanno altro che ripeterti: «Noi siamo il popolo italiano» — chi si ritrova decisamente spiazzata è la Lega. Il coro «Italia vaffanculo », scandito al Lingotto di Torino dai congressisti padani che hanno eletto segretario Matteo Salvini, non sarebbe ammesso nelle piazze della protesta. D’un colpo il Carroccio si trova retrocesso nell’anacronismo.
Se l’estrema destra appare di colpo in grado di occupare il vuoto spalancato dalla crisi del berlusconismo, e di contenderlo al movimento di Grillo che si è nel frattempo parlamentarizzato, ciò si deve allo sbriciolamento di ogni rappresentanza sociale. Le associazioni del lavoro autonomo, della logistica, del commercio, dell’agricoltura sono percepite da chi si è impoverito come meri ingranaggi del potere. Sindacati e Confindustria, non ne parliamo. Così misuriamo quanto pericolosa sia la dissoluzione dei cosiddetti “corpi intermedi” della nostra società, travolti anch’essi dentro la crisi della politica. Nella voragine della solitudine esistenziale, con una sinistra incapace di rappresentare il conflitto e di fornire risposte concrete al malessere, il vuoto che si apre fa in fretta a popolarsi di fantasmi del passato. Che indossino una maschera post-moderna o imbraccino il simbolo atavico dei forconi, ci ricordano che la destra eversiva non ha mai smesso di impersonare l’autobiografia della nazione.

La Repubblica 17.12.13

“Addio a Giuliana Dal Pozzo, direttrice di Noi Donne e fondatrice di Telefono Rosa”, di Roberta Agostini

A 91 anni se n’è andata una delle grandi protagoniste di una stagione straordinaria nel segno delle battaglie per l’emancipazione delle donne. “Esprimiamo il nostro cordoglio per la scomparsa di Giuliana Dal Pozzo, una donna che ha speso la sua vita per le battaglie a favore dei diritti delle donne. Il suo impegno contro la violenza di genere ha aperto la strada a tutte noi ed ha contribuito al lavoro per realizzare strumenti concreti e norme efficaci contro il femminicidio.

La battaglia per la piena affermazione della parità delle donne è stata per lei una scelta di vita, come giornalista, direttrice di Noi donne e come fondatrice di Telefono Rosa. Non la dimenticheremo, ma cercheremo di far vivere le sue scelte e le battaglie che tanto hanno contribuito ad aprire spazi di libertà nel nostro Paese” così Roberta Agostini, Portavoce della Conferenza Donne Democratiche.

Giuliana Massari Dal Pozzo è morta a Roma all’età di 91 anni. Nel 2007 il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, la nomina Grande Ufficiale al merito della Repubblica per la sua “attività meritoria” in aiuto delle donne vittime di violenza. Nel 1988, fonda il Telefono Rosa, nato come sportello temporaneo del Comune di Roma, anno dopo anno si trasforma in realtà autorevole e radicata in tutta Italia, affiancando l’attività di accoglienza telefonica a quella formativa contro la violenza di genere. Nata a Siena, aveva diretto il settimanaleNoi Donne, affiancando e poi prendendo il posto di Miriam Mafai, fra gli anni 60 e 70, dopo essersi formata nelle redazioni di Paese Sera e de L’Unità.

Premio Saint-Vincent per il giornalismo, Giuliana Dal Pozzo ha anche firmato La donna nella storia d’Italia, vari saggi, un romanzo, Ilia di notte, scritto con Elisabetta Pandimiglio (Editrice Datanews), e il diario La Maestra. Una lezione lunga un secolo (Memori).

www.partitodemocratico.it

“La tv fa il pieno di sfiducia fuga degli italiani da talk e tg anche la satira non diverte più”, di Ilvo Diamanti

Gli italiani continuano a informarsi, in larga maggioranza, seguendo la tivù. Anche se ne hanno sempre meno fiducia e usano, in misura crescente, la Rete. Perché la considerano il canale più libero e indipendente. E permette loro di informarsi navigando tra diversi media. È il ritratto che si scorge scorrendo i risultati della VII Indagine di Demos-Coop su “Gli italiani e l’informazione”. Otto persone su dieci, infatti, affermano di informarsi quotidianamente in televisione, il 47% suInternet.
SEI anni fa, coloro che utilizzavano Internet erano poco più della metà (25%), mentre il seguito della tv era più elevato di 7 punti. Si tratta di una tendenza chiara, precisata dalla tenuta della radio (circa il 40%) e dalla riduzione significativa dei giornali. Oggi, sostanzialmente sullo stesso livello di un anno fa (25%), ma in calo di 5 punti rispetto al 2007. La popolazione italiana, dunque, si serve sempre più e sempre più spesso della Rete, come fonte di informazione diretta, ma anche per accedere ad altri media, in particolare i giornali. Due navigatori di Internet su tre (e quasi metà sulla popolazione intervistata) affermano, infatti, di leggere regolarmente i quotidiani online. Reciprocamente, i giornali (e i notiziari radio-tv) si connettono alla Rete, attraverso edizioni online e digitalizzate. Inoltre, utilizzano i Social Network, in particolare Twitter, come canale diretto con i leader e gli opinion maker.
Questa evoluzione è favorita dalla rapida diffusione delle tecnologie di comunicazione. Nell’ultimo anno, non a caso, la quota di coloro che si collegano a Internet mediante i cellulari oppure i tablet è cresciuta sensibilmente. Di 20 punti: dal 37% al 57%.
Tuttavia, la tv resta ancora, digran lunga, il riferimento più frequentato. Come si è visto alle ultime elezioni politiche. Le più “televisive” della storia, nonostante la diffusione della Rete.
Eppure, come si è detto, la tv gode di un grado di fiducia limitato. Solo due persone su dieci la considerano un medium davvero indipendente e libero. Peraltro, gran parte dei programmi di informazione televisivi appare in calo di credibilità. I tg, soprattutto. Il Tg3 (56,7% di valutazioni positive) e il Tg1 (52,4%) continuano ad essere i più accreditati, fra gli italiani. Ma subiscono, entrambi, un declino. Particolarmente rilevante, nel caso del Tg1, rispetto al 2007. Come, d’altronde, il Tg2. Il calo di fiducia colpisce, a maggior ragione, le testate giornalistiche delle reti Mediaset. Il Tg di La7, invece, segna un aumento dicredibilità, rispetto al 2007, ma, per la prima volta dopo tanti anni, arretra, seppur di poco, rispetto al 2012. Gli unici tg che registrano una crescita costante, anche nell’ultimo anno, sono quelli sulle reti all news. Rai News24 e Sky Tg24. Insomma, l’informazione tivù ha perduto e sta perdendo credito, in misura diversa, un po’ dovunque. La stessa tendenza coinvolge i programmi di approfondimento e i talk legati all’attualità politica e sociale. Molti, fra i più conosciuti e considerati, fino ad oggi, subiscono un brusco calo di fiducia. Ballarò, Servizio Pubblico, Otto e mezzo, In mezz’ora: pérdono tutti intorno ai 4-5 punti, nella valutazione degli italiani (intervistati). Solo Report, un programma di inchiesta, e Piazza Pulita, un talk di battaglia, fanno registrare una crescita di consensi significativa. Così, Ballarò si conferma primo, nella graduatoria della fiducia. Ma, per la prima volta, da quando viene condotta l’indagine di Demos-Coop, il talk condotto da Giovanni Floris condivide il primato. Con Report, appunto. Il programma di Milena Gabanelli.
Perfino i talk satirici e l’infotainment suscitano minore confidenza. Il grado di fiducia verso Striscia la Notizia, in particolare, nell’ultimo anno, è sceso di 5 punti e di 2 quello verso Che tempo che fa, il talk condotto da Fabio Fazio. Mentre le Iene tengono. E Crozza contribuisce agli ascolti di Ballarò. Così, i programmi pop-talk e di satira politica si allineano, tutti, intorno al 50% di gradimento. Nessuno svetta sugli altri.
È come se, in tivù, l’informazione, l’approfondimento, la stessa satira, suscitassero interesse, ma anche stanchezza. E un po’ di fastidio. Probabilmente perché la crisi, economica e politica, è difficile per tutti. Sentirne parlare non conforta. Produce, anzi, un senso di malessere che ha contaminato, in qualche misura, anche i media.
D’altronde, gran parte della popolazione sceglie i tg e i programmi di informazione in base alle proprie preferenze politiche. Il pubblico di centrosinistra dimostra fiducia per il Tg3 e il Tg di La7. Il quale risulta, in assoluto, il più apprezzato dagli elettori del M5S. D’altra parte, il Tg di Mentana è quello che ha riservato maggiore spazio e attenzione a Grillo e al M5S, ben prima del voto di febbraio. Gli elettori di centrodestra, invece, guardano con fiducia i tg delle reti Mediaset. E gli elettori di centro si fidano soprattutto del Tg1 e di Rai News 24. Come in passato, dunque, gli italiani, nella tv, cercano conferma alla loro identità politica.
Da ciò, la crescente sfiducia verso l’informazione televisiva. Se, infatti, il legame fra orientamento politico e consumo televisivo appare stretto, allora il clima di distacco e di ostilità verso la politica, che si respira nella società, non può non coinvolgere anche la televisione. Principale, quasi unico, “campo di combattimento” della politica italiana. Ma ciò genera un circuito vizioso. Così, paura e sfiducia, nello scambio tra pubblico e televisione, si rafforzano reciprocamente. È l’Italia del disgusto politico e dei forconi. Prima che sia troppo tardi, qualcuno dovrebbe interrompere questo inseguimento senza fine. Ma è difficile che ciò avvenga per iniziativa del pubblico. Della società. E ho il sospetto che neppure i media, in particolare la tivù, siano disposti a cambiare una programmazione. Che garantisce ancora ascolti, anche se usurata. Così è probabile che lo “spettacolo” continui. Con gli stessi format. Con gli stessi effetti sul “pubblico”. Tutti insieme: sfiduciati e scontenti. Fino al collasso del clima d’opinione. Che, in effetti, sembra ormai prossimo.

La Repubblica 16.12.13

“Le tesi populiste non reggono l’euro è la moneta del futuro ma tocca a noi ridare la speranza”, di Bruna Basini

Presidente Draghi, l’Europa sta finalmente ricominciando a crescere?
Mario Draghi: «La crescita è tornata, ma di sicuro non è galoppante. È modesta, fragile, disuguale. La Germania va bene. Francia, Italia e Spagna vanno meglio. I Paesi Bassi meno bene e Grecia e Portogallo restano sotto pressione. La disoccupazione si mantiene troppo elevata, ma sembra stabilizzarsi intorno a una media del 12 per cento. L’anno prossimo prevediamo un ritmo di crescita per la zona euro dell’1,1 per cento e nel 2015 dell’1,5 per cento».
Da che cosa è trainata la ripresa?
«Se si esaminano le cifre, notiamo che le esportazioni sono riprese e, elemento nuovo, i consumi sono ripartiti. Molti fattori hanno contribuito a ciò: la nostra politica monetaria, inizia a dare i suoi frutti».
La Germania, la vera locomotiva della crescita europea, non dovrebbe condividere i frutti della sua crescita con i paesi vicini, per favorire una ripresa generale?
«La Germania va meglio dei suoi vicini perché si è dotata dei mezzi più competitivi grazie a riforme strutturali coraggiose. Dall’inizio degli anni Duemila il paese ha riformato completamente il proprio mercato del lavoro. Ed è tuttora un esempio che gli altri paesi dell’Ue possono prendere a modello. Questo modello fa affidamento su piccole-medie imprese molto performanti, che esportano e innovano. Occorre mantenere questo punto di partenza. Ma non ci si deve neppure riposare sugli allori, è indispensabile promuovere gli investimenti, soprattutto nelle infrastrutture».
Che cosa fate di preciso per invogliare le banche a finanziare l’economia?
«Due anni fa abbiamo concesso mille miliardi di euro sotto forma di prestiti a tre anni, che in parte sono già stati restituiti. In seguito abbiamo ridotto più volte il nostro tasso di interesse di riferimento. Le banche hanno la possibilità di rifinanziare presso la Bce i prestiti che concedono alle imprese. Tutto ciò è servito a dare loro ossigeno. In qualche caso hanno ricevuto aiuti e hanno potuto aumentare i loro capitali. Adesso non resta che convincere le banche ad accollarsi rischi nello specifico concedendo prestiti alle piccole e medie imprese. Le grandi aziende si stanno sempre più orientando verso i mercati emettendo obbligazioni: l’anno scorso il volume delle obbligazioni emesse è arrivato a 34 miliardi di euro, e ciò ha controbilanciato la contrazione dei prestiti di circa 20 miliardi di euro».
La Bce ha fatto di tutto per far ripartire la crescita?
«Nell’ambito del nostro mandato sì. Di più: siamo sempre pronti e in grado di intervenire ancora. Abbiamo già fatto ricorso a una parte degli strumenti a nostra
disposizione nell’ambito della nostra politica di compromesso, proprio quando alcuni ci accusavano di correre rischi insensati e di mettere in pericolo la stabilità dei prezzi. Ma non è accaduto nulla del genere. Anzi, le nostre azioni hanno avuto l’effetto desiderato. Ma la Bce non può fare tutto da sola. Noi non ci sostituiremo ai governi. Sta a loro varare riforme radicali e incisive, e sostenere l’innovazione, tenendo sotto controllo la spesa pubblica. Insomma, spetta a loro inventare nuovi modelli di crescita».
Perché la Bce non si batte per lottare contro la disoccupazione come fa la Federal Reserve americana?
«La nostra missione principale è mantenere la stabilità dei prezzi. Nella misura in cui le nostre azioni stabilizzano l’economia, contribuiscono a ridurre la disoccupazione. Ma noi non possiamo ridurre il livello strutturale di disoccupazione che dipende dal buon funzionamento del mercato del lavoro e dalla sua capacità di integrare meglio coloro che ne sono stati esclusi».
L’euro si è apprezzato molto sul dollaro? Che cosa fate per abbassarlo e renderlo più competitivo?
«Non voglio fare congetture sulla buona parità tra euro e dollaro. Non abbiamo obiettivi di cambio. Ma riconosco che un tasso di cambio elevato ha conseguenze sulla crescita e sull’inflazione in Europa ».
Che cosa si sente di rispondere agli europei, che in sempre maggior numero dicono di non volere più l’euro?
«Dico loro che l’euro è il presupposto stesso del nostro futuro. L’euro è una buona moneta, che assolve in tutto e per tutto al proprio ruolo, ma soffre per il fatto che la nostra unione monetaria è incompleta e imperfetta. Dobbiamo portare a termine questa unione monetaria se vogliamo ritrovare fino in fondo e in modo duraturo la stabilità e la prosperità del nostro continente. Dobbiamo quindi procedere in un primo tempo lavorando sull’unione bancaria, e ultimare i programmi di riforma e di riduzione del deficit. La tesi populista di chi pensa che uscendo dall’euro un’economia nazionale si avvantaggerebbe immediatamente con una svalutazione competitiva come ai vecchi tempi non regge alla prova dei fatti. Se tutti cercheranno di svalutare la propria moneta, nessuno se ne avvantaggerà. Infine, la strada verso la prosperità passa sempre attraverso le riforme e la ricerca della produttività e dell’innovazione».
Ha timori al riguardo di un voto antieuropeo alle elezioni di maggio?
«Mi aspetto una presenza di parlamentari anti-europei più marcata di quella che già c’è. Dobbiamo esserne
consapevoli e dobbiamo rispondere adeguatamente alla sfida che si diffonde presso le opinioni pubbliche dei vari paesi al riguardo del progetto europeo e delle sue istituzioni. Senza dubbio ci sono alcuni movimenti popolari che sfruttano questo clima, ma ci sono anche persone sinceramente deluse. Sta a noi spiegare perché l’euro è stato e rimane un progresso, la moneta del futuro. Sta a noi ricordare che l’integrazione europea è stata il miglior baluardo per la pace. Ma noi dobbiamo anche ridare significato alla nostra comunità. Spiegare che più Europa e più integrazione possono essere fattori di progresso, di rilancio, di prosperità. Dobbiamo ridare speranza».
Copyright Le Journal du Dimanche Traduzione di Anna Bissanti

La Repubblica 16.12.13

«Quindici miliardi per la ricerca, l’Italia non resti indietro», di Carla Attianese

Patrizia Toia, vicepresidente a Bruxelles del Gruppo S&D e vicepresidente della commissione Industria dell’Europarlamento. Quindici miliardi di euro in arrivo dalla Ue per il biennio 2014-2015 per la ricerca e l’innovazione attraverso Horizon 2020, il programma che stanzia fino al 2020 oltre 70 miliardi di euro per le Università, la ricerca, le industrie e le Pmi. Ne parliamo con Patrizia Toia, vicepresidente a Bruxelles del Gruppo S&D e vicepresidente della commissione Industria dell’Europarlamento.

Un anticipo più sostanzioso di quanto avvenuto in passato. «Sì. La scelta era di solito quella di anticipare poco nei primi anni del settennato, per poi aumentare. Come Parlamento e come Gruppo S&D ci siamo invece battuti affinché questa volta l’approccio fosse inverso». Come sarannodistribuiti i fondi? «Si sono già aperti molti dei primi 64 bandi, concentrati nel settore scientifico e della ricerca, dell’industria soprattutto energia e Pmi e dell’ambito sociale agricoltura, trasporti, ambiente. È la prima volta che la Commissione Ue indica le priorità di finanziamento con un orizzonte temporale di due anni, fornendo a ricercatori e imprese una certezza sulla direzione della politica di ricerca della Ue. In un momento in cui il finanziamento della ricerca in Italia langue, é il momento di fare sinergia e cogliere queste opportunità».

Quanti di questi fondi arriveranno in Italia? «Non c’è una parte preassegnata, potremmo portare a casa anche il 100% se avessimo la capacità di essere propositivi e di fare progetti. Con Horizon 2020 spetta ai soggetti imprese, università, centri di ricerca fare richiesta direttamente all’Europa». Come ne saranno informate le nostre realtà? «I bandi sono su Internet. Spetta poi alle associazioni di categoria e ai ministeri interessati, come il Miur, diffondere le informazioni. La ministra Carrozza è già partita col piede giusto, nominando degli esperti per ogni area tematica». Com’è andata al nostro Paese in passato? «Purtroppo nello scorso periodo di programmazione l’Italia pubblica e privata ha concorso poco. Per tre ragioni: la difficoltà delle procedure per accedere ai bandi, e a questo abbiamo provveduto, semplificando; la lentezza del sistema Italia ad inserirsi nelle “cose europee”; la mancanza di una rete che faccia sistema. Siamo poco presenti nei gruppi di esperti e nei vari panel che a Bruxelles decidono le priorità e le valutazioni, non abbiamo fatto “sistema Italia” nella Commissione Ue. Speriamo che con questo governo le cose migliorino».

Sarà sufficiente questa iniezione di risorse per invertire il ciclo della crisi? «No, alle risorse vanno affiancate scelte di politica economica diverse, e strumenti come gli Eurobond o la golden rule per lo scomputo dalle spese per investimenti dal patto di stabilità. Su questo ultimo punto c’è qualche spiraglio, ma deve essere chiaro che i fondi di Horizon 2020, insieme a quelli per la politica di coesione, sono gli unici che l’Europa metterà a disposizione fino al 2020, dunque è bene attrezzarci».

L’Unità 16.12.13

“Unioni civili, niente matrimonio civil partnership sul modello inglese”, di Liana Milella

Non ha ancora una sigla, tipo i ben noti Dico e Pacs, che certo non hanno portato fortuna, in Italia, alla possibilità di riconoscere – giuridicamente ed economicamente – le coppie di fatto etero ed omosessuali. Diciamolo subito, non si prevede la possibilità di adottare i figli, e questo di certo non piacerà alle coppie gay. Né, tantomeno, c’è un capitolo dedicato ai figli. Una scelta voluta, fatta per andare per gradi. Quando Renzi ne parla a Milano, a Roma il testo è già pronto. Per lui ci mettono la faccia, per ora, tre senatori, Andrea Marcucci, Laura Cantini, Isabella De Monte. Un disegno di legge di un solo articolo – che Repubblica
ha letto ed anticipa – e che già oggi verrà inviato agli altri senatori del Pd, di Sel e di Scelta civica, per verificare subito le prime possibili adesioni tra chi, alle elezioni di febbraio, ha sottoscritto un fronte unico. Poi sarà la volta degli alleati di governo. Una partita molto delicata questa, anche se la prima reazione del vice premier Angelino Alfano lascia ben sperare. «Per noi la famiglia non si tocca, è fatta da un uomo e una donna che si sposano per la procreazione, e dai figli. Ma siccome abbiamo grande rispetto per l’affettività siamo pronti, per delle garanzie patrimoniali, a intervenire sul codice civile». Ma altri come Sacconi e Giovanardi da subito appaiono più intransigenti, come tutta l’area cattolica che fece saltare la battaglia sui Dico di Rosy Bindi (febbraio 2007, governo Prodi).
RITOCCO AL CODICE
Ma proprio per citare Alfano, qui si ritocca solo il codice. Si legge nella proposta: «Questo ddl cerca, in modo del tutto asettico, di disciplinare la figura giuridica dell’unione civile senza alcuna distinzione di sesso». Con quale strumento? Il
nuovo titolo VI-bis, con gli articoli dal 230-ter al 230- septies, inseriti nel primo libro del codice civile. Basta scorrerlo per capire di che si tratta. «Presso gli uffici del registro di ogni Comune è istituito quello delle unioni civili». Alla presenza di due testimoni vi si possono iscrivere «due persone maggiorenni, unite da un vincolo affettivo, liberi da altri vincoli da matrimonio o da altra unione civile». Niente matrimonio, né in Chiesa, né in Comune, ma una civil partnership, per dirla all’inglese. Giusto un avvocato inglese ha fatto da consulente al Pd per riproporre in Italia una legge analoga a quella anglosassone.
DIRITTI IN COMUNE
Per chi non si sposa, ma ugualmente si unisce e convive, le stesse regole che valgono per chi è regolarmente sposato. Non dovrà più accadere, com’è successo per la strage di Viareggio, che chi resta solo perché il proprio partner è morto, si veda negata perfino l’assicurazione. Il ddl Marcucci-Cantini-De Monte elenca le regole previdenziali e pensionistiche, «ivi compresa la reversibilità della pensione», e ugualmente i «diritti successori» in caso di morte, con la possibilità di «succedere nel contratto di affitto». Ovviamente, così come è stata stipulata, l’unione civile si può sciogliere in quell’ufficio del registro del Comune laddove è stata sottoscritta.
ANCHE GAY, MA NON SOLO
È dunque evidente che il ddl riguarda sia le unioni tra un uomo
e una donna, che «per scelta o per ragioni economiche» decidono di non sposarsi ma semplicemente di unirsi e convivere, sia quelle tra due uomini o due donne. Avranno gli stessi diritti civili di una coppia regolarmente sposata. Dice Marcucci, presidente della commissione Cultura del Senato, renziano doc: «La questione è antica, ma l’Italia è rimasta indietro. Invece dobbiamo andare in Europa anche per i diritti civili».
LE ALLEANZE POSSIBILI
Marcucci ne ipotizza una «ampia », proprio perché vede, anche dentro Forza Italia, «parlamentari di impronta liberale che già si sono espressi a favore di queste norme». Fa l’esempio di Giancarlo Galan «che, da mesi, ha sollecitato una soluzione». Ad agevolare un’intesa che, in altre stagioni si è rivelata impossibile, potrebbe proprio essere quello che Laura Cantini, ex sindaco di Castel Fiorentino, definisce «il mancato passo in avanti». «Ci fermiamo dove il Paese è maturo per arrivare, prima del matrimonio tra persone dello stesso sesso e prima della delicatissima questione dei figli e delle adozioni». Non è una rinuncia da poco. Di certo sarà criticata. Ma, dice Cantini, «non si deve fare lo stesso errore della sinistra di individuare l’ottimale, senza poi ottenere nulla». Per dirla come la dicono Marcucci e Cantini «intanto questo è un grosso passo in avanti».

La Repubblica 16.12.13