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“La dura battaglia con Grillo”, di Claudio Sardo

Matteo Renzi ha deciso di trasformare il suo esordio da segretario in una sfida a Beppe Grillo sul terreno più insidioso: i costi e le regole della politica. È su questi temi che Grillo ha costruito la sua rendita più proficua. Anche Renzi, però, si è affermato come leader aggredendo con strumenti non convenzionali ciò che pareva inattaccabile. Ora non è chiaro se alle spalle ci sia già una strategia definita oppure se tocchi al linguaggio nuovo colmare i vuoti della politica. Certo, ieri al neosegretario non bastavano la celebrazione dell’orgoglio Pd, l’accelerazione delle politiche governative promessa da Enrico Letta, la ricomposta unità del partito anche grazie alla presidenza di Gianni Cuperlo. La «differenza» a cui tiene Renzi è appunto la velocità, la capacità di tenere l’iniziativa, di dribblare.
Grillo gli ha risposto con parole di disprezzo. Nessuno scambio possibile tra la restituzione dell’ultima rata di finanziamento ai partiti e le riforme istituzionali ed elettorali. Il Movimento Cinque stelle non fa patti con nessuno. Non li ha fatti con Bersani, non li farà con Renzi. E continuerà ad attaccare il Pd, anche il Pd della «seconda generazione», considerandolo alla stregua del Pdl. Destra e sinistra pari sono: questa la filosofia granitica di chi vuole il «tanto peggio».
Ovviamente, tutto è possibile tranne che Renzi non prevedesse la risposta. Ma il suo messaggio era rivolto anzitutto agli elettori sempre più incerti, a una società che nella crisi perde fiducia e acquista rabbia. Secondo qualcuno, il mancato successo di Bersani è stato determinato da due milioni di elettori, che avevano intenzione di votare il centrosinistra e che nell’ultima settimana prima del voto hanno deciso di lanciare un «segnale» attraverso i Cinque stelle. Non si capisce il tentativo di Bersani di aprire, dopo il voto, un confronto con i grillini senza questo macigno caduto sulla strada del Pd.
Il rifiuto di Grillo e Casaleggio ad ogni mediazione politica è figlio, questo sì, di una strategia consolidata, e allo stato im- modificabile. Grillo voleva il governo delle larghe intese, come oggi vuole le elezioni. E le vuole senza riforme significative. Fino a ieri si augurava di votare con il Porcellum, ora si dice disposto al ritorno del Mattarellum ma a condizione che non ci siano meccanismi di stabilizzazione dei governi. Insomma, l’obiettivo è tenere il sistema sotto ricatto e lucrare così ancora sullo sfascio e sulle sofferenze sociali.
Renzi ha vinto le primarie riuscendo a intercettare una parte di quegli umori che hanno composto la miscela esplosiva dei Cinque stelle. Si calcola che un milione di elettori delle primarie, circa un terzo del totale, avrebbero partecipato all’incoronazione di Renzi pur essendo completamente esterni al circuito del Pd e pur non essendo elettori stabili del centrosinistra. Si può discutere se sia giusto eleggere così il segretario di un partito, ma resta il fatto che Renzi è stato capace di catalizzare attenzioni, e speranze, che gravitavano fuori dall’orbita del Pd e chiedevano anzitutto di «chiudere il ventennio». Insomma, nonostante si sia discusso molto della capacità di Renzi di attrarre voti di centrodestra, è proprio nel magmatico mondo dei potenziali elettori grillini e in quello del centrosinistra più sfiduciato che il neosegretario si gioca la partita più importante, quella decisiva.
Ma c’è anche una ragione tutta politica che può spiegare l’affondo di ieri di Renzi. La riforma elettorale, qualunque es- sa sia, non sarà mai in grado da sola di garantire stabilità al sistema. Se Renzi vuole candidarsi alla guida di un governo di svolta, deve utilizzare il 2014 per realizzare alcune modifiche costituzionali: la più importante è affidare alla sola Camera il rapporto fiduciario con il governo (sarebbe meglio se riuscisse anche ad inserire la sfiducia costruttiva). Il problema è che né Grillo, né Berlusconi sembrano disposti a collaborare. Una legge elettorale forse si potrà fare con qualche forzatura. Ma le riforme costituzionali no. Anche per questo Renzi ha lanciato la sfida a Grillo. Per tentare di stanarlo. Ed è possibile che Renzi presto apra una sfida analoga anche a destra. Ciò che non può fare è abbassare i toni. Ha voluto che la sua segreteria coincidesse con un nuovo protagonismo del Pd. Non può farsi catturare dalle mediazioni del governo e della maggioranza.
Naturalmente, portare lo scontro sulle tonalità di Grillo comporta anche dei rischi. Innanzitutto il rischio di metabolizzare certe posizioni grilline. Il finanziamento pubblico dei partiti, ad esempio, non può essere considerato in sé un male: è invece la condizione, non a caso comune nei Paesi democratici, affinché anche i più poveri possano liberamente fare politi- ca e contrastare le lobby più potenti. Renzi ha acquisito gran- de forza con le primarie. Ha lanciato la sfida a Grillo per conquistare altra forza. Poi dovrà spenderla. Nel 2014 ci saranno comunque le elezioni europee. E saranno una prova durissima, perché sulla linea anti-euro Grillo, Berlusconi e la Lega possono spaccare il Paese. La speranza di Renzi e del Pd sta soprattutto in quel popolo del centrosinistra, che ancora ha dimostrato di volersi «ribellare» al declino del Paese,

L’Unità 16.12.13

“Fondi per esodati, polizia, bebè. Stabilità, più tempo alla mini Imu. Seconde case verso un rincaro”, di Valentina Conte

Notte di votazioni in commissione Bilancio della Camera. Al centro della sessione, gli articoli della legge di Stabilità sulla casa e le sue imposte, vecchie e nuove. Un emendamento, depositato ieri dal relatore del provvedimento Maino Marchi (Pd), sposta al 24 gennaio la data per pagare la mini-Imu. Si prende tempo, in attesa di capire se sarà possibile detrarre questa coda dell’imposta dalla nuova Iuc, che invece dovrebbe partire il 16 gennaio. Di sicuro, le aliquote della Tasi saliranno. Più probabile quelle sulla seconda casa (il tetto con l’Imu verrebbe portato all’11,6 per mille dal 10,6). Meno probabile un aggravio per le prime abitazioni. Ma si
discute ancora. E si vota ad oltranza perché il testo della legge arrivi in aula martedì.
Ieri il governo ha depositato i suoi 35 emendamenti e il relatore altri 20. Nel pacchetto dell’esecutivo finiscono alcune norme importanti sul cuneo fiscale, gli stadi, un fondo per i “nuovi nati”, la salvaguardia di altri 17 mila esodati (950 milioni stanziati fino al 2020), l’Inps (il “buco” Inpdap viene ripianato contabilmente). Mentre il relatore firma la sanatoria dei canoni demaniali pregressi dovuti dai balneari. Come anticipato da Repubblica, non si parla più di privatizzazioni delle spiagge. Né di cubature extra per chi realizzerà nuovi impianti sportivi. Non a caso il mondo del calcio ieri era in fibrillazione. «Mi auguro che in commissione si rifletta sui danni che la legge così concepita crea. È addirittura restrittiva», dice per tutti Claudio Lotito, presidente della Lazio. Per Maurizio Beretta, presidente della Lega di Serie A, l’emendamento «peggiora la normativa esistente ». Alla fine si è scelto il “modello inglese”: no a nuovi quartieri, ma possibilità di esercizi commerciali, solo «nei casi in cui ciò risulti strettamente necessario ai fini dell’equilibrio economico- finanziario del progetto», si legge nella relazione tecnica.
Per quanto riguarda il “bonus bebè”, in realtà si tratta del vecchio fondo Tremonti poi prorogato da Monti e le cui risorse residue ammontano a 22 milioni. Sarà rimpinguato successivamente dal governo e permetterà ai neo-genitori di contrarre prestiti fino a 5 mila euro, garantiti dallo Stato, da restituire in 5 anni. Il cuneo fiscale sarà invece tagliato grazie alle risorse extra da spending review, lotta all’evasione fiscale e «misure straordinarie », quali il rientro dei capitali dall’estero che il governo si appresta a definire entro gennaio. Diverse risorse vengono poi stanziate per le forze dell’ordine: Polizia (126 milioni in due anni per l’Expo più 100 milioni nel 2014 per gli straordinari), Vigili del Fuoco (21 milioni nel biennio). Il Sap (Sindacato autonomo di polizia) ringrazia Alfano «per aver mantenuto gli impegni». Forza Italia lamenta «risorse insufficienti». Il governo poi accelera i tempi per la rottamazione delle cartelle: i debitori dovranno saldare entro il 28 febbraio in un’unica soluzione (non più due, a giugno e settembre), senza interessi di mora. Infine, i fabbricati rurali ad uso strumentale saranno esentati dall’Imu a partire dal 2014. Mentre i terreni agricoli pagheranno un po’ meno, visto che il moltiplicatore Imu scende da 110 a 75.

La Repubblica 16.12.13

“Un difficile compromesso”, di Massimo D’Antoni

Un intervento particolarmente atteso, ormai in corso di definizione da parte del governo nell’ambito della legge di stabilità, è l’introduzione di un meccanismo che preveda l’automatica destinazione alla riduzione della pressione fiscale delle risorse derivanti dalla lotta all’evasione fiscale e dalla spending review. Non è la prima volta che si definisce un dispositivo del genere; la novità riguarda una più precisa definizione delle risorse oggetto di destinazione (quelle in eccesso a quanto già assorbito dalle previsioni di bilancio) e una specificazione più dettagliata della loro ripartizione, che dovrebbe rendere operativa la norma già dal prossimo anno.

È una risposta a precise richieste delle parti sociali, che tuttavia sembra non soddisfare in pieno le aspettative di chi l’ha fortemente voluta. Ci chiediamo d’altra parte se aspettative più ambiziose fossero giustificate, viste le premesse e il contesto.

L’ampiezza del consenso attorno a questa misura nasconde infatti una divergenza di visione sulla natura di questo intervento. Un primo punto di vista, sostenuto in particolar modo da Confindustria, pone l’accento sulla necessità di intervenire sulla bassa competitività dei nostri prodotti, attribuita all’elevata incidenza costo del lavoro.
Dall’altro lato, i sindacati e le associazioni del commercio sottolineano con maggiore forza la necessità di aumentare il potere d’acquisto delle famiglie a reddito medio-basso, per rilanciare la domanda di beni di consumo e quindi l’esangue domanda interna.
Si tratta, come è chiaro, di due letture molto diverse, da cui discendono scelte non facilmente conciliabili riguardo allo strumento fiscale da adottare, che comportano una diversa distribuzione dei vantaggi tra i soggetti coinvolti (non solo tra lavoratori e imprese, ma anche tra le imprese produttrici di beni soggetti alla concorrenza internazionale e quelle che producono per il mercato interno).
Difficilmente il governo poteva dunque evitare la strada del compromesso. Già parlare di riduzione della «pressione» fiscale e non soltanto di «cuneo» dichiara peraltro la volontà di non limitarsi al lavoro dipendente, accettando la tesi che il problema non sia solo la competitività ma anche la domanda interna.
Su ciascuna delle due visioni ci sarebbe peraltro di che eccepire. Il nostro costo del lavoro è elevato ma resta comunque significativamente inferiore a quello tedesco; il nostro problema di competitività è più una questione di specializzazione produttiva, di adozione delle nuove tecnologie, di investimenti per la riqualificazione produttiva, che di costo del lavoro in sé. Il lavoro risulta costoso in rapporto a quello che si produce e a come lo si produce, e su questo la riduzione delle imposte rischia di essere poco più di un sollievo temporaneo.
D’altra parte, se l’obiettivo è il rilancio della domanda interna, non è ovvio che la cura sia una riduzione delle imposte finanziate con riduzioni di spesa; sappiamo infatti che, mentre la spesa pubblica si traduce direttamente in domanda, la riduzione delle imposte si traduce solo in parte in consumi, e parte di tali consumi si rivolgono all’importazione. Resta vero che una redistribuzione verso i redditi più bassi può determinare un aumento dei consumi aggregati; ma per quello servirebbero azioni ben più incisive su redditi medio-alti e patrimoni, che tuttavia sembrano escluse anche per la pressione fiscale già molto elevata.
Insomma, nel contesto attuale la dimensione dell’intervento previsto difficilmente potrà determinare quegli effetti significativi attesi da chi chiede al governo uno shock in grado di rilanciare l’economia. A questo proposito occorre ribadire che, nell’ambito dei vincoli esistenti, difficilmente si poteva fare di più. Sappiamo che il nostro paese non ha la disponibilità dei tradizionali strumenti di rilancio della domanda: la politica monetaria è stata delegata alla Banca centrale europea, a sua volta vincolata ad un mandato rigidamente orientato al controllo dell’inflazione (mandato interpretato peraltro in senso piuttosto restrittivo). Quanto alla politica fiscale, conosciamo i termini del fiscal compact: vincoli di questo tipo sono giustificabili solo a patto che il coordinamento delle politiche fiscali preveda una gestione attiva della domanda aggregata a livello europeo, con politiche espansive nei paesi dotati di uno spazio fiscale.
La decisione del governo di vincolarsi a destinare risorse alla riduzione della pressione fiscale è importante. Tuttavia, senza una modifica del contesto di politica economica, difficilmente potrà dare i frutti attesi.

L’Unità 15.12.13

“Nel mondo dei segni”, di Luca Landò

E adesso? Che succede dopo il ciclone toscano, che non è il fild di Pieraccioni ma quel 70% che Matteo Renzi si è portato a casa dopo le primarie? Oggi a Milano, tanto per cominciare, il sindaco di Firenze diventerà ufficialmente il segretario del partito che guida il governo e la maggioranza che lo sostiene. Ma gli effetti dello tsunami già si vedono, a cominciare dal twitter con cui Letta venerdì ha annunciato in diretta dal consiglio dei ministri che il finanziamento pubblico sarebbe stato abolito per decreto.

O come la legge elettorale che dopo anni di promesse sembra improvvisamente uscita da quel gattopardismo che ha bloccato nei fatti il varo di qualunque riforma: annunciare di tutto per non cambiare mai nulla.

La robusta investitura che gli elettori del Pd (e non solo quelli) hanno dato al nuovo segretario, sembra dunque aver riacceso il motore della politica. Ma attribuire questi movimenti, come è stato fatto, all’ingresso sulla scena del nuovo leader sarebbe un errore. Il merito di Renzi sta certamente nell’aver saputo scaldare il cuore, e le matite elettorali, di chi è andato a votare. Ma la sua forza, in questo momento, deriva soprattutto dall’ampio risultato con cui ha vinto domenica scorsa e, più in generale, dalla grande risposta del popolo dei gazebo. Nell’Italia dell’antipolitica e dei forconi, dei vaffa-day di un comico e dei proclami golpisti di un condannato, il fatto che tre milioni di persone, a dicembre, si siano messe in fila per votare su un tavolino all’aperto è un fatto addirittura destabilizzante. Capace di spingere una politica apatica e pigra a cambiare passo, prima ancora che verso. La preoccupazione, infatti, è che la rabbia e la delusione, oramai parte integrante del tessuto politico di questo Paese (dal leghismo al grillismo passando per il berlusconismo) si possano trasformare, non nella fortuna di un capo o di un guru, ma in quel concreto e collettivo progetto di cambiamento che si chiama partito.

A spaventare, dunque, non è la vittoria di un «nuovo leader», ma il rapporto nuovo tra un leader emergente e un popolo di cittadini delusi e stufi che stanno cercando, con il voto, una soluzione politica ai loro problemi. Il vero timore è che quando la gente tornerà a votare, scelga il partito del cambiamento anziché quello delle pro- messe impossibili (un milione di posti di lavoro, ricordate?) o dell’insulto a raffica.

È questa la responsabilità, tremenda ma unica, che il Partito democratico a guida Renzi si trova ad affrontare in questo momento. Ne sarà all’altezza? Non ci vorrà molto per capirlo, ma intanto è bene mettere a fuoco alcuni punti.

Il primo. Matteo Renzi conosce bene il linguaggio dei segni: non quelli dell’improbabile traduttore salito sul palco dei grandi durante il tributo mondiale a Mandela, ma quelli che la politica usa per inviare

messaggi all’opinione pubblica. Le riunioni alle sette del mattino servono a dire che il nuovo sindaco lavorerà molto; leggere i messaggi sul telefonino durante l’intervento in tv significa essere di un’altra generazione così come rimanere a Firenze significa stare lontano dai «palazzi» del potere come l’abbiamo conosciuto finora. Il limite, ovviamente, è che i segni e i messaggi rassicurano e informano ma non cambia- no il mondo, soprattutto quello politico. Prendendo la guida del Pd, il nuovo segretario dovrà unire il linguaggio dei segni (suo innegabile punto di forza) alla vecchia ma concreta arte della politica fatta di programmi, scelte, compromessi, ma soprattutto risultati.

È singolare da questo punto di vista notare come il ciclone Renzi abbia portato nel mondo dei segni lo stesso governo, a cominciare dal twitter di Letta e dalla frenesia di bruciare sullo scatto il «concorrente» annunciando prima di lui la decisione di abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Peccato che il nuovo decreto, in termini di risultati, rischi di peggiorare la situazione anziché risolverla. Ma è evidente che dal punto di vista dell’immagine, dei segni appunto, il premier ha raccolto la sfida. Sarebbe tuttavia auspicabile che la gara non fosse tra chi è il più innovatore e il più veloce del reame, ma tra chi porta o propone le soluzioni più efficaci.

Secondo punto. La decisione di affidare la presidenza a Cuperlo è stata una scelta efficace che completa il percorso di crescita del Partito democratico e lo strumento stesso delle primarie. Come avviene da tempo negli Stati Uniti i veleni, gli sgambetti e le polemiche della campagna interna per eleggere il candidato alla presidenza finiscono nel giorno dello scrutinio: da quello successivo inizia un percorso di collaborazione.

Anche questo al momento non è che un segno e ci vorrà un tempo per vedere se la nomina a presidente consentirà a Gianni Cuperlo di avere un ruolo attivo nella vita e nelle scelte del partito. Ma dopo il Pd di «seconda generazione» che abbiamo visto in tutta evidenza nel confronto dei tre candidati su Sky, si tratta di messaggio che va nell’auspicio formulato da Prodi di unire vinti e vincitori.

Terzo punto. La scelta di restare a Palazzo Vecchio gli consente di proteggere la sua immagine di aspirante «sindaco d’Italia» in attesa che Letta, prima o poi, lasci libera la poltrona di Palazzo Chigi. Il pericolo ovviamente è che per guidare bene il partito (cosa non facile) il sindaco non riesca a fare altrettanto con il Comune. E che questioni puramente locali (dall’asfalto ai rifiuti ai viali alberati) finiscano per avere ricadute nazionali. Renzi dovrà scegliere entro fine mese se ricandidarsi alle elezioni comunali che si terranno il prossimo aprile. Ora che la battaglia congressuale è vinta il segretario-sindaco dovrebbe forse evitare di presentarsi, nell’interesse del Pd e della sua stessa città. Perché una cosa andrebbe evitata con cura: cadere a Roma per una buca di Firenze.

L’Unità 15.12.13

Renzi sfida Grillo: «Restituzione dei rimborsi? Ci stiamo, ma tu Beppe firma su riforme», da unita.it

L’Assemblea nazionale incorona il nuovo segretario: «Restiamo ribelli. E’ l’ultimo appello per cambiare il Paese. Unioni civili per gay nel patto, che piaccia o no a Giovanardi». Poi la sfida al leader M5S: «Firma qui, caro Beppe, se non ci stai l’espressione buffone vale per te». L’hashtag «Beppefirmaqua» vola su Twitter. Stretta di mano tra Renzi e D’Alema. Letta: «A gennaio il piano lavoro. Basta retroscena su me e Matteo, perché non ci sono. Uniti siamo imbattibili».

Matteo Renzi è partito dalla canzone dei Negrita e dal verso che invita a «restare ribelle» per iniziare il suo primo discorso da segretario del Pd. «Vogliamo un’Italia capace di innamorarsi e di fare innamorare. L’Italia deve avere l’orgoglio del passato», ha detto Renzi che si è detto «emozionato» per il nuovo percorso che affronterà alla guida del partito.

«Ho ringraziato Walter Veltroni per il cammino che è partito al Lingotto che è un cammino breve ma intenso, poi Dario Franceschini e poi Pier Luigi Bersani con cui ci siamo confrontati in questi mesi e grazie anche per i molti momenti in cui non siamo andati d’accordo e Guglielmo Epifani e infine grazie ad Enrico Letta». «Quando lui ha detto basta con i retroscena – ha aggiunto Renzi – è partito su Twitter chi ci invitava a fare outing. L’unico modo per uccidere i retroscenisti è parlare lo stesso linguaggio, fuori e dentro, parlare il linguaggio della franchezza». Per Renzi occorre «restare ribelli» . «Si è ribelli se si rifiuta la cultura della superficialità, se si rinuncia alla logica declinista se si ha il coraggio di parlare quando si dovrebbe tacere» e si può dare un contributo al cambiamento dell’Italia».

I lavori dell’assemblea Pd si sono aperti sulle note dell’inno di Mameli. In prima fila, vicini, il sindaco di Firenze e il presidente del Consiglio, Enrico Letta.

Dopo l’intervento di Renzi, ci saranno altri interventi dal palco del MiCo e le votazioni per eleggere il presidente, il vicepresidente, tesoriere e la direzione del partito. A chiudere i lavori, intorno alle 17, sarà un intervento di Matteo Renzi.

“C’era una volta l’apparato”, di Filippo Ceccarelli

Tra gazebi e forconi si consuma la fine ultima degli apparati di partito. Erano ormai poco meno di una parvenza, 3-400 persone, ma il decreto Letta contro il finanziamento pubblico gli toglie pure la speranza. Oltre all’occupazione. E degradato al rango di mero problema economico, secondo l’ameno triduo licenziamenti-cassa integrazione-solidarietà, come altre professioni che richiamavano una comunità di destino, ciò che resta del funzionariato nemmeno trova un degno canto funebre che ne ricordi l’antica gloria e l’anonimo, indispensabile vigore.
In realtà, rispetto al prevedibile, ma proditorio colpo di grazia, ben gli si adatterebbero quei versi di Kavafis che in un paio di libri uno dei maggiori studiosi di politica, Mauro Calise, ha evocato a proposito dei partiti della Prima Repubblica: “Onore a quanti in vita/ si ergono a difesa delle Termopili/ (…) E un onore più grande gli è dovuto/ se prevedono (e molti lo prevedono)/ che spunterà da ultimo un Efialte/ e che i Medi finiranno per passare”.
Niente poesia, ora, per impiegati, segretarie, autisti, addetti e commessi di partito. Il tempo delle tensostrutture smontabili e delle rivolte caotiche offre loro semmai, a portata di mouse e di schermo, una specie di malinconica caricatura, una pagina di Facebook, oltre 23 mila “mi piace”,
che all’insegna del vintage e dell’ironia celebra, riadattandoli o rovesciandoli nel presente, i grigi stilemi, le automatiche fissazioni e i burocratici appelli dell’Apparato comunista: «La gente ci chiede più stanze fumose, meno trasparenza»; e si postano foto di suppellettili bolsceviche, pure reclamizzando Il libretto grigio che l’Apparato ha di recente pubblicato con gli Editori Internazionali Riuniti.
E il gioco un po’ fa ridere, un po’ mette anche tristezza, ma certo rende più difficile adesso far capire, in un’Italia irriconoscibile, qual è stato il vero ruolo svolto per magri stipendi da questi oscuri lavoratori anche altrove votati alla causa. Della democrazia, si sarebbe detto un tempo, ma oggi?
In un libro molto bello, Botteghe Oscure addio (Mondadori, 1996) Miriam Mafai finisce spesso per descrivere l’apparato come un corpo vivo. Scrive che si trattava dello “scheletro” e del “sistema nervoso” del Pci; poi del “cuore” e del “cervello”; quindi, sempre a proposito di quella macchina da cui dipendevano la trasmissione della “giusta linea” e il suo controllo,
arriva a concludere che «tutto in quel palazzone scorreva con la stessa placida regolarità con la quale il sangue circola nelle vene».
Alle Botteghe Oscure c’erano la mensa e le sirene per dare l’allarme, la Vigilanza era al pianterreno, come del resto l’ambulatorio del dottor Pedicino, mentre nel grande salone con i banchi di formica del quarto, oltre alle riunioni del Comitato centrale, si organizzavano le festicciole per Natale o i compleanni dei dirigenti. L’Ufficio Quadri fungeva da Confessionale tipo Grande Fratello. Per qualsiasi necessità, i funzionari smistavano ai compagni sarti, elettricisti, donne di servizio. Fino allo scioglimento del Pci (1989) c’era un addetto alle onoranze pubbliche e ai cimiteri (passato a Rifondazione).
Nei primi anni 50 Fanfani provò a copiare quel modello per competere meglio con i comunisti. Fece costruire il grande palazzone dell’Eur, lo riempì di personale e nelle fondamenta insediò un frammento della roccia presso cui San Francesco aveva ricevuto le stimmate. Contro l’apparatchik del Pci volle anche creare la figura professionale di “Addetto ZD”, che stava per “Zona Depressa”, anche dal punto di vista elettorale. Nel 1975, durante un drammatico, ma interminabile Consiglio nazionale, gli autisti democristiani si ribellarono e cominciarono a suonare il clacson per protesta.
Nel Psi fu sempre tutto più lasco. A via del Corso segretarie e funzionari, in seguito come i loro colleghi dei vari partiti riconosciuti e aiutati dalla “legge Mosca” (da Giovanni, che fu il vice di De Martino), vivevano in cellette dislocate nel palazzo di travertino a seconda delle stratificazioni etniche e correntizie dei vari leader. Dapprima detestarono Craxi, ampiamente ricambiati; in seguito ne riconobbero l’autorità; infine, dopo il suo disastro, persero anche il lavoro.
E tuttavia, insieme con la Prima Repubblica, per ogni partito venne meno anche quel ruolo, quell’ordine, quella specie di prolungamento della militanza. Arrivarono comunque, come i Medi di Kavafis, gli staff, i consulenti, i pubblicitari, i guru della comunicazione, e la demoscopia, il casting, la ripresa di un potere, in definitiva, che tornava ad essere al tempo stesso carismatico e patrimoniale.
Troppo facile, ma forse ancora troppo presto per raccontare lo smantellamento e la decomposizione degli apparati, infine ridotti a minimi simulacri di loro stessi. Così scomodi, per giunta, da potersi sacrificare ai nuovi idoli, tra gazebi e forconi, rottamandi e buffoni.

La Repubblica 15.12.13

“Giovani: 3,7 milioni non studiano né lavorano” da il Corriere della Sera

In Italia ci sono oltre 3,7 milioni di giovani under 35 che non studiano, non lavorano né sono in alcun percorso formativo: il 28,5% della popolazione in questa fascia di età, in crescita e ai primi posti in Europa (più 300 mila rispetto a un anno fa). La fotografia sui Neet (Not in Education, Employment or Training) è stata scattata dall’Istat con riferimento al terzo trimestre 2013 ampliando (come fa l’Eurostat) il limite di età di riferimento dai 29 ai 34 anni. La situazione è drammatica al Sud con quasi il 40% degli under 35 che non studia né lavora (oltre due milioni di persone). Dalle tabelle si evince che su 3,7 milioni di giovani che non studiano e non lavorano, 1,2 milioni non cercano lavoro né sono disponibili a lavorare. Ma per altri 2,5 milioni c’è la disoccupazione (1,333 milioni) o il limbo delle «forze di lavoro potenziali» (ovvero la condizione di coloro che pur non cercando sarebbero disponibili a lavorare) con oltre 1,2 milioni di persone. Finora l’Istat aveva diffuso le rilevazioni sui Neet fino ai 29 anni: 2,5 milioni contro i 2,3 del terzo trimestre 2012. Oltre la metà dei Neet (2 milioni) sono al Sud con una percentuale che sfiora il 40% del totale . Se si guarda agli under 29 nel Mezzogiorno sono fuori dal percorso lavorativo, formativo e di istruzione il 36,2%(1,3 milioni su 2,5 milioni in tutto il Paese). Nel complesso ci sono quasi 1,2 milioni di Neet tra i 30 e i 34 anni di cui 666.000 al Sud. Sulla cifra totale di 3,7 milioni ci sono oltre 1,5 milioni di giovani con bassa scolarità (fino alla licenza media), mentre 1,8 milioni hanno il diploma di maturità e 437.000 hanno nel cassetto una laurea o un titolo post laurea.

15.12.13