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“Quota 96”. Presentati emendamenti a Stabilità, tetto massimo 4mila pensionamenti. Pubblichiamo testo integrale relazione Ragioneria dello Stato, da orizzontescuola.it

Continua la battaglia dei comitati “Quota96” che hanno trovato nelle Parlamentari Ghizzoni e Incerti due instancabili punti di riferimento. Dopo la bocciatura da parte della Ragioneria dello Stato alla richiesta di copertura finanziaria, l’XI Commissione presenta degli emendamenti alla Legge di Stabiltà che tengono conto dei rilievi fatti nella relazione.

Innanzitutto pubblichiamo il testo integrale, giunto ieri in nostro possesso, della relazione della RdS che ha ritenuto non accoglibili le richieste di finanziamento per mandare in pensione il personale della scuola che nel passaggio alla riforma Fornero non si è visto convalidare la maturazione del servizio secondo il calendario scolastico. Scarica il testo

Tra le obiezioni, la contestazione dei numeri degli aspiranti pensionandi, che secondo l’XI Commissione sarebbero in 4mila. Cifra che non ha convinto la Ragioneria dello Stato, che ritiene impossibile una finssazione di un limite massimo di beneficiari. Vedi qui i particolari

Per ovviare a questo problema, l’emendamento presentato dall’XI commissione, fissa in limite massimo di 4.000 soggetti e di 35 milioni di euro per l’anno 2014, di 106 milioni di euro per l’anno 2015, di 107,2 milioni di euro per l’anno 2016, di 108,4 milioni di euro per l’anno 2017 e di 72,8 milioni di euro per l’anno 2018, oltre il quale l’INPS non prenderà in esame ulteriori domande di pensionamento.

La parola passa al Parlamento. In teoria l’emendamento dovrebbe godere dell’appoggio del PD e del M5S, limiti erano stati posti da parte del PdL, che, ormai disgregato, è passato in parte all’opposizione. Tutto dipenderà dalla posizione dello schieramento di Alfano e dai vari pareri delle Commissioni, a partire da quella “Bilancio”

Vi lasciamo al testo degli emendamenti.

Al comma 127, primo periodo, inserire in fine le seguenti parole, nonché al personale della scuola che matura i requisiti entro l’anno scolastico 2011/2012, ai sensi dell’articolo 59, comma 9, della legge 27 dicembre 1997, n.449, e successive modificazioni.

Conseguentemente, dopo il comma 127, inserire i seguenti:
127-bis. All’alinea del comma 14 dell’articolo 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n.201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n.214, dopo le parole: «ad applicarsi» sono inserite le seguenti «al personale della scuola che matura i requisiti entro l’anno scolastico 2011/2012, ai sensi dell’articolo 59, comma 9, della legge 27 dicembre 1997, n.449, e successive modificazioni,».
127-ter. Il beneficio di cui al comma 127-bis è riconosciuto, a decorrere dalla data del 1o settembre 2014, nel limite massimo di 4.000 soggetti e di 35 milioni di euro per l’anno 2014, di 106 milioni di euro per l’anno 2015, di 107,2 milioni di euro per l’anno 2016, di 108,4 milioni di euro per l’anno 2017 e di 72,8 milioni di euro per l’anno 2018. L’INPS provvede al monitoraggio delle domande di pensionamento inoltrate, secondo modalità telematiche, dai lavoratori di cui al comma 127-bis che intendono avvalersi dei requisiti di accesso e del regime delle decorrenze vigenti prima della data di entrata in vigore dei decreto-legge 6 dicembre 2011, n.201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n.214. Qualora dal monitoraggio risulti il raggiungimento del limite numerico delle domande di pensione determinato ai sensi del primo periodo del presente comma, l’INPS non prende in esame ulteriori domande di pensionamento finalizzate ad usufruire dei benefici previsti dalla disposizione di cui al medesimo comma 127-bis.
127-quater. Per i lavoratori che accedono al beneficio di cui al comma 127-bis, ai fini della liquidazione del trattamento di fine rapporto, comunque denominato, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all’articolo 2, comma 11, lettera a), numeri 1) e 2), del decreto-legge 6 luglio 2012, n.95, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n.135, che si intendono estese, con riferimento all’anno scolastico 2014, al personale di cui al citato comma 127-bis.
127-quinquies. Agli oneri derivanti dall’attuazione dei commi 127-bis e 127-ter, valutati in 35 milioni di euro per l’anno 2014, 106 milioni di euro per l’anno 2015, 107,2 milioni di euro per l’anno 2016, 108,4 milioni di euro per l’anno 2017 e 72,8 milioni di euro per l’anno 2018, si provvede parzialmente utilizzando i risparmi complessivamente conseguiti a valere sulle autorizzazioni di spesa relative al Fondo di cui all’articolo 1, comma 235, primo periodo, della legge 24 dicembre 2012, n.228, e successive modificazioni, come rideterminate, da ultimo, dall’articolo 2, comma 7, del decreto-legge 31 ottobre 2013, n.126.”

Emendamenti di Incerti Antonella, Ghizzoni Manuela.

“Ripiombati nei primi anni Novanta”, di Mario Lavia

Di ripiombare ai primi anni Novanta l’Italia non aveva certo bisogno. Fino a tre giorni fa l’analogia stava nella catastrofica situazione economica. Da mercoledì sera la somiglianza sta anche nella crisi politico-istituzionale. Ci risulta che da importanti ambienti economico-finanziari, soprattutto inglesi e statunitensi, si siano levate ieri domande inquietanti sulla affidabilità delle nostre istituzioni. Davanti a un parlamento politicamente in crisi (e va sottolineato “politicamente”, contro le teorie sfasciste di Grillo e Santanchè), viene chiesto se le leggi passate, presenti e future abbiano efficacia, ci si interroga sulla tenuta delle nostre istituzioni, sulla capacità dei nostri leader e ministri, sulla validità del governo italiano.

Stando così le cose non si possono escludere pesanti attacchi alla nostra economia. Vedremo che farà lo spread.

Allarmismo? Per niente. Ieri Napolitano è giustamente intervenuto per cercare di smontare la polemica sulla delegittimazione del parlamento. E però stavolta – come dire – abbiamo la spiacevole sensazione che non sia riuscito a placare gli animi.

Ha chiesto, il Presidente, modifiche costituzionali per ridurre i parlamentari e superare il bicameralismo perfetto. Come si chiede anni. Almeno da quando la commissione di Aldo Bozzi il Vecchio cominciò a lavorarci. Trent’anni dopo crolla la legge elettorale per mano di Aldo Bozzi il Giovane. Un cerchio di fallimenti.

Ognuno scarica le responsabilità sull’avversario politico. Tendendo l’elastico, si è arrivati ieri al teatro dell’assurdo, con il senato che “resiste” alla richiesta della camera di esaminare la pratica della legge elettorale, visto che da mesi a palazzo Madama non si cava una ragno dal buco. Ha ragione la Boldrini.

Napolitano ha poi chiarito che occorre una nuova legge elettorale non proporzionale nel rispetto del referendum del ’93: avranno sentito i nostalgici della Prima repubblica, anche quelli che si trovano nel Pd?

Richiamo giusto. Una legge proporzionale sarebbe catastrofica perché non darebbe alcun governo. L’unica altra via è un sistema maggioritario. Cari politici di tutti i partiti, vedete come farlo ma fatelo. E di corsa.

da Europa Quotidiano 06.12.13

“Microcredito e anziani adottati. Le nuove idee-casa degli studenti”, di Elena Tebano

Non ne poteva più delle lunga processione di case con la muffa sui muri, mobili scalcinati e impianti fuori norma in cui ha passato gli anni dell’università. Cosi Davide De Santis, barese di 28 anni trapiantato in Emilia Romagna, ha deciso di fare qualcosa. A settembre, negli stessi giorni in cui si laureava in Scienze politiche, ha inaugurato i suoi 29 posti letto nel centro di Bologna. «Ho fondato una cooperativa che gestisce 8 appartamenti per studenti. Offriamo condizioni migliori e prezzi più bassi del mercato, 330 euro massimo per chi sta in singola, 200 per chi sceglie la doppia». De Santis e i suoi due soci fanno contratti lunghi con i proprietari delle case, le arredano e le affittano per 12 mesi alla volta agli studenti — il tutto finanziato grazie a 20 mila euro ottenuti con il microcredito. «Non mi aspettavo un inizio così di successo», ammette. Ma stanze a buon mercato di questi tempi sono merce rara.
Quando si parla dei costi dell’università quasi sempre la polemica è sulle tasse. La vera differenza però la fanno gli alloggi per chi si iscrive lontano dalla sua città, circa la metà degli universitari italiani. Secondo un’indagine realizzata a settembre da Cgil e Sunia l’affitto si porta via l’80% del loro budget. Una singola a Milano e a Firenze costa tra i 500 e i 700 euro; poco meno a Napoli e a Roma, 4-500 euro a Bologna. I prezzi scendono, ma non molto, nei centri più piccoli: tra i 3-400 euro a Pisa, Urbino e Perugia; cinquanta in più a Padova. I posti letto in doppia oscillano intorno alla metà di queste cifre (dati Cgil-Sunia). Tre universitari su 10 hanno problemi a pagarle.
Gli atenei non offrono di fatto soluzioni: i posti negli studentati sono solo 65 mila per 650 mila fuori sede. Uno su dieci. Di questi solo il 66% è in residenze pubbliche o gestite da enti universitari a prezzi «calmierati». I recenti tagli all’università non aiutano. Mancano anche i posti per chi avrebbe diritto per merito e reddito: «A livello nazionale è coperto solo il 10%», dice Guido Cioni, portavoce fiorentino del coordinamento universitario Link. Nella sua città, l’Azienda regionale per il diritto allo studio si è trovata così a corto di soldi che voleva chiudere le residenze studentesche durante le vacanze di Natale. Soltanto la mobilitazione degli studenti ha permesso di trovare un compromesso: potranno restare gratis, ma dovranno concentrarsi nelle residenze più grandi, in modo da chiudere le altre e risparmiare.
Altri enti universitari cercano soluzione creative. Maria Rivera, 24 anni, argentina, è una dei 17 studenti che anni hanno trovato una stanza gratis grazie all’accordo tra quello laziale, Laziodisu, e l’associazione no profit Libera Cittadinanza. La ospita un signore ottantenne, che lei ha «adottato»: in cambio dell’impegno ad accompagnarlo dal medico e cucinare, ha una singola nel centro della Capitale. Però deve dormire a casa tutte le sere: «Perché se non si sente bene, c’è qualcuno che può chiamare il Pronto soccorso — spiega —. Sono sei mesi che sto lì ed è come se fosse un nonno: mi racconta le storie della sua gioventù e se esco si raccomanda che stia attenta…».
Alfredo Giacchetto, invece, 25 anni, studia Management dei beni culturali a Venezia e vive con 11 coinquilini, in un ex convento a Cannaregio. «È stato appena ristrutturato, offre un sacco di servizi, la possibilità di allestire mostre nel chiostro antico e di seguire seminari con designer di fama. Presto avremo anche un cineforum», si entusiasma. L’ente veneto per il diritto allo studio non potrebbe permettersi niente di simile: ad aprire la residenza di 225 posti letto è stata una società privata che investe nel sociale, Gastameco. Un terzo degli ospiti, come Giacchetto, ha una borsa di studio e spende 110 euro al mese per un posto letto grazie a una convenzione con l’università. Gli altri tra i 330 e i 370. Tra un po’ apriranno anche bar, minimarket e palestra: gli studenti potranno lavorarci ed essere pagati in denaro e servizi.
«Volevamo coprire un vuoto nell’offerta — spiega Andrea Cavanna, amministratore delegato di Gastameco — offrire a prezzi accessibili strutture all’avanguardia, per abitabilità, servizi e anche formazione: i nostri studentati vogliono essere luoghi di cultura». Il prossimo passo è replicare l’esperimento in altre città universitarie, a cominciare da Milano e Bologna. Ma sul lungo termine l’obiettivo è lo stesso dello studente che si è rivolto al microcredito: «Cambiare il mercato degli affitti».
Le conseguenze si farebbero sentire. Oggi, spiegano Sunia e Cgil, la metà degli affitti sono in nero, un quarto dichiarano importi più bassi del reale: fa un miliardo e mezzo di imponibile (e trecento milioni di tasse) sottratti alla collettività.

Il Corriere della Sera 06.12.13

“Bisogna dare l’altolà ai proporzionalisti del Pd oppure torniamo al passato”, di Goffredo De Marchis

I tifosi del proporzionale? «Esistono e sono pericolosi». Si annidano anche nel Pd? «In questo momento non mi pare. Ma se qualcuno è tentato, lo dica a viso aperto come si fa nei partiti democratici ». La reazione dei sostenitori del maggioritario? «I cittadini che non vogliono tornare al passato hanno subito una possibilità di far sentire la loro voce. Vadano domenica a votare alle primarie». Graziano Delrio, renziano, ministro degli Affari regionali impegnato nella battaglia per la cancellazione delle province, si prepara alla partita finale sulla legge elettorale. Non c’è dubbio che la sentenza della Corte costituzionale abbia cambiato le carte in tavola.
Una sentenza politica?
«Non la voglio chiamare così. Ma ha certamente degli effetti politici rilevanti. Gli italiani hanno modo di rispondere politicamente a quella decisione andando alle urne domenica. Se non vogliono tornare ai giochi di palazzo, alle coalizioni che non si formano prima delle elezioni, partecipino alle primarie. Il Pd ha una linea chiara: vuole il doppio turno maggioritario di collegio. Su questo punto possono scegliere qualsiasi candidato e non sbagliano».
Votando Renzi sbaglierebbero di meno?
«Renzi chiede scelte chiare contro il sistema proporzionale. Mi pare che sia in sintonia con le parole del presidente Napolitano».
Teme che nel Pd qualcuno invece voglia tenersi il Super Porcellum?
«L’opzione del Pd è molto netta. Nessuno dei candidati in corsa propone
un ritorno al passato. Ma se esistono nostalgie della Prima repubblica se ne discuta e lo si faccia a viso aperto».
Mercoledì Letta deve aiutare il maggioritario?
«Il governo sbaglia se fa una proposta di legge elettorale».
Così non impegna il premier a cercare una soluzione.
«Abbiamo mille parlamentari, facciano loro. Il governo può sollecitare Camera e Senato a fare uno sforzo insieme superando le stupide gelosie».
E non deve esprimere una preferenza?
«Può essere di stimolo e di accompagnamento. Ma non deve caricarsi della legge in senso formale». L’esecutivo ha una maggioranza. Meno forte di prima, ma comunque solida. Sia quella maggioranza a trovare un’intesa e a
votarla, no?
«La riforma elettorale è un problema di credibilità complessiva del sistema. Non appartiene né alla maggioranza né alla minoranza. Appartiene a chi a cuore qualcosa che serva veramente al Paese».
Sta facendo appello a Grillo? Non si fida di Alfano?
«Cerco un largo consenso tra chi non ci sta a tornare indietro. Non posso dire neanche quale sia la posizione di Alfano, Non mi è chiara e li capisco. Il Nuovo centrodestra è appena nato».
L’esame della legge deve passare alla Camera?
«I capigruppo hanno preso una decisione importante: Camera e Senato si parlino. Basta che non ci siano atteggiamenti risentiti e musi lunghi».
Calderoli la vuole a Palazzo Madama. Anche Anna Finocchiaro non molla.
«Ogni tanto la memoria deve venire a galla. Il fatto che chi non ha saputo approvare una nuova legge per tempo voglia essere protagonista
anche in questa fase, è scandaloso. Che poi l’autore della vecchia legge oggi esulti e voglia indicarci la strada mi fa pensare che non conosca il “pudore”. Non diano lezioni ad altri, non pretendano di menare le danze».
Dal sindaco d’Italia al Superporcellum.
Non siamo davanti alla sconfitta delle ambizioni di Matteo Renzi?
«Il Porcellum era una legge sbagliata. La sentenza è una conseguenza di quella legge. La colpa non è dei giudici ma della politica.
Che il giudizio tranchant della Consulta determini il ripristino del proporzionale non sta scritto da nessuna parte. Lo dice Renzi e lo dice il presidente della Repubblica».
Non cambia niente per Renzi?
«Se c’è uno che ha chiesto di modificare il Porcellum, questo è Matteo. Non lo vedo in difficoltà. A essere in difficoltà e a vergognarsi dovrebbero essere quelli che avevano votato la porcata».
Però la prospettiva delle elezioni a marzo è tramontata.
«Credo che la legge elettorale vada approvata in fretta, molto in fretta. Se il Parlamento non procede rapidamente su riforma del voto, bicameralismo e abolizione delle province dà il segnale di essere impotente. Dimostrare la nostra impotenza, è la benzina di chi vuole incendiare il Paese. E io non sono tranquillo. Nessuno giochi con questo fuoco».

La Repubblica 06.12.13

“Latte lituano e pomodori cinesi. La babele del Made in Italy”, di Giuseppe Sarcina

Una fetta di prosciutto, una mozzarella, una goccia di olio nascondono formidabili scontri di interesse tra lobby o governi. Regolamenti comunitari e leggi nazionali. Richiami al tricolore, strategie di marketing, politiche di prezzo. Etichette mute o scritte in ostrogoto. In mezzo a tutto questo i consumatori, con sempre meno soldi in tasca e, proprio per questo, sempre più strattonati.
Che lingua parla il prosciutto?
Mercoledì 4 dicembre gli attivisti della Coldiretti hanno sospeso per qualche ora la libera circolazione delle merci, uno dei principi fondanti dell’Unione europea. Dalle celle frigorifere dei camion hanno scaricato e poi issato come trofei cosce di maiale apparentemente insignificanti. Se non fosse per il timbro stampigliato sulla cotenna: Belgio, Francia, Olanda, Germania.
Ecco il teorema dell’organizzazione degli agricoltori: l’industria di trasformazione importa materia prima per confezionare prodotti che poi spaccia come «made in Italy» ingannando il consumatore e bruciando posti di lavoro nei campi e negli allevamenti nazionali. Nel 2012, secondo i calcoli di Coldiretti, sono state importate 57 milioni di cosce di suino, a fronte di una produzione nazionale di 24,5 milioni. In sostanza due prosciutti su tre provengono da terre lontane. «Ma sono tutti lavorati negli stabilimenti italiani», replica Luisa Ferrarini, presidente di Assica, associazione industriali delle carni e dei salumi, affiliata a Confindustria.
Sia Coldiretti che Assica dicono due cose vere. Ma il punto è che sono verità che non si parlano fra loro. I produttori sostengono che i consumatori sceglierebbero con maggiore consapevolezza se conoscessero la provenienza delle materie prime. Comprerebbero prodotti più costosi? Manca la controprova. In realtà la gran parte dei cittadini-consumatori si comporta in modo contraddittorio. Nei sondaggi mostra di apprezzare «il made in Italy», ma quando si trova davanti agli scaffali guarda il cartellino del prezzo e lì si ferma. Il prosciutto cotto costa dai 9 ai 40 euro al chilo. Una forbice che sembra incredibile. Luisa Ferrarini non ha difficoltà ad ammettere: «L’industria offre una gamma enorme di prodotti. Nel Sud di Italia, per esempio, è richiesto un tipo di prosciutto molto magro ma con un prezzo che non può superare i 12 euro al chilo. Come pensate che si possa produrre un prosciutto del genere, se non importando la materia prima?»
Pasta e pomodoro
Le aziende di trasformazione, dunque, si difendono con questi argomenti: è vero, importiamo un 30% in media di materie prime, ma siamo sempre noi a controllare il processo di lavorazione; siamo noi che garantiamo la qualità e la sicurezza degli alimenti. Non siamo dei contraffattori.
Ma c’è qualcosa che stona. Prendiamo pasta e pomodoro: il dna culturale, prima ancora che gastronomico, del nostro Paese. Eppure gli stabilimenti italiani, fa osservare ancora la Coldiretti ammassano ogni anno 5,7 miliardi di chili di grano provenienti da Francia, Ungheria, Austria, Germania e Canada. E, nota ancora con perfidia, l’industria di trasformazione importa 72 milioni di chili di salsa in concentrato dalla Cina: l’equivalente di quasi il 20% della produzione italiana di pomodoro fresco. Si può discutere a lungo sul modello di agricoltura prevalente in Italia. Il fronte industriale ha buon gioco a sottolineare l’incapacità strutturale di un sistema frazionato come il nostro a coprire il fabbisogno di cereali (ne importiamo quasi il 45%). Dopodiché, però, nessun imprenditore spiega fino in fondo perché, su tutte le confezioni di pasta si sprechino i tricolori e i richiami, talvolta anche retorici, al Bel Paese. Come dire: lasciamo ai convegni le cifre sulle importazioni di grano, ma è meglio che il consumatore non sappia che l’anima dello spaghetto, talvolta, può essere francese, ungherese e perfino Canadese.
Olio, latte ed etichetta.
Dovrebbe essere, dunque, obbligatorio indicare l’origine di tutti gli ingredienti sull’etichetta? È una domanda che divide l’Unione europea. Al «sì» dell’Italia si oppone il «no» di Germania, Olanda, Gran Bretagna, Paesi in cui è forte l’influenza delle multinazionali e delle catene della grande distribuzione. Da quelle parti conta solo il prezzo e deve essere il più basso possibile. Al resto penseranno le arti della pubblicità e del marketing. Spesso fuorvianti: basti solo pensare alle mozzarelle o agli yogurt con nomi italiani confezionati con latte lituano o polacco.
Lo scontro furibondo tra lobby e governi produce la semi paralisi della legislazione. Oppure qualche risultato grottesco. Una prova? È sufficiente leggere l’etichetta su una bottiglia di olio, uno dei pochi settori in cui l’Unione europea ha adottato un regolamento comune. La dizione più frequente è un capolavoro di tartufismo politico: «miscela di oli comunitari». Significa che le olive provengono in gran parte dalla Spagna, ma questo Paese ha preferito nascondersi per consentire alla sua multinazionale, la madrilena Deoleo, di presentarsi ai consumatori con il fascino dei marchi italiani, acquistati uno dopo l’altro (Carapelli, Bertolli, Sasso, San Giorgio). Olio ricavato da materia prima spagnola, greca, o portoghese in una bella bottiglia vestita all’italiana.

Il Corriere della Sera 06.12.13

“Un terzo degli italiani è a rischio povertà”, di Laura Matteucci

Un terzo della popolazione a rischio povertà. Peggio di noi, in tutta la zona euro, solo la Grecia. Sono gli ultimi dati disponibili di Eurostat, riferiti al 2012: il 29,9% degli italiani, 18,2 milioni di persone, era a rischio di esclusione sociale o povertà. In Grecia la percentuale raggiungeva il 34,6%, mentre in Spagna, Paese in difficoltà economica e con altissima disoccupazione, si fermava al 28,2%, e in Portogallo al 25,3%. E nulla fa pensare che nel 2013 le cose siano andate meglio. Anche perché dal 2008 al 2012 il peggioramento è stato significativo: nell’anno di inizio della crisi a rischio era il 25,3% degli italiani, nel 2011 il 28,2%. In pratica, siamo passati da uno su quattro a uno su tre. La notizia di Eurostat fa il paio con l’ultima dell’Inps: quasi un pensionato su due (45,2%, 7,2 milioni di persone, dati sempre riferiti al 2012) ha un reddito pensionistico medio inferiore a 1.000 euro mensili. E il 14,3% si trova al di sotto di 500 euro. Il 25% (3,9 milioni) si colloca nella fascia tra 1.000 e 1.500 euro medi mensili, un ulteriore 14,6% (2,3 milioni) percepisce un reddito da pensione compreso tra 1.500 e 2.000 euro, e solo il rimanente 15,2% di beneficiari (2,4 milioni) ha un assegno che supera i 2.000 euro (oltre 3mila per 650mila pensionati).

CALA IL REDDITO

Dal bilancio sociale Inps si evince anche che tra il 2008 e il 2012 il potere d’acquisto delle famiglie è crollato del 9,4%, e solo tra il 2011 e il 2012 il calo è stato del 4,9%. Nel complesso nei quattro anni considerati il reddito disponibile delle famiglie ha perso in media l’1,8% (-2% tra il 2011 e il 2012). Nel bilancio, cresce del 19% la spesa per ammortizzatori sociali, che nel 2012 si è attestata oltre i 22,7 miliardi, dei quali 12,6 di prestazioni e 10,1 di contributi figurativi. La spesa è ripartita in 6,1 miliardi per la cassa integrazione, 13,8 miliardi per l’indennità di disoccupazione e 2,8 miliardi per indennità di mobilità. Rispetto al 2011 si registra un aumento di spesa per la Cig nel suo complesso (21,7%), un incremento della spesa sia per l’indennità di disoccupazione (18,2%) sia per quella di mobilità (17,3%). L’ampiezza dell’utilizzo degli ammortizzatori nel 2012 emerge anche dai dati sui beneficiari: la Cig ha coinvolto in tutto più di 1,6 milioni di lavoratori, la mobilità ne ha interessati oltre 285mila e la disoccupazione nel suo complesso quasi 2,5 milioni. In totale oltre 4 milioni di lavoratori hanno percepito un ammortizzatore nel corso dell’anno. Una postilla che riguarda gli esodati: il governo attende un rapporto trimestrale sul sito Inps entro Natale, che servirà a capire quanti soggetti so- no stati trattati, quanti hanno ricevuto la lettera, e quante pensioni sono state liquidate.

Ma torniamo ai dati Eurostat. Più nel dettaglio, di quel quasi 30% a rischio, l’anno scorso il 19,4% si trovava in una situazione di povertà propriamente detta, cioè con un reddito disponibile uguale o inferiore al 60% del reddito medio nazionale, il 14,5% in una situazione di privazione materiale severa: non in grado di pagare un affitto, un prestito, le bollette della luce, il riscaldamento, consumare carne o pesce ogni due giorni, di andare in vacanza per una settimana, di avere una tv a colori o un telefono o un’auto (condizione quest’ultima che riguarda il 14,5% della popolazione). E un buon 10,3% ha fino a 59 anni e vive in famiglie di adulti che lavorano meno del 20% delle possibilità teoriche nel corso dell’anno (gli studenti sono esclusi dal calcolo). Eurostat precisa che «il numero totale delle persone a rischio di povertà o esclusione sociale è inferiore alla somma delle persone calcolate in ciascuna delle tre categorie perché certuni si trovano simultaneamente in più di una casella».

Ebbene, guardando a tutti questi indicatori, dopo la Grecia, l’Italia è il Paese della zona euro dove il rischio di povertà ed esclusione sociale è più alto. Mentre scende parecchio la difficoltà in Francia, dove il rischio si concretizza per il 19,1% dei cittadini, in Germania (19,6%), Finlandia (17,2%), Olanda (15%). Per trovare dati peggiori di Italia e Grecia, bisogna guadare ai Paesi fuori della zona euro: al top Bulgaria (49,3%), Romania (41,7%), Lettonia (36,5%), Croazia (32,3%). Se poi si guarda l’intera Unione europea, l’anno scorso 124,5 milioni di persone, il 24,8% della popolazione, era a rischio di esclusione sociale, in peggioramento rispetto al 24.3% del 2011 e il 23.7% in 2008.

L’Unità 06.12.13