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“Precari, la Ue non ci sta più Italia a rischio condanna”, di Franco Bastianini

Sul trattamento giuridico ed economico riservato dalle leggi italiane agli insegnanti e all’altro personale precario in servizio nelle scuole statali, l’Europa non ci sta più.
La Commissione EU sembra infatti avere perso la pazienza nei confronti dell’Italia che, nei fatti, continua ad ignorare le richieste di adeguamento alle norme, contenute nella direttiva comunitaria 1999/70/CE e successive modificazioni, appunto in materia di trattamento giuridico ed economico degli insegnanti e del personale precario della scuola statale.

Se entro sessanta giorni, si legge infatti in una nota della Commissione inviata nei giorni scorsi alle autorità italiane, l’Italia non avrà fornito risposte alle richieste di chiarimenti sulla discriminazione economica in atto tra il personale non di ruolo e quello di ruolo, questione già oggetto di procedure d’infrazione avviate nel 2010, nel 2012 e nel 2013, la Commissione si vedrà costretta a portare l’Italia davanti alla Corte di giustizia europea che, nel caso di una sentenza di condanna, potrebbe costare alla casse dello stato qualche decina di milioni di euro.

Il pericolo non poteva lasciare indifferenti le organizzazioni sindacali che, infatti, da tempo stanno sollecitando il ministro dell’istruzione a porre fine ad una situazione non più sostenibile soprattutto per quanto riguarda il numero sempre più alto di contratti a tempo determinato, anziché di contratti a tempo indeterminato a copertura di tutti i posti vacanti negli organici di fatto e di diritto dei docenti e del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario.

Anche se provvisori, i dati relativi al numero dei docenti e degli Ata in servizio nel corrente anno scolastico con contratti fino al 30 giugno o fino al 31 agosto 2014 non fanno che confermare la validità delle riserve espresse dalla Commissione EU concretizzatesi nelle predette procedure d’infrazione. Dovrebbe infatti aggirarsi intorno alle 120.000 unità il numero dei docenti non di ruolo attualmente in servizio, mentre il numero del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario in servizio con contratti a tempo determinato dovrebbe aggirarsi intorno alle diciottomila unità.

da ItaliaOggi 26,11,13

“La seconda generazione”, di Claudio Sardo

Mancano due settimane al voto dell’8 dicembre, ma il Pd è già nelle mani della sua seconda generazione. Non è solo la competizione per la segreteria – Matteo Renzi, Gianni Cuperlo, Pippo Civati – a indicare l’avvenuto passaggio di testimone. Colpivano ieri le immagini dell’affollata platea dei delegati alla Convenzione di Roma: tanti volti nuovi, tanti giovani, la cadenza degli applausi che seguiva ritmi diversi dal passato. Colpiva soprattutto l’assenza della classe dirigente che ha guidato il centrosinistra in questi vent’anni. Di quel centinaio di fondatori, che a fine 2007 decise di sciogliere i partiti di provenienza per dare vita al Pd, ieri erano in prima fila soltanto Alfredo Reichlin e Dario Franceschini. Attorno a loro c’era forse qualche disorientamento, però si sentiva una forza vitale.

Il ricambio generazionale è avvenuto. E ora è alla prova della politica e del potere. Deve parlare la lingua nuova del tempo nuovo. Deve affrontare la sfiducia e la paura del declino. Deve offrire una speranza di futuro e un’idea di Italia in Europa. Deve dimostrare che la sinistra non è retaggio del passato, ma forza necessaria al riscatto del Paese. Non è mai semplice il destino della seconda generazione, quando le sorti non sono magnifiche e progressive. Ma non ci sono più alibi. Ora la cosa peggiore sarebbe perpetuare la retorica del rinnovamento, rinviando la piena assunzione di responsabilità. Continuo a pensare che la parola «rottamazione» fosse violenta e sbagliata: nel suo libro Renzi ha accennato a un’autocritica. Una famiglia non butta via i padri che invecchiano, anzi si serve delle loro esperienze e delle loro idee. I giovani adulti sono più forti quando cambiano la rotta dei padri senza demonizzarli. Ma conosco l’obiezione: solo un aspro conflitto può rompere l’immobilismo delle vecchie classi dirigenti. L’importante è che ora si affronti il cambiamento a testa alta, anche verso le oligarchie che vogliono la politica debole. Il ricambio generazionale è solo la premessa. O il cambiamento sarà tale da rimettere in discussione i paradigmi economici, culturali, sociali che hanno paralizzato la democrazia, oppure la sinistra andrà incontro alla più drammatica delle sue sconfitte. Del resto, la classe dirigente è vecchia e immobile ben oltre la rappresentanza nelle istituzioni.

Renzi, Cuperlo e Civati non sono «nativi Pd». La loro militanza politi- ca nasce nei partiti fondatori: è la caratteristica della seconda generazione. A cui va associato anche Enrico Letta, che faceva parte della prima ma ne era anagraficamente il più giovane. Ieri sono stati loro quattro i protagonisti, e dall’8 dicembre saranno i punti cardinali del Pd. Il governo, infatti, non è parte secondaria della vicenda delle primarie, né del progetto che i democratici proporranno al Paese.

Alla Convenzione i contenuti del rinnovamento – il chi siamo, e per quale futuro ci battiamo – hanno preso forme diverse negli interventi di Gianni Cuperlo e di Matteo Renzi. È stato il cuore della competizione. E ora sulla possibilità che siano forme complementari si gioca il futuro del Pd e la sua ambizione di guidare il Paese. Per Cuperlo il cambiamento è anzitutto rottura dello schema liberista e dei suoi derivati. È liberazione delle sinistra dalla subordinazione politica e culturale, cui è stata costretta dall’egemonia della destra. Per Renzi il cambiamento è in primo luogo trasformazione del linguaggio della sinistra. E delle sequenze della politica. Meglio accorciare gli orizzonti e offrire una pragmatica coerenza di governo a scadenze verificabili. Per Cuperlo il sindaco di Firenze rischia così di tenere la sinistra imprigionata in un blairismo tardivo. Per Renzi il suo antagonista rischia invece di perpetuare le condizioni delle sconfitte elettorali, alzando troppo la posta ideale e offrendo alla destra praterie nella comunicazione ormai priva di mediatori sociali.

L’8 dicembre si sceglie solo il segretario del partito Ma il partito non è la retrovia del governo. O diventa esso stesso un soggetto della ricostruzione sociale e istituzionale, oppure non serve a nulla. O il Pd diventa il partito-società che molti suoi iscritti sperano, o si ridurrà anch’esso a partito-personale. Il voto degli iscritti ha dato a Renzi il 46% e a Cuperlo il 40. Un partito non si governa secondo un principio maggioritario. Un partito non può avere maggioranza e opposizione ossificati. Verrebbe meno la sua dimensione di comunità, oltre che la sua efficacia nella società. I leader della seconda generazione dovranno partire da qui. Il rinnovamento non può fare a meno della loro duplice e oggi conflittuale ambizione. Non è in gioco banalmente l’unità del Pd. È in gioco la sua identità e la missione nazionale. La nave è già in mare aperto. E guai se la frammentazione correntizia risucchiasse le leadership emerse in questa battaglia. Il percorso dei nuovi leader deve continuare: ridur- re la dialettica alla diarchia segreta- rio-premier ha già portato male al Pd.

L’Unità 25.11.13

“Luciano, quando tocca a te tocca a te”, di Roberta Maggio

Nelle parole di Ligabue ci ho letto solo la rabbia e il dispiacere per “tutta questa bellezza senza navigatore”Che poi, secondo me, lui non è nemmeno contento. Che il giorno in cui si presentava il suo nuovo disco (si dice ancora disco?) la frase che è rimbalzata di più sui giornali è che non voterà alle primarie del Pd. E che un minuto dopo molti lo abbiano tirato per il gilet per attaccagli spillette. Lui che non ha mai fatto mistero delle sue posizioni politiche, ma che ha sempre detto che i cantanti devono fare i cantanti e che noi non dobbiamo dare troppa importanza alle canzoni. Che non dobbiamo badare al cantante, insomma.
Che poi, secondo me, non è nemmeno vero. No, non che non voterà alle primarie o che è deluso dal PD o dalla politica. Perché non potrebbe esserlo? Penso sia normale soprattutto in un momento difficile come questo provare disaffezione, sconforto, indignazione. Quello che non credo è che lo sfinimento a cui dà voce questo disco non sia un punto di partenza per un colpo di reni.
L’altro giorno mi sono persa la sua conferenza stampa perché, ironia delle coincidenze, stavo lavorando proprio per queste primarie, affinché le persone abbiano ancora voglia di venire a dire la loro, a votare “per chi”, ma anche “perché”.
Ma riascoltando le sue parole io ci ho letto solo la rabbia e il dispiacere per “tutta questa bellezza senza navigatore”.
Scegliamolo un navigatore per questo partito e per questo Paese che guardiamo distratti come fosse una moglie.
Luciano, magari non verrai a votare o forse sì. Io ci andrò perché me lo hai detto tu, in uno di quei pezzi che non ci canti quasi mai nei concerti, ma che noi continueremo a chiederti nei raduni: c’è chi sceglie e chi fa scegliere. Io so solo che quando tocca a te, tocca a te.

da Europa Quotidiano 25.11.13

“Fisica o sessuale: una donna su tre ha subito violenza”, di Carlo Buttaroni

Provate a immaginare un mondo cupo, dove il terrore non è qualcosa d’improvviso e occasionale ma ripetitivo, costante, ossessivo. Immaginate di vivere l’incubo di una violenza che non viene da «fuori», ma nasce e si consuma all’interno dei luoghi più familiari e rassicuranti. E spesso ha un volto noto, consueto, abituale. Immaginate una violenza che esplode senza preavviso, senza ragione. Provate a pensare cosa vuol dire avere costantemente paura, vivere una crescente in- sicurezza che si trasforma in ansia. E immaginate di perdere l’autostima, il senso della realtà, la capacità di definire quello che succede e dargli un significato. Provate a immaginare l’angoscia di un’esistenza parallela, opaca al mondo esterno; di provare vergogna per gli abusi subiti e custodire il segreto di violenze indicibili, perché il racconto può non essere creduto, oppure minimizzato e banalizzato proprio da quelle persone che dovrebbero rappresentare la vostra rete di protezione. Provate a vivere il senso d’impotenza, la depressione, la tachicardia, l’insonnia. E provate ad ascoltare il silenzio interno, l’ansia costante che si annida progressivamente nell’anima fino a diventare una presenza inquietante che rende impossibile ogni movimento, svuotando ogni possibilità di leggere la realtà per quella che è, senza riuscire a fronteggiarla e contrastarla. Provate a sentirti vuoti, stanchi, privi di obiettivi, presi in ostaggio da un nemico oscuro che vive sotto il vostro stesso tetto o nell’abitazione accanto.

ACCANTO A NOI

Per quanto possiate immaginare tutto questo, non sarà mai abbastanza. Perché l’orrore delle vittime della «guerra invisibile» che si consuma ogni giorno è inimmaginabile. Vittime che non sono poi lontane come si può credere. Sono accanto a noi, anche se non vediamo i segni delle ferite inferte nel profondo. Vittime di una violenza che si consuma prevalentemente tra le mura domestiche. Sono sette milioni le donne italiane che hanno subito violenza fisica o sessuale. Quasi una su tre. Ma è una stima approssimata per difetto, considerato che solo una minima parte dei reati arriva all’autorità giudiziaria. Basti pensare che le denunce per violenza sessuale rappresentano meno di un decimo degli abusi sessuali subiti dalle donne.

Un dramma invisibile e impalpabile, dalle forme nascoste e spesso difficili anche da conte- nere all’interno di perimetri giuridici certi. Almeno all’inizio, come quando si esprime sotto forma di una sottile e insidiosa pressione psicologica. Un’atmosfera di sopraffazione e di minaccia che si insedia poco alla volta nella quotidianità. E si riflette nella paura «di farlo arrabbiare», di deluderlo, di sentirsi «stupida» nel contraddirlo, facendosi carico della sua aggressività. Ed è solo il principio di un percorso che distrugge la vita.

Se pensate che gli autori delle violenze siano brutti, sporchi e (apparentemente) cattivi, vi sbagliate. Nel quotidiano hanno un comportamento socievole e seduttivo, ma giocano con le emozioni degli altri per ottenere il raggiungi- mento di controllo e potere. Si credono superiori, vogliono che gli altri li riconoscano come tali e hanno bisogno di una costante ammirazione e attenzione. Non cercano amore, di cui non conoscono il significato, ma rassicurazione nell’immagine idealizzata di loro stessi. Per questo è insopportabile che una donna li possa semplicemente criticare. E nel momento in cuiuna donna manifesta in sofferenza, rifiuto oppure minaccia l’abbandono, esplodono in una rabbia devastante che può sfociare in qualsiasi cosa. Persino in omicidio. O femminicidio, come si dice oggi.

Sarebbe un errore immaginare che le donne che subiscono violenza siano persone deboli e predisposte a subire la loro condizione di vittime. Perché fragili lo diventano dopo. E spesso fino al punto di non saper riconoscere ciò che hanno subito. Le emozioni negative e i vissuti legati alla loro condizione sono talmente difficili da accettare che le spingono a non rivelare a nessuno quello che subiscono quotidianamente. Spesso a negarlo. Per questo raramente le vittime denunciano la violenza subita ma cerca- no di controllare il dolore, eliminandolo o minimizzando l’intensità di quello che provano.

La sofferenza più grande sta qui, nel rimanere immobili, senza capire come mai si è portate ad accettare una situazione che non può essere tollerata.

Si è spesso cercato di comprendere per qua- le motivo le donne che subiscono violenza in moltissimi casi non lo denunciano e non cerca- no aiuto. Ma più interessante è chiedersi per quale motivo i casi di violenza «sommersi» sia- no così «invisibili» al contesto familiare e ancor più sottaciuti dal contesto sociale che circonda le vittime. Si tratta d’ignoranza del fenomeno, o, invece, di una sorta di accettazione sociale, in particolare quando la violenza si consuma tra le mura domestiche?

Vi è tutta una seria di pregiudizi e stereotipi che spiega perché, nonostante la grande sofferenza che vivono, le donne impieghino molto tempo a cercare una via di fuga rispetto alla situazione in cui si trovano, tanto che alcune denunciano il compagno dopo molti anni di violenze.

ISOLAMENTO PROGRESSIVO

D’altronde la costellazione di ostacoli che si ritrovano davanti è difficile da superare e non tutte possiedono le risorse necessarie (non solo quelle economiche) per intraprendere un cambiamento da affrontare in solitudine. Perché nel frattempo, infatti, le donne si ritrovano sole e senza amici, avendo subito anche un progressivo isola- mento dal contesto di relazioni affettive. E più il partner ha un’identità sociale forte e gode di considerazione, più è difficile uscire dalla condizione in cui sono prigioniere, perché di fronte al consenso sociale di cui gode l’uomo, non riescono a far coincidere l’immagine pubblica del partner con quella privata. Il favore di cui gode l’uomo all’esterno, nell’ambiente in cui vive, mette costantemente in dubbio la condizione di vittima della donna, esponendola a ritorsioni e al rischio di un ulteriore isolamento sociale. L’emarginazione delle vittime è il miglior alleato dei violenti, e anche se è una guerra invisibile, voltarsi dall’altra parte costituisce una responsabilità da cui nessuno è immune. Vale la pena tenerlo presente perché prima che finiate di leggere queste parole, altre dieci donne subiranno violenza fisica o sessuale.

L’Unità 25.11.13

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Un lunedì da leonesse per fermare la violenza”, di MARIELLA GRAMAGLIA

Proclamata dall’Onu nel 1999, la «Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne» si celebra in Italia dal 2005. Il 25 novembre fu scelto perché in quella data, nel 1960, le tre sorelle Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal, oppositrici del dittatore dominicano Trujillo, vennero sequestrate, torturate e uccise. In questa giornata, in Italia, si svolgono incontri, si aprono mostre, si svolgono spettacoli a tema. In sedi diverse, dalla Camera dei Deputati, dove alle 17, alla presenza della Presidente Boldrini, una parlamentare di ogni gruppo (tranne i 5 Stelle) legge un brano del libro «Ferite a morte» di Serena Dandini, all’Umanitaria di Milano, dove 44 fotografi partecipano alla mostra «Chiamala violenza, non amore». Oggi il Campidoglio, a Roma, viene illuminato di rosso, colore simbolo dell’iniziativa, e in tutta italia esce «La moglie del poliziotto», film premiato all’ultimo Festival del Cinema di Venezia, che affronta la tematica della violenza in famiglia.

Oggi scarpe rosse e vuote nelle piazze d’Italia. Rosse come il sangue o come la rabbia? E vuote come le donne che non potranno più calzarle per muoversi nel mondo? Ogni anno, soprattutto il 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza, se ne tiene la contabilità: siamo a quota 182.

Rosso è il lutto quando si fa grido collettivo, rosso è la ribellione degli oppressi che la sinistra al neon azzurro bianco e verdino ha messo nel baule dei giocattoli vecchi, rosso è anche trasgressione e divertimento al piede di un ragazza. Rosso è vita.

Eppure il 25 novembre, con un segno rosso negli abiti, si è chiamate a custodire nel cuore le donne che non possono più difendersi.

Ma è solo questo il significato della giornata, una specie di due novembre ritardato? Le campagne di comunicazione, come non osassero ferire il dolore delle congiunte, oppure sapessero solo esprimere violenza anche se si battono contro di essa, usano quasi sempre la stessa grammatica.

La Yamamay invita le ragazze a ribellarsi – «Ferma il bastardo», proclama – ma per ora è lui a fermare un bel visino dalla pelle chiara nell’eterna istantanea dell’occhio nero. La regione Liguria, per promuovere una giornata di studio, sceglie una schiena femminile nuda e liscia stampigliata con un tatuaggio: «Fragile». Un donna è come un pacco delicato da consegnare a uno spedizioniere.

Il Comune di Torino stilizza un viso femminile con pesanti tratti neri, evocando chiaramente l’angoscia dell’urlo di Munch. Napoli sceglie un ever green, una donna discinta, gettata a terra, con i capelli scomposti. La Cgil si incarta nel simbolismo: croci bianche su fondo nero che, nella parte finale del manifesto, si rovesciano in simboli femminili accompagnati dall’invocazione «Vive le donne!».

Tutto è meglio del silenzio e la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, a lungo relegata nel nostro Paese fra i rituali delle Nazioni Unite, non ha mai avuto tanta eco come quest’anno. Ottima cosa. Una signora che se ne intende, Anna Maria Testa, però sostiene che una pubblicit à, per essere efficace, deve avere humour, leggerezza e pertinenza. E chiarezza, aggiungerei, soprattutto se si tratta di comunicazione pubblica.

Allora, con chiarezza, cosa vogliamo? Che le donne siano più libere, che rifiutino la posizione della vittima, che si sottraggano alla coazione a scambiare la brutalità per amore e a sopportarla più e più volte. E vogliamo anche che gli uomini che conoscono l’alfabeto dei sentimenti la smettano di balbettare, si facciano protagonisti, gridino forte che neanche loro ci stanno, o che se ci sono cascati una volta non vogliono perseverare e aiutino gli altri uomini aiutando se stessi, se hanno la maturità per farlo.

Cecilia Guerra, viceministra con delega alle pari opportunità, è lieve e chiara. Sceglie una coppia, lui con il viso coperto da una scritta («La violenza ha mille volti, impara a riconoscerli»), lei che sfodera un sorriso ironico. E gli slogan: «Se il tuo sogno d’amore finisce a botte, svegliati»; oppure: «Sai già che picchia, quando picchia alla porta non aprire». E la pertinenza: il numero 1522, quello cui le donne possono chiedere aiuto, scritto in bell’evidenza.

Meno lievi, ma altrettanto pertinenti sono gli autori che hanno partecipato alla scrittura collettiva di un libro straordinario: «Il lato oscuro degli uomini», Ediesse 2013. Nel 2006 un gruppo di giovani maschi aveva cominciato a spendersi portando il 25 di novembre un fiocco bianco sulla giacca, poi è nata la campagna «Noi no!», con volti maschili noti che dichiaravano il loro rifiuto della violenza, oggi – come il libro racconta – c’è un mondo che si muove: gruppi di auto aiuto, interventi nelle carceri, programmi che possono sostituire parte della carcerazione, progetti di prevenzione. Tutti sorretti dall’energia di professionisti e volontari maschi che ci credono e lo dimostrano.

Stasera a Roma, alla Pelanda di Testaccio, Snoqfactory, un laboratorio che raccoglie molte giovani artiste, ha organizzato una performance perché le donne non si sentano «vittime, irrilevanti e perdenti». Lo ha chiamato «Un lunedì da leonesse». Humour, leggerezza e, auguriamocelo, anche pertinenza.

La Stampa 25.11.13

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Violenza: 236 donne chiedono aiuto

Preoccupanti i dati modenesi nel 2013, crescono i maltrattamenti e il numero delle persone seguite dalle associazioni. Sono 2.403 le donne che, avendo subito violenza, hanno telefonato o si sono presentate direttamente a una casa o a un centro antiviolenza del coordinamento dell’Emilia-Romagna dall’1 gennaio al 31 ottobre 2013: sul totale, 2.022 (l’84,1%) rappresentano nuovi contatti, mentre 381 (il 15,9%) sono donne già inserite in un percorso. E Modena, purtroppo, fa la sua parte con ben 267 persone che sono state “prese in carico” ovvero seguite e assistite dalla Casa delle donne contro la violenza. Di queste ben 236 sono stati i contatti attivati quest’anno, ovvero donne che spaventate per le violenze subite, hanno chiesto aiuto. Sono i dati raccolti dal coordinamento delle case delle donne e dei centri antiviolenza della Regione ‘Emilia-Romagna presentati in vista della giornata odierna del 25 novembre, “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”. Il coordinamento è composto da 11 strutture oltre al centro delle donne contro la violenza di Modena sono rappresentate tutte le province da Piacenza a Rimini (sul territorio sono presenti altre 6 realtà che, pur non facendo monitoraggio dei dati, in maniera differenziata offrono servizi di ascolto, accoglienza, consulenza e formazione). Il dato regionale di questo anno è in preoccupante crescita rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, quando erano state 2278 donne a subire violenza e a chiedere aiuto (per poi raggiungere a fine dicembre 2012 quota 2493 donne accolte, di cui 2138 nuovi contatti). Quando si parla di violenza sulle donne e femminicidio, spesso ci si dimentica di sottolineare che a subirne le conseguenze non sono solo le donne e che l’impatto sulla società civile è più vasto. Stando ai datiraccolti fino al 31 ottobre 2013, il 48% dei figli/e delle donne accolteha subito violenza, per un totale di 1191 minori. E i femminicidi nella nostra provincia sono stati già 10 e altrettanti i femminicidi. Il profilo delle donne che chiedono aiuto racconta la trasversalità e la complessità del fenomeno. Si tratta di donne italiane per il 63,1% dei casi (le straniere costituiscono il restante 36,9%). L’88,1% di loro ha subito violenza psicologica, il 63,2% è stata vittima di violenza fisica; seguono i casi di violenza economica (38,1%) e violenza sessuale (13,8%). Quanto ai bisogni e alle richieste manifestate dalle donne durante il primo colloquio con le operatrici dei centri, la maggior parte di loro ha bisogno di informazioni e richiede un secondo colloquio per sfogarsi ma anche per ricevere consigli sulle strategie da adottare per uscire dalla situazione di violenza. Il 23,2% di loro necessita di consulenza/assistenza legale, il 6,8% ha bisogno di ospitalità immediata e il 6,7% richiede una consulenza psicologca. Interessante notare come solo nello 0,3% dei casi le donne abbiano richiesto un intervento terapeutico sull’autore violento. Si mantiene costante il dato relativo al numero delle donne ospitate nelle case-rifugio: 111 nuove donne, e con loro 124 minori, sono stati costretti ad abbandonare la propria casa perché in pericolo di vita (nei primi dieci mesi del 2012, erano stati ospitate nelle case-rifugio 121 donne e con loro 124 minori).

La Gazzetta 25.11.13

“La Terra dei fuochi”, di Roberto Saviano

La storia del suicidio più drammatico avvenuto nei paesi mediterranei, ovvero l’eliminazione di una grossa parte delle primizie dell’agricoltura a favore dell’economia illegale dei rifiuti, per qualche giorno è sembrata interessare i media nazionali e la politica. D’improvviso il tema dell’avvelenamento delle terre campane ha attraversato il dibattito nazionale, quello striscione con la parola “Biocidio” è apparso nelle foto, nei siti, nei tg, ed è riuscito a provocare indignazione, paura, promesse di cambiamento. Molti parlano di Terra dei fuochi, pochi sanno cosa significa davvero. In queste settimane in rete circola l’immagine di un documento che risale agli anni 80, stilato dalla sezione del Partito comunista di Casal di Principe. Con quel documento si denunciava, mentre accadeva, l’avvelenamento dei terreni, la fine per sempre della Campania felix. Sapevamo già tutto. È per questo che quando Carmine Schiavone nel 1997 diceva che gli abitanti della Terra dei fuochi «sarebbero tutti morti nell’arco di venti anni» sbagliava: essi erano già morti, civilmente morti.
Sono anni che, insieme ad altri, racconto le sciagure della Terra dei fuochi, che nel tempo ha finito con il fagocitare interi comuni, estendendo sempre più i suoi confini. Da quando Peppe Ruggiero di Legambiente usò questa suggestiva espressione, così lontana dalla Terra del fuoco descritta da Magellano. Come l’esploratore portoghese vide dal mare i fuochi sulla costa, così chi viaggia sulla Strada Statale 7 bis Terra di Lavoro (la Nola-Villa Literno) o sull’Asse Mediano, se distrae lo sguardo dall’asfalto vede tutt’intorno fumo salire dalla terra e se abbassa il finestrino sente un odore acre che brucia in gola lasciando un sapore acido. Un odore cui non è possibile assuefarsi.
Come è potuto accadere? Come è stato possibile intombare tanti rifiuti tossici, fino a renderne difficile se non impossibile l’estrazione dal suolo? C’è la via, tra virgolette, “legale”. Da trent’anni diverse aziende del Nord hanno appaltato — e purtroppo ancora appaltano — lo smaltimento dei loro rifiuti speciali a ditte specializzate, apparentemente legali, che riescono a fare enormi sconti: specialmente in una congiuntura economica come questa, possono fare la differenza tra sopravvivere o fallire. È una dinamica chiara: non è forse questo il tempo in cui i grandi Paesi industrializzati affermano di non essere in grado di osservare i vincoli posti dal Protocollo di Kyoto? Basti pensare, a titolo di esempio, come gli stakeholder italiani (ossia i mediatori tra industria e ditte che smaltiscono) sono riusciti, nel 2004, a garantire che ottocento tonnellate di terre contaminate da idrocarburi, proprietà di una azienda chimica, fossero trattate al prezzo di venticinque centesimi al chilo, trasporto compreso. Un risparmio dell’80 per cento sui prezzi ordinari. Le aziende che in questo modo si liberano dei rifiuti prodotti sono colpevoli, certo, ma allo stesso tempo legalmente tutelate, perché le ditte che forniscono il servizio di smaltimento producono documentazioni legali. Poi, il gioco sporco comincia con i giri di bolla che fanno risultare che il ciclo è apparentemente rispettato. Quello dei giri di bolla è il secondo passaggio e avviene nei centri di stoccaggio. I titolari fanno in modo di raccogliere i rifiuti speciali che, in molti casi, miscelano con rifiuti ordinari, diluen.do la concentrazione tossica e declassificando, rispetto al Cer (Catalogo europeo dei rifiuti), la pericolosità dei veleni.
E poi c’è la via criminale. Lo smaltimento illegale tramite combustione: i fuochi. Bruciare copertoni, bruciare vestiti, ogni sorta di plastica, bruciare cavi di rame per liberarsi della guaina, bruciare rifiuti d’ogni sorta speciali e ordinari. È la folle scorciatoia presa da chi vuole evitare costi di smaltimento elevati. Si brucia perché così si diminuisce la massa dei rifiuti e poi si mescolano al terreno le ceneri. Queste terre vengono considerate semplicemente spazi, spazi da riempire, spazi su cui guadagnare. Capita spesso, quando si viaggia in questa parte di Paese, di vedere aree di sosta colme di rifiuti. Il pensiero più immediato e il più lontano dalla realtà, è pensare che i campani siano incivili perché invece di differenziare la loro spazzatura, invece di gettarla semplicemente nel cassonetto sotto casa, si prendono la briga di caricarsela in macchina e di lasciarla in strada per dare di sé e della propria terra l’ennesimo mortificante spettacolo. Non è così. Quelle aree di sosta sono spazio, metri quadri dove sversare. Tutto questo è l’esatto contrario di ciò che sembra. Non è inciviltà. È criminalità, ovvero una forma organizzata di guadagno. Sommando la superficie di tutte le piazzole di sosta del napoletano e del casertano, ingombre di rifiuti, si raggiungerebbe l’estensione di una grande discarica. E questo è anche il segno dello stadio terminale del disastro. Il rifiuto non è più identificabile, circoscrivibile: il rifiuto ha pervaso le nostre vite. Avanza, fino quasi a lambirci o a sommergerci, come è già accaduto nella città di Napoli qualche anno fa.
Ma come si è arrivati a tanto? Perché queste terre preziose per le coltivazioni sono diventate cimitero per rifiuti? Pomodori, broccoli, zucchine, cicoria, cavolfiori, fave, peperoni. E poi arance, mandarini, mele, pere, Tutti questi prodotti, la grande distribuzione ha iniziato a pagarli ai coltivatori campani sempre meno. Il rischio, se non avessero accettato di abbassare i prezzi, era che li avrebbero acquistati all’estero, in Libano, in Grecia, in Spagna. E così cade la barriera: l’agricoltura smette di essere la fonte primaria di guadagno per i coltivatori diretti che spesso cedono o affittano una parte delle loro terre alle imprese, o più spesso a loro intermediari, per lo sversamento illecito di rifiuti. Con quei guadagni vanno avanti e mantengono in parte le coltivazioni, tratti in inganno dalle rassicurazioni che quei rifiuti non arrecano danno. Ben presto si scopre che non è così. Che spesso si tratta di sostanze tossiche che fanno marcire interi raccolti.
Una domanda non può essere elusa. Chi sono i responsabili di questo disastro ambientale e umano? Io credo che personificare il male sia inutile artificio, quando ci si trova al cospetto di una tale sequela di opere, omissioni, silenzi e ferma volontà di ignorare quello che accadeva. La puzza c’è sempre stata e per i nuovi nati è divenuta normalità, come le piazzole di sosta delle statali divenute discariche improvvisate. Quei silenzi, quelle omissioni e a volte quelle opere, sono state della borghesia campana, napoletana e casertana nello specifico. Il disastro ha creato un indotto economico, foraggiato dalla politica dell’emergenza. E poi ci sono le responsabilità politiche, al di là di quelle giudiziarie. Solo se accettiamo tutto ciò, possiamo poi risalire fino a coloro i quali, plebiscitariamente eletti, hanno rappresentato il potere in Campania negli ultimi anni. Due personalità si stagliano in questo scenario di morte: Antonio Bassolino e Nicola Cosentino. Il primo è reduce da una piena as-
soluzione all’esito del processo che avrebbe dovuto ricostruire le eventuali responsabilità connesse al disastro del ciclo dei rifiuti in Campania. Il secondo è attualmente sotto processo, anche con riguardo alle vicende del consorzio Eco4: la rete dei consorzi di gestione del ciclo dei rifiuti ha costituito l’ossatura del sovvertimento democratico, che ha condotto allo spreco di risorse pubbliche, che ha prodotto enormi profitti per la criminalità organizzata e che ha compromesso in maniera difficilmente rimediabile una qualsivoglia normalità nella gestione dei rifiuti. I consorzi erano retti da un sistema di potere consociativo. Nei consorzi centrosinistra e centrodestra sono sempre stati alleati. Per la enormità di queste evidenze il peso che incombe sulla Procura della Repubblica di Napoli è enorme: il fallimento di un processo durato anni può rappresentare un boomerang devastante. Il tentativo di sanzionare le responsabilità politiche con lo strumento del processo penale, può implicare due terribili conseguenze: da un lato, l’incapacità di focalizzare le reali responsabilità penali qualora esse vi siano; dall’altro, il rischio di trasformare l’assoluzione all’esito del processo in un’assoluzione anche dalle responsabilità politiche. È quello che è successo con Antonio Bassolino, la cui assoluzione in tribunale non cancella però la responsabilità che come politico ha avuto nel permettere che tutto degenerasse fino a questo punto.
Quali le prospettive? Che fare? Ciò che è certo è che bisognerebbe uscire definitivamente — anche linguisticamente, prima che nei fatti — dalla logica della emergenza, che nel sud Italia e in Campania in particolare si è fatta cultura. È il tempo dello studio e della osservazione: è il tempo di chiamare a offrire alternative al disastro quei giovani e non più giovani espulsi da questa società meridionale intrinsecamente mafiosa. Un ruolo fondamentale dovranno avere i sindaci. La storia di Vincenzo Cenname, primo cittadino di Camigliano, in provincia di Caserta, ad esempio, dovrebbe insegnare a tutti che la soluzione c’è già e bisogna solo fare in modo che venga fuori. Osteggiato dal sistema dei consorzi, Cenname ha resistito, appoggiato dai suoi concittadini, ed è riuscito ad organizzare la raccolta differenziata in totale autonomia: e funziona. Oggi è imperativamente necessario procedere a una perimetrazione a carattere scientifico delle zone inquinate con l’introduzione del divieto di produzioni agricole per le stesse e, d’altro canto, la previsione di incentivi per produzioni non agricole (ad esempio il bioetanolo). Questa proposta, nella sua ragionevole pragmaticità, parte dalla necessità di associare a ogni area un valore preciso, perché non tutte le aree
sono state sfruttate allo stesso modo, non tutte hanno lo stesso grado di inquinamento. Non tutte presentano tracce delle medesime sostanze e non tutte nelle stesse quantità. È evidente che alcune terre sono totalmente compromesse, mentre altre possono essere bonificate e recuperate all’agricoltura con interventi meno incisivi e quindi anche meno costosi.
Il danno di questi giorni, che si aggiunge alla devastazione dell’inquinamento e allo sconforto che accompagna il pensiero costante della mancanza di un futuro dignitoso, è che tutto sembra avvelenato. Che tutti i prodotti campani vengano considerati inquinati, dalla mozzarella alle mele annurche, dalle fragole ai pomodori. Tutto viene dato per spacciato, compromesso. Per salvare l’economia agricola della Campania non è più sufficiente semplicemente tracciare la filiera di un prodotto, aggiungere l’etichetta “bio” e vestirlo da prodotto sano. Ora la comunica-
zione deve essere necessariamente fatta in maniera diversa, non si deve lasciare spazio a dubbio alcuno. Il bollino dovrà esplicitamente dire che il prodotto viene da terra non inquinata, da terra sana. Deve riportare l’indirizzo di un sito su cui è possibile verificare lo stato di quel terreno attraverso analisi. Ogni qual volta si generalizza sull’agricoltura campana o addirittura si iniziano a vedere nei supermercati «questo prodotto non viene dalla Campania», si sta favorendo l’economia camorristica: in che modo? I prodotti campani diventano invendibili, a quel punto entrano nel mercato illegale. I prodotti avvelenati vengono mischiati con quelli sani e i clan li portano nei mercati ortofrutticoli che — come le inchieste delle Dda su Fondi e Milano hanno dimostrato — sono stati spesso infiltrati dal potere delle cosche. Quei veleni saranno clandestinamente richiestissimi dai grossisti perché potranno comprare a costo bassissimo e rivenderli come prodotti del nord a costi alti e l’etichetta «non prodotto in Campania».
Terre a vocazione agricola, terre di pascolo, terre a vocazione turistica, terre di bellezza, avvelenate sistematicamente sotto il sole, sotto gli occhi di tutti. Sotto gli occhi di chi è rimasto impotente in un paese dove ormai si è convinti che riformare le cose sia impossibile. Ciò che resta è il vigliacco piacere di volerle abbattere pensando a un mondo meraviglioso e nuovo che non verrà mai. E in nome di questo mondo si sta rendendo il quotidiano un inferno invivibile. Questo meccanismo lo descrive benissimo Robert Musil: «Quell’inqualificabile piacere (che molti di noi hanno,
ndr) che consiste nel vedere il bene abbassarsi e lasciarsi distruggere con meravigliosa facilità».

La Repubblica 25.11.13

“Renzi e Cuperlo sfidano Letta “Usi le idee del Pd”. “Basta alibi” Civati: riforma elettorale e si voti”, di Giovanna Casadio

«Non credo che l’Italia diventi un discount se arriva l’investitore spagnolo… peggio mi pare quando ci fu l’operazione Telecom dei “capitani coraggiosi”». Matteo Renzi dal palco gioca in contropiede su Gianni Cuperlo e la tifoseria renziana in platea commenta: «D’Alema se lo sogna anche di notte il Matteo, è il su’ incubo». I tre candidati alle primarie dell’8 dicembre — Renzi, Cuperlo e Civati — non potrebbero essere più distanti. La Convenzione del Pd, ieri all’Ergife, dà il via al rush finale della sfida per la segreteria. Ma è subito chiaro che, al netto delle differenze, su un paio di cose i tre fanno squadra: hanno liquidato di fatto i big della vecchia guardia, nessuno di loro è presente; insieme mettono il governo Letta sotto assedio.
Il sindaco di Firenze, super favorito e vincitore del congresso tra gli iscritti, avverte il premier e il centrodestra: «Dal 9 dicembre il rapporto con il governo deve cambiare. Senza sgambetti, saremo leali a Letta, ma il governo ha usato troppa della nostra pazienza, della nostra responsabilità, della nostra lealtà, ora deve usare le nostre idee». E tanto per chiarire meglio la mission che vuole assegnare al “suo” Pd, spiega che il governo deve essere efficace negli investimenti, deve fare la legge elettorale, le riforme, il piano per l’occupazione e lo sviluppo, «se no le larghe intese diventano solo il passatempo per superare il semestre Ue». Parole
che, con quelle dei giorni scorsi sul cambio di passo e di agenda dell’esecutivo, infastidiscono Angelino Alfano. Il vice premier, segretario del fu-Pdl e, dopo la scissione, leader del Nuovo centrodestra, stoppa il sindaco di Firenze: «Se non ci siamo noi del Ncd — controbatte — cade il governo. A Renzi, al Parlamento, al governo propongo un patto per il 2014 su riforma elettorale, superamento del bicameralismo, meno tasse, taglio della spesa pubblica e intervento sui salari, alla fine del prossimo anno faremo il punto».
E il governo finisce anche nella tenaglia di Cuperlo, subito dopo il “no” secco alle larghe intese di Pippo Civati. Tra Matteo e Gianni il fair
play si ferma a bordo palco — una carezza, un abbraccio — perch é nei discorsi è subito incrociare di spade. «La destra si è spaccata, e ora il governo non ha più alibi, non aspettiamo il 9 dicembre per cambiare passo», incalza pure Cuperlo. Al “rottamatore” lancia un affondo feroce: «Renzi dice di volere cambiare tutto. Sì, questa è la sfida ma devi dire dove vuoi portare questo paese e questo partito. Noi siamo la sinistra, non il volto buono della destra». La tifoseria cuperliana esplode in un boato di applausi. Ma il sindaco fiorentino ha buon gioco a replicare: «Ha ragione Cuperlo a dire che non siamo il volto buono della destra, ma non dobbiamo essere più il volto peggiore della sinistra, quella che non ha fatto la legge sul conflitto di interessi e ha mandato a casa Prodi». A portare la tessera Pd a Prodi andrà Civati che racconta i suoi primi atti da neo segretario: legge elettorale Mattarellum e subito alle urne; via dalle larghe intese; Sel con il Pd alla prossima Convenzione. Poi a casa di Prodi a chiedergli scusa per il tradimento dei 101, e una telefonata a Rodotà. Di cose concrete c’è più che mai necessità: è il filo rosso di Renzi che accoglie le proposte di Gianni Pittella su Europa, Mezzogiorno e Pd federale. Pittella è l’escluso dalle primarie con il 6% di voti degli iscritti, riceve molti applausi e i complimenti di Epifani. Al segretario “traghettatore” spetta introdurre e chiedere più etica per evitare brogli e tesseramenti gonfiati. Ma è la lettura del messaggio di Letta (dopo i dati aggiornati dei congressi locali), a dare l’avvio alla Convenzione. Letta dice che andrà a votare alla primarie, e invita tutti a farlo: «Sono una straordinaria prova di partecipazione, la risposta a chi grida per ragioni di populismo rabbioso». Non tutti i leader si sono schierati. Luigi Zanda, capogruppo al Senato, è tra quelli che non ha detto per chi voterà.

La Repubblica 25.11.13

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La sinistra rottamata”, di CURZIO MALTESE
LA DOMENICA delle palme del messia Matteo Renzi s’è chiusa con una standing ovation della platea dell’Ergife. Il successo si misura da chi c’era, ma soprattutto da chi non c’era. NON c’era in pratica l’intero gruppo dirigente del centrosinistra nella seconda repubblica. Non c’erano D’Alema e Veltroni, Bersani e Marini, Bindi e Finocchiaro, Fioroni e Zanda e il resto della nomenclatura. Si sono rottamati da soli, pur di non assistere al trionfo annunciato del sindaco. Non era mai accaduto in vent’anni, in nessuna manifestazione pubblica. Ed è questo che colpisce, prima e dopo i discorsi. I candidati hanno seguito tutti un copione noto e sono stati in questo molto bravi tutti, compreso l’escluso Pittella. Renzi doveva dosare un discorso da piazza televisiva con l’esigenza di conquistare la platea dei funzionari e l’ha fatto con maestria: la convenzione (o la circonvenzione) del Pd gli è riuscita benissimo. Gianni Cuperlo si è confermato per quello che è, la versione più nobile e intelligente della declinante sinistra europea, dunque può promettere al popolo suo soltanto una sconfitta bella. Pippo Civati è ormai scientifico nel citare uno per uno i temi che appassionano gli utenti della rete, non poco per un partito incapace di farsi ascoltare dai quarantenni in giù.
Ma alla fine eravamo venuti tutti qui per capire cosa Renzi farà dal 9 dicembre di una vittoria che ha già in tasca e la risposta l’abbiamo avuta. Renzi continuerà a fare Renzi. Il Rottamatore manderà a casa l’intero gruppo dirigente e insieme a quello il governo delle larghe intese, meglio se subito, in modo da votare a primavera, con qualsiasi legge elettorale. Non farà il segretario del Pd, che è un mestiere impossibile. Chiunque vi abbia provato ne è uscito con le ossa rotte. Ma il giovane Renzi ha capito che nel Pd si passa in fretta dalla domenica delle palme direttamente al calvario e dunque non finirà come Veltroni e Bersani. Si manterrà lontano dal Palazzo, a fare il sindaco di Firenze, verrà a Roma una volta alla settimana per tranquillizzare Letta e per gli altri sei giorni sparerà a palle incatenate contro il governo delle larghe intese. Peraltro, non è il solo. Nella giornata di ieri, se proprio si deve trovare un punto in comune fra i discorsi dei tre candidati alla segreteria del Pd, distanti anni luce, questo è l’ostilità nei confronti di un governo incapace di far accadere cose nuove. A sinistra è cominciato l’inverno dello scontento.
Per il resto, la distanza fra i due principali competitori, Renzi e Cuperlo è davvero abissale e inedita. Alfano e Berlusconi dicono le stesse cose e il Pdl si è diviso. Veltroni e D’Alema si odiavano fin dall’adolescenza,
ma venivano da un ceppo comune. Renzi e Cuperlo non si odiano (anzi c’è perfino una carezza del deputato al sindaco nel saluto all’arrivo) perché non ne hanno bisogno, incarnano giù due mondi opposti, nell’antropologia prima che nell’ideologia. Non è soltanto questione di stile, linguaggio o banalmente di look, jeans contro completo scuro. Il sindaco di Firenze è il nostro Blair, in ritardo di qualche decennio. L’analogia fra la biografia, i discorsi, le parole d’ordine, le circostanze è impressionante. Nel ’93 un Blair coetaneo del Renzi di oggi si prese il vecchio Labour con un discorso assai simile a quello ascoltato all’Ergife e concluso con l’appello a concentrare la campagna elettorale sulla scuola. Gianni Cuperlo incarna i valori del socialismo classico, una storia lunga. Scrive meglio di quanto parli, come i leader di una volta, e il suo documento congressuale è uno dei migliori mai letti. E’ un autentico figlio del popolo, per quanto non ne abbia l’aria, e di conseguenza disprezza ogni forma di populismo. Il suo problema è che in Italia nessuno legge nulla, tantomeno i documenti politici, e il paese va pazzo per i miliardari populisti.
La peggiore e dunque più probabile delle ipotesi è che questi due mondi vadano alla rottura e alla scissione dopo l’8 dicembre. La migliore è che trovino un accordo, in vista di una missione storica che è più importante di Renzi, di Cuperlo, di Civati, della segreteria del Pd, del governo Letta e di tutti noi: la sconfitta politica del berlusconismo, nelle urne e non nelle aule di giustizia. Quella sconfitta che cambierebbe davvero il verso al Paese e ci restituirebbe un futuro. Ma sono in pochi a crederci e nessuno della vecchia guardia che ha disertato la giornata di ieri. Soltanto uno, Dario Franceschini, che si è accollato il compito di mediare fin tanto che sarà possibile fra la voglia di spaccare tutto del nostro novello Blair fiorentino e la volontà di conservare tutto della nomenclatura, ma anche lui, all’uscita dalla sala della convenzione, appare meno convinto. L’inverno dello scontento della sinistra rischia di non diventare mai un’estate sfolgorante, come da citazione, ma di prolungarsi all’infinito, nell’esercizio di un cinismo spicciolo che ripugnerebbe perfino al vero Riccardo III.

La Repubblica 25.11.13

Gli atenei del sud in rivolta: «Senza docenti si chiude», di Luciana Cimino

La linea invisibile che divide le università del nord da quelle del sud Italia stavolta si misura con i docenti: chi può assumerne e chi no. La riforma Gelmini ha messo in rapporto le spese per gli stipendi che ogni singolo ateneo può sostenere con le entrate complessive dello stesso, in altre parole non dipendono più dal solo finanziamento statale. Il blocco del turn over consente, in generale, una nuova assunzione ogni 5 pensionamenti ma la capacità di acquisire nuovo personale da parte delle università viene valutata, per il 2013, in base ai cosidetti «punti organico» (una specie di unità di misura elaborata sulla base del costo medio di un professore ordinario). Ed è appena uscita la classifica che sono cominciati i problemi: agli ultimi posti tutti atenei del sud. A Cassino, Teramo, Foggia, Campobasso, Benevento, Reggio Calabria, per esempio, potranno essere in grado di promuovere qualcuno, ma non assumere. Al vertice della classifica, invece, Bologna ma anche piccoli atenei come il Sant’Anna di Pisa (quello da cui proviene la ministra all’Istruzione Carrozza). La distorsione è tale che alcune università potranno assumere il doppio del personale andato in servizio, altri nessuno. La protesta è cominciata in Puglia dove, a fronte di 82 pensionamenti, gli atenei della regione dovranno ripartirsi solo 5 assunzioni. La questione è grave. In gioco c’è il rischio di una guerra tra università ma soprattutto il rischio che le facoltà siano costrette a chiudere diversi corsi di laurea. Con le conseguenze di perdita dell’indotto, centinaia di posti di lavoro bruciati tra ausiliari, tecnici, amministrativi, docenti, ricercatori, emigrazione forzata dei giovani, depressione culturale e quindi economica dei territori. Nella migliore delle ipotesi saranno aumentate a dismisura le tasse agli studenti. Insomma una specie di questione meridionale universitaria. «Non ci si può permettere una bancarotta didattica», dicono alcuni docenti delle università penalizzate. «È ormai evidente a tutti hanno scritto in un appello straordinariamente congiunto Cun, Flc Cgil, Cisl, Uil, Cobas, Snals, Ugl e Cisal, Link, Udu), Adi, Adu, Andu, Cipur, CoNPass, Cnru, Rete29aprile come il razionamento e i criteri di distribuzione dei cosiddetti “punti organico” puntano anche a mantenere attiva una contrapposizione tra i docenti, i tecnico-amministrativi e gli studenti». Contraria anche la Copi (Conferenza dei rettori delle facoltà di ingegneria), mentre Il Consiglio universitario nazionale si augura «percorsi correttivi per attenuare gli effetti sperequativi».

BATTAGLIA PER LA SOPRAVVIVENZA La mobilitazione in atto in Puglia potrebbe propagarsi in tutta Italia a partire dal 28 novembre, quando la ministra Carrozza incontrerà a Napoli i rettori scontenti. «È una battaglia per la sopravvivenza del sistema universitario meridionale», dicono questi ultimi mentre gli studenti del coordinamento universitario Link, assieme alla Flc-Cgil Puglia e a ricercatori e dottorandi dell’Adi, hanno lanciato un appello alla sospensione delle attività didattica per l’intera giornata del 28. «Decine di atenei del nostro Paese dichiara Alberto Campailla, portavoce nazionale di Link rischiano di chiudere nel giro di qualche anno». La sede della riunione tra Carrozza e atenei del sud è ancora ignota. Di certo però quel giorno a Napoli studenti, ricercatori e docenti si riuniranno in presidio.

L’Unità 25.11.13