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Dalla Nigeria in Italia sognando un lavoro, poi l’hanno costretta a prostituirsi. «Quando ho detto basta e sono andata via, mio padre in Africa è stato ucciso», di Sara Gandolfi

Piange Henna, alla fine. In silenzio, quasi di soppiatto. Strofina via le lacrime dagli zigomi, con le sue grandi mani. Non vuole crollare, mostrarsi debole. Non l’ha fatto, forse, neppure quando i clienti «mi caricavano, facevano tutto quello che volevano su di me e poi mi buttavano fuori dall’auto, senza pagare, a decine di chilometri dal mio posto di lavoro». Lo chiama ancora così, «il posto di lavoro», anche se laggi ù, su quella provinciale in mezzo ai campi, nell’hinterland milanese, non ci va più da qualche anno. È fuori dal giro. «Non ho più paura», dice. Non basta. «Non mi fido di nessuno», sussurra poco dopo, piantandoti quegli occhi neri addosso, gonfi di dolore e vuoti di speranza, mentre il suo sguardo ferito dice tutto il contrario: «Voglio fidarmi di te, posso raccontare».
Racconta Henna (un nome di fantasia per proteggere la sua identità), parla per quasi un’ora, seduta sul lettino della casa d’accoglienza dove sta cercando di cominciare una vita tutta nuova, assieme al suo bambino paffuto e dolce di due anni, che non si staccherebbe mai da lei. «Oggi sto bene. Sono in regola, faccio la cameriera in un bar, voglio farmi una famiglia col papà del mio bambino, nigeriano come me ».
Come sei arrivata fin qui?
«Avevo 21 anni. A Benin City frequentavo una scuola da cuoca. Eravamo in sei fratelli, tre femmine e tre maschi. Gli altri sono rimasti tutti in Nigeria. Ma l’amica di mia mamma diceva che in Italia si guadagna bene. Sono partita con lei nel 2007 da Lagos, con un pullman, fino in Libia. Poi sono salita su un barcone. Eravamo in tanti. Lei diceva di star zitta, di non fare troppe domande, che dovevo fare il viaggio e nient’altro. “Taci che poi là c’è il lavoro”, diceva».
Ti ha spiegato che lavoro era?
«No».
Dove sei sbarcata?
«Sono arrivata a Lampedusa. Mi hanno messo in un centro d’accoglienza. Ero spaventata, non capivo cosa sarebbe stato di me. Poi sono venuti a prendermi (non spiega chi, ndr ) e mi hanno portato “a casa”. Due giorni di tregua e la madame mi ha detto che dovevo iniziare a lavorare. “Ah, bene, sono contenta”, dissi. Ero davvero felice, in quella casa avevo trovato altre ragazze, siamo diventate subito amiche. Al mattino ci siamo vestite. Ci hanno portato nelle campagne. C’erano delle fabbriche, ho pensato che sarei andata a lavorare dentro uno di quegli edifici. E invece… Ho chiesto “ma questo sarebbe il lavoro?”. “Sì, devi fare questo , mi hanno risposto».
L’hai scoperto solo quando sei arrivata? Anche le altre ragazze?
«Sì, io sì. Non so le altre».
Non potevi rifiutare?
«Ho detto che volevo tornare indietro ma loro hanno risposto che non potevo: “Non hai niente, non hai documenti, neanche il passaporto, come puoi tornare?”».
Non eri partita con un passaporto?
«Io non avevo tenuto niente in mano. Quella donna teneva tutto».
Cos’hai provato?
«Ho pianto. E ho pianto ancora. Poi ho smesso, non potevo fare nulla».
È un lavoro quello della prostituta?
«No, quello non è un lavoro . Un lungo silenzio. Henna comincia, gli occhi al pavimento, a piangere piano piano.
Per quanti anni l’hai fatto?
«Quasi due».
Dove?
«In strada. In macchina». Gli occhi pieni di lacrime.
Quante ore dovevi stare in strada?
«Iniziavo alle nove del mattino fino alle 6-8 di sera. E alla fine ci riportavano a casa. Eravamo sei ragazze. Quando finivo di lavorare, stavo chiusa in casa. Non vedevo nessuno. Ero reclusa».
E tra le persone che incontravi nessuno ti ha mai chiesto come stavi? Neanche i clienti?
«No. All’inizio la madame mi ha detto: “Se un cliente ti chiede qualcosa, tu non rispondere, devi mandarlo a fanculo”. Non si deve parlare al cliente: vai dentro la macchina, fai quello che devi fare, prendi i soldi e scendi. Punto».
Si faceva tutto in macchina? Non andavi in motel, in case?
«No, sempre in macchina».
Quanti clienti avevi in media in un giorno?
«Dipende. Cinque, dieci, quindici anche. Dipende. Si lavorava di più nei giorni di festa e anche quando faceva caldo. D’estate abbiamo dormito al lavoro, quattro mesi, buttate per terra, in mezzo ai campi, con i vestiti addosso. Da lunedì mattina a domenica sera, quando finalmente andavamo a casa, per farci una doccia».
Non vi lavavate per una settimana?
«No».
Ma come erano questi clienti, gentili, violenti, cattivi?
«C’era di tutto. È successo anche che abbiano tirato fuori i coltelli. “Se non apri le gambe ti ammazzo”. E io cosa dovevo fare? Aprivo il mio corpo. Dovevo farlo. Non avevo altra scelta».
I soldi li tenevi tu?
«No. Mi avevano dato una piccola cassettina e dovevo metterli tutti lì. Io non potevo tenere niente. Dovevo pagare il debito, diceva la madame , ridarle i soldi che avevano speso per portarmi in Italia».
Non ti restava neanche qualche spicciolo, magari per comprarti un vestito?
«E dove andavo a comprare un vestito? Non conoscevo nessun posto, non potevo andare in giro».
E il cibo chi lo comprava?
«La madame ».
Quanti anni aveva?
«Quarantacinque. Ed era stata anche lei una prostituta. Poi è stata promossa».
Non è mai stata gentile con te?
«Mai. Non ci parlava quasi. Quando uscivamo al mattino lei dormiva e quando rientravamo la sera guardava la tv con il suo amico italiano. Non ci parlava se non per chiederci i soldi. Qualche volta non avevo soldi da darle, non avevo guadagnato o me li avevano rubati».
E allora?
«Mi picchiava. Con il bastone del mocio».
C’erano anche ragazze minorenni?
«Sì, ma non si dice. Quando arrivi devi sempre dire che hai qualche anno in più, sennò loro non ti prendono. Dopo di me è arrivata una ragazzina di 15 anni, e poi un’altra di sedici. Ho detto, “cosa ci siete venute a fare qui?”, e loro “lo stesso che fai tu”».
C’erano uomini nella casa?
«Solo l’uomo di madame , il suo amico italiano. Quando eravamo sulla strada era lui che la portava in macchina a controllarci».
Nella zona dove lavoravi c’erano altre donne?
«Sì, eravamo più di venti in quel posto. Sempre lo stesso».
La tua famiglia sa cosa ti è successo? Non hai mai pensato di tornare a casa?
«Magari, dopo. Adesso no. Mia mamma non c’è più. E mio papà…».
Un lungo silenzio.
Cos’è successo, Henna?
«Dopo qualche anno che lavoravo l , ho detto basta. Il debito l’ho pagato, questo lavoro non lo voglio più fare. Sono andata via».
Non hanno cercato di fermarti?
«Sì. Loro mi hanno cercata. Poi madame ha mandato suo fratello a casa di mio padre in Africa. Lo hanno minacciato. “Tua figlia se ne è andata senza pagare il debito. Paga tu”. Lui ha rifiutato, lo hanno ammazzato». Non aggiunge altro.
E il papà del tuo bambino?
«L’ho incontrato dopo. All’inizio non sapeva nulla della mia storia. Quando gliel’ho detto ha avuto subito molta paura. Temeva che madame se la prendesse con lui. Stavamo insieme da poco quando sono rimasta incinta. È andato via».
Adesso è tornato. Vuoi bene a quest’uomo?
«Sì», ma la voce è triste, gli occhi bassi.
È difficile per un uomo accettare una storia così. Non ti fidi?
Henna non risponde.
Non ti fidi delle persone?
Scuote la testa, il suo no è solo un schiocco della bocca.
Di nessuno?
«No».
Ti senti sola?
«Sì. Non ho nessuno qui. Non ho famiglia. Non ho amici ».
E ora vuoi che tuo figlio resti qui in Italia?
«Sì, voglio che cresca qui».
Gli racconterai quello che hai passato?
«Sì, quando cresce».
Esce dalla stanza. Il piccolo le corre incontro, si avvinghia al suo grande corpo morbido. Un corpo che lentamente Henna sta riconquistando.
Cosa diresti a una ragazza come eri tu prima di partire dall’Africa?
«Quando stavo nella casa madame a volte alla sera ci fotografava, diceva che dovevamo sorridere. Poi mandava le foto in Nigeria, per spingere altre ragazze a venire qua. Ci vedevano felici, pensavano che qui fosse il paradiso. A quelle ragazze voglio dire: non dovete crederci, qui c’è solo sofferenza. Qui sarete schiave. Non partite. Cercate lavoro in Nigeria, qui è peggio. Si soffre troppo».
È stata un’esperienza cos dura?
«Sì».
Henna è entrata nel percorso di protezione e reinserimento sociale previsto dall’articolo 18 del Testo unico sull’immigrazione del ’98 (legge Bossi-Fini) e ha ottenuto un permesso temporaneo di soggiorno per motivi umanitari. È seguita dagli operatori della rete anti-tratta gestita dal Comune di Milano.

Il Corriere della Sera 17.11.13

“Il vicolo cieco dell’austerità”, di Paolo Guerrieri

Le difficoltà di crescita sono alla base del voto di insufficienza dato dalla Commissione europea alla nostra legge di Stabilità e Bilancio. Per molti aspetti è paradossale, viste le pesanti responsabilità che la politica economica dell’Europa ha avuto. A partire dalla Grande crisi nel penalizzare le potenzialità di crescita dei Paesi dell’area euro. Si avverte la necessità di avviare, in vista del Consiglio europeo di fine anno, un serrato confronto per imprimere una svolta alla politi- ca economica europea. Anche perché le prospettive di ripresa in Europa si profilano assai modeste e le divisioni tra i Paesi membri, nonostante l’attuale bonaccia dei mercati finanziari, si stanno pericolosamente approfonden- do.

È un pesante avvertimento quello mosso al nostro Pae- se dalla Commissione europea. L’accusa centrale è di non aver fatto sufficienti passi avanti in tema di contenimento dello stock di debito, che secondo Bruxelles salirà ancora (134% del Pil) il prossimo anno violando così le nuove regole comunitarie. Da qui la richiesta all’Italia di applicare più rigore fiscale anche nel 2014. Altrimenti non ci sarà consentito di utilizzare nel 2014 la «clausola di flessibilità» ovvero i circa tre miliardi di investimenti pubblici produttivi co-finanziati dalla Ue, una sorta di premio per essere rientrati nel gruppo dei Paesi virtuosi (deficit pubblico inferiore al 3%) la scorsa primavera.

Il governo italiano si è affrettato a rispondere, non con- testando nel merito i rilievi di Bruxelles ma assicurando di avere già in programma misure di riduzione del debito (quali spending review, privatizzazioni e misure sul rientro dei capitali) che ci consentiranno di rispettare il prossimo anno gli impegni in tema di riduzione dello stock di debito.

Ora si può o meno credere a quanto afferma il nostro governo, ma la vera questione a me pare un’altra e riguarda l’atteggiamento di fondo della Commissione. Al centro della contestazione sul debito vi è un indicatore, formato dal rapporto tra stock di debito e Pil di un Paese. Da oltre tre anni la Commissione ha imposto a molti Paesi, tra cui l’Italia, politiche fiscali forte- mente restrittive – le cosiddette politiche di austerità – mirate a far diminuire il numeratore del rapporto (l’ammontare di debiti). Scarso o nessun interesse è stato rivolto al denominatore ovvero alla dina- mica del Pil, ritenendolo o esogeno o, comunque, risultato di scelte prettamente nazionali (le riforme strutturali). Non è stato così, in realtà, e lo sappiamo bene. Le politiche restrittive hanno provocato recessione e fatto diminuire i Pil di tutti i Paesi più indebitati (il denominatore), nella maggior parte dei casi più che compensando gli sforzi di aggiustamento fiscale dei singoli Paesi (contenimento del numeratore) e facendo così aumentare il fardello del loro debito.

Una così drammatica fallimentare evidenza avrebbe dovuto suggerire alla Commissione di modificare il suo approccio, prendendo atto che l’austerità è ormai una strada senza sbocco, perché riduce il Pil dei singoli Paesi e, dunque, non è in grado di migliorare il rapporto stock di debito su Pil (l’indicatore al centro del nuovo Patto Fiscale). Ma non è così. La Commissione continua a insistere sulla necessità – per l’Italia come per altri Paesi – di politiche restrittive direttamente finalizzate alla riduzione del debito. La crescita – ovvero il denominatore del rapporto – viene ritenuto una questione nazionale e quindi come il risultato delle riforme da portare avanti nei singoli Paesi.

Ma per quanto le riforme restino misure fondamentali – e lo sappiamo bene in Italia – è oggi necessario intervenire a livello di sistema, ovvero di area euro nel suo complesso dal momento che su gran parte dell’Europa incombe lo spettro della deflazione. È evidente che in queste condizioni per il rilancio delle crescita c’è bisogno di uno stimolo alla domanda e al mercato interno (soprattutto investimenti), a partire da aggiustamenti più simmetrici tra Paesi in surplus e quelli in deficit, da concordare a livello europeo. Solo se l’economia europea tornerà a crescere e aumenterà, quindi, il Pil dei Paesi più indebitati, si può spera- re che il rapporto stock di debiti su Pil riprenda a diminuire. Altrimenti l’euro rischia di trasformarsi in una micidiale trappola, fonte di ristagno e separazioni tra Paesi membri. Oltre che di voti per i movimenti populisti e antieuropei che si stanno rafforzando in tutta Europa.

Serve dunque una svolta nella politica economica della Ue che determini una discontinuità rispetto al ciclo dell’austerità a tutto tondo degli ultimi anni. La Commissione in primis dovrebbe promuoverlo facendosi interprete degli interessi sistemici, dell’area euro nel suo insieme. Il nostro Paese, insieme ad altri, può contribuire a che ciò accada. Senza ovviamente trascurare i compiti sul fronte interno, che oggi significano rendere più incisiva la l’azione di politica economica del governo, a partire dalla Legge di Stabilità, rafforzandone la capacità di stimolo e rilancio dell’economia.

L’Unità 17.11.13

“La corsa ad anticipare i test d’ingresso all’università”, di Federica Cavadini e Orsola Riva

L’università Bocconi anticipa ancora il test di ammissione: l’appuntamento per le aspiranti matricole di economia è spostato a febbraio, la seconda data diventa quella di maggio ed è cancellata la sessione di settembre. «Perché bisogna allinearsi alle altre università sulla scena internazionale». L’ateneo milanese ha corretto il calendario sulla linea del Politecnico, che per i futuri ingegneri già dal 2005 ha introdotto il test per gli studenti al quarto anno delle superiori. Per la prima volta, sessione invernale in via Sarfatti. Perché gli aspiranti bocconiani sono ragazzi che valutano magari anche la London School o l’Essec Business School o la Hec di Parigi. Ma non soltanto. «La tendenza per tutti gli studenti è muoversi il prima possibile per pianificare il futuro. Le iscrizioni al nostro test di settembre erano in calo mentre aumentavano a maggio», dice il prorettore della Bocconi Antonella Carù. «E anche alle giornate di orientamento arrivano tanti liceali del quarto anno».
Test il prossimo 7 febbraio, allora (per l’anno in corso i posti disponibili erano 2.675 e le domande d’iscrizione, fra economia e giurisprudenza, sono state 7.700). Il dato di partenza per l’ateneo è comunque «l’interesse crescente verso le scuole internazionali e quello degli studenti di altri Paesi per la nostra università». Spiega Carù: «All’estero tante università ricevono le domande nel primo semestre e gli studenti conoscono l’esito all’inizio dell’anno: era necessario adeguarsi. Noi siamo fra i primi, ma altri ci seguiranno ».
E infatti anche la Luiss di Roma ha scelto di anticipare (anche se di poco) le date nel 2014. La prima sessione dei test si svolgerà il 27 marzo (anziché il 12 maggio), con una seconda sessione a settembre. Il risultato della prova d’esame diventa l’unico criterio di valutazione (il curriculum scolastico che finora pesava per il 40% non inciderà più). Ma l’Università Guido Carli prevede anche la possibilità di affrontare il test fin dalla fine del quarto anno delle superiori. Basta partecipare alla Summer School di luglio per sostenere l’esame. «Il tasso di successo è molto alto, perché i ragazzi affrontano la prova con più serenità che se fossero all’ultimo anno, impegnati con la maturit à», spiega il direttore generale Giovanni Lo Storto.
Quanto alla Cattolica di Milano, altra università privata d’eccellenza, dipende dalle facoltà. Economia — che ha introdotto i test dal 2012 — prevede tre sessioni: aprile, giugno e luglio. Spiega il rettore Franco Anelli: «Forse quest’anno potremmo partire già a marzo. Se i concorrenti anticipano, impongono anche agli altri la stessa tabella di marcia: uno studente che ha già passato il test in un altro ateneo, non ci prova nemmeno da noi. Forse dovremmo coordinarci di più». E a Medicina (campus di Roma) da tre anni il test, di tipo logico e psicoattitudinale, non nozionistico, si svolge ad aprile, con orale a luglio.
In linea con quanto dovrebbe succedere dall’anno prossimo anche nelle università statali per tutte le facoltà a numero chiuso (oltre a Medicina, Odontoiatria, Veterinaria e Architettura). A partire dal 2014 le prove d’esame dovrebbero svolgersi ad aprile (anziché a settembre), come del resto era già previsto dal decreto Profumo. Dal Miur arriva la conferma che non ci sono stati ripensamenti da parte del ministro Maria Chiara Carrozza: con l’annullamento del bonus di maturità, del resto, non ci sono più ostacoli a svolgere i test in corso d’anno. Ma le date non sono ancora state fissate. «Se il ministero manterrà la scadenza di aprile, ma non lo do affatto per scontato, ci allineeremo anche noi», spiega il professor Sergio Morini dell’Università Campus Bio-Medico di Roma.
«L’importante — fa notare il professor Stefano Paleari, presidente della Crui (la Conferenza dei rettori delle università italiane) — è che il calendario venga reso noto entro la fine dell’anno per dare il tempo agli atenei di organizzare i test. Anticipare è un bene, perché permette un inizio regolare dell’anno accademico. Ma richiede anche di coordinarsi con le scuole, che in quell’epoca dell’anno sono ancora aperte». «Se posso fare una battuta — chiude Paleari — va bene allinearsi al calendario europeo. Ma bisognerebbe essere europei a tutto tondo: anche sul numero dei ricercatori e sui fondi».

Il Corriere della Sera 17.11.13

“Con il Mattarellum non c’è maggioranza”, di Roberto D’Alimonte

L’ennesima scissione nella politica italiana complicherà le prospettive della riforma elettorale. Con la formazione del partito di Alfano si accrescono le fila di coloro che vorrebbero il ritorno al proporzionale visto che il nuovo partito intende collocarsi al centro del sistema sperando di diventare l’ago della bilancia. Invece in questi giorni si è tornati a parlare di ritorno al Mattarellum, che è cosa ben diversa da quella che servirebbe in questo momento ad Alfano e Casini.
Se alle ultime politiche si fosse votato con il Mattarellum quale sarebbe stato il risultato? A questa domanda non si può rispondere con assoluta certezza. Infatti l’espressione del voto non è indipendente dalle regole con cui si vota. Se si cambia il sistema elettorale cambia anche il comportamento degli elettori. Questo succede perché le regole elettorali influenzano la competizione tra i partiti e il rapporto tra partiti ed elettori. Quindi utilizzare i risultati di una elezione con un dato sistema elettorale per simulare i risultati della stessa elezione con un altro sistema elettorale è un’operazione che va presa con molta cautela. È comunque un esercizio utile perché consente di analizzare i possibili effetti di diversi sistemi elettorali.
Ciò premesso, vediamo cosa sarebbe successo a febbraio se al posto del Porcellum ci fosse stato il Mattarellum. Ricordiamo che quest’ultimo è un sistema in cui il 75% dei seggi viene assegnato in collegi uninominali a un turno e il 25% con formula proporzionale. Come si vede nella prima tabella in pagina, con questo sistema alla Camera non avrebbe vinto nessuno, perch é nessuno avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi (316). Esattamente quello che è successo con il Porcellum a causa della lotteria dei premi regionali del Senato. L’altro risultato interessante è che la coalizione di Berlusconi avrebbe avuto più seggi (259) di quella di Bersani (234). La spiegazione del primo risultato sta nel successo del partito di Grillo: 74 seggi uninominali e 121 seggi totali. Con un sistema di collegi uninominali a un turno se i terzi poli hanno abbastanza voti possono riuscire a ottenere seggi. A certe condizioni possono prenderne addirittura tanti da rendere impossibile che uno degli avversari maggiori possa arrivare alla maggioranza assoluta. Recentemente è successo anche in Gran Bretagna, la patria dei collegi uninominali a un turno. E il partito di Cameron ha dovuto per la prima volta dalla fine della guerra rassegnarsi a fare una coalizione con i liberaldemocratici. Con i liberali, non con il M5S o con il Pdl. Questa è la differenza con l’Italia.
A dire il vero, il collegio uninominale a un turno nella maggiore parte dei casi rende la vita molto difficile ai terzi poli. Ma il caso inglese non è unico. Quando i due maggiori partiti si indeboliscono, quando la protesta anti-establishment prende piede, quando si allentano i legami elettorali e crescono disaffezione e volatilità un terzo polo ben costruito può farcela a rompere lo schema bipolare. Ed è quello che è successo alle ultime elezioni con il M5S. È successo con il Porcellum, ma potrebbe succedere anche con il Mattarellum. La Lega Nord nel 1996 ci and ò vicino. Con il suo 10,8% dei voti vinse in 39 collegi alla Camera. Pochi seggi in più e Prodi non avrebbe avuto la maggioranza. Non così il Patto per l’Italia nel 1994 perché il suo 15,6% distribuito a pioggia in tutto il Paese, e non concentrato in alcune zone come nel caso della Lega, non fu sufficiente a battere la concorrenza dello schieramento di sinistra e di quello di Berlusconi.
Una possibile, e legittima obiezione che si può fare alla nostra simulazione è che con il Mattarellum la sinistra, anche nel 2013, avrebbe preso più voti e quindi più seggi uninominali grazie al suo miglior rendimento nei collegi. È un fatto che sia nelle elezioni del 1996 che in quelle del 2001 la coalizione di Berlusconi prese più voti alla Camera nella parte proporzionale (le liste di partito) che nella parte maggioritaria (i candidati nei collegi), mentre per la sinistra fu il contrario. In media questa perdita fu di 3,5 punti percentuali. Senza questo fattore Berlusconi avrebbe vinto le elezioni del 1996 e si sarebbe avvicinato alla maggioranza dei due terzi dei seggi in quelle del 2001. Questa fu la vera ragione che convinse il Cavaliere a fare la riforma elettorale nel 2005. Fu un errore perché senza il Porcellum avrebbe probabilmente vinto le elezioni del 2006. Ma questa è una altra storia.
Proprio per tener conto di questo fattore che a suo tempo definimmo come il cattivo rendimento coalizionale della destra abbiamo voluto fare una altra simulazione togliendo, collegio per collegio, ai voti presi dalla coalizione di Berlusconi nel 2013 quei 3,5 punti persi nel passato. I voti tolti a Berlusconi sono stati distribuiti agli altri partiti e verso l’astensione in proporzione al loro peso. Come si vede nella seconda parte della tabella, nemmeno in questo caso lo scorso febbraio ci sarebbe stato un vincitore. La differenza è che la coalizione di Bersani avrebbe preso più seggi (272) di quella di Berlusconi (194).
In conclusione, in un contesto tripolare un sistema elettorale con collegi uninominali a un turno non garantisce una maggioranza assoluta dei seggi a nessuno. Tanto più che nel caso del Mattarellum il 25% di quota proporzionale e lo scorporo (di cui non abbiamo tenuto conto nelle simulazioni) attenuano l’effetto maggioritario rendendo ancora meno probabile un esito decisivo. Solo il premio di maggioranza con il doppio turno pu ò garantire in maniera accettabile che il partito o la coalizione più votati abbiano la maggioranza assoluta dei seggi. Nemmeno un sistema di collegi uninominali a due turni come in Francia può farlo. Ma è certamente vero che un tale sistema aumenterebbe le probabilità di un esito maggioritario.
Detto questo, è anche vero però che l’offerta politica può fare la differenza. Questo è vero sempre, ma lo è ancor più con un sistema maggioritario. Basterebbero pochi voti in più a Bersani nella nostra seconda simulazione per dare alla sinistra la maggioranza assoluta. Anzi, l’offerta politica “giusta” potrebbe dare al vincente una maggioranza assoluta di seggi ben più alta di quella del Porcellum. Con l’attuale sistema al massimo si può avere il 54% dei seggi. Con il Mattarellum, nelle mani di chi lo sappia sfruttare appieno, questa percentuale potrebbe essere molto più alta. Con buona pace di chi vuole modificare ora il Porcellum perché potrebbe distorcere troppo la rappresentanza con il suo premio senza soglia.

Il Sole 24 Ore 17.11.13

“Un partito senza leader”, di Luca Landò

Dai festini di Arcore alle notti con Alfano: senza nulla togliere al fascino indiscreto del Vicepremier, diciamo pure che la decadenza del Cavaliere non aveva bisogno del voto in Senato. È già qui, nelle cronache di siti e giornali che nell’ultima settimana hanno raccontato di cene, pranzi, visite, pianti (dell’ex delfino) e urla (dell’ex premier) per tentare di salvare quel che restava di un matrimonio, tanto meno di un partito.

E che hanno celebrato il fallimento di una strategia personale travestita da progetto politico incominciata vent’anni fa in un ipermercato di Casalecchio, quando l’uomo più ricco e felice e fortunato d’Italia, o giù di lì, promise uguale sorte a chi lo avrebbe seguito. L’addio di Alfano nel teatro di Santa Chiara e l’intervento di Berlusconi nel palazzo dei congressi dell’Eur non cambiano la sostanza, anzi la confermano. Il leader che faceva cucù alla Merkel e accoglieva Blair in bandana e camicia è andato in pensione, lasciando il posto a un anziano signore che ha tentato fino all’ultimo di mediare anziché comandare, convincere anziché imporre. Una trasformazione fatale, perché nel «partito del leader» (questa la vera traduzione dell’acronimo Pdl) c’è bisogno del secondo perché possa esistere il primo.

Il cavaliere mediatore è un ossimoro, una contraddizione in termini. Perché o sei l’uno (senza macchia e senza paura) o sei l’altro. E oggi Berlusconi è soltanto l’altro, costretto per oltre un mese a trattare con le colombe che, non a caso, hanno dimostrato di essere più forti e decisive dei falchi.

Se c’è una figura da rottamare, in questa Italia di ritardato fine millennio, è proprio quella del superuomo onnipotente e onnipresente, capace di volare dalla Costa Smeralda alle dacie di Putin passando per le pizzerie di Casoria, come solo i ricchi o gli dei sanno fare. Teniamoci dunque l’uomo, con le sue debolezze, le sue stanchezze, le sue condanne (quattro anni per frode fiscale, giusto per ricordare) e riprendiamoci quel che rimane del Paese, cercando di riagganciarlo al resto dell’Europa se non del mondo.

La lista delle cose da fare è lunga e fa piuttosto impressione. Il Pil è quasi al 2 % sotto lo zero e soprattutto è negativo da nove trimestri nove. La disoccupazione è al 12,5% e salirà ancora. Quattro giovani su dieci non trovano lavoro e forse non lo troveranno mai. Andiamo avanti? Le persone in povertà assoluta sono quasi cinque milioni, ogni giorno chiudono 42 imprese, sei italiani su dieci rinunciano a comprare il pane. Lo sappiamo, molte di queste cifre le avete lette la settimana scorsa su queste colonne, ma non è una ripetizione: è un modo per ricordare a tutti noi che questo, non altro, è il Paese in cui abbiamo la fortuna (chiamiamola ancora così) di vivere. E questi, non altri, sono i numeri che ogni deputato e senato- re dovrebbe scrivere nella propria agenda politica.

È illuminante, da questo punto di vista, come nel lunghissimo intervento di ieri (solo Castro e Chavez avrebbero fatto di meglio) Berlusconi sia riuscito a parlare delle sue ossessioni personali – dalle condanne ingiuste alle toghe sempre più rosse – e a descrivere l’Italia, non come un Paese travolto da una devastante crisi economica e sociale, ma come una terra invasa da soviet e cosacchi, come ha spiegato lui stesso chiedendo ai presenti di tornare a leggere, non i saggi di Stiglitz e Krugman, ma «Il libro nero del comunismo».

Quello di ieri è stato un ritorno al passato, non solo nel nome del «nuovo» partito, ma per i contenuti che lo animeranno. E che ne faranno una formazione di destra sempre più estrema e populista, con pericolosi agganci ai temi antieuro, antitasse e antieuropa già sentiti nei comizi, non solo di Beppe Grillo, ma anche di Marine Le Pen e dell’olandese Geert Wilders.

Il paradosso è che la deriva sempre più estrema di Berlusconi è la miglior campagna pubblicitaria che il «traditore» Alfano potesse sperare di avere, aiutandolo a costruire la sua nuova immagine di politi- co responsabile e indipendente dall’uomo che lui stesso ha seguito e servito per tutti questi anni.

Con la scissione di venerdì e il discorso di ieri, non esiste più un partito di lotta e di governo (come è stato finora il Pdl creando notevoli problemi al cammino di Letta) ma uno di lotta e uno di governo: il primo guidato da Berlusconi insieme a falchi e falchetti, il secondo dall’ex delfino. Una divisione dei compiti, forse non voluta, che almeno nell’immediato potrà forse semplificare la vita e il lavoro dell’attuale presidente del Consiglio.

Un altro effetto della scissione (ma Formigoni la chiama «mancato ingresso in Forza Italia») è l’aver spazzato via, una volta per tutte, l’equivoco sul governo del- le intese «larghe ma impossibili». Quello di Letta e Alfano è ora un esecutivo numericamente più fragile, ma più robusto in termini di chiarezza e di consapevolezza delle proprie possibilità. In tempi di confusione e incertezza, può essere un passo avanti. A una condizione, però: che questo governo delle «piccole intese» ridefinisca, con urgenza e coraggio, le priorità della propria agenda. Ne indichiamo tre, anzi quattro: la legge elettorale, una vera riduzione del cuneo fiscale e un’azione concordata con gli altri Paesi per far sentire la voce di chi, in Europa, chiede, anzi pretende, una politica che punti alla crescita e non solo ai tagli. La quarta priorità la conosciamo tutti: non perdere tempo.

L’Unità 17.11.13

“Tutti in cerca del futuro (nel passato)”, di Michele Ainis

L’ Italia ha il torcicollo. Cammina guardandosi alle spalle, invece di puntare gli occhi sul domani. O meglio, non avanza: arretra. Perché il futuro è un pozzo nero, è un orizzonte claustrofobico, e allora cerchiamo conforto nel passato. Noi italiani, non solo i politici italiani.
Certo la politica offre la rappresentazione più perspicua di questo scoramento collettivo. Qual è la principale novità della stagione? Il ritorno a Forza Italia, vent’anni dopo e con un ciuffo di capelli bianchi sulla fronte. Tuttavia è la regola, non l’eccezione. A destra un gruppo di nostalgici medita di riesumare An, non foss’altro che per nostalgia del suo forziere, ancora carico di dobloni d’oro. Altri, più audaci, vorrebbero addirittura svestire la mummia del Msi. A sinistra Fioroni annunzia a giorni alterni la resurrezione della Margherita. Nella Lega si è rifatto sotto Bossi, candidandosi alla segreteria; e ottenendo subito il ritiro di Tosi, l’homo novus . Al centro Mauro, Casini, magari pure Alfano, sognano la Balena bianca, la riedizione della Democrazia cristiana. Perfino i monarchici hanno ripreso smalto, riunendosi a Palermo in un convegno superaffollato. Come diceva Keynes, il difficile non è fidarsi delle nuove idee, quanto piuttosto fuggire dalle vecchie; altrimenti il nuovo ti riporterà alla stazione di partenza.
Quando è cominciato questo gioco dell’oca? Ci vuol poco a fissarne la data: 20 aprile 2013, il giorno della rielezione di Napolitano al Quirinale. Quando la crisi dei partiti rischiò di debordare in crisi di sistema, sicché il sistema chiese soccorso al vecchio presidente, implorandolo d’incarnare il nuovo. Lui accettò, benché pregustasse già il riposo; ma sta di fatto che da allora in poi le lancette dell’orologio nazionale girano al contrario. La XVII legislatura è cominciata così come era finita la XVI: con un governo di larghe intese. Nella seconda Repubblica non ci era mai successo, ogni elezione scandiva un’alternanza; adesso celebra, casomai, la rimembranza.
E la nuova legge elettorale? Avrebbero dovuto scriverla i partiti, in un ultimo sussulto di fierezza; non ci riescono, sicché dovrà pensarci la Consulta. Sennonché quest’ultima non è un legislatore, non può tirare fuori dal cilindro un altro coniglio elettorale; può solo tosare l’esistente, riportando allo scoperto il pelo vecchio. Perciò delle due l’una: o la Consulta annullerà l’intera legge, e allora tornerà in vigore il Mattarellum (1993-2005); oppure si limiterà a segare il premio di maggioranza, restituendoci un proporzionale puro, come ai bei tempi di mamma Dc (1948-1993).
Succede, del resto, in molti altri capitoli della nostra vita pubblica. Facciamo il passo del gambero sulle pensioni, divorandone il potere d’acquisto. Torniamo indietro sui diritti sociali, dalla salute al lavoro all’istruzione; eppure la nostra Carta li scolpisce sulla pietra. Anche la Costituzione, tuttavia, ha bisogno d’un restyling , sforbiciando per esempio l’eccesso di competenze regionali; ma qui il giochino è facile, basta abrogare la riforma del 2001. C’è chi propone la medesima ricetta per l’università (via la legge Gelmini), non meno che per la prostituzione (via la legge Merlin). Insomma, ogni riforma suona come controriforma, come un decreto postumo del Concilio di Trento. Ma chi controfirma la controriforma? In genere, gli stessi che avevano firmato la riforma. Un artificio per restare sempre a galla, e infatti alle nostre latitudini non c’è ricambio di classi dirigenti, non c’è ossigeno nelle stanze del potere.
Il futuro non è più quello di una volta, diceva Valéry. Oggi lo dice, pressoché all’unisono, il popolo italiano. E infatti i nostri giovani sono i più pessimisti d’Europa, rivela un sondaggio Gallup. Per forza, con una disoccupazione al 40,4% fra gli under 25 in cerca di lavoro. Di conseguenza sono i loro nonni a reggere il vento della crisi, facendo i baby sitter o grattando il fondo del salvadanaio per consentire la sopravvivenza dei figli e dei nipoti. L’ennesima conferma che in Italia il nuovo dipende dal vecchio. Però nel frattempo ci siamo infiacchiti, abbiamo perso la voglia insieme alla fiducia. Siamo diventati un Paese che non scopre, al massimo riscopre: nella moda, nell’arte, nell’industria, perfino in cucina, dove trionfa il revival degli antichi sapori (un milione e 700 mila risultati su Google).
C’è un modo per uscirne fuori? Sì che c’è, ma servirebbe la penna di Licurgo. Con un divieto inciso a lettere di piombo sulla Gazzetta ufficiale: vietata la reviviscenza, delle cose come delle persone.

Il Corriere della Sera 17.11.13

“Rai Scienza, un coro di sì”, di Luca Del Frà

Le donne scendono in campo per Rai Scienza, un canale della tv pubblica dedicato alla ricerca: il ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, la neo senatrice a vita Elena Cattaneo e la deputata Ilaria Capua, che grazie alle loro ricerche sono divenute famose nel mondo, appoggiano la campagna de l’Unità. Scienziate prestate alla politica che spiegano dal punto di vista di chi ogni giorno è in prima linea l’utilità di un canale televisivo del servizio pubblico dedicato alla scienza, agli scienziati, alle loro Storia e alle loro storie. Accanto a loro Rossella Panarese, ideatrice e curatrice di Radio 3 Scienza, dà lo sguardo di chi da anni porta questi argomenti in onda ogni giorno.
«Sarei molto felice di assistere alla nascita di un canale Rai dedicato interamente alla Scienza – esordisce senza mezze misure Carrozza –, perché sono certa che potrebbe aiutare soprattutto le giovani generazioni a conoscere meglio il mondo che le circonda, a scoprire quanto l’Italia ha dato in passato e continua a dare in termini di scoperte scientifiche fondamentali».
L’EMOZIONE DEL MICROSCOPIO
L’immagine italiana infatti non è particolarmente lusinghiera da questo punto di vista: «Lo testimoniano anche diversi studi internazionali –non nasconde il ministro–: nel nostro Paese la cultura scientifica non è molto diffusa e spesso i nostri ragazzi registrano deficit in scienza e matematica rispetto ai loro coetanei europei. Invece, e il canale Rai Scienza potrebbe dimostrarlo, la scienza e la tecnologia possono ancora far sognare i giovani e i meno giovani».
Alle parole del ministro fa eco con entusiasmo Cattaneo, figura di punta nelle ricerche sulle cellule staminali: «Sarebbe una cosa straordinaria – spiega – ma se deve nascere un canale dedicato dovrà avere connotati alti e non rifugiarsi in quelle trasmissioni sui misteri, le magie, i miracoli e le stranezze. E non bisogna avere paura dell’audience, la scienza è divertente: datemi un teatro con 10mila posti e poi vediamo!» In che senso è divertente? «Potrei citare come mi tremavano le mani quando depositavo i vetrini sotto il microscopio quando era alle prove finali della mia ricerca sulle staminali e la malattia di Huntington, oppure la ricerca di Shinya Yamanaka sulla riprogrammazione cellulare che nessuno credeva possibile e lui l’ha dimostrata, o il nostro Giovanni Bignami che per anni ha studiato una stella che si giurava non ci fosse e invece c’era davvero e l’ha chiamata Geminga (che si pronuncia come in lombardo «Gh’ è minga», cioè non c’è mica Ndr) , ma forse il caso più bello è quello di Giacomo Rizzolatti, che a 72 anni non ha mai smesso di studiare e ha presentato un progetto di ricerca allo European Reserch Council sui neuroni a specchio che è stato finanziato con 2 milioni di euro. Nella scoperta c’è sempre qualcosa di avventuroso, lo scienziato è come nel deserto e pensa: sono fuori strada oppure al confine del nuovo».
Cattaneo ha pubblicato vari articoli sul rapporto non esaltante tra politica e scienza nel nostro paese, come garantire indipendenza a un canale scientifico: «Senza indipendenza e libertà di pensiero non c’è scienza. Al contrario gli scienziati potranno spiegare le loro ricerche, per esempio perché non è vero che le staminali embrionali sono inutili come qualcuno dice, oppure chiarire perché la sperimentazione sugli animali è necessaria e quanto facciamo per ridurla al minimo e alleviare le loro sofferenze».
Che vantaggio trarrebbero i cittadini da un canale tematico di questo tipo? «Lo spirito critico e la tolleranza: pochi sanno quanto il metodo scientifico obblighi a ragionare su se stessi e sul proprio operato: ogni volta che fai una ipotesi, tu per primo cerchi di smontarla in ogni modo, andando contro le tue idee. Quando pubblichi i risultati, qualsiasi scienziato nel mondo è autorizzato a smontarli e mostrare l’errore. Niente opinioni o supposizioni, ma dati, fatti e attenzione alle critiche: tutte cose che in Italia spesso mancano e mi permetto di dire che questa mancanza è parte importante nei problemi che il Paese si trova ad affrontare. La scienza è soprattutto un modo di vita che insegna a essere più tolleranti e autocritici: porta a una crescita civile».
Vicepresidente della VII Commissione cultura alla Camera, Ilaria Capua è una biologa virologa che ha raggiunto importanti risultati scientifici, ma soprattutto ha sfidato il sistema con la decisione di depositare la sequenza genetica di un ceppo africano di influenza su un sito open source a disposizione dell’intera comunità scientifica: «Occorre una rivoluzione culturale e la televisione ne può essere parte –spiega–: uno dei problemi che l’Unione Europea ci pone è proprio sui modelli culturali che trasmettiamo. Lo scienziato da noi piace ai bambini, ma già nell’adolescenza assume la figura dello sfigato, che non trova lavoro né soldi per le sue ricerche, quando al contrario proprio gli scienziati italiani stanno dando un forte contributo al progresso scientifico». E la televisione può essere utile in questo senso: «L’italiano si informa con la televisione, libri e internet sono ancora minoritari, e dunque ecco perché sono favorevole a un canale dedicato alla scienza. Le nuove generazioni devo imparare a essere all’altezza di quello che succede nel mondo, ad accettarne le sfide: ricordiamoci che nei Paesi dove l’economia è arretrata o sta arretrando c’è scarso interesse nella scienza. L’importante è essere divertenti e considerare la grande bellezza della scienza, la suggestione che può trasmettere». E lei come lo immaginerebbe un programma scientifico? «Partirei dalle immagini: ci sono foto di corpi celesti lontani milioni di anni luce che assomigliano agli ingrandimenti di lieviti, microbi, esseri unicellulari. L’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo si toccano nella visione e magari anche nella televisione».
Tutto il potere agli scienziati a Rai Scienza? Affidare direttamente a loro l’ideazione dei programmi, assistendoli da un punto di vista tecnico, potrebbe essere un modo per colmare l’enorme ritardo accumulato dal nostro paese nel settore scienza e televisione. Quest’anno Rossella Panarese festeggia i dieci anni di Radio 3 Scienza, un traguardo importante per una trasmissione quotidiana. Gli chiediamo, è possibile fare scienza e audience? «Assolutamente sì, la nostra trasmissione è tra le prime 5 a essere scaricata in pod cast di tutto il sito di Radio 3, una ammiraglia della Rai. Questo ci onora e unitamente alle mail e agli sms che arrivano ci dice anche che il pubblico delle trasmissioni scientifiche è fedele, attento e visto che spesso ti corregge se ti sfugge qualcosa, dunque è anche esigente. Ma ci sono altri segnali positivi sul pubblico interessato alla scienza, come i Festival che riscuotono sempre un notevole successo». Voi che spesso li seguite, come è il contatto diretto con il pubblico? «Molto utile e interessante, spinge a creare un linguaggio che sa raccontare, ma con rigore, e anche a creare un dialogo». E gli scienziati, soprattutto quelli italiani, sono pronti a questo dialogo sui mezzi di comunicazione di massa? «Prima di Radio 3 Scienza già mi occupavo degli stessi argomenti ma senza cadenza quotidiana: gli scienziati in questi 20 anni sono molto cambiati, hanno capito l’importanza della comunicazione, ci tengono e ci sono molti esempi di veri comunicatori».

L’Unità 17.11.13