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“I lavoratori sono più ricchi dei padroni”, di Giuseppe Vespo

La vera notizia sarebbe stata il contrario, e cioè se i redditi degli imprenditori fossero risultati più alti di quelli dei dipendenti. Perché che i lavoratori dichiarino più di chi fa impresa, cioè di chi spesso il lavoro lo offre, ormai quasi non stupisce. Semmai i dati del ministero dell’Economia confermano una tendenza che lascia spazio a diverse interpretazioni, condite dagli effetti della crisi e afflitte dall’eterno problema dell’evasione fiscale.
Intanto i numeri dicono che gli oltre venti milioni di lavoratori e lavoratrici con reddito (prevalente) da lavoro dipendente dichiarano in media 20.680 euro, mentre il milione e mezzo circa che vive prevalentemente grazie a un reddito di impresa dichiara in media 20.469 euro. I dati fanno riferimento alle dichiarazioni del 2012, quindi ai redditi percepiti l’anno prima dai circa 41,3 milioni di contribuenti italiani.
Chi sono questi contribuenti ce lo dicono le percentuali del ministero, che disegna una torta così tagliata: la fetta più grossa è quella dei dipendenti, oltre il 48 per cento dei 41 milioni totali (circa venti milioni di persone); seguono i 14 milioni di pensionati (34,1 del totale), mentre solo il cinque per cento dichiara un reddito prevalente da impresa, ovvero fa l’imprenditore puro o il lavoratore autonomo abituale. Si parla di appena 2,1 milioni di persone, tante quante sono quelle che dichiarano prevalentemente redditi da fabbricati, cioè sembrano mantenersi grazie agli immobili che possiedono; mentre un altro milione e mezzo vive grazie alle partecipazioni in società di persone.
Il mondo dei dipendenti è variegato, il 46 per cento lavora nei servizi come il commercio, i trasporti e le comunicazioni, il venti per cento nell’industria e un altro 23 nella pubblica amministrazione. Tra queste categorie, il reddito medio più alto è di chi lavora nell’industria, che dichiara poco più di venti mila euro all’anno, mentre chi serve la pubblica amministrazione è fermo poco più di 23 mila.
CHI PUÒ E CHI NO
Gli statali soffrono l’assenza del contratto nazionale e il blocco dei rinnovi fino almeno al 2015. Tra loro, però, c’è una fascia di dipendenti che se la passa un po’ meglio, anzi molto meglio. Sono i manager pubblici, che evidentemente nonostante i salari stellari non riescono ad alzare la media dei redditi della loro categoria.
È di ieri un dato che conferma un altro sospetto. I manager italiani, quelli dell’amministrazione centrale, cioè per lo più dei ministeri, sono i più pagati di tutta l’area Ocse, e l’area in questione conta ben 34 Paesi del mondo. Prendono in media uno stipendio annuo pari a 650 mila dollari (il calcolo in dollari è perché la ricerca è internazionale), ovvero tre volte di più della media. Per avere un’idea, un top manager ministeriale a Parigi prende in media 260 mila dollari all’anno, a Berlino 231 a Londra 348 mila. A Washington 275 mila.
Con 250 mila annui, gli statunitensi ci soffiano il primato nella media dei dipendenti di seconda fascia, che in Italia si ferma a 176 mila dollari (comunque meglio della media Ocse, 126 mila). Tutto questo fino al 2011. Perché come segnala il ministero della Funzione Pubblica, dall’anno scorso è entrato il vigore il tetto agli stipendi dei dirigenti pubblici, che non permette di superare, anche cumulando, il trattamento economico del Primo presidente della Corte di Cassazione, attestato a 302.937 euro annui lordi. Insomma, il vento è cambiato. Del resto, va precisato, lo fa sempre la funzione pubblica, la rilevazione della ricerca internazionale è stata compiuta su soli sei ministeri, quelli in comune tra tutti i paesi europei. E i valori più alti rilevati dall’Ocse sono riferiti a casi molto limitati relativi a posizione di vertice, mentre per quanto riguarda le altre categorie dirigenziali i dati sono ampiamente in linea con la media degli altri Paesi. Sarà per questo che alla fine il reddito medio dei dipendenti pubblici non supera quello dei colleghi del settore dell’industria (24 mila euro).
Ancora più bassa è la media dei redditi dichiarati dai pensionati, da quelli che dicono di vivere con la pensione: 15.790 euro all’anno. Il quaranta per cento di questi 14 milioni di italiani dichiara di vivere solo con la pensione, mentre il 53 per cento può vantare anche redditi da terreni e fabbricati.
E poi ci sono gli imprenditori. Un milione mezzo di persone il cui reddito medio non supera 20.469 euro. Solo in 25 mila dichiarano più di cento mila euro annui, appena un quarto del totale dei contribuenti (cento mila).
Infine i lavoratori autonomi, esclusi quelli in regime i contribuzione minima, che sono mezzo milione, 75 mila dei quali dichiara più cento mila euro all’anno. Si tratta per lo più di studi medici, studi legali e poliambulatori. Appena 175 mila sono invece le imprese familiari. Si trovano soprattutto in Veneto e Lombardia.

L’Unità 15.11.13

“Prostituzione minorile, non chiamiamole baby escort”, di Pia Locatelli

Il modo in cui la nostra stampa ha trattato e sta trattando il caso delle ragazzine sfruttate come prostitute a Roma e a Milano è a dir poco disgustoso. Vedere quello che è considerato il più autorevole quotidiano nazionale dedicare due pagine a una squallida vicenda, soffermandosi su particolari e dettagli della vita delle ragazze, per soddisfare la curiosità dei propri lettori e vendere qualche copia in più, è qualcosa che ha ben poco a che fare con il diritto di cronaca e bene ha fatto il Garante della privacy a richiamare i media al “più rigoroso rispetto della riservatezza delle giovani”.

Non si tratta certo di nascondere o non dare le notizie ma del modo e del linguaggio che viene usato nel darle. “Baby escort”, “ragazze doccia”, “prostitute bambine”, “puttanelle”, sono solo alcuni degli aggettivi con cui vengono definite coloro che non sono altro che ragazzine di 14, 15 al massimo 16 anni finite in un giro più grande di loro, vittime di individui senza scrupoli.

Si parla fin troppo delle intercettazioni sui telefonini delle minorenni, dei loro sms del fatto che nessuno le ha costrette, che erano coscienti e consenzienti. E si parla troppo poco di chi le sfruttava e dei clienti, definiti “persone facoltose” nel caso di Roma o “compagni di scuola” nel caso delle studentesse milanesi.

Linguaggi diversi e parole diverse a secondo del genere. E c’è anche chi tra le righe, ma manco troppo, fa capire che alla fine alle ragazze la cosa piaceva pure e quindi perché poi scandalizzarsi tanto?

Ed è proprio da quelle intercettazioni, invece, che emerge tutta la debolezza, il malessere, la difficoltà di quelle ragazzine imbottite di cocaina che devono destreggiarsi tra l’andare a scuola, fare i compiti e il “lavoro”, divenuto indispensabile per far fronte al bisogno crescente di droga.

Poco più che bambine alle prese con un nuovo gioco del quale forse non capiscono neanche la portata, trasformate dalla maggior parte dei media da vittime a complici.

Così come sono definite complici e colpevoli le madri: la prima che avrebbe addirittura istigato la figlia a prostituirsi e usufruito dei sui profitti, ma anche la seconda, quella che ha scoperto e denunciato tutto, che viene dipinta come assente, colpevole di essere “partita per fare una vacanza da sola”.

Non una parola al contrario sui padri delle ragazze. Esistono? Dove erano? Perché non hanno vigilato sulle loro figlie delegando ancora una volta tutto alle madri?

La realtà purtroppo è che gli stereotipi di genere sono tutt’altro che debellati e che l’idea della donna adescatrice e puttana fa parte ancora dell’immaginario collettivo, dimenticando che lo sfruttamento della prostituzione è un reato. Non solo ma in base alla legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote, per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, andare con dei minori rientra nella pedofilia, (reato ancor più grave) tanto più se le vittime, e ripeto vittime, hanno meno di 16 anni. Diciamolo chiaramente altrimenti meglio il silenzio.

Il Fatto Quotidiano 15.11.3

“La strategia dell’instabilità”, di Claudio Sardo

Il Pdl è sull’orlo della scissione. Da oltre un mese. È possibile ma non scontato che la rottura definitiva si consumi domani. I rapporti personali tra i contendenti sono logorati, la fiducia è praticamente azzerata, definire un quadro di garanzie reciproche pare impossibile: eppure ci sono ragioni politiche obiettive che militano a favore di una convivenza, benché forzata e conflittuale. L’idea che la separazione tra governativi e ultrà berlusconiani sia di per sé un atto liberatorio per un centrodestra a vocazione europea, e al tempo stesso un fattore di stabilità per il governo Letta, è apparsa da subito molto ingenua. È vero che Berlusconi lavora per la caduta dell’esecutivo e per il ritorno alle urne nei primi mesi del 2014, ma qualcuno pensa davvero che il passaggio formale all’opposizione del Cavaliere e dei parlamentari a lui fedeli fornirebbe garanzie aggiuntive al governo in carica? I numeri diventerebbero esigui, non solo nei passaggi politici più importanti, bensì nell’attività ordinaria almeno del Senato (come accadde ai tempi del secondo governo Prodi). E soprattutto cambierebbe la natura del governo Letta – da esecutivo di emergenza, senza vere intese, a governo sostenuto da una maggioranza politica, seppure impropria – riaprendo una questione assai complicata nello stesso Partito democratico (come dimostra il dibattito congressuale). Renzi non è mai riuscito a nascondere la sua preferenza per un rapido ritorno alle urne, anche se ha fin qui assicurato che non farà sgambetti a Letta: sarebbe ancora valido l’impegno se questo non fosse più un governo di necessità, ma un’alleanza centrosinistra-centrodestra con un contenuto di riforme, a quel punto, da definire in modo esplicito e accettabile da tutti i contraenti?

Alfano e i ministri del Pdl scommettono sul governo e sulla scadenza nel 2015, anche perché tra i più convinti sostenitori della stabilità ci sono la cancelliera Merkel, il presidente Obama e il governatore Draghi, e presso di loro intendono accreditare un nuovo centrodestra, dopo il discredito accumulato da Berlusconi. Ma per quanto ciò appaia contradditorio (come contraddittorie e infedeli suonano le dichiarazioni di fedeltà a Berlusconi, ribadite in queste settimane), ad Alfano e ai suoi la rottura non conviene. Perché il Cavaliere sarà comunque costretto ad arretrare nella dimensione pubblica a causa degli effetti della sentenza di condanna e del prosieguo dei processi. E perché spostare l’asse verso il Partito popolare europeo è possibile se il nucleo dei «governativi» potrà comunque operare nell’area vasta (e grigia) del fronte conservatore. Al di là delle contingenze, infatti, il nodo è l’identità del centrodestra post-berlusconiano. Sarà un’identità segnata dall’euroscetticismo montante dei populisti o aggancerà le forze popolari e conservatrici dell’Europa continentali (come Berlusconi non hai mai davvero voluto fare)? Il Cavaliere ha compiuto nel suo ventennio politico una mutazione genetica dell’area moderata, spostando l’asse decisamente verso destra, fino a contestare la Costituzione, fino a assumere un profilo populista, fino ad allargare consapevolmente le linee di frattura tra Nord e Sud. Alfano e i suoi, in tutta evidenza, non hanno un orizzonte neo-democristiano: il salto politico sarebbe troppo grande, dunque impossibile. Vogliono però modificare le coordinate verso i partiti conservatori dell’Europa e per fare questo hanno bisogno (prima del sostegno dei centristi italiani) di esercitare un’egemonia sul blocco sociale costruito da Berlusconi. Se non convinceranno una parte di quegli elettori, non ci sarà presenza al governo che eviterà loro la marginalità.

Ma è proprio lì che vuole spingerli Berlusconi. Il quale avrebbe pure qualche interesse a non rompere. Quantomeno a non rompere subito. Se Alfano conquistasse anche soltanto qualche consenso in più di Fini, il partito berlusconiano rischierebbe di diventare il terzo polo, dopo i democratici e Grillo. Peraltro la priorità del Cavaliere è in questo momento la cosiddetta «agibilità». Ovvero la difesa personale dalle conseguenze delegittimanti della sentenza a suo carico. L’impresa a cui Berlusconi chiama i fedelissimi è sostanzialmente eversiva, dal momento che poggia su un rifiuto della legalità. Ma ha bisogno esso stesso di non dare l’impressione di auto-emarginarsi. Per questo un mese e mezzo fa ha votato la fiducia al governo Letta dopo aver tentato disperatamente di farlo cadere. Per questo cerca sponde nel Pd e in Grillo per ottenere le elezioni immediate.

Tuttavia il suo declino politico viene prima e va oltre la decadenza da parlamentare, l’interdizione dai pubblici uffici, l’affidamento ai servizi sociali. Per questo continua a praticare una «strategia dell’instabilità» attribuendo la matrice ai falchi (ma il vero falco è lui). Le elezioni a breve gli consentirebbero di giocarsi un ultimo round e di ipotecare una propria personalissima quota del Parlamento futuro: così opporrebbe una legittimazione popolare alla legittimità costituzionale (della sentenza). E l’assenza di riforme istituzionali ed elettorali lo aiuterebbero nei propositi di destabilizzazione.

Questo è la partita nella destra. Che può cambiare il terreno di gioco per tutti. Speriamo che nessuno nel centrosinistra offra sponde al Cavaliere, magari pensando di trarne occasionali vantaggi. Se prevalesse il populismo a destra anche nel dopo Berlusconi, non sarebbe una buona notizia per la sinistra. Forse neppure per Grillo, che magari potrebbe rischiare di trovarsi Forza Italia apparentata (o comunque alleata) ai Cinquestelle in Europa nell’area politica che stanno allestendo la signora Marine Le Pen e l’olandese Geert Wilders.

L’Unità 15.11.13

“L’ultima tentazione razzista”, di Tahar Ben Jelloun

Il razzismo è proprio dell’uomo. È un dato di fatto: tanto vale prenderne atto, impedire che progredisca e combatterlo per legge. Ma non basta. È necessario educare, dimostrare l’assurdità delle sue basi, smontare i suoi meccanismi, non abbassare mai la guardia. In questi ultimi tempi la società francese è percepita come un contesto violentemente razzista, ma in fondo non lo è più di tante altre. Il rifiuto dello straniero, del diverso, di chi è visto come una minaccia per la propria sicurezza è un riflesso universale, che può prendere di mira chiunque. In certi casi questa ripulsa può focalizzarsi su una comunità, ma ciò non vuol dire che le altre non ne saranno colpite. L’esercizio dell’odio non conosce discriminazioni: nessuno può credersi al riparo. Perciò vorrei rassicurare coloro che in Francia incitano a un «razzismo contro i bianchi»: chi è roso dal razzismo non ama nessuno.
Dopo gli ebrei, ha colpito i neri, poi gli arabi; ma a seconda del tempo e del luogo, potrebbe arrivare anche il turno dei bianchi. Dipende da dove allignano il malessere e i contrasti covati nel proprio intimo, che per placarsi hanno bisogno di un capro espiatorio. L’antisemita prova un gusto particolare nello stigmatizzare l’ebreo, una figura che lo ossessiona, lo disturba e a volte lo affascina; e questo godimento porta a un desiderio violento di sterminio. Tra tutti i razzismi, quello antisemita è stato il più sanguinoso, ma non ha guarito il mondo dal desiderio di altre stragi.
Oggi in Europa assistiamo a una serie di derive gravissime. Perché il razzismo incomincia dalle parole, ma può portare fino ai forni crematori. Dire di una donna che assomiglia a una scimmia è solo l’inizio. Se li lasciamo fare, passeranno facilmente dagli insulti ai pestaggi, alle torture (come nel caso del giovane Ilan Halimi) e all’omicidio. Per questo è importante ricordare che non esistono forme di razzismo light o decaffeinato. Bene ha fatto Christiane Taubira a deplorare che nessun dirigente politico abbia levato la propria voce contro il razzismo di cui è stata vittima. Recentemente in Italia un’esponente del governo ha dovuto sopportare un trattamento analogo: la ministra dell’integrazione Cécile Kyenge, originaria del Congo (Kinshasa) è stata insultata da alcuni eletti della Lega Nord, noti per il loro attaccamento alle idee razziste. Anche nel mondo del calcio, giocatori di pelle nera sono stati bersaglio di un razzismo inveterato. Quando un capo di governo si è permesso di far ridere il suo pubblico parlando dell’«abbronzatura di Obama », ha aperto le cateratte, dando un segnale a coloro che prima non avrebbero osato esprimersi apertamente, e incoraggiandoli a coltivare e a dare libero sfogo alle loro idee nauseabonde. Molti italiani dalla memoria corta dovrebbero ricordare i tempi in cui l’indigenza li spingeva a emigrare nel Sud della Francia, dov’erano accolti con disprezzo e insultati. Nel 1930 vi furono a Nizza vere e proprie battaglie contro gli italiani, accusati di essere venuti «a togliere il lavoro ai francesi».
La crisi economica non è una scusante, ma ha forse un ruolo di acceleratore; è un pretesto per rintanarsi nell’ignoranza e crogiolarsi nel comodo rifugio dei pregiudizi.
Il fatto che l’Europa abbia perso a poco a poco il suo posto preponderante nel mondo, non solo sul piano economico ma anche su quello culturale, favorisce un’acredine suscettibile di trasformarsi in disprezzo per tutto ciò che è diverso. La Spagna non ha ancora risanato i propri rapporti con l’islam; qui gli immigrati provenienti dal Maghreb sono chiamati «mauros», termine consapevolmente spregiativo, che ricorda i tristi eventi dell’Inquisizione. E la crisi economica certo non migliora le cose. Chi la
subisce diffida sempre di chi è ancora più povero e più straniero. Il razzismo è dunque un facile ripiego davanti alle prove della vita. Bisogna pur trovare un colpevole: prima era l’ebreo, ora è il musulmano. Se è vero che il razzismo è sempre esistito, oggi non mancano i politici che lo usano al servizio dei loro interessi di bottega. È molto più facile incitare all’odio verso lo straniero che esortare al rispetto per il diverso. L’uomo ha tendenza a lasciarsi trascinare verso gli istinti più bassi, soprattutto quando è reso fragile da situazioni che non sa o non può affrontare. Per molto tempo lo slogan preferito del Front National era: «Tre milioni di disoccupati, tre milioni di immigrati di troppo». Una falsa verità facile da confutare, che però funziona benissimo. Il razzismo è pigrizia mentale; è il rifiuto di riflettere. Tanto c’è sempre qualcuno pronto a pensare al posto nostro, e a fornirci una lettura semplificata del software del malessere.
Oggi ci dicono che non sempre chi aderisce al «Front National » è razzista. Può darsi, ma una cosa è certa: tutti i razzisti trovano sicuramente accoglienza in seno a questo partito; basta che osservino un minimo di discrezione sui loro convincimenti. Né la destra, né la sinistra hanno saputo combattere le idee del Front National. Alcuni sostengono che questo partito dà le risposte sbagliate alle domande giuste; c’è anche chi pensa di poter guadagnare qualche voto avvicinandosi alle sue posizioni.
Fintanto che la principale preoccupazione dei politici sarà quella di farsi rieleggere, assisteremo alle forme di degrado più indegne. E c’è da tener conto del nuovo look adottato dal Front National, tanto efficace da farlo apparire frequentabile, e persino banale. Il tentativo di cambiare status deponendo l’etichetta di partito di estrema destra è un segnale interessante. Se fosse solo questione di parole, si potrebbe pensare che al posto della connotazione estremista sia subentrato qualcosa di più profondo e pericoloso: la banalizzazione dei pregiudizi e della xenofobia.
Per combattere le idee di questo partito si dovrebbe poter rispondere sistematicamente, ogni qual volta uno dei dirigenti proclama false verità, o propone programmi non solo inapplicabili ma rovinosi per il Paese. Ma anche al di là di questa vigilanza, tragicamente omessa da tutti i partiti antagonisti, ci sarebbe bisogno di portare avanti nelle scuole un lavoro pedagogico approfondito e di lungo respiro. Per far sapere ai bambini, fintanto che la loro mente è ancora aperta e disponibile, da cosa nasce il razzismo, qual è la sua storia e la sua disumana natura, quali tragedie ha causato. Dire e ripetere che la paura e l’ignoranza sono le due mammelle che nutrono questo flagello, il cui meccanismo è però facilmente smontato dall’intelligenza e dal sapere, attraverso il dibattito e il superamento dei tabù. Affrontare tutti i temi, e non chiudere gli occhi neppure davanti alle derive di chi sviluppa a sua volta forme di razzismo, per reagire alle stigmatizzazioni subite.
L’Assemblea nazionale ha riconosciuto «che le razze non esistono»: una dichiarazione di grande importanza. Ed è fondamentale ribadire questa verità che Albert Jaccard non ha mai cessato di insegnare. Esiste una sola razza umana composta da sette miliardi di individui, tutti simili ma al tempo stesso unici. Non esiste una razza nera, e neppure bianca o gialla. Evidentemente, di per sé quest’affermazione non basterà a liberarci dal razzismo. Ma quanto meno, è una verità capace di scuotere alcune certezze.
Spesso quando l’esasperazione raggiunge il colmo le derive si moltiplicano, e si parla di rigurgiti razzisti. Ma in realtà il razzismo è sempre in agguato nelle mentalità, pronto a riprendere fiato non appena cresce il malessere, e con esso la voglia di arroganza, per sentirsi vivi e soprattutto per considerarsi superiori agli altri.
La lotta contro il razzismo dev’essere quotidiana, in tutti i campi della società: perché non si tratta di una moda, bensì di uno stato mentale, che fa parte delle debolezza dell’uomo, dei suoi errori e cedimenti.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

La Repubblica 15.11.13

“In Campania avvelenata anche l’acqua” il rapporto-shock dei militari americani, di Dario Del Porto

«Bevi Napoli e poi muori. Acqua contaminata ovunque… Nessuna zona è sicura », titola l’Espresso nel numero in edicola questa mattina. In un lungo reportage, il settimanale ricostruisce nei dettagli lo studio sull’inquinamento nelle province di Napoli e Caserta realizzato dal comando della Us Navy del capoluogo campano tra il 2009 e il 2011. Un lavoro costato 30 milioni di dollari che ha prodotto risultati definiti «inediti e sconvolgenti» sui quali, adesso, esplode la polemica. Secondo gli esperti americani, in tutta la regione si dovrebbe usare acqua minerale «per bere, cucinare, fare il ghiaccio e anche lavarsi i denti». Le istituzioni locali però insorgono. Il Comune di Napoli replica che l’acqua erogata in città «risulta controllata e potabile, i dati delle analisi sono pubblici e consultabili sul sito dell’azienda Abc», mentre la Regione difende la qualità dei prodotti locali e si dice pronta ad azioni legali a tutela «dei cittadini, dei produttori e delle istituzioni».
Gli esami sono stati effettuati su acqua, aria e terreno in un’area di mille chilometri quadrati, con riferimento a 543 case e dieci basi statunitensi. Si parla di rischi per la salute legati soprattutto all’acqua, non solo in tre “zone rosse” intorno a Casal di Principe, Villa Literno, (il territorio dominato dal clan camorristico dei Casalesi) Marcianise, Casoria e Arzano, dove i rubinetti pescherebbero da pozzi contaminati. Presenterebbero forti criticità anche il 57 per cento degli acquedotti esaminati nel centro di Napoli e il 16 per cento nel quartiere Bagnoli, non a causa delle sorgenti ma delle cattive condizioni delle tubature.
Annuncia un esposto alla magistratura il consigliere regionale del Pse Corrado Gabriele, che chiede se sussistano le condizioni per ipotizzare il reato di procurato allarme e vietare l’uscita del settimanale. «Legga l’inchiesta prima di esprimere giudizi e addirittura chiedere l’intervento della magistratura », replica la direzione dell’Espresso, che poi aggiunge: «Il rapporto conclusivo è stato trasmesso da diversi mesi alle autorità italiane ma finora mai reso pubblico. Pensiamo che far finta di niente, prendersela con chi fa informazione invece che con chi dovrebbe impedire il traffico di rifiuti tossici gestito dalla criminalità organizzata può solo peggiorare la vita di chi vive in quelle zone e da anni sopporta le terribili conseguenze dell’inquinamento». Gli assessori regionali Giovanni Romano (Ambiente) e Daniela Nugnes (Agricoltura) argomentano: «Tutte le inchieste sono utili, altra cosa è l’uso che si presta a strumentalizzazioni contro una terra ricca di prodotti di qualità, risorse naturali e paesaggistiche ».
Sulla qualità dell’acqua a Napoli spende parole rassicuranti l’amministrazione comunale di Napoli guidata dal sindaco Luigi de Magistris, che sabato potrebbe partecipare alla manifestazione sulla Terra dei fuochi, l’area avvelenata dalle ecomafie dai roghi di rifiuti tossici. L’azienda Abc, spiega il Comune, «effettua quotidiani e numerosi controlli in diversi punti di prelievo del sistema idrico nelle diverse zone della città che avvengono parallelamente a quelli effettuati dall’Asl Napoli 1. I contatti tra Abd e Asl garantiscono quindi le cittadine e i cittadini in merito alla potabilità dell’acqua. La tutela della salute e dell’ambiente è una priorità di questa amministrazione», ricorda il Comune. Non entra nel merito dell’articolo dell’Espresso il governatore Stefano Caldoro, che però da Bruxelles ricorda «l’operazione trasparenza della Campania sulla Terra dei Fuochi: sono previsti controlli continui sui prodotti e faremo protocolli sull’assistenza sanitaria».

La Repubblica 15.11.13

“Le risorse per la crescita”, di Silvano Andriani

In un paio di settimane siamo passati dall’annuncio di una ripresa economica imminente in Europa al crescente timore di una deflazione, e poichè la crescita dei prezzi nell’area euro, e specie nei Paesi del sud Europa, è risultata prossima allo zero, segnale di stagnazione, la Bce ha portato i tassi di interesse ufficiali prossimi allo zero con la solita opposizione dei rappresentanti te- deschi. D’altro canto si dice che le risorse sono scarse e che perciò bisogna accontentarsi, per la crescita, di decimali.

Ma il discorso delle risorse può essere affrontato da un punto di vista assai diverso, quello tipico dell’approccio riformista: poiché vi sono in Italia quattro milioni di disoccupati ed una gran parte di capacità produttiva inutilizzata che rischia di essere distrutta, vuol dire che esistono grandi risorse per rilancia- re l’economia: compito della politica economica dovrebbe essere non di distruggere quelle risorse, come si sta facendo con le politiche di austerità, ma di mobilitarle ed indurre il sistema economico ad utilizzarle.

La politica monetaria può essere un gran- de strumento per quella mobilitazione: poiché il potere politico, non più limitato come in passato dal sistema monetario basato sull’oro, può ora creare moneta a volontà, esso dispone di una leva formidabile per aumentare la domanda interna e spingere in tempi di crisi il sistema economico ad utilizzare le risorse inutilizzate. Le banche centrali stanno già creando moneta e dove lo stanno facendo senza le remore imposte alla Bce, negli Usa ed in Giappone, le cose vanno meglio. Ma anche lì vi sono problemi: non c’è recessione, ma la ripresa economica è fiacca. I flussi di nuova moneta vengono trasmessi principalmente attraverso il canale bancario il che vuol dire che solo parte di essi va all’economia reale, una gran parte si dirige invece verso impieghi speculativi o al risanamento delle stesse banche e, per la parte che va all’economia reale, spesso, come succede in Usa, va ad accrescere attraverso mutui e credito al consumo l’indebitamento della famiglie che è stata la causa principale della crisi finanziaria e immobiliare. Perciò là dove si discute di politiche monetarie non convenzionali ci si riferisce alla possibilità che le banche centrali dirigano la nuova moneta direttamente verso l’economia reale o finanziando a costo zero investimenti pubblici e rottamando definitivamente l’idea della separazione tra politi- ca monetaria e bilancio pubblico, o alimentando fondi specializzati per investimenti in infrastrutture o per le imprese piccole e medie.

Ma, se vogliamo davvero dirci tutta le verità sulle possibilità di ripresa economica di lunga durata, bisogna trattare un tema che viene regolarmente rimosso: il nodo nel quale sono confluite tutte le contraddizioni del modello di sviluppo ora in crisi è la formazione in tutti i Paesi avanzati di un debito totale, somma di debito pubblico e di debito privato, di dimensioni tali che non hanno precedenti nella storia. Ed è la prima volta che in una situazione di eccesso di indebitamento il debito privato sopravanza e di molto il debito pubblico. Un eccesso di indebitamento comporta inevitabilmente un rischio di deflazione: il grande economista statunitense Irving Fisher spiegò la grande depressione degli anni 30 come una deflazione causata dall’eccessivo debito. In ogni caso il peso di un enorme debito è destinato ad ostacolare la crescita nel lungo periodo.

Ora si dà il caso che, grazie alle politiche fin qui seguite, a sette anni dall’inizio della crisi il debito totale non è diminuito anzi sta aumentando dappertutto; attualmente, nella media dei Paesi europei, esso è pari a tre volte e mezza il pil. La storia ci mostra diversi modi in cui situazioni di eccesso di indebita- mento sono state affrontate, più recentemente dopo le guerre mondiali quando, a causa della guerra, i debiti pubblici diventarono elevatissimi. C’è stato anche allora, ad esempio in Inghilterra, il tentativo di sgonfiare il debito pubblico con l’austerità: il risultati furono, come ci ha ricordato recentemente il Fondo Monetario Internazionale, venti anni di stagnazione economica, altissima disoccupazione ed un debito pubblico che salì dal 130% al 190% del Pil.
Le risposte che hanno funzionato sono tre e possono essere anche mixate. Prima, fare fallire le banche cancellando così buona parte del debito. Così avvenne in Italia negli anni 30. Le banche furono successivamente nazionalizzate per assicurare il finanziamento dell’economia. Il risultato fu che l’impatto della grande depressione sull’economia italiana fu allora inferiore a quello prodotto finora dalla crisi attuale. Seconda, ristrutturare i debiti. Recentemente questo è stato fatto per la Grecia e Cipro, ma solo quando la situazione era diventata disperata: l’esito resta per- ciò incerto e questa risposta comunque non attacca il debito privato. L’ultima risposta, quella data in tutti i Paesi che avevano parte- cipato alla Seconda guerra mondiale, consistette in una forte inflazione che, in quanto sospinse anche la domanda interna, trainò una forte crescita del Pil nominale ed una svalutazione del debito ed in una decina di anni riportò il debito a livelli normali. Questa soluzione colpì duramente i risparmiatori, ma aiutò i le nuove generazioni che ricostruirono i propri Paesi. Del resto tutte queste soluzioni colpiscono i risparmiatori, ma è poi possibile uscire da una situazione di eccesso di indebitamento senza distruggere una parte dell’eccessiva ricchezza finanziaria?
Non esistono soluzioni indolori, l’importante è non fare come se il problema non ci fosse.

L’Unità 15.11.13

“Processo alla Germania rimasta senza memoria”, di Barbara Spinelli

Conviene sempre guardarsi indietro e riscoprire da dove veniamo, quando una crisi economica, politica, anche mentale, tende ad avvitarsi e incancrenire. Conviene sapere come e perché ebbe inizio l’unificazione europea, dopo una guerra che devastò il continente. Come la Germania fu riaccolta dalle democrazie, rilegittimata, e potendo rialzarsi conobbe una formidabile ascesa economica. Come infine quest’ascesa ha toccato l’acme, nella grande crisi degli ultimi anni. Una crisi che minaccia l’Unione, la sua moneta unica, e perfino la sua pace interna.
Cominciò dopo il ’45 con la saggezza del vinto, e anche dei paesi vincitori. Il vinto fu saggio perché seppellì il morbo nazionalista, la dismisura del suo desiderio di dominio sull’Europa: ne scaturì quella che in Germania viene chiamata Gedächtnispolitik, politica della memoria. Le più svariate decisioni interne, e la grande apertura all’unificarsi dell’Europa, discendevano tutte dalla scelta, indefessa, di ricordare il passato, di farsi una nuova pelle, di abbandonare la sovranità nazionale assoluta che aveva distrutto gli Europei mettendo fine alla loro centralità mondiale. Ma ci fu anche la saggezza dei vincitori. Le insanie del primo dopoguerra non si ripeterono. Se l’obiettivo era la pace duratura fra i popoli, e la lotta alla povertà che di tale pace era essenziale presupposto, le vecchie politiche punitive inflitte al vinto andavano bandite. Messo a tacere, emarginato, John Maynard Keynes aveva inveito contro la strategia del castigo fin dalle trattative di pace a Versailles, nel 1919. Fu ascoltato solo nel secondo dopoguerra: a partire dal ’44-45 videro successivamente la luce gli accordi monetari di Bretton Woods, il Piano Marshall di aiuti all’Europa, la remissione dei debiti tedeschi nella Conferenza di Londra nel ’53 e, in concomitanza, il formarsi della Comunità europea.
Di lì bisogna ripartire, davanti a quel bivio siamo di nuovo: ma smarriti, senza più la bussola di storiche lezioni. In Germania soprattutto la memoria sembra come impazzita. Resta più viva che altrove (incomparabilmente più che in Italia) ma fortemente manomessa, quasi fosse mutilata. I dodici anni del nazismo sono costantemente ricordati, ma non come si scivolò nell’orrore, non come al disastro dell’inflazione s’aggiunse quello della deflazione, non la sapienza con cui se ne uscì, dopo il ’45.
Si scivolò nell’orrore per vari motivi (culturali, politici, psicologici) ma anche per condotte economiche folli. Alla crisi del ’29, gli ultimi governi di Weimar sfiniti dal trauma inflazionistico e dalle
riparazioni risposero — specie sotto il cancelliere Brüning, nel ’30-32 — con una pesante deflazione che impoverì ancor più la popolazione. Esattamente come accade oggi, i dottrinari dell’austerità puntarono tutto sull’esportazione, trascurando i consumi interni. Stremato, il paese che aveva dato aHitler il 18,3 per cento nel 1930 gliene diede il 33 nel ’32 e il 43,9 nel ’33, cadendo nelle mani del demagogo che prometteva lavoro, benessere e sangue. Deutschland über alles divenne il motto: la Germania sopra ogni cosa.
Tutto questo ebbe fine. Il primo Cancelliere del dopoguerra, Adenauer, scelse l’Europa e la pace con Francia di De Gaulle. Seguì, abbiamo visto, la lungimiranza dei vincitori: nel ’53, ben 65 Stati consentirono al taglio dei debiti di guerra tedeschi (fra essi Italia e Grecia, paese-cavia delle odierne politiche di compressione dei redditi), permettendo ai tedeschi lo straordinario miracolo dei decenni successivi. Sulla genesi di quel miracolo è caduto l’oblio, e lo stesso oblio spiega il perché di una leadership tedesca che di fatto esiste, ma non viene assunta con lungimirante solidarietà, oltre che con esigente senso di responsabilità.
In realtà alcune dottrine economiche dei vecchi tempi persistevano, e persistono. In particolare la dottrina cui vien dato il nome di “casa in ordine”: prima che scatti la cooperazione internazionale o sovranazionale, occorre che ogni paese metta a posto da solo i propri conti. Il cosiddetto
ordoliberalismo aveva messo le radici fra le due guerre nella scuola di Friburgo, fu sposato dopo il ’45 dal futuro cancelliere Erhard, e negli ultimi sei anni di crisi ha assunto le fattezze di un dogma. Sappiamo come i dogmi chiudano la mente alle alternative, nonché alle soluzioni. L’offensiva di gran parte delle élite tedesche contro la Banca centrale europea è l’effetto di questa dottrina, ancora sotterraneamente intrisa di nazionalismo.
Sono anni che a proposito dell’Europa ascoltiamo una leggenda che non ha più senso. L’Unione non sarebbe più quella degli esordi, quando la questione centrale, dopo il conflitto di trent’anni del 1914-1945, era per ogni cittadino la pace e la guerra, la dittatura e la democrazia. Ora non più così, guerre e dittature non sarebbero più concepibili. Inane leggenda: anche la crisi è una sorta di guerra, e bellicoso è oggi il rapporto tra le nazioni europee, fondato com’è su reciproci sospetti, su risentimenti, sulla dialettica letale fra delitto e castigo, fra colpevolizzazione e espiazione. In tedesco Schuld significa colpa, e anche debito.
Della colpa del debito gli Stati europei devono lavarsi — sostiene Berlino — prima che intervenga l’Europa con solidali piani comuni di salvataggi, e innanzitutto investimenti. Anche se il boom delle esportazioni, provenienti negli ultimi sei anni dalla Germania, ha contribuito grandemente al formarsi di bolle finanziarie nella periferia Sud, in ragione di ingenti flussi di capitali non compensati da adeguate importazioni. Lo spiega bene l’economista Ulrich Schäfer, sulla Sueddeutsche Zeitung del 13 novembre: le critiche di questi giorni all’irresistibile export tedesco — della Commissione europea, del Fondo monetario, del Sud Europa — «sono giustificate», e grave è la sordità tedesca. È un boom che in Germania s’accompagna a bassi consumi, al precariato che cresce, a gracili importazioni: dunque a un’incuria verso l’Unione. Gli errori commessi negli anni ’30 tendono a riprodursi.
Farel’Europarestauncaposaldo della politica tedesca, ma spesso è più
flatus vocis che realtà. Gli stessi accenni ripetuti a uno sviluppo federale dell’Unione sono spesso inconsistenti, anche se è vera la principale obiezione di Berlino: il cruciale ostacolo alla Federazione viene dalla Francia (destra e sinistra comprese), attaccata al dogma della sovranità politicomilitare come la Germania è attaccata ai dogmi economici.
Uscire dall’impasse è possibile se la memoria si rimette in moto. Se ancora una volta i paesi vinti — schiacciati dal debito — vengono sorretti da una cooperazione internazionale che si attivi durante, non dopo i “compiti a casa”. Se si opera perché i compiti mutino natura, e non si arrivi a guarire quando gran parte dei pazienti è già morta da tempo. È quel che Keynes temeva nel 1919. Lo stesso dovrebbe temere Berlino, oggi, per l’Unione che guida e non guida.
Come allora, l’Europa ha bisogno di un piano Marshall (lo propongono i sindacati in Germania) e di una conferenza sul debito delle periferie Sud, simile a quella che nel ’53 cancellò generosamente i debiti tedeschi. Ha bisogno che finisca l’età dei dogmi e dei finti sovrani nazionali, a Berlino come a Parigi. Perché in quei dogmi è il suo male; è l’origine della sua presente prigionia nella smemoratezza e nel peccato di
perfecta nolitio, di completa non-volontà. E ha bisogno di ripensare la pace e la guerra, sia dentro che fuori casa. Dentro casa ponendo termine alla semiguerra tra paesi santi e peccatori. Fuori casa smettendo di affidarsi a una pax americana che sta creando caos più che ordine, in una mondializzazione dove nessuno da solo si salverà. Ridivenire veramente Stati sovrani, nel nostro continente, è possibile solo se l’Europa la si fa sul serio.

La Repubblica 15.11.13