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“Bruxelles batte un colpo”, di Stefano Lepri

Allora la Commissione europea esiste! Ieri forse per la prima volta abbiamo assistito a un buon uso dei nuovi poteri che con la crisi sono stati affidati all’esecutivo guidato da José Barroso. Quel poco di governo comune indispensabile per tenere insieme l’area euro si realizza proprio così: rimproverare anche i Paesi più forti, non solo – come è troppo facile – quelli più deboli. Un aiuto importante, a dire il vero, lo avevano dato gli Stati Uniti, con le loro critiche alla Germania di due settimane fa. Ma molto altro andrà fatto, nei prossimi mesi, per frenare quelle dinamiche politiche profonde che stanno allontanando tra loro le tre maggiori nazioni dell’euro, Germania Francia e Italia.

I tedeschi stanno già reagendo con dispetto alle critiche della Commissione verso il loro enorme surplus nei conti con l’estero. «I Paesi deboli ci vogliono far diventare inefficienti come loro» diranno in molti. Nelle ultime elezioni, a stragrande maggioranza gli elettori hanno scelto partiti responsabili; ma a sviluppare discorsi irresponsabili sono gruppi di potere forti, presi da un nazionalismo economico di cui non si scorge bene l’obiettivo.

Il successo tedesco nell’export industriale è meritato. Ma ha accumulato in poche mani capitali ingenti che non vengono investiti dentro il Paese (i nazionalisti estremi danno anche di questo la colpa all’euro), anche perché il settore dei servizi è rigido e poco efficiente. Anni di moderazione salariale hanno reso i lavoratori ultrasensibili all’inflazione e alle tasse; facile fargli temere che la cooperazione con i Paesi deboli implichi altri sacrifici.

In realtà la Germania deve imparare a star meglio con sé stessa, a sfruttare appieno, a favore di tutti i tedeschi, le prestazioni straordinarie della sua industria. In quel senso vanno i consigli che gran parte del mondo esterno gli rivolge; e che non possono esser fatti passare come una richiesta di elemosina dal Meridione latino. A che serve guadagnare esportando, insomma, se non si sanno trovare sbocchi produttivi per tutti quei soldi? Prima della crisi li avevano messi nell’immobiliare irlandese o spagnolo, ora fuori dall’area euro, chissà dove nel mondo.

A Parigi, invece, la politica appare paralizzata. Il Paese cerniera tra forti e deboli dell’euro sarebbe il più adatto a indicare come andare avanti tutti insieme; non ne è capace. Certo, se l’economia della Francia avesse tutte le pecche che gli vedono i tedeschi, sarebbe al collasso da un pezzo; invece sta in piedi. Ma anche lì si moltiplicano i segni di un declino, sia pure a un passo molto più lento di quello italiano. Come è tipico della storia francese, il malcontento potrebbe esplodere tutto d’un tratto, a sorpresa.

Tutti e tre i Paesi sono esposti alla tentazione di trovare capri espiatori all’estero. Nel caso tedesco, il fardello dei Paesi deboli dell’euro; nel caso francese, le riforme sgradite che l’Europa suggerisce; nel caso italiano, i vincoli di bilancio imposti dalle regole del «Fiscal compact». In tutti e tre i casi si tratta di falsità che coprono gravi colpe interne. Nel nostro caso, il tetto del 3% al deficit lo avevamo violato in tutti gli anni dal 2001 al 2006, senza visibili benefici.

L’azione europea a carico della Germania serve a mostrare che di obblighi verso i Paesi vicini ne esistono per tutti. Ieri il governo italiano, nella sua fragile condizione politica, è riuscito a presentare la legge di stabilità 2014 come il minor male rispetto a tutte le possibili alternative. Ma chi da Bruxelles vede la bassa qualità degli emendamenti presentati può ben dirci che i vincoli europei ci stanno soprattutto impedendo di farci male da soli.

La Stampa 14.11.13

“I ricercatori e il piano flop. Tornati in Italia e maltrattati”, di Flavia Amabile

Quando Anthony Marasco ha sentito quella frase si è arrabbiato ancora di più. Già è furibondo per come l’Italia lo ha trattato, le parole della ministra dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza gli sono sembrate uno schiaffo dritto in faccia, e ha deciso di rispondere. «A differenza del passato – aveva spiegato la ministra parlando del suo nuovo programma per il rientro dei cervelli fuggiti all’estero – stavolta garantiremo il consolidamento dei ricercatori in arrivo dall’estero all’interno del sistema universitario. Non si può fare l’attrazione con i contratti a termine. Occorre rendere chi rientra professore, con una posizione decorosa e degna dello sforzo che ha fatto per tornare in Italia». Dopo averla letta, Anthony Marasco ha scritto una lunga lettera che è stata firmata da oltre 30 altri che, come lui, si erano fidati negli anni scorsi delle promesse dei governi italiani. Alcuni di loro pagando la scelta a caro prezzo. «Chi scrive – spiega Marasco – è parte di quel “passato” a cui si riferisce il ministro. Noi siamo fra coloro che, a vario titolo e in vario modo, si sono trovati senza garanzie e senza certezze a dover fare i conti con una realtà che cambiava di giorno in giorno. Alcuni di noi sono stati stabilizzati; altri per essere stabilizzati hanno dovuto accettare un abbassamento di rango e di stipendio; altri ancora sono dovuti ritornare all’estero o hanno dovuto cambiaremestiere. Per tutti, comunque, si è trattato di un inutile calvario, con atti formali presi all’ultimo minuto, leggi che cambiano improvvisamente, procedure farraginose e incerte. Fa piacere leggere che tutto questo ora non accadrà più. E non voglio avere alcun dubbio che davvero non accadrà più, ma mi sembra incredibile che un ministro ammetta che finora delle persone siano state trattate in modo non dignitoso e che le ignori come se fossero cadaveri. Noi non siamo cadaveri, siamo persone con delle vite che abbiamo messo in gioco perché ci siamo fidati.Non si pu ò voltare pagina facendo finta che non esistiamo». Esistono, invece, e porteranno per sempre su di loro i segni di questo tradimento. Come Carlo Caruso, italianista che l’Italia non vuole e che è tornato a lavorare in Gran Bretagna da cui era rientrato, uno che all’università di Durham oggi lavora con una borsa di studio da 130mila sterline. «Con altre università il mio curriculum è fonte di attenzione e di stima. In Italia mi sono sentito un ostacolo. Persino chi è a costo zero come noi che eravamo finanziati dal Miur, venivamo ostacolati solo perché esterni rispetto al corpo docente». Lo stesso vale per Anthony Marasco, Phd a Berkeley, specializzazione in Storia intellettuale, nel 2004 arriva all’universit à Ca’ Foscari di Venezia ad insegnare Letteratura Americana. «L’entrata è stata da rockstar: applausi, complimenti, tutti felici, tutti attorno. Quattro anni dopo l’uscita è stata da incubo. Persino la docente che mi aveva chiamato per partecipare al programma non mi salutava più per strada. Da risorsa ero diventato un problema». Dopo aver combattuto e vinto la battaglia per far stabilizzare anche i ricercatori come lui, alla Ca’ Foscari, che fino ad allora aveva rifiutato la sua stabilizzazione perché la legge non lo permetteva, ha scoperto che il suo corso non interessava più, che la letteratura americana poteva anche non essere insegnata. «In realtà poi hanno proposto il corso ad una persona con competenze completamente diverse. Non sarei dovuto tornare in Italia,ma di fronte alla promessa di un posto stabile perché non sarei dovuto rientrare?». E ora che ha moglie e figli, trovare di nuovo un percorso all’estero non è semplice, spiega. E quindi è qui, lavorando come può. «Non siamo dei martiri – scrive nella lettera alla ministra Carrozza -, ma persone in carne e ossa che avevano contato su un Programma ministeriale per poter continuare la propria ricerca in Italia. È troppo tardi? E perché mai? Tutti sanno – continua – a che cosa siamo andati incontro, e pochi sono disposti oggi ad accettare quella che è una vera e propria roulette russa. Sia coraggiosa signora Ministro, e metta fine a una stagione poco felice per aprirne una completamente nuova».

La Stampa 14.11.13

“Il Far West italiano delle università online”, di Fabio Tonacci e Corrado Zunino

Il Mooc è tra noi, portato qui — come Twitter, come il frisbee — dal Nordamerica. È il “Massive open online course”, e si traduce corsi universitari in rete. Le università di Harvard e Stanford, il Massachusetts Institute of technology, Georgetown in Washington Dc hanno corsi online. L’ottanta per cento degli atenei privati e pubblici degli Stati Uniti ha corsi online, spesso acquistati “chiavi in mano” dalle scuole più prestigiose. Si studia su Internet, si danno esami su Internet, si discutono tesi via Skype. Il materiale di studio è spesso creato ad hoc, le lezioni video sono di pochi minuti e focalizzate su un concetto o un argomento, a volte seguite da quiz per valutare la comprensione.
Le lezioni vengono poi integrate con scritti, diapositive, materiali presi dal web. Il fenomeno — che aiuta chi lavora, chi attende un figlio, chi vuole riprendere in mano un piano di studi abbandonato — tocca cinque milioni di persone nel mondo. Tre milioni negli Stati Uniti. In Francia, per paragone, solo il tre per cento delle scuole d’eccellenza ha corsi online. Francois Hollande e il suo ministro Geneviève Fioraso hanno appena varato un piano di sviluppo nazionale della eeducation ambizioso: Fun, si chiama, la sua piattaforma è basata sulla tecnologia Google e il finanziamento iniziale è di 12 milioni di euro.
Ci sono piattaforme nascenti o singoli atenei virtuali in Inghilterra, in Germania, in Spagna. L’esperto (lui francese) Gilles Babinet predice: «Tra qualche anno le università tradizionali saranno finite com’è successo con i monaci, custodi della conoscenza per secoli, dopo Gutenberg». Questa profezia converge con le speranze di Umberto Eco che, insignito della laurea honoris causa a Burgos, ha chiesto alle università di domani di «tornare a essere solo per le élite, come accadeva nella loro epoca migliore ». Le masse stanno virando su altre forme di conoscenza, ecco.
Il fenomeno Mooc galoppa nel mondo, nelle praterie che apre, per ò, ancora non si è vista la preparazione d’eccellenza. Sarà il futuro, ma, come molte cose online, non ha la profondità né la certificabilità del sapere tradizionale. La scuola centrale di Nantes già l’anno scorso ha servito milletrecento studenti via Internet, davano esami dalle loro camere in Canada, in Martinica, in Madagascar. In Europa undici Paesi europei, con l’aiuto della Commissione europea, hanno unito le forze per lanciare la prima iniziativa di corsi aperti e di massa: saranno quaranta, disponibili gratuitamente in dodici lingue (arabo compreso). Per l’Italia il partner di riferimento è la telematica Uninettuno di Roma. Chi chiederà la certificazione a fine corso, dovrà pagare tra 25 e 400 euro. «Nei prossimi cinque anni le università online conosceranno un’esplosione di iscritti, è necessario evitare che finiscano nelle mani sbagliate», dicono fonti del governo francese. La posta è alta. Le due piattaforme nordamericane — Coursera ed EdX, fondate da due professori d’informatica di Stanford e del Mit — hanno investito rispettivamente 43 e 60 milioni di dollari.
Solo la californiana Stanford ha attratto a sé 160 mila studenti da 195 Paesi del mondo (professional, pensionati, mamme con bambini). In 23 mila si sono laureati.
In Italia il fenomeno è cresciuto senza aiuti né ragionamenti di Stato, con l’autonomia anarchica tipicamente nostra. Le desolanti esperienze alla Cepu, con campioni del calcio e del motociclismo assoldati solo per pubblicizzare corsi a cui non avrebbero mai partecipato, hanno oscurato il fatto che per dieci anni nel nuovo settore della conoscenza c’è stata crescita anche da noi. Erano 1.500 gli iscritti nell’autunno 2003, oggi sono 44.856. La prima telematica, certificata dal ministro Letizia
Moratti il primo marzo 2004, fu la romana Guglielmo Marconi, oggi non a caso la più grande con 15.635 iscritti. La Marconi ha consentito all’attuale ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza di prendere l’abilitazione, poi lei ha proseguito la carriera di ricercatrice-docente- rettore alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. Si è laureato alla Marconi anche Carmine Schiavone, il figlio del camorrista Sandokan. Per dodici stagioni le telematiche hanno visto crescere gli studenti a una media del 46 per cento l’anno, ma nel 2012 c’è stata la frenata. Di più, la decrescita. Gli iscritti nella stagione 2012-2013 sono cresciuti un po’ (il 3,7%), ma le immatricolazioni al primo anno sono fortemente arretrate: in calo del 38,2 per cento. E le matricole telematiche rappresentano l’uno per cento di tutte le matricole universitarie.
Nell’anno 2013-2014 le università open fin qui accreditate — l’ultimo rapporto Anvur, l’Agenzia di valutazione universitaria, è sulla scrivania del ministro Carrozza per le considerazioni finali — sono dieci. Erano undici l’anno scorso. È uscita dal novero la Italian university line, il progetto più promettente perché nato per volontà di cinque atenei pubblici, naufragato sulla mancanza di progetti comuni, finanziamenti adeguati e un sincero interesse al destino dell’esperimento di e-learning. Sono stati soppressi i corsi del primo anno — carenza di insegnanti — proseguono per esaurimento dal secondo anno in su. A fine 2012 i valutatori di Anvur della
Iul dicevano questo: «Se il suo bacino potenziale è ampio, in pratica le iniziative fin qui prodotte hanno coinvolto un numero ristrettissimo di studenti». La napoletana Pegaso, 385 convenzioni e accordi di tirocinio stipulati (con l’Università del Molise, con atenei lituani, ucraini, albanesi, con Asl e ordini professionali), dal report di fine 2012 usciva male: «La crescita del numero di iscritti non è accompagnata da un adeguato livello della didattica e da criteri di selezione rigorosi per gli esami e la tesi finale. Rischia di produrre titoli legali il cui contenuto non è comparabile con quello delle altre istituzioni universitarie ». Tre videolezioni valgono un credito formativo. Un creditificio, utile a far crescere i bilanci dei fondatori e le carriere lavorative di chi, gi à con un mestiere, si iscrive all’università telematica. Nel 2011 i laureati Pegaso sono stati un’inspiegabile enormità, nel 2012 le immatricolazioni sono scese a diciannove.
Dei cinquanta nuovi corsi proposti dalle dieci telematiche private, nel 2013 l’Anvur ne ha valutati tredici bocciandone nove. Diverse accreditate hanno ricevuto giudizi trancianti, altre segnalazioni di conflitti d’interesse (le romane San Raffaele e Universitas mercatorum). Molte realtà online si stanno consorziando, o comunque stanno stringendo accordi con università tradizionali. La Giustino Fortunato di Benevento, il cui rettore è l’ex ministro Augusto Fantozzi e la cui specializzazione è Giurisprudenza, ha convenzioni su singole borse di studio
con l’Università di Bari e la spagnola Università de Cantabria. È lo stesso ministero a spingere ad affiancare l’e-learning italiano all’insegnamento tradizionale: ci sono 5 milioni di euro pubblici per le università che si federeranno con strutture accreditate per l’e-learning. La D’Annunzio di Chieti e Pescara lo scorso maggio ha votato l’assorbimento della telematica e boccheggiante Leonardo Da Vinci. Si sono astenuti il preside di Lettere e il direttore del dipartimento di Studi classici, timorosi dei debiti accumulati dalla privata.
Com’è naturale, anche gli atenei tradizionali italiani, stretti tra bilanci complicati, si stanno affacciando al mercato dei Mooc. Ventinove atenei su sessanta hanno inaugurato corsi online in proprio. Tutti, però, prevedono esami frontali e discussioni delle tesi da svolgere in sede. A Tor Vergata i due corsi di laurea in Ingegneria (online) valgono 180 crediti. Alla Ca’ Foscari di Venezia 436 docenti hanno prodotto e caricato sul sito d’ateneo 14 mila file didattici e gli studenti possono verificare con test di autovalutazione la loro preparazione evitando bocciature a sorpresa. Alla Statale di Milano e a Verona si usa il podcast (registrazioni riascoltabili con l’iPod): 18.000 gli studenti attivi. Alla Bicocca, Scienze umane per la formazione e Biostatistica, 19 mila studenti di ritorno si collegano tra le sette e le otto di mattina per studiare senza frequentare. Poi
vanno al lavoro.

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“Esami farsa e test copiati” un prof telematico accusa, di FABIO TONACCI
Dalle sedi esterne arrivano compiti d’esame copiati parola per parola dalle stesse mie dispense. Nemmeno si disturbano a cambiare le virgole. La metà dei testi è palesemente copiata. E il risultato qual è? Che chi studia alle telematiche si prende in poco tempo una laurea che ha lo stesso valore legale delle altre, ma con uno sforzo minimo rispetto alle università pubbliche». Chi parla non è un professore statale precario con dei macigni nelle scarpe da togliersi, né un ricercatore rancoroso e sottopagato. È un insegnante dispiaciuto da quello che vede accadere ogni giorno e da quello che ogni giorno i suoi studenti gli riportano. Amareggiato al pensiero di quello che potrebbero essere le università telematiche e che invece, in Italia, non sono. «Erano nate con un intento nobile: offrire un percorso di laurea a persone di una certa età e ai lavoratori che potevano studiare solo la sera. Ma qualcosa non è andato come doveva ».
Paolo, lo chiameremo così per garantirgli l’anonimato, consegna a
Repubblica la sua testimonianza. Un racconto dettagliato che parte dall’esperienza personale nell’istituto privato dove lavora da alcuni anni, l’Università degli Studi Niccolò Cusano di Roma, ma che si allarga a tutto l’universo delle telematiche. Partendo da quello che succede durante le sessioni d’esame. «Il decreto Profumo del gennaio 2012 ha s ì permesso lo svolgimento degli esami fuori sede, ma davanti a una commissione costituita ad hoc con il docente della materia. Invece la Unicusano manda i suoi docenti in poli esterni e centri d’ascolto sparsi in tutta Italia per sessioni in materie che non sono di loro competenza». A volte nelle commissioni ci sono membri esterni all’università o tutor. Così da alcune sedi, ad esempio Siderno, Agrigento, Palermo, Carmiano in provincia di Lecce, Cagliari, Catania, Catanzaro, Palmi e Caltanissetta, arrivano esami copiati parola per parola. Da Wikipedia, da Google, dalle dispense degli insegnanti, dicono gli studenti. «Qualche professore ci boccia, altri lasciano passare».
Ora, nessuno davvero pensa che questo accada solo lì. Lo studente impreparato che si affida all’ultimo minuto alle disperate e sofisticate “tecniche” per copiare, c’è sempre stato, e sempre ci sarà. Questo sistema di vigilanza, considerato troppo blando, viene rigettato dalla Unicusano, interpellata sul punto. «Non è assolutamente così, le commissioni sono composte secondo quanto prevede la norma e per i controlli nelle sedi esterne a volte ci affidiamo pure a militari della guardia di finanza in pensione». Resta da spiegare però la percentuale così alta di testi d’esame copiati. «Lo studente paga e viene trattato come il cliente che ha sempre ragione», riflette Paolo. La Unicusano — dati alla mano — è una delle università telematiche più frequentate d’Italia. Ha 11mila iscritti e la retta annuale è intorno ai 2.500 euro. Con la piattaforma multimediale consente di seguire lezioni videoregistrate e in videoconferenza, scaricare manuali e slides definite «vere e proprie mappe concettuali», fare test di autovalutazione. A questo, affianca l’insegnamento tradizionale nelle aule del suo campus, immerso in sei ettari di parco a Roma. Appoggiandosi a 37 docenti, tra cui 2 professori ordinari, 3 associati, 25 ricercatori a tempo indeterminato.
Alla Unicusano, però, la biblioteca non arriva a 300 libri e l’unico database è quello della Ebsco, per alcuni troppo piccolo per fare ricerche di un certo respiro. I ricercatori sono relegati a fare da tutor agli studenti. Alla Unicusano è prevista la loro presenza in sede di 120 ore mensili, quando la legge Gelmini ha fissato un tetto massimo di 350 ore annue. La questione è stata oggetto di un ricorso al Tar del Lazio, che ha dato ragione alla Unicusano. La quale nella classifica Vqr, Valutazione qualit à ricerca dell’Anvur, si è piazzata al sessantesimo posto, trentesima in alcune discipline. «Siamo l’unica telematica a fare ricerca », ricordano dal rettorato.
Rimane però il dubbio che laurearsi frequentando una telematica sia troppo più facile, quindi meno formativo, che in un ateneo tradizionale. Un corso online è fatto di dispense e video lezioni, che però spesso non aggiungono niente al testo scritto. Per un esame che vale dieci crediti formativi bisogna studiare in media un centinaio di pagine di dispensa preparata dal professore. Per laurearsi servono 180 crediti, quindi un iscritto a una telematica deve studiare circa 18mila pagine. «Ai miei tempi», conclude Paolo, «con il vecchio ordinamento, prima dell’introduzione del 3+2, un universitario studiava in media 180mila pagine. Dieci volte di più ». Con le telematiche, ti puoi laureare senza leggere mai un classico.

La Repubblica 14.11.13

Vaccari: «Prorogare le rate dei prestiti»

Il Pd presenta emendamenti in Senato: «Rimborsi gli interessi bancari e risarcimento dei danni». Assistenza anziani: corso gratuito per disoccupati. L’Agenzia per il Lavoro Umana e la cooperativa “Anziani e non solo” danno il via ad un progetto per la riqualificazione professionale di persone che abbiano perso il lavoro a seguito del sisma, in un settore dove la domanda è in rapida crescita: l’assistenza familiare. I corsi, completamente gratuiti, si svolgeranno a Mirandola, Carpi e Modena. Info: www.umana.it, alle amministrazioni dei Comuni interessati dal progetto o alla Cooperativa Anziani e Non Solo.
Prolungamento fino a cinque anni del periodo di restituzione del prestito fiscale alle imprese che hanno subito danni alle strutture e quelle con gravi danni al fatturato; allentamento per il 2014 del Patto di stabilità per i Comuni; disposizioni specifiche per la ricostruzione dei centri storici; risarcimenti anche per i danni ai beni mobili delle imprese, per le scorte danneggiate e i costi sostenuti per la delocalizzazione temporanea. Sono alcuni dei provvedimenti contenuti nel nuovo “Pacchetto Emilia”, emendamenti alla Legge di stabilità che i senatori Pd Stefano Vaccari e Claudio Broglia hanno depositato nei giorni scorsi. Alcuni provvedimenti erano già stati presentati anche in passate occasioni, ma non accolti altri sono nuovi. Come nel caso, ad esempio, di procedure semplificate per i condomini che le banche possono attuare nel riconoscimento di finanziamenti agevolati per la ricostruzione: la normativa antiriciclaggio impone, infatti, che tutti i condomini si presentino in banca per il riconoscimento diretto, con l’emendamento si potrà avere un interlocutore unico. Oppure ancora nel caso del personale assunto in modo temporaneo: occorre che i contratti siano prorogati al 2015. «Tra le norme più attese – spiega il senatore Vaccari – ci sono quelle sui prestiti fiscali. Un emendamento prevede per le imprese che hanno subito danni alle strutture che il pagamento della prima rata del 31 dicembre venga prorogata al 30 giugno e la restituzione del finanziamento venga prorogata di altri tre anni. L’emendamento sulle imprese che hanno subito gravi danni al fatturato, invece, prevede che il pagamento della prima rata al 30 giugno 2014 venga prorogata al 30 giugno 2015 e la restituzione del finanziamento slitti di ulteriori tre anni rispetto alla durata originaria». Gli emendamenti riguardano anche i mutui. Per quanto riguarda le famiglie, Errani verrà autorizzato a stanziare fondi per il pagamento dei maggiori interessi maturati a seguito della sospensione delle rate, ma i due senatori non parlano di nuova sospensione per le case tuttora inagibili. Un differimento nel pagamento delle rate è previsto invece nel caso di mutui concessi dalla Cassa depositi e prestiti a Comuni e Province.

“Il centrosinistra finisce di regolare i conti in libreria”, di Francesco Cundari

C’è qualcosa di antico nei reparti novità delle librerie che in questi giorni si riempiono di un’ampia produzione storico-polemica sul centrosinistra. Anzi, antichissimo: combattivi pamphlet, polemici libri-intervista, scioccanti libri-verità in cui, direttamente o indirettamente, ora facendo nomi e cognomi ora lasciandoli intuire, a volte mettendoci la faccia e altre volte schermandosi dietro quella dell’intervistatore, del retroscenista o del portavoce, i principali dirigenti del centrosinistra ricostruiscono le vicende che li hanno visti protagonisti.
Già i titoli dicono molto. Se ad esempio il libro firmato dal portavoce di Pier Luigi Bersani Stefano Di Traglia, insieme con la direttrice di Youdem Chiara Geloni, si intitola Giorni Bugiardi («Primarie, elezioni, Quirinale. Così poteva cambiare l’Italia», Editori Riuniti), il libro di Sandra Zampa, ex portavoce di Romano Prodi e oggi parlamentare del Pd, restringendo il campo dell’indagine alla sola vicenda del voto sul presidente della Repubblica, si intitola I tre giorni che sconvolsero il Pd (Imprimatur editore). Più ampio invece l’arco temporale preso in esame dal giornalista dell’Espresso Marco Damilano, in un saggio in cui parlano, rievocano e si punzecchiano abbondantemente a vicenda lo stesso Prodi, Walter Veltroni e Massimo D’Alema. Titolo: Chi ha sbagliato più forte («Le vittorie, le cadute, i duelli dall’Ulivo al Pd », editori Laterza). D’altra parte Massimo D’Alema la sua versione dei fatti, a partire da ancora prima, e cioè dai tempi di Achille Occhetto, l’aveva già consegnata al libro-intervista con Peppino Caldarola dal titolo Controcorrente («Intervista sulla sinistra al tempo dell’antipolitica», editori Laterza), mentre lo stesso Occhetto, dal canto suo, proprio in questi giorni è in libreria con La gioiosa macchina da guerra («Veleni, sogni e speranze della sinistra», Editori riuniti). Quanto a Veltroni, un libro-intervista del genere, dal titolo Rivoluzione democratica, qualche anno fa era stato annunciato e già messo in prenotazione presso le librerie. Su internet se ne trova ancora il lancio promozionale, che descrive un libro dedicato alla «storia di questi anni travagliati, dal primo governo Prodi alle ultime elezioni regionali… dalla nascita del Pd con la sfida del Lingotto alle elezioni del 2008, alle ragioni delle dimissioni che hanno interrotto un progetto nuovo per la politica italiana».
Questo del progetto interrotto, del sogno infranto, del grande cambiamento fermato all’improvviso è in effetti il tema di fondo che unisce tutti questi libri, riusciti e meno riusciti, più ambiziosi e più occasionali, pubblicati e non. Ciascuno di essi, in un modo o nell’altro, accredita l’idea che in fondo la grande speranza di un governo di centrosinistra che avrebbe potuto cambiare l’Italia sia stata tradita dalle divisioni interne si tratti della svolta di Occhetto del ’91, del governo Prodi del ’96, del governo D’Alema del ’98 o di un ipotetico governo Veltroni che avrebbe dovuto essere il frutto più maturo della «nuova stagione» iniziata con le primarie del 2007 salvo non concordare tra loro, ovviamente, sulla precisa identità del traditore (che Occhetto parrebbe scorgere in D’Alema, Prodi a seconda dei momenti in D’Alema in asse con Franco Marini oppure in Veltroni in combutta con Goffredo Bettini, Veltroni e D’Alema, a seconda di quegli stessi momenti, l’uno nell’altro in combutta con Prodi). Nessuno sembra invece prendere in considerazione l’ipotesi che non siano le divisioni interne ad avere impedito di realizzare quel grande progetto politico che ciascuno di loro era convinto di incarnare, ma piuttosto il contrario. Che le divisioni siano cioè non la causa, ma la conseguenza dell’impotenza politica.
Questa chiave di lettura tutta incentrata su moventi e scelte personali dei singoli dirigenti ha alimentato nel tempo, dentro e intorno al centrosinistra, una sorta di autogrillismo interiore (che forse non ha avuto scarsa influenza nella diffusione e nel successo del grillismo esteriore). Anche qui, insomma, l’impressione è che le reciproche accuse e sospetti, le mille teorie del complotto e la continua denuncia di traditori e quinte colonne nelle proprie file, siano anzitutto un alibi. Forse anche perché alla fine è meno doloroso accettare di prendersi la propria parte di accuse, nel mare delle reciproche recriminazioni, piuttosto che riconoscersi tutti insieme in una comune sconfitta. E accettare l’idea che il grande cambiamento incarnato di volta in volta da ciascuno di loro, dai loro governi o dalle loro leadership, non fosse semplicemente abbastanza grande per farcela da sé, per convincere i riottosi e intimidire i rivali, per aggregare il consenso sufficiente a mettersi al riparo da ogni manovra e da ogni tradimento.
Nella sfilata di spettri che sembra popolare in questo periodo le notti di dirigenti, militanti e semplici elettori del centrosinistra si fatica a distinguere il fantasma di Banquo dall’ombra di Macbeth, vittime e carnefici si confondono continuamente, fino a risultare indistinguibili. E questa è probabilmente la ragione per cui all’estero anche gli osservatori più esperti faticano a seguire il dibattito: perché non parla di politica.

L’Unità 14.11.13

“La nostra ricchezza. L’immigrato fa bene ai conti”, di Adriana Comaschi

Oggi piccola imprenditrice, ieri bambina-soldato in fuga dalla guerra civile. Azeb Gebrewahid ne ha fatta di strada, in tutti i sensi. Da Adua a Bologna, passando per Karthoum e la Svizzera per approdare in Italia come richiedente asilo. Quando è sbarcata a Milano non aveva nulla, neanche una giacca per proteggersi dal freddo di dicembre, nessun appoggio. Ora ha una sua ditta di pulizie, tre dipendenti assunti e diversi stagisti. Italiani e stranieri.
Viene da pensare anche a lei, oggi che l’ampio dossier statistico sull’immigrazione 2013, a cura del Centro studi IDOS, certifica al di là di luoghi comuni e dibattiti pregiudiziali che gli immigrati sono una ricchezza per il Belpaese. Nel dettaglio: nel 2011, lo Stato italiano tra contributi e tasse ha incassato da cittadini stranieri 13,3 miliardi, a fronte di 11,9 miliardi di spese sostenute per loro. Il che dà un saldo netto di 1,4 miliardi. Spese peraltro concentrate sulla gestione delle emergenze, tra Cie («non devono essere una pena per gli irregolari», ha commentato proprio ieri il ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge) e centri di accoglienza.
DA BIMBA SOLDATO A IMPRENDITRICE
Un punto fermo importante, in tempi di crisi, che rende giustizia a tanti lavoratori arrivati da lontano che qui hanno deciso di mettere radici. Oltre 2,3 milioni, in aumento anche sul totale degli occupati (sono il 10%). In gran parte dipendenti, soprattutto nel terziario (62%), ma si contano anche circa 200 mila autonomi. Leggi artigiani, commercianti, piccoli imprenditori che magari da zero mettono su ditte in grado di creare altro lavoro. Come nel caso della signora Azeb, etiope di origine ma ormai cittadina italiana, da oltre vent’anni in questo paese che, dice, «sento come mio perché è in Italia che è iniziata la mia vita civile, è come se fosse rinata. Sono cresciuta in mezzo alla guerra, a 12 anni mi hanno arrestata perché i mie fratelli combattevano, sono diventata anch’io un soldato per 9 lunghi anni. La mia fortuna è di essere rimasta ferita, mi hanno operata in Sudan. E da lì ho deciso di fuggire». Una volta riconosciuta come rifugiata ha cominciato a fare lavoretti, poi cinque anni da operaia specializzata in una ditta di pulizie. Fino all’«idea pazza di mettermi in proprio. Ho usato tutti i mie risparmi, ho ottenuto un prestito, hanno creduto in me e questo è stato importante». Nel giro di pochi anni la sua Sas assume un ragazzo nigeriano, uno domenicano e uno italiano, «ora sto per prendere un signore del Laos, ci sono tutti i continenti» scherza. Poi c’è chi si ferma per un anno e mezzo, come una ragazza italiana dopo il diploma, ci sono persone svantaggiate inserite con stages, «anche questa è una soddisfazione». La sua e altre sono storie di «Quasi italiani», che il docente Romano Benini ha riunito in un volume (Donizelli) dopo averle raccolte sul territorio tramite la Cna, l’associazione degli artigiania che cura anche la parte sulle imprese straniere del dossier Immigrazione. Storie di chi ha una presenza sul territorio consolidata da anni ma il principio è sempre quello, «capire detta Fosco Corradini, responsabile immigrazione Cna che si deve parlare di immigrazione come opportunità e non come problema». A maggior ragione visto quanto illustrato dal dossier Unar sul rapporto costo/benefici per la collettività. «Questi lavoratori continua non rubano il posto agli italiani, anzi coprono fette di mercato che altrimenti resterebbero scoperte». In agricoltura come nelle pulizie. «La crisi non ha colore, colpisce tutti, ne possiamo uscire solo uniti» commenta Kyenge.
NUOVI NATI E DISCRIMINAZIONI
Ed ecco alcune delle cifre più significative del rapporto. La popolazione straniera cresce ancora, nonostante il calo dei flussi di entrata dovuto alla crisi. I residenti stranieri arrivano nel 2012 a 4,3 milioni, pari al 7,4% della popolazione complessiva, 3,7 milioni sono i non comunitari: in tutto 5,2 milioni se si contano anche ricongiungimenti familiari e nuovi nati. Che sono quasi 80 mila (sempre nel 2012), ovvero il 14,9% di tutte le nascite, a cui si aggiungono i 26.700 figli di coppie miste. E a proposito di matrimoni tra cittadini italiani e stranieri, nel 2011 hanno toccato quota 18 mila, l’8,8% sul totale degli sposalizi. Gli studenti stranieri iscritti allo scorso anno scolastico sono invece 800 mila, l’8,8% del totale che sale al 9,8% nella scuole dell’infanzia e nella primaria: il 47% di loro è nato in Italia (l’80% nelle materne). Tornando al mondo del lavoro, sono quasi mezzo milione (477.519) le imprese con un titolare o più soci stranieri, per un valore aggiunto stimato si noti bene in 7 miliardi. Una realtà con una crescita annuale del 5,4%, nonostante il maggior costo degli interessi sui prestiti.
Note dolenti si registrano ancora sul fronte della discriminazione, «molto forte nello sport e nell’accesso al lavoro» avverte Kyenge. E nell’accesso alla casa: gli affitti incidono per il 40% sui redditi degli immigrati (per meno del 30% su quelli degli italiani), si trovano con più difficoltà e sono più spesso in nero. A scuola poi pochi i corsi di alfabetizzazione, mentre il liceo rimane un miraggio: l’80% degli alunni stranieri viene ‘orientato’ verso istituti tecnici e professionali.

l’Unità 14.11.13

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Il libro racconta quel valore aggiunto, sociale ed economico
di Oreste Pivetta

Scrivere di immigrazione è ormai narrare di una attualità che dura almeno da un quarto di secolo e chissà quanto ancora durerà, vissuta nel segno di un’emergenza continua dai toni più o meno acuti. Accogliamoli tutti, Il Saggiatore, di Luigi Manconi (sociologo e parlamentare, presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani del Senato) e Valentina Brinis (ricercatrice presso l’associazione ABuonDiritto Onlus) prova a mostrare la via per superare la sindrome dell’allarme o dell’allarmismo perenni: sembra una provocazione, ma leggendo centoventi pagine diventa la sintesi di un modo ragionevole, antiretorico nel bene e nel male, persino utilitaristico, per discutere di una vicenda umana vissuta a volte come tragedia, temuta come a un’invasione, uno tsunami, sempre giudicata un problema, con un unico costante intatto interrogativo: «Che fare?». Talvolta la risposta è stata semplice: non fare nulla, fidare nella naturale osmosi tra i tanti della società italiana e i pochi delle nuove comunità straniere. Altre volte la misericordia o la solidarietà hanno ispirato l’iniziativa persino di un ministro o di un amministratore, più spesso di una parrocchia o di una associazione di volontari, seguendo le tradizionali “subculture” del paese, quella del cattolicesimo sociale, quella del socialismo democratico e quella liberale, tutte e tre indisponibili ad assecondare pulsioni xenofobe e tentazioni razzistiche. Altre volte ancora la risposta è stata di negazione, di rifiuto, con un atteggiamento che è stato ed è retaggio di razzismo ma anche sintomo dell’opportunismo di chi, da Bossi a Maroni a Grillo, cerca consenso elettorale favorendo sentimenti diffusi di chiusura, più forti quanto più acute sono le tensioni sociali. In ogni caso, tra indifferenza, solidarietà, pietà, ostilità, mai si sono imboccate in modo risoluto le strade che Manconi e Brinis indicano: quella dell’utilità, quella dei diritti. Perché non esistono condizioni di emergenza che legittimino la sospensione del diritto, d’altra parte una società avveduta dovrebbe riconoscere che l’immigrazione è utile. Se ne sono accorti migliaia di anziani e migliaia di figli che non se la sarebbero potuta cavare senza badanti peruviane, filippine, ucraine, moldave polacche. Si dovrebbe fare un passo avanti, perché un paese di vecchi, immobile, stanco e sfiduciato, ha bisogno, per crescere, di quella forza, intellettuale e fisica, di quella forza dinamica, vitale, ambiziosa rappresentata dagli immigrati. Accogliamoli tutti ragiona sulle responsabilità della comunità internazionale. E ha un senso solo se il soggetto di quest’esortativo è «noi europei, noi occidentali », capaci di esprimere una politica per la gestione razionale del fenomeno e l’integrazione degli stranieri in un’ottica di lungo periodo. Ma c’è altro, rispetto al nostro «che fare?», ed è importante perché è di oggi ed è tra noi. Elencando alcune vicende e luoghi come Surigheddu, in Sardegna, Treviso, Badolato, Novellara, vicende di lavoro, di nuovi lavori, di cooperative, piccole aziende (molte in agricoltura), tra contadini, mungitori, donne delle pulizie, falegnami, imbianchini, casi virtuosi di proficua integrazione, che hanno ridato vigore ad imprese sull’orlo del tracollo o persino già defunte, a campagne desertificate, a cascine abbandonate… Manconi e Brinis dimostrano la vitalità di una strategia dei piccoli passi, anche di un operare concreto in attesa di grandi leggi e di grandi interventi, di un operare con fantasia cogliendo necessità e ricchezze e particolarità di un territorio e un’urgenza del fare, propria di chi arriva, di chi ha bisogno e non può aspettare, che diventa vantaggio economico per la comunità, nel rispetto ovviamente dei diritti, che è valore per tutti, italiani e stranieri.

l’Unità 14.11.13

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Quel tesoro che viene da fuori. Era compito della politica seria evitare la «guerra dei poveri» e l’aumento dei sentimenti razzisti, di Nicola Cacace

GLI IMMIGRATI COSTANO TROPPO ALL’ITALIA? FALSO. SOPPESANDO COSTI E BENEFICI I «NUOVI ITALIANI» PORTANO IN DOTE ALLE CASSE DELLO STATO UN GRUZZOLO DI UN MILIARDO E MEZZO DI EURO. È quanto emerge dal Dossier statistico 2013 del Centro Studi e Ricerche Idos, in collaborazione con l’Unar, la più completa rassegna documentata su un tema su cui le bugie propagandistiche sono
più abbondanti delle analisi serie.
Rispetto agli introiti di 13,3 miliardi che i 4 milioni di lavoratori stranieri danno allo Stato per contributi previdenziali e tasse ci sono 11,9 miliardi che lo Stato spende più per interventi di contrasto all’immigrazione che per le politiche di integrazione. E che lo Stato spende male per il «fenomeno immigrati» tutto il mondo lo ha visto anche nel recente dramma di Lampedusa con 350 morti annegati, lasciando i 200 superstiti giorni e giorni al vento ed all’acqua senza un minimo di protezione. Sarebbero bastate un po’ di tende della protezione civile, a costo zero, per non mostrare al mondo l’indegno spettacolo dei superstiti per giorni e giorni mal riparati sotto rifugi improvvisati e precari. Ma questo è l’eterno discorso dell’inefficienza della nostra pubblica amministrazione e, va detto, anche dei politici che la dirigono, spesso più attenti a mostrare lacrime che a promuovere interventi efficaci e anche meno costosi.
Le caratteristiche dell’immigrazione in Italia sono: a) la sua crescita impetuosa nell’ultimo decennio, da 1,5 milioni a 5 milioni; b) l’ingresso degli stranieri nei lavori più umili, mal pagati e pur necessari, favorito dal buco demografico italiano, cominciato ormai 35 anni fa, quando improvvisamente le nascite si sono dimezzate da un milione a mezzo milione l’anno. Ed oggi la presenza degli immigrati in tutti i settori è tale che se improvvisamente domani partissero o scioperassero, il Paese letteralmente fallirebbe. Altro che 1,5 miliardi di contributo netto allo Stato, le perdite di ricchezza ammonterebbero a decine e centinaia di miliardi! Andrebbero in crisi interi settori, dall’agricoltura all’allevamento, con quasi 200mila lavoratori stranieri alla pesca specie d’altura con 10mila stranieri, dalle costruzioni con almeno 300mila edili all’industria manifatturiera pesante (fonderie, concerie, carni, etc.) con più di 300mila stranieri, dal commercio, alberghi, pizzerie e ristoranti con 500mila stranieri alla sanità con almeno 30mila stranieri, dai trasporti con quasi 100mila stranieri ai servizi domestici con quasi 2 milioni di colf e badanti.
Un conto economico più completo di quello contabile del Dossier statistico 2013 porterebbe a stimare in molte decine di miliardi, almeno 100 (e non 1,5 miliardi… ), il contributo reale che gli immigrati apportano al Paese. A questo riguardo va detto che il successo crescente di partiti xenofobi e anti-euro in Europa, la stessa posizione anti immigrati di Grillo, derivano anche dai modi sbagliati ed incolti con cui la sinistra affronta il tema. Prendiamo un esempio, quanti italiani, davanti al «casino» mediatico dei drammatici sbarchi dall’Africa, sanno che dei 4 milioni di immigrazione netta in Italia del decennio 20002010, appena 25mila sono venuti dal Mediterraneo, poco più del 5%?
Alla Lega e ad altri xenofobi che parlavano di «invasione dall’Africa» nessun politico, nei tanti inutili talk show ha saputo buttare in faccia le cifre vere. Adesso il flusso complessivo di immigrazione si è dimezzato, da 400mila a 200mila l’anno, per la crisi in atto e per le nostre cattive politiche migratorie, attente più a criminalizzare che a integrare, più a rendere difficile l’ingresso a mestieri e professioni necessarie allo sviluppo che a favorirlo. E nessuno ha spiegato agli italiani come fece Elmut Kohl ai tedeschi in una famosa seduta del Bundestag che «se domani partissero tutti gli stranieri il Paese si fermerebbe, dagli ospedali alle fabbriche, dagli alberghi alla nettezza urbana, dai trasporti al commercio, dalla agricoltura alla pesca». Era compito della politica seria, soprattutto della sinistra, evitare la guerra dei poveri e l’aumento dei sentimenti razzisti, ahimé in atto, spiegando meglio alla gente che con la disoccupazione e la pesante crisi in atto gli immigrati non c’entrano neanche un poco. Anzi, se partissero, interi settori fallirebbero!

L’Unità 14.11.13

Archeologia, on.Ghizzoni venerdì alla Borsa del turismo di Paestum

Farà il punto sull’iter legislativo della proposta di legge sulle professioni dei beni culturali. La parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni parteciperà venerdì 15 novembre alla Borsa del turismo archeologico che si tiene a Paestum. E’ stata invitata per fare il punto sull’iter legislativo della proposta di legge sulle professioni dei beni culturali di cui è relatrice: nei prossimi giorni, infatti, sarà avanzata la richiesta di poter procedere in Commissione in sede legislativa, senza dover passare dall’Aula. “Una richiesta che – spiega l’on. Ghizzoni – se accolta, consentirà di dare speditamente un riconoscimento giuridico a una vasta gamma di professioni che, in questo momento, sono confinate nell’indeterminatezza legislativa”.

Il mondo del turismo archeologico si dà appuntamento a Paestum dal 14 al 17 novembre per la 16esima edizione della Borsa mediterranea del turismo archeologico, il più grande salone espositivo al mondo del patrimonio archeologico, luogo di approfondimento e divulgazione dei temi legati al turismo e ai beni culturali. La parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni, vicepresidente della Commissione Cultura della Camera dei deputati, è stata invitata a partecipare alla sezione dedicata agli “Stati generali dell’archeologia”, che si terrà al Museo di Paestum, venerdì 15 novembre, per fare il punto sulla proposta di legge sulle professione dei beni culturali di cui è relatrice. Nei prossimi giorni, infatti, sarà avanzata la richiesta di poter procedere per il provvedimento in Commissione in sede legislativa, senza dover passare dall’Aula. “Una richiesta che – spiega l’on. Ghizzoni – se accolta, consentirà di dare speditamente un riconoscimento giuridico a una vasta gamma di professioni, fondamentali per la tutela del nostro patrimonio artistico e culturale, fino ad ora confinate nell’indeterminatezza legislativa”. Con la nuova normativa si dà riconoscimento giuridico a una serie di professionisti nel campo dei beni culturali quali archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi, restauratori di beni culturali e collaboratori restauratori di beni culturali, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell’arte.