Latest Posts

“Alunni stranieri, non è più boom. E la maggioranza è nata in Italia”, di Salvo Intravaia

Cambia la presenza degli alunni stranieri nelle scuole italiane. Il boom dei primi anni del terzo millennio è un semplice ricordo e gli alunni stranieri nati in Italia si apprestano al sorpasso sui coetanei nati all’estero. Il fenomeno, che ha fatto tanto discutere in passato per l’approccio ideologico di alcune formazioni politiche, si sta modificando. A certificarlo è l’ultima pubblicazione del ministero dell’Istruzione sugli “Alunni stranieri nel sistema scolastico italiano”, con dati aggiornati all’anno scolastico 2012/2013.

I 786.630 alunni che siedono tra i banchi di tutte le scuole italiane rappresentano l’ennesimo record per il nostro Paese: più 30.691 unità rispetto all’anno scolastico precedente. Ma, questa volta, l’incremento (più 4,1%) è il più piccolo degli ultimi 10 anni. Agli inizi del nuovo millennio, l’incremento annuo si aggirava attorno al 15%. Tanto che alcuni studiosi prevedevano il ‘sorpasso’ nell’arco di pochi decenni. Ma i dati forniti da viale Trastevere sembrano andare in direzione diversa.

E nell’arco di pochissimi anni la popolazione scolastica di origini straniere potrebbe assestarsi attorno al milione di alunni. Oggi, gli allievi non italiani rappresentano quasi il 9%. Con punte prossime al 10% nella scuola dell’obbligo. Ma la loro presenza è concentrata soprattutto nelle regioni settentrionali dove studiano due alunni stranieri su tre. Mentre al Sud la presenza di stranieri nelle classi è residuale. Anche conteggiando in percentuale al totale degli alunni – italiani e non – emerge la concentrazione nelle regioni del Nord.

È l’Emilia Romagna, dove 15 alunni su cento sono censiti come stranieri, a detenere il record. Mentre in Campania si registra la minore presenza di non italiani tra i banchi di scuola: appena il 2%. Ma spesso si tratta di alunni che, pur avendo genitori stranieri, risultano nati sul suolo nostrano. La quota di alunni stranieri, solo perché in Italia vige lo ius sanguinis, nel 2012/2013, era pari al 47,2%. In altre parole, se nel nostro Paese venisse introdotto lo ius soli quasi metà degli alunni stranieri – oltre 371mila – acquisirebbero di diritto la cittadinanza italiana, facendo crollare la presenza di stranieri nelle nostre scuole.

E anche se gli oltre 786mila alunni stranieri provengono da più di 200 stati sparsi in ogni angolo del pianeta, la presenza italiana è ben definita: l’81% degli alunni stranieri proviene dai 19 stati (Romania, Albania, Marocco, Cina, Moldavia, Filippine, India, Ucraina, Ecuador, Peru, Tunisia, Pakistan, Macedonia, Egitto, Bangladesh, Senegal, Nigeria, Polonia, Ghana) che registrano una presenza superiore alle 10mila unità. Mentre il 45% delle presenza è di origini rumena, marocchina e albanese.

La Repubblica 17.11.13

“Due giorni intensi che non potrò dimenticare”, di Eugenio Scalfari

La scissione del Pdl e la nascita di quella che noi chiamiamo la destra repubblicana rappresenta una novità di grandissimo rilievo nel panorama della politica non soltanto italiana ma anche europea.
Il governo Letta ne esce rafforzato perché scompare la presenza di Berlusconi e del berlusconismo dalla maggioranza. La prima conseguenza riguarda l’essenza stessa del governo Letta- Alfano. Finora infatti si trattava d’una situazione di necessità anche se, con l’ipocrisia che a volte è politicamente indispensabile, molti si ostinavano a chiamarlo di “grandi intese”. Ma dopo la scissione Letta- Alfano consente anche quelle intese per realizzare le riforme e gli interventi che la crisi europea richiede.
I partiti che ora compongono la nuova maggioranza senza Berlusconi debbono tener conto di questa novità e comportarsi di conseguenza. Soprattutto il Pd che ora è la maggiore forza politica non solo alla Camera ma anche al Senato.
Non mi diffonderò più a lungo su questo tema del quale da tempo il nostro giornale auspicava la realizzazione. In un futuro ancora lontano anche in Italia una destra moderata e liberale disputerà il potere con una sinistra liberal-socialista; ma nel frattempo entrambe sono impegnate insieme per riformare lo Stato e l’assetto europeo all’insegna del lavoro e dello sviluppo
economico.
* * *
Ora però il tema di questo articolo sarà un altro. Accadono a volte per puro caso delle giornate particolarmente intense, punteggiate da incontri che ti emozionano e ti suscitano una scia di ricordi e di pensieri che dal passato si riflettono sul presente e disegnano un ancora incerto futuro.
A me è accaduto tra giovedì e venerdì, a Roma prima e poi a Milano.
A Roma giovedì mattina ero, insieme a molte altre persone, al Quirinale dove si è svolto l’incontro ufficiale, ma in parte anche riservato, tra il presidente Napolitano e papa Francesco. Non si è parlato certo di teologia, ma di politica, in pubblico e in privato.
Il Concordato – del quale Napolitano ha ricordato l’inserimento nella nostra Costituzione che fu opera dell’Assemblea Costituente con il voto favorevole della Dc e del Pci e quello contrario dei socialisti, del Partito d’azione e dei liberali – assicura la leale collaborazione tra lo Stato (laico per definizione) e la Chiesa cattolica nelle loro due distinte sfere della politica e della religione.
Questa situazione dura dal 1947 ma c’è da qualche mese un’importante novità: la Chiesa non prenderà più iniziative “parapolitiche” né tramite la Segreteria di Stato vaticana né attraverso la Conferenza episcopale italiana.
Di fatto questo non era mai accaduto per secoli e secoli, anche dopo la caduta del potere temporale verificatasi il 20 settembre del 1870 con la conquista di Roma da parte dei bersaglieri. Il potere temporale era rinato sotto altre spoglie.
Ora Francesco ha messo il fermo. La Chiesa predica il Vangelo ed esorta all’amore del prossimo; questo e solo questo è il suo compito, in Italia come nel resto del mondo. Un compito molto impegnativo che servirà (dovrebbe servire) anche alla politica per attuare con i propri strumenti la stessa visione: solidarietà, tutela dei diritti, rispetto dei doveri, libertà e giustizia.
La libertà riguarda anche la Chiesa di Francesco che ha teorizzato in varie occasioni la libertà di coscienza dei cristiani come di tutti gli altri uomini e la loro libera scelta tra quello che ciascuno di loro ritiene sia il Bene e quello che ritiene sia il Male. E portando avanti il Vaticano II ha deciso di dialogare con la cultura moderna.
Tutte queste questioni estremamente significative hanno echeggiato nelle sale del Quirinale e così si spiega l’amarissima constatazione di Napolitano che, di fronte a queste mete da perseguire, ha denunciato la situazione politica italiana, ammorbata da spirito di parte, interessi di gruppi e diffusione di veleni.
Ne abbiamo purtroppo conferma tutti i giorni e lì, nelle sale d’un palazzo che fu sede prima dei Papi, poi dei Re d’Italia e infine dei presidenti della Repubblica, erano presenti i vertici del governo, del Parlamento, dei partiti e delle gerarchie della Chiesa. Papa e Presidente hanno dato testimonianza del cammino ancora da compiere e della loro decisione di stimolarne con gli strumenti a loro disposizione il completamento.
Personalmente ne sono uscito assai confortato.
* * *
Milano è città assai diversa da Roma. Ci ho vissuto a lungo negli anni Cinquanta e poi l’ho sempre assiduamente frequentata. Ne fui consigliere comunale dal ’60 al ’63 e deputato dal ’68 al ’72; ma a Milano ci sono sempre state le redazioni dell’Espresso (dal 1955) e di Repubblica (dal 1976).
Venerdì scorso ho avuto modo d’incontrare nel corso di una cena in piedi una quantità di amici d’un tempo e di rievocare con loro la Milano di allora.
Qual era la Milano degli anni Cinquanta e Sessanta? Quella della ricostruzione e poi del «miracolo italiano » nelle sue classi dirigenti politiche ed economiche? Chi erano gli esponenti di quei partiti, di quei sindacati, di quel capitalismo e di quella classe operaia? C’erano parecchi dei loro figli a quella cena dell’altro ieri: la figlia di Bruno Visentini, il figlio di Carlo Draghi, il figlio di Raffaele Mattioli, Maurizio, il figlio di La Malfa, la figlia di Aldo Crespi, la moglie e i figli di Franco Cingano. Io conoscevo i padri, ma poi ho incontrato anche loro e ne sono diventato amico. Sono i vantaggi, per mia fortuna, d’una lunga vita.
Adesso (lo dico tra parentesi) mi preparo a ritirarmi su una panchina del Pincio come mi ha consigliato Beppe Grillo, ma la data non l’ho ancora decisa e Grillo dovrà pazientare ancora un poco.
I cardini del capitalismo milanese d’allora, che forniva al paese gran parte della sua visione degli interessi ma anche dei valori d’una borghesia agiata e al tempo stesso colta, erano una singolare mescolanza d’imprenditori, banchieri e uomini politici e se dovessi indicarne il personaggio più rappresentativo di quella mescolanza farei il nome di Mattioli.
Era abruzzese di nascita, aveva esordito come segretario di Toeplitz; aveva assistito alla crisi bancaria del ’32 e poi aveva preso il posto di amministratore delegato. Era stato il rifondatore della Comit (si chiamava così la Banca commerciale italiana) che era diventata con lui la più importante in Italia e una delle più importanti in Europa.
Ma Mattioli finanziava anche l’editore Riccardi che pubblicava in una splendida collana i classici della letteratura italiana; finanziava anche l’Istituto di studi storici fondato a Napoli da Benedetto Croce, dal quale
uscirono personaggi come Omodeo, Calogero, Salvatorelli, Romeo, De Capraris.
Era amico di Sraffa, emigrato durante il fascismo a Cambridge e depositario per molti anni delle carte di Gramsci e del suo testamento.
La sera, terminato il lavoro, Mattioli teneva salotto nel suo studio alla Comit in piazza della Scala. Durava un paio d’ore e gli ospiti abituali erano Adolfo Tino che era stato uno dei dirigenti del Partito d’azione durante la Resistenza e che fu poi presidente di Mediobanca; Franco Cingano che era uno dei massimi dirigenti della Comit di cui poi diventò amministratore delegato; Leo Valiani. Ugo La Malfa e Bruno Visentini frequentavano il salotto Mattioli quando venivano da Roma a Milano e altrettanto faceva Elena Croce, figlia di don Benedetto, ed Elio Vittorini.
Mattioli a quell’epoca somigliava a Maurice Chevalier, l’attore francese. O almeno così pareva a me e un giorno glielo dissi. Lui si schermì ma da allora mi volle più bene di prima.
Ma in quegli stessi anni il capitalismo milanese era anche rappresentato da Leopoldo Pirelli, dai giovani membri della famiglia Bassetti, da Vincenzo Sozzani e soprattutto da Cuccia (Mediobanca) e Rondelli (Credito italiano).
Ricordo ancora che uno degli obiettivi di La Malfa, anzi il senso stesso della sua vita, era quello di cambiare la sinistra e il capitalismo. Li conosceva bene tutti e due, anzi era con un piede in una e un piede nell’altro. Lo stesso, nel suo medesimo Partito repubblicano, era l’obiettivo di Visentini e tutti e due videro con speranza e poi con giubilo l’arrivo di Berlinguer alla guida del Partito comunista.
Questo era allora il capitalismo, soprattutto nella sua proiezione bancaria ma non soltanto, e la sinistra riformatrice che aveva Gobetti e i fratelli Rosselli nel suo Dna ma si era anche nutrita del pensiero liberale di Croce e di Luigi Einaudi. Non dimentichiamoci che quest’ultimo fu il primo governatore della Banca d’Italia dopo la caduta del fascismo, poi ministro del Bilancio con De Gasperi e infine primo presidente della Repubblica.
Napolitano, militante e poi dirigente del Pci, deriva direttamente dalla cultura di Croce e di Einaudi. Adesso queste cose sembrano assurdit à, ma allora la realtà era quella e fu quella a fare dell’Italia una democrazia
e del capitalismo un sistema che apprezzava e sosteneva lo Stato sociale, il welfare e l’economia sociale di mercato.
Poi dalla fine dei Sessanta in giù, la situazione è cambiata, la partitocrazia ha occupato le istituzioni, una piccola parte della sinistra ha inclinato verso il terrorismo, mentre un’altra parte si è corrotta insieme al ventre molle della Dc e il capitalismo ha cambiato natura. Invece di costruire imprese, le ha dissanguate. Il capitalismo reale ha ceduto il posto alla finanza speculativa. I legami tra affari e politica non furono più culturali ma corruttivi e intanto il popolo sovrano diventava “gente”, folla emotiva, materiale umano disponibile per i demagoghi e gli avventurieri.
Questo è purtroppo il paese. L’incontro con i discendenti del periodo migliore del Novecento mi ha al tempo stesso dato conforto e profonda tristezza, sperando che i figli emulino i padri ma disperando che riescano a educare la gente e farle riscoprire il popolo sovrano che è tutt’altra cosa.
Vorrei tanto che i giovani s’innamorassero di quest’idea ma se continuano a preferire l’avventura e gli avventurieri, allora non saremo più una nave ma una zattera con quel che ne segue. * * * Poi, prima di ripartire per Roma, la sera sono andato con mia moglie allo spettacolo di Nicoletta Braschi al teatro Parenti. Il programma era un testo di Samuel Beckett intitolato “Giorni felici”. Nicoletta è una grande attrice di teatro, il testo da lei recitato è terribile ma splendido nella sua terribilità. Poi abbiamo cenato insieme a lei e a suo marito Roberto Benigni, con Franco Marcoaldi e Nadia Fusini.
Una volta scrissi che Benigni, quando Napolitano se ne andrà anche lui sulla panchina del Pincio come auspica Grillo, potrebbe benissimo andare al Quirinale.
Naturalmente era una battuta ma la cultura di Roberto e di Nicoletta è tremendamente seria e quello che pensa e come ama il nostro paese Benigni è esattamente quello che penso ed amo anch’io. Non siamo molti ma, come dice Beckett, la vita è fatta di poche cose. L’importante sarebbe di saperle scegliere e spero che questo avvenga.

La Repubblica 17.11.13

“L’evoluzione del delfino”, di Michele Prospero

Alla minaccia di Berlusconi, il ribelle Alfano, direbbe Machiavelli, rompe ogni indugio per svelare se «elli è vero amico e vero inimico; cioè se, sanza alcun respetto, si scuopre in favore di alcuno contro ad un altro». Finalmente sembra calare il sipario sul duello tra falchi e colombe. Una sfida infinita in cui tutti minacciavano di far scorrere sangue nei palazzi ma nessuno si decideva a premere il grilletto. Senza scelte definitive, la contesa si trascinava come una sceneggiata monotona. Alfano decide di ritirarla dai palcoscenici della piccola politica odierna.
Berlusconi intendeva sfruttare le colombe per tirare avanti ancora un poco in quella strada che con un certo eufemismo si chiama stabilità. Il suo piccolo calcolo di potere prevedeva di logorare un Pd su cui ricade l’onere della governabilità, di impedire che alcune scelte innovative vengano adottate, di godere del plusvalore che come leader antipolitico ricava proprio dal pantano della non decisione cui si contorce la cosiddetta grande coalizione.
In questo suo piano il Cavaliere pensava di distruggere il nemico, in evidente affanno nel reggere con finzioni e acrobazie una maggioranza inesistente, e di preparare dall’opposizione di piazza la imminente successione dinastica. Con le smaglianti vesti del nuovo che avanza, la sua protesi politica, magari costruita in famiglia dove piccole donne crescono, potrebbe trionfare. I suoi media e quelli delle altre reti non a caso hanno in palinsesto un programma unico: l’antipolitica.Alfano gli rovina i piani. Ha compreso che persistendo nella sua ambigua collocazione, un po’ ribelle contro chi per evitare la decadenza tenta l’omicidio del governo ma un po’ ancora fedele al padre fondatore, non poteva trovare la via della salvezza. Se ai suoi scudieri toccava solo di interpretare la parte residuale, che in fondo neppure a Berlusconi dispiaceva, di mandare sulle lunghe ma non troppo la durata della legislatura, la loro sorte sarebbe stata segnata, senza neppure l’onore di aver perso nel duro campo di battaglia. Il destino di Alfano e delle sue truppe, si separa da quello della destra berlusconiana. Ha avuto coraggio nel non mostrarsi intimorito e nel non tirare la mano indietro lanciando piccoli segni di ravvedimento. Ha osato ribellarsi all’unto del signore e quindi ha percepito che senza la separazione la tragica rovina era certa, e inevitabile. Non si è illuso Alfano di andare avanti con trattative ad oltranza per concordare spazi di potere condivisi tra le fazioni. E non è stato ingenuo al punto di abboccare a lusinghe di accordo e a fantasiose ipotesi di mediazione per la gestione duale del non-partito. Con un Berlusconi che coltiva un gran rancore proprio quando assicura che la sua è la casa di tutti, non si negozia ed è «più utile lo scopriti e fare buona guerra», incalzerebbe
Machiavelli. Non avrebbe mai tenuto fede ai patti siglati con gli insubordinati, il Cavaliere. E non avrebbe mostrato alcuna comprensione verso chi ha peccato per sfrontatezza e non merita perdono. Come intuiva Machiavelli, in politica «chi vince non vuole amici sospetti e che non lo aiutino nelle avversità». Per non capitolare, Alfano ha evitato saggiamente di sedersi di nuovo accanto a Berlusconi. Separandosi subito dal capo, lascia esplodere finalmente il colpo che ha in canna. Non aveva alternative, sarebbe stato bruciato e con lui anche i suoi incauti seguaci. È stato inevitabile disertare un consiglio nazionale che si annunciava come il temibile luogo dei lunghi coltelli. Dopo la rottura, Alfano dovrà contrattare subito i tempi e le riforme elettorali e istituzionali necessarie. Per organizzare con i suoi 25 deputati e 31 senatori una forza autonoma, gli tocca disegnare un altro sistema politico. Deve per questo avere in mente come e con chi abbozzare un itinerario verso la Terza Repubblica. Non è facile, ora che tutto sembra liquido, provvisorio, imprevedibile, melmoso. La prospettiva di accollarsi i rischi della stabilità, con una maggioranza più omogenea ma anche più risicata e con Grillo, Berlusconi e la Lega pronti a fare terra bruciata con fuochi di rivolta, non provoca in giro largo entusiasmo. Il sentiero stretto che Alfano deve attraversare richiede perciò capacità di manovra, chiarezza strategica, determinazione nel bandire ogni esitazione e ma anche nello schivare fallaci aspettative in soccorsi tempestivi.

Con la rottura tra Alfano e Berlusconi non nasce un nuovo sistema politico perché un sistema riordinato non c’è all’orizzonte, e tutto pare polverizzato e frantumato da una ondata di scissioni. Comincia però una nuova fase politica. La metamorfosi di un delfino privo di «quid» in un politico di rango con uno spazio da occupare è la posta in gioco, in un clima che rimane di assoluta incertezza. Del resto, spiegava nel 1513 il Segretario fiorentino, «né creda mai alcuno stato potere sempre pigliare partiti securi, anzi pensi di avere a prenderli tutti dubbii».

L’Unità 16.11.13

Fitoussi: «Crescita, dovete fare molto di più», di Umberto De Giovannangeli

«Oggi è ancora possibile progettare il futuro. Ma solo se questo futuro è declinato in chiave europea. E il futuro da realizzare è quello che punta decisa- mente sugli investimenti per la crescita. Condivido in proposito quanto affermato dal premier italiano. L’unico consiglio che mi sento di dare a Enrico Letta è quello di andare fino in fondo nel mettere in pratica le sue convinzioni in materia di crescita, facendo seguire alla parole i fatti». A sostenerlo è Jean-Paul Fitoussi, Professore emerito all’Institut d’Etudes Politiques di Parigi e alla Luiss di Roma. È attualmente direttore di ricerca all’Observatoire Francais del Conjonctures Economiques, istituto di ricerca economica e previsione. «L’Europa – rimarca ancora Fitoussi – ha un futuro se si libera dall’ossessione del deficit pubblico».

Professor Fitoussi, la Germania va per la sua strada. No agli Eurobond e al fondo di riscatto. Anche il futuro governo di grande coalizione tedesco, Cdu-Spd, non prevederebbe, secondo indiscrezioni, per il futuro dell’eurozona alcuna condivisione del debito.

«Fa bene ad usare il condizionale e di sottolineare che si tratta di indiscrezioni, perché a me pare invece di vedere qualche apertura di Berlino. Qualcosa cambia. Il presidente della Spd, vuole cambiare le cose. E nella stessa direzione del cambiamento si muovono alcune affermazioni del candidato della “famiglia” socialista europea alla suc-essione di Barroso alla presidenza della Commissione europea, Martin Schulz. Credo che siamo in un contesto in qualcosa sia possibile fare, determinando una discontinuità con il ciclo iperliberista, ma perché ciò accada, per- ché la politica tedesca si sposti il più possibile in questa direzione, molto dipenderà dal coraggio degli altri leader politici dei nostri Paesi, Altrimenti niente succederà».

Parlando al Congresso federale della Spd, il premier italiano, Enrico Letta, ha sottolineato che l’Italia avrà le carte in regola ma ha aggiunto, «serve una svolta nella Ue». Dal suo punto di vista, quali dovrebbero essere le basi di questa svolta? «Questa svolta deve essere una svolta sugli investimenti. E questo in un chiaro orizzonte, politico, progettuale, programmatico, europeista».

Su quali settori strategici puntare?

«A livello europeo, occorrerebbe puntare su grandi investimenti nel campo delle fonti energetiche, sulla “green economy”, così come nelle infrastrutture, nel sapere e nella ricerca. È questo il momento di farlo. Questa sì sarebbe una svolta verso il futuro e non un “svolta” verso il passato, che è poi quel- lo che si continua a fare, pensando che il problema fondamentale siano i conti in ordine. Una Europa che resta prigioniera dell’ossessione del debito pubblico, è una Europa che rinuncia ad avere un futuro. Insisto su questo punto, perché lo ritengo davvero dirimente: per uscire dalla crisi c’è bisogno di un programma europeo d’investimenti e di una strategia chiara per combattere la disoccupazione giovanile. Non sarà l’austerità, invece, a tirarci fuori dalla recessione».

È dunque questo il grande spartiacque tra progressisti e conservatori?
«Direi proprio di sì. Una premessa è d’obbligo, e non ha un valore nominale: spesso si tende a non distinguere tra “spese” e “investimenti”, mettendo tutto nello stesso calderone. Non è così. Una visione progressista, ed europeista, deve saper rimarcare la differenza sostanziale. E proprio perché è in grado di far questo, può legittimamente sostenere che bisogna accettare un disavanzo per “causa investimenti”. E aggiungere, che questo disavanzo deve essere fatto e gestito a livello europeo. L’Europa è il più grande Paese del mondo a non essere indebitato. La Commissione europea non è indebitata. C’è grande spazio per progettare il futuro. L’austerità non conduce da nessuna parte, perché fa abbassare il Pil e dunque non migliora il rapporto debito su Pil. Se c’è bisogno di soldi pubblici per stimolare gli investimenti, non bisogna aver paura del deficit. Se per un anno o due il deficit sfora i limiti di Maastricht, ma intanto l’economia riprende a crescere, alla fine il Pil aumenta e il disavanzo tende a rientrare. Bisogna ritor- nare alla crescita con una manovra espansiva di ampio raggio, che includa anche l’unione bancaria. Ma dev’essere una manovra concordata a livello europeo. Non possono essere i singoli Paesi a farsi carico della ricapitalizzazione delle banche, indebolite dai titoli di Stato che hanno in portafoglio. Bisogna solamente avere delle politiche normali, come fanno negli Stati Uniti e anche in Giappone. Noi andiamo verso almeno un decennio perso e questo significa che andiamo verso una situazione di insostenibilità politica perché la democrazia non è compatibile con la disoccupazione di massa».

L’Italia assumerà la presidenza dell’Ue nel secondo semestre del 2014. Anche in questa chiave, quale consiglio si sentirebbe di dare a Enrico Letta?

«Non credo che il presidente Letta abbia bisogno di consigli perché mi pare ferrato nelle materie che abbiamo trattato. Se proprio devo farlo, beh, il solo consiglio che gli posso dare è di far seguire i fatti alle parole. E dunque di andare fino in fondo alle sue convinzioni».

L’Unità 16.11.3

“Il peccato originale che pesa su Silvio”, di Claudio Tito

In meno di vent’anni Silvio Berlusconi ha provocato o subito ben quattro scissioni. Il centrodestra è stato il terreno di egemonia della politica italiana ma anche il campo delle divisioni più cruente. Il berlusconismo non ha mai consentito il dissenso. La sua essenza lo ha impedito.
Perché le ragioni della sua nascita erano eccentriche rispetto alla vita delle Istituzioni. I suoi interessi primari sono sempre stati personali o aziendali.
Nel ’94 ha rotto con la Lega per poi ricucire sei anni dopo. Nel 2006 ha sospinto l’Udc di Casini fuori dal perimetro della coalizione. E infine nel 2010 ha sfidato Gianfranco Fini fino a determinare la fuoriuscita dell’ampio gruppone degli ex An. Un passaggio questo che ha poi sancito la fine del suo ultimo governo aprendo la strada all’esecutivo dei tecnici guidato da Mario Monti. La dimostrazione che nonostante un sistema elettorale sostanzialmente maggioritario, la forza del Cavaliere si dimostra incompatibile con la dialettica tipica di un partito. Qualche anno fa Marco Follini, in quel momento suo alleato, aveva parlato di «monarchia» per definire l’assetto di potere costruito intorno al Cavaliere. Ma in realtà l’azione di Berlusconi va persino oltre. I Re preparano la successione. Se non altro per via familiare. In questo caso accade il contrario. Berlusconi si comporta come Crono, la divinità della mitologia greca, che divorava tutti i suoi figli proprio per impedire che qualcuno potesse prendere il suo posto. Ecco ha divorato via via tutti quelli che potenzialmente avrebbero potuto insidiare la sua leadership. Anche i suoi “figli putativi” come Alfano. Ha forse immaginato di lasciare tutto in eredità alla primogenita Marina. Fino ad ora però ha evitato di compiere l’ultimo scempio, la successione dinastica del partito.
Forza Italia e il Pdl si sono poi mossi negando tutte le missioni basilari di ogni movimento politico: selezionare e formare una classe dirigente. Nei partiti maturi la battaglia per la successione si consuma all’interno. Magari con guerre sanguinose, con “parricidi”. Gli esempi non mancano, in Italia e anche fuori dai nostri confini. Per il centrodestra italiano di questo ventennio l’unica alternativa alla competizione e al ricambio generazionale è stata invece la scissione o l’espulsione. Un’ulteriore prova che nulla aveva a vedere con le grandi famiglie politiche europee, compreso il Ppe cui Berlusconi ha sempre formalmente fatto riferimento.
L’effetto di questa ennesima separazione, però, stavolta è diverso. Berlusconi deve affrontare con un alone di debolezza il prossimo voto sulla decadenza. L’arma della crisi di governo a questo punto appare scarica. Al Senato il gruppo di Alfano è sufficiente a garantire la fiducia a Enrico Letta. Anzi, in una certa misura l’esecutivo si rafforza, quasi liberato dagli eccessi demagogici dei falchi. Ma soprattutto questa operazione spinge la ri-nascente Forza Italia ancora più a destra. Diventerà il simbolo del radicalismo populista, schiacciata verso le ali estreme dello schieramento illuminandone la vera natura. Una evoluzione che ha un propellente esclusivamente politico e non giudiziario. Questa volta insomma non può accusare le “toghe rosse” di aver sovvertito il voto popolare e deve semmai prendersela non con un pericoloso comunista ma con il suo ex ministro della Giustizia.
Come è accaduto in passato il leader del Nuovo Centrodestra dovrà fare i conti con le dure attenzioni del multiforme mondo berlusconiano. L’accusa di tradimento è stata già formulata. Il compito di questa neonata formazione non sarà semplice. Dovrà resistere agli assalti dei falchi e consentire la nascita in Italia di un moderno e maturo bipolarismo. Il Pdl e Forza Italia sono stati il simbolo di un avventurismo demagogico. I ministri dell’ex Pdl dovranno dimostrare di essere in grado di costruire un centrodestra “normale”. Per questo si trasformeranno negli alleati più fedeli di Letta. Hanno bisogno di tempo. Devono lasciare che si consumi la parabola del Cavaliere, che venga metabolizzata la decadenza. Sanno che al momento la base elettorale premia ancora il loro ex leader. Le risorse economiche e la capacità di fare campagna elettorale non sono commensurabili. Ma la loro sfida si concentra nella tenuta per tutto il 2014 del governo e sulla fine del “padre putativo” attraverso la decadenza e l’interdizione dai pubblici uffici.
Esistono però una variabile e un appuntamento già fissato che potrebbero rendere assai irto questo percorso. Una eventuale crisi dell’esecutivo con le elezioni a marzo lascerebbe il nuovo partito in mezzo al guado. Il prossimo congresso del Pd e le scelte di Matteo Renzi saranno decisive anche per loro. Mentre nel voto europeo già fissato a maggio si misureranno i rispettivi pesi. Se il risultato degli alfaniani fosse troppo basso, il castello immaginato in queste ore crollerebbe. E si replicherebbe la dinamica che portò alla scomparsa della Dc: nessun erede e l’epifania di un nuovo soggetto politico.

La Repubblica 16.11.13

“Occupazione, e se la sfida ripartisse dalla maternità?” di Valeria Fedeli

L’insicurezza economica ha un forte e negativo impatto sulla scelta di avere figli. Lo racconta l’esperienza di tante giovani lavoratrici e di tanti giovani lavoratori, ma lo dicono anche dati e ricerche. Come lo studio pubblicato nei mesi scorsi nella collana Temi di discussione della Banca d’Italia «Insicurezza economica e scelte di fecondità: il caso italiano», purtroppo passato sotto silenzio, che evidenzia come l’Italia abbia uno dei più bassi tassi in Europa sia di fecondità che di occupazione femminile. Non solo le donne che hanno condizioni di lavoro instabili fanno meno figli, ma anche le lavoratrici atipiche, con alto livello di istruzione e reddito medio-alto, quindi con buone prospettive di carriera, tendono a postici- pare la maternità. I motivi sono sempre più legati alle carenze nelle politiche di sostegno alle famiglie con figli, alla debolezza delle politiche di conciliazione e condivisione tra tempi privati e di lavoro, alla precarietà che comporta una incertezza non solo economica, ma esistenziale.

Oggi in Italia, secondo i dati Istat, lavora il 47,1% delle donne, rispetto ad una media Ue del 58,6%. Siamo al terz’ultimo posto in Europa, lontani dai paesi più virtuosi e dagli obiettivi del 60% entro il 2020 definiti dalla strategia di Lisbona. In particolare, tra le madri di età compresa tra 25 e 54 anni, il tasso di occupazione diminuisce al crescere del numero di figli: è pari al 60% per chi ha un solo bambino, mentre scende al 30% per le donne con tre o più figli. Non stupisce, quindi, che secondo Eurobarometro il 49% degli italiani ritiene che avere figli sia un elemento che sfavorisce le donne nella ricerca di lavoro, mentre solo il 6% pensa che avere dei figli sfavorisca un uomo.

È la fotografia di un Paese ancora molto indietro. Certo qualcosa inizia a cambiare: nell’ultimo anno c’è stato un incremento lieve dell’occupazione femminile (pari allo 0,4%, circa 100mila donne che lavorano in più), mentre quella maschile continua a cala- re. Forse anche da noi si inizia a porre il tema della mancession: il fenomeno per cui la recessione fa contemporaneamente diminuire la forza lavoro maschile e rilancia l’occupazione femminile. I motivi sono molteplici, dalla crisi che ha colpito maggiormente settori tradizionalmente più maschili, al più alto livello di istruzione delle donne – 25% di laureate, contro il 12.5% degli uomini – che ha permesso di intercettare prima le opportunità di ripresa o di lanciarsi in idee di nuove imprese. Sono segnali ancora minimi, ma indicano una direzione da seguire, nella consapevolezza che le donne possono essere il volano della ripresa e della crescita dell’Italia. Lo conferma l’Ocse: la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro garantirebbe il mantenimento dei tassi di popolazione attiva e contribuirebbe ad aumentare il Pil dell’1%. E se si arrivasse al 60% di occupazione femminile, raggiungendo il tra- guardo di Lisbona, secondo stime di Bankitalia il Pil aumenterebbe del 7 per cento. Serve lanciare una sfida larga e ambiziosa, per produrre un’inversione culturale che restituisca valore alla maternità come funzione sociale non alternativa al lavoro e per realizzare azioni concrete per sostenere l’occupazione delle donne e conciliarla con l’esercizio pieno dei diritti di cittadinanza. Un modello potrebbe essere quello della Germania, dove una coalizione trasversale ha permesso di far sì che le donne ottenessero un posto garantito al nido per i loro figli. E un altro esempio positivo ci viene dalle tante giovani manager in ruoli apicali nelle principali aziende tecnologiche statunitensi, che ha dimostrato pragmaticamente la possibilità di un diverso approccio culturale anche alla maternità, che da ostacolo per la carriera diventa valore, come elemento di un modo più umano di fare impresa e di competere. L’onda femminile può essere una forza che rimo- della l’economia con investimenti immateriali, innovazione, valorizzazione delle risorse umane, valori più etici. Le donne sono forti e sono pronte. Pronte a vivere in un paese che punta su di loro e forti nel dare il proprio contributo alla crescita di tutto il Paese. Ne vogliamo tenere conto in esplicito quando a Roma ci sarà l’importante conferenza europea per l’occupazione giovanile.

L’Unità 16.11.13

“Capitale della cultura, sei in finale. Delusione per Venezia e il Nord”, di Paolo Conti

Siena, Cagliari, Lecce, Ravenna, Perugia-Assisi e Matera sono le candidate italiane a Capitale europea della cultura per il 2019. Lo ha deciso ieri la giuria europea di selezione che ha proposto al ministero per i Beni culturali la «short list», ovvero la lista abbreviata, che entro un mese il dicastero guidato da Massimo Bray potrà ratificare. Nessuna città del Nord, dunque: tutte candidature concentrate soprattutto tra il Centro e il Sud. E addio ai sogni di gloria delle altre candidature: Venezia-Triveneto, Vallo di Diano e Cilento, Taranto, Mantova, Caserta, Palermo, Aosta, Erice, Reggio Calabria, Urbino, l’Aquila, Bergamo, Grosseto, Siracusa e Pisa. La giuria, presieduta dal britannico Steve Green (sette membri internazionali, sei italiani) ora si riunirà nell’ultimo trimestre del 2014, ovvero tra un anno, per scegliere la città vincitrice.
Entusiasmo nelle città «finaliste». Il sindaco di Perugia, Wladimiro Boccali: «Grande soddisfazione, abbiamo fatto un lavoro serio e intelligente». Fabrizio Matteucci, sindaco di Ravenna: «Da lunedì cominceremo a lavorare pancia a terra, tutti insieme». A Siena il sindaco Bruno Valentini dichiara: «La nostra città è in festa».
La prima, durissima polemica scoppia a Venezia, città capofila del progetto. In realtà la candidatura era territorialmente trasversale, da Trieste a Bolzano passando per Venezia e il Veneto. In sostanza, il Nordest. Nordesteuropa Editore, che lanciò l’idea del «territorio diffuso» come possibile Capitale europea della cultura, ieri ha diffuso una nota stampa durissima contro il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni: «Da questa sconfitta risulta evidente che il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni ha raggiunto il risultato che si prefiggeva: far perdere la candidatura di Venezia con il Nordest a Capitale europea della cultura 2019. Una proposta che non ha mai amato perché conteneva in sé un progetto di sviluppo del territorio in chiave metropolitana da lui da sempre osteggiato a favore della rendita di posizione della sola Venezia storica e di una visione ottusa che predilige il turismo di massa a quello di qualità». Nordesteuropa arriva a chiedere esplicitamente le sue dimissioni.
Invece proprio Giorgio Orsoni ribatte con molta serenità: «La commissione sembra aver assunto una decisione di tipo formale. Tutte le candidature di territori più vasti delle singole città sono state scartate. E anche a noi non erano sfuggiti i dubbi sul bando. Ma, al di là o meno dell’inserimento di quest’area nella short list, un risultato importantissimo lo abbiamo portato a casa: aver messo insieme territori ampi facendoli dialogare sul tema del turismo culturale, profondamente sentito nei nostri territori. Sono state gettate le basi per una futura collaborazione molto intensa. Insomma, il vero obiettivo era mettersi a lavorare insieme. E lo abbiamo conseguito una volta per tutte». Altra esclusione che colpisce è quella di Urbino: poteva contare su testimonial come l’architetto e urbanista Odile Decq, l’ex ministro francese della Cultura Jack Lang e sostenitori illustri come Umberto Eco.
Delusione a L’Aquila. Stefania Pezzopane (Pd), presidente del Comitato promotore di «Aq19», commenta amareggiata: «Ce l’abbiamo messa tutta, ma non è bastato. Non è stato un bel leggere, per i commissari europei e italiani, i resoconti sugli sprechi del post sisma, sulle presunte infiltrazioni di mafia e camorra e sull’arresto dell’assessore regionale alla Cultura Luigi De Fanis».
Ma ora c’è un’altra scommessa. Bisognerà vedere se, per la Capitale europea della cultura 2019, continueranno a vincere i campanilismi e i localismi. O se invece qualsiasi città verrà proclamata vincitrice riuscirà a diventare un volano per l’economia e la cultura del sistema-Paese. O se gli sforzi si ridurranno al singolo territorio, con una visione miope, spesso tipicamente (e tristemente) nostrana.

Il Corriere della Sera 16.11.13