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Carpi (Mo) – Fare memoria da 40 anni, quarantesimo del Museo Monumento al Deportato

ore 10 Sala dei Mori – Palazzo dei Pio, Carpi
Saluti
Lorenzo Bertucelli, Presidente Fondazione ex Campo Fossoli dEnrico Campedelli, Sindaco di Carpi
Massimo Mezzetti, Assessore Regionale
Massimo Bray, Ministro dei Beni e delle attività culturali
Proiezione del corto Il restauro del Museo
ore 11.30 Museo Monumento al Deportato
Il Museo restaurato. Visita guidata
ore 12 Sala dei Nomi
Una testimonianza: Anna Steiner

Ore 15.00 Baracca ricostruita
Intervento dell’ on. Manuela Ghizzoni,
Consiglio di Amministrazione Fondazione Fossoli
Visita guidata al Campo e alla Mostra
Nella baracca ricostruita sarà allestita la mostra Immagini dal silenzio. La prima mostra nazionale dei lager nazisti (1955-1960)


“La riforma del Mibac” di Luca del Frà

Anticipiamo la relazione che verrà presentata oggi alla stampa: tra le novità suggerite dalla Commissione al ministro Bray ci sono la riduzione delle direzioni regionali con conseguente ridimensionamento dei compiti. Un capitolo dedicato anche a precari e sponsor. Sono ottantotto le pagine che la commissione per la riforma del Ministero per i beni culturali e per il turismo (l’impronunciabile Mibac) ha consegnato al ministro Massimo Bray: l’intero settore viene profondamente ridisegnato da una Relazione che tuttavia ha solo valore consultivo e oggi viene presentata alla stampa nella sede del Collegio Romano.
Per comprendere a fondo il documento occorre considerare che, tenendo fuori il turismo, il Mibac ha una struttura spesso definita abnorme, perché ubbidisce a logiche opposte: quella dello Stato, portata avanti dalle direzioni generali, e quella della riforma in senso federalista, che ha fatto esplodere il numero delle direzioni regionali, con la crescita esponenziale dei ruoli dirigenziali, ed effetti non sempre benefici.La Spending review impone a tutti i ministeri un taglio dei dirigenti: la Commissione suggerisce al Mibac di ridurre il numero delle direzioni regionali, accorpandole ma non precisandone il numero, e ridimensionandone anche il ruolo, puntando invece sulle direzioni generali, dunque sullo Stato, ma ridisegnandone profondamente le funzioni e riducendole.
Questo è un aspetto positivo che, qualora ben articolato all’atto pratico, potrebbe portare allo snellimento di molte incongrue sovrapposizioni, con le direzioni regionali che svolgerebbero un ruolo di semplice coordinamento, controllo amministrativo e raccordo con gli enti territoriali, ma sarebbero estromesse da quello tecnico scientifico –rilasciare permessi, fare tutela, e così via–, funzione che per la pressione degli interessi locali non sempre hanno svolto in maniera ineccepibile.
Sorprendete è invece come siano ridisegnate le direzioni generali: due, gemelle, si dovrebbero occupare una dell’innovazione, della digitalizzazione, dell’informatizzazione concessione ad argomenti cari al ministro -, l’altra del personale, con specifiche competenze sulla formazione. Una, va da sé, per il bilancio e l’amministrazione, con competenze specifiche in materia di bandi e appalti. Tre infine sono riservate alle funzioni proprie del ministero: una elefantiaca e detta al Patrimonio con competenze su tutti i beni culturali e del paesaggio (attualmente sono 2), la seconda, detta degli Istituti culturali, riservata alle biblioteche, gli archivi e i musei (sono 2 ma con i musei affidati ad altre direzioni), la terza allo spettacolo dal vivo e al cinema (oggi 2).
Scorporare i musei dalla direzione al Patrimonio potrebbe apparire contraddittorio, ma obbedisce a una logica che vuole renderli autonomi e con direzioni dotate di maggiori poteri decisionali nel nostro ordinamento i musei sono considerati poco più che uffici.
La relazione invita poi a creare una non meglio definita Unità di controllo, che dovrebbe vigilare sulla realizzazione delle direttive a tutti i livelli del Mibac sarebbe augurabile anche nei rapporti non sempre limpidissimi tra Mibac e privati. Meno chiara la Relazione sul Segretariato generale: potrebbe essere abolito, ma anche no. Qui la sovrapposizione è palese, o l’Unità di controllo o il segretariato Generale ma dopo vedremo perché.
La Commissione ha poi preso di petto alcuni nodi dolenti: primo fra tutti la presenza, in questi anni di blocco delle assunzioni pubbliche, di lavoratori atipici, con contratti professionali o a tempo determinato, che prestano servizio per il Mibac, cui si aggiungono quelli delle fin troppo numerose società «in house», vale a dire di cui il Mibac è proprietario e di cui si avvale per numerosi servizi e mansioni. Un modo evidente di eludere le regolari assunzioni per concorso, come sarebbe di legge nella pubblica amministrazione. La Commissione non fa mistero della singolare scarsità di dati messi a sua disposizione dal Mibac, raccomandando una ricognizione puntuale in un settore che, aggiungiamo, non di rado è caratterizzato da vaste praterie di nepotismi, raccomandazioni, funzionali a creare consenso.
Intriganti anche le pagine dedicate agli appalti e alle sponsorizzazioni: emerge una giungla legislativa forse volutamente confusa poiché da una parte permette al livello politico di operare in modo arbitrario, dall’altra incentiva i mille ricorsi ai tribunali amministrativi che, per usare le parole della relazione, «sono diventati una prassi» che costa cara alle casse dello Stato e alle tasche del contribuente. La commissione suggerisce la via francese, una forte deregolamentazione degli appalti, soprattutto se ad alto contenuto tecnico, cioè destinati al restauro, agli scavi o alla manutenzione, con una forte capacità decisionale del museo o della soprintendenza appaltante.
La Relazione contiene molti aspetti positivi, ricordiamo anche la creazione di una Scuola Nazionale del Patrimonio, e il ministro Bray ha molto materiale su cui meditare, tuttavia alcuni aspetti non appaiono del tutto lineari. La Commissione non mette in discussione la «Spending review», quando la sua applicazione al Mibac è stata piuttosto crudele a causa dell’allora ministro Ornaghi, senza considerare i precedenti tagli operati in epoca Bondi. Tra le due impostazioni del Ministero, regionale o statale, occorreva forse una scelta più univoca, invece si è optato per quella statale, mantenendo però le direzioni regionali invece di trasformarle in uffici. È il segno di una mediazione, una vocazione al compromesso che ritroviamo anche nell’incerto giudizio sulla sorte del Segretariato generale, e la creazione del suo doppio, l’Unità di controllo. Non sfugge come le direzioni generali oggi 8 di cui 6 a carattere tecnico scientifico, passino a 6 di cui solo 3 a carattere tecnico scientifico: non si rischia di trasformare un Ministero di competenze in un ministero di burocratico? L’autonomizzazione dei musei, in sé auspicabile, li scorpora dalle soprintendenze territoriali: un modello che il mondo ci invidia, nato dalla peculiarità italiana di avere nei luoghi espositivi materiale proveniente dal territorio. L’adozione di modelli museali stranieri dovrebbe partire da un profondo e creativo adattamento al nostro di modello, non da emulazione.

L’Unità 05.11.13

“Tra la legge e la coscienza”, di Michele Ciliberto

Dispiace che la vicenda Cancellieri stia diventando un affaire politico, ma era prevedibile. Anche se era difficile immaginare fino a che punto sarebbero arrivati gli esponenti del Pdl. Cioè, mettere sullo stesso piano la telefonata della Cancellieri e quella dell’allora capo del governo, Berlusconi, alla questura di Milano per intercedere a favore di Ruby. In entrambi i casi si sarebbe trattato, a loro parere, di gesti umanitari, anche se – andrebbe precisato almeno questo – i protagonisti delle due vicende ave- vano interessi evidentemente diversi. Vale dunque la pena di fare chiarezza, sottolinean- do alcuni punti elementari.

Il problema del rapporto tra diritto e morale, tra ciò che è «giusto» e ciò che è «buono», è assai antico, risale alla origini della riflessione filosofica. Ad esso sono state date differenti risposte, a seconda degli obiettivi che sono stati scelti e dichiarati primari. Nel Seicento, quando il problema essenziale è quello della sicurezza dello Stato, è teorizzato il prevalere del diritto, della potenza e anche della forza sulle istanze di ordine morale, sui diritti individuali, personali.

Ma è sempre stato così, anche in tempi più vicini a noi e in situazioni affini: quando negli anni Settanta c’è stata in Italia una sorte di «guerra civile», il problema della sicurezza dello Stato è diventato prioritario ed è prevalso sulla garanzia dei diritti individuali, generando anche lo spargimento di sangue innocente, che, ancora oggi, geme e si lamenta perché i «morti», a differenza dei «vivi», non possono dimenticare.

Oggi la situazione è assai diversa, e la difesa dei diritti individuali è considerata con ben altra attenzione di quanto accadesse alcuni decenni fa. Anzi, è stata generata una specifica legislazione che garantisca questa delicata zona del vivere umano, specie quando si tratta di persone collocate in una condizione di debolezza, di fragilità. Del resto, e va sottolineato con forza, sta qui il sigillo di civiltà di uno stato che abbia a cuore, oltre alla sicurezza, la pace e il «ben vivere» dei propri cittadini, specie quando sono emarginati o carcerati. Chiunque conosce, o intuisce, la situazione delle carceri italiane sa infatti che questo è il campo più complesso, più difficile, più bisognoso di inter- venti efficaci sul piano strettamente legislativo, come si è cominciato a fare. La «cura» dei deboli è la pietra di paragone di uno stato democratico, che anche per questo è il più «naturale», come diceva un grande filosofo moderno.

È stato dunque «giusto» e «buono» procedere nei confronti di Giulia Ligresti come è stato fatto, e di questo occorre compiacersi con i magistrati che hanno gestito, nel modo migliore, questa complessa vicenda. Né è possibile mettersi a fare i «moralisti», ricordando lo stato di grande agiatezza in cui ha vissuto lungamente: i cittadini sono tutti eguali di fronte alla legge e, prima ancora lo sono, di fronte alle sofferenze ultime, quelle che tendono a incrinare, e talvolta a spezzare, la parete che separa i vivi dai morti.

Non è dunque in questione l’operato della magistratura, su cui non si discute, mentre appare discutibile il comportamento del ministro. La domanda che, in genere, si pone è questa: la Cancellieri ha saputo distinguere tra pubblico e privato, tra la sua funzione pubblica e i suoi rapporti privati? Si è comportato allo stesso modo in situazioni analoghe? Tutte domande legittime, alle quali mi ministro deve rispondere. Qui però non intendo porre il problema della opportunità della telefonata della Cancellieri, né di un possibile conflitto di interesse per ragioni familiari. Sono personalmente convinto che il ministro sia in buona fede e sia un integro funzionario dello Stato. Voglio porre un problema che considero più grave, dal punto di vista del nostro vivere civile, repubblicano. Quando il ministro parla di «umanità», cui non intende venir meno, a cosa si riferisce con precisione?

È un temine coinvolgente ma difficile da delimitare e governare. In nome della «umanità» si può pensare di essere autorizzati a qualunque cosa, fino a sostituire il foro della propria «coscienza» – intesa come principio fondamentale delle proprie azioni e dei comportamenti – al piano della legge che è tale in quanto è, nei limiti del possibile, obiettiva e condivisa, e come tale base, e garanzia, del vivere civile democratico, fondato sulla eguaglianza senza cui non può esserci né repubblica, né democrazia.

Se stessi discutendo tra filosofi o teologi, direi che nel comportamento, e nelle dichiarazioni, della Cancellieri c’è, consapevole o inconsapevole, un elemento proprio della tradizione cristiana di tipo «agostiniano» imperniato sul primato della «coscienza» personale sullo «stato». A questo livello, la dimensione dello stato, del pubblico si dilegua, evapora, non c’è più, qualunque sia la propria intenzione. Ciò che si ritiene giusto nella interiorità della propria coscienza diviene infatti tale anche sul pia- no oggettivo, dei comportamenti pubblici, istituzionali, e come tale viene proposto e difeso.

Posizione, certo, assai dignitosa e basata su una tradizione così forte e lunga, da diventare una sorta di riflesso condizionato, pronto a scattare, e a rivelarsi, nel momento del pericolo, nelle situazioni di crisi. Ma lo stato moderno, ed anche la nostra Repubblica è fondata su altri fondamenti di ascendenza civile e laica da cui discende il principio, sancito dalla Costituzione, secondo cui tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge, anche i ministri. Questo è dunque il punto in questione, di cui dovrebbe discutere anche il Parlamento, se ne fosse capace: il fondamento ultimo dello stato, della legge, della Repubblica.

In breve, nell’affaire Cancellieri sono coinvolti alcuni importanti questioni di principio concernenti le fondamenta del nostro vivere civile, che travalicano il problema delle dimissioni di un ministro, e su cui converrebbe confrontarsi in modo aperto specie in un momento di crisi dei «principi» repubblicani come quello che stiamo attraversando. Forse si innalzerebbe il livello della vita civile nel nostro Paese e si comincerebbe ad uscire dal fango in cui, come al solito, siamo precipitati.

L’Unità 05.11.13

“O la banca o la vita”, di Federico Fubini

Quando è arrivato Hibernia Atlantic, era da oltre dieci anni che non si osava prendere un’iniziativa del genere. Da quando la bolla della new economy era scoppiata al giro di boa del millennio, nessuno aveva più posato un cavo a fibre ottiche sul fondo dell’Atlantico. Poi nel 2011 è stato fatto, qualcuno ha depositato “ventimila leghe sotto i mari” Hibernia Atlantic: ma non era un cavo come gli altri, quelli percorribili da centinaia di milioni di persone che hanno qualcosa da comunicare da una sponda all’altra dell’oceano. No, quella era un’infrastruttura per pochi: per gli operatori del cosiddetto “high frequency trading”, gli scambi “ad alta frequenza” che puntano a registrare guadagni sul mercato azionario o sui cambi grazie alla rapidità delle operazioni misurata in millisecondi. Sono operazioni dietro le quali non c’è alcun calcolo razionale sulla qualità di una certa azienda, sui tassi d’interesse o la forza di un’economia o sul modo migliore di allocare il capitale in modo che sia più produttivo, crei più posti di lavoro, porti crescita per tutti. La sola cosa che conta è la velocità, a
costo di perdere il controllo e destabilizzare l’intero listino principale di Wall Street come accadde per il 6 maggio 2010. E Hibernia Atlantic è un cavo che può far guadagnare “ben cinque millisecondi”, scrive Federico Rampini senza riuscire a trattenere il sarcasmo.
Corrispondente di Repubblica a New York, Rampini nel suo ultimo libro ( Banchieri. Storie dal nuovo banditismo globale, Mondadori) racconta una gran quantità di storie come questa. Lo fa per guidarci fra i paradossi dell’Occidente sei anni dopo il giorno in cui qualcosa di spezzò per sempre con il fallimento di Lehman Brothers. «Se rinasco, in un’altra vita vorrei insegnare l’economia ai bambini – confessa l’autore – . Perché crescano armati degli utensili giusti, perché nessuno li possa ingannare con il linguaggio dei tecnocrati». E forse Banchieri non è un libro scritto nell’idea di farlo distribuire nelle scuole elementari o medie, ma fin dalle prime pagine si avverte il tentativo di parlare ai non addetti ai lavori. Il messaggio di fondo del libro, nello stile prima ancora che nei contenuti, è che non devono essere sempre e solo gli esperti a poter parlare con cognizione di causa delle assurdità del sistema finanziario globale. Tutti devono poter capire.
A sei anni dall’esplodere della crisi (“la Grande Contrazione”), Rampini non fa che trovare conferme di quella che per lui è la natura parassitaria delle banche. Ovunque getti lo sguardo, in Italia come negli Stati Uniti. A New York, nota come i banchieri di Wall Street siano diventati più arroganti e i loro istituti più esposti a rischi scriteriati dopo che la Federal Reserve e il governo americano sono intervenuti per salvarli. La sindrome del Too Big to Fail, “troppo grande per fallire” (o meglio: perché si possa lasciar fallire) è diventato la realtà finanziaria delle megabanche salvate nel 2008-2009 e implicito
ricatto di Wall Street nei confronti di una nazione intera. Il bilancio di Lehman era di 637 miliardi di dollari quando la banca saltò. Quello di Jp Morgan oggi è di 2.300 miliardi, cresciuto a dismisura proprio perché i manager dell’istituto sanno che il governo americano dovrà comunque aiutarli in caso di difficoltà, pena un’altra detonazione nucleare ancora peggiore.
Neanche l’Italia sfugge alla critica. «Nel corso del 2012 le banche hanno tagliato alle imprese italiane 44 miliardi di euro di finanziamenti», constata Rampini. Quelle stesse case finanziarie, spesso dai nomi blasonati, hanno assorbito in silenzio la loro parte dei 500 miliardi netti – o mille miliardi lordi – di prestiti straordinari della Bce. «I banchieri si sono incamerati gli aiuti di Draghi – accusa l’autore – ma non hanno restituito nulla al paese. Hanno negato agli imprenditori veri le risorse indispensabili per produrre, esportare, assumere».
Non c’è però solo l’indignazione, nel discorso di
Banchieri.
C’è anche una buona dose di (amara) riflessione, per esempio sul ruolo sempre più scomodo che hanno dovuto assumere le banche centrali nelle società occidentali. Quando hanno sospeso tutte le cautele e si sono messe a stampare denaro, la Federal Reserve americana o la Bank of Japan hanno sì salvato il mondo avanzato da una spirale depressiva simile a quella degli anni ’30. Ma lo hanno fatto dopo aver mancato di vedere che si sarebbe arrivati a un punto di rottura e producendo nuove distorsioni e vantaggi per i più ricchi in seguito. La creazione di liquidità tiene a galla l’economia, ma lo fa premiando chi può investire di più nei mercati finanziari. Draghi alla Bce o Ben Bernanke alla Fed hanno assunto un ruolo che Rampini definisce di “onnipotenti”. Ma proprio l’aver bisogno di eroi del genere dà la misura della nostra fragilità. «Il culto della personalità – dice l’autore a questo proposito – può raggiungere talvolta delle vette imbarazzanti».
La terza vena che attraversa il libro, forse la più sentita, è quella personale. Più che un saggio, Banchieri è il diario di una vita vissuta attraverso la crisi. La moglie Stefania che abbandona la professione di trader a San Francisco a passa a contratti a tempo, anno dopo anno, a New York. Il fastidio all’apprendere che Kathy, l’insegnate di yoga kundalini, dia lezioni speciali per i banchieri di Goldman Sachs. Il frastuono di New York che ti insegue fino al 31 esimo piano, da cui si riesce a fuggire solo nei concerti di Bach in una chiesetta evangelica luterana vicino a Central Park. Anche questo forse è downshifting, scalare alla marcia più bassa, o downsizing, ridimensionare il tenore di vita: espressioni passate di colpo dal gergo dei grandi gruppi industriali a quello delle famiglie. E se qualcuno alla fine chiedesse dov’è la pars construens, la via d’uscita, la risposta è pronta: «Insegnate l’economia ai bambini».

La Repubblica 05.11.13

“Eppure la cultura ci può salvare”, di Gianni Riotta

L’Italia che emerge dai dati europei sui consumi culturali è come un’immagine composta al computer da milioni di pixel, mosaico che, spostando il fuoco, si sgrana e assume diverse fisionomie. Paese impoverito, potremmo dire a prima vista, che taglia su spettacoli e libri perché disoccupazione, cassa integrazione, precariato limano i redditi familiari. È di ieri la notizia che ha visto ridotti quasi della metà gli italiani in lizza per la Maratona di New York: crisi del podismo o risparmi?

Un Paese intimidito, che non studia musica perché preoccupato di quel che la crisi ci butta addosso, magari deciso a investire i risparmi in un corso che si ritiene più utile, «Informatica», «Inglese Commerciale», «Tecniche del Marketing» anziché violino, pianoforte, composizione. Un Paese affaticato, perché niente logora come la vita del disoccupato e del precario.

Da mattina a sera cercando un posto, un impiego, calcolando se i tre mesi di contratto a rischio rinnovo valgano la pena, o se sia meglio restare free lance e non perdere clienti. Incerti se cercarsi una raccomandazione detestata, tornare a studiare, o – per i senza lavoro over cinquanta – tornare con trepidazione a «guardarsi in giro», come si era fatto solo trenta anni indietro.

Stati d’animo che poco invogliano a mettersi in coda con i turisti agli Uffizi a Firenze, a meditare sul Cenacolo di Leonardo a Milano o l’Annunciata di Antonello a Palermo, ascoltare le Variazioni Golberg di Bach, un brano jazz di Tristano, l’ultimo spettacolo di Luca Ronconi. I numeri che Marco Zatterin analizza sono i pixel di un Paese depresso, distratto, indaffarato, frustrato, dove un’élite di rango o cultura continua a potersi permettere anche la «Cultura» ma la grande galassia di chi scivola nell’economia post industriale dal ceto medio al disagio taglia i consumi, nobili come La Scala, semplici come pizza e birra con gli amici.

I nostri luoghi comuni, il Paese con i tanti (troppi?) siti dell’Unesco, la patria del diritto, il Bel Paese dove il Sì suona, gli elzeviri del solito parruccone, svaniscono davanti a un censimento impietoso, dove conservatori, cinema, gallerie d’arte, restano deserti e ciascuno di noi si isola, detestando perfino la tv.

Ci sarà chi, e non a torto, rimprovererà la cultura italiana, specchio depresso di questa deprimente realtà, incapace di dare visione al resto della comunità, con romanzi insieme di eccellenza e popolari, come «I Promessi Sposi» o «Il barone rampante», film come il «Gattopardo» di Visconti, un cult che però ebbe record di incassi nel 1963-1964. Nei ricordi de «L’impronta dell’editore», Roberto Calasso ha ricordato con ironia come «Fuga senza fine» di Joseph Roth, aristocratico romanzo Adelphi della Mitteleuropa divenne nel 1977 lo struggente manifesto di una generazione ribelle: il corto circuito culturale, anima del jazz, produce simili scintille emotive.

Oggi troppo appare spento in Italia. La crisi induce risparmio, contrazione, taglio, la paura sociale genera rancore, astio, invidia, oppure frustrazione, solitudine, alienazione. Eppure è giusto in momenti come questi che la cultura salva. Il neorealismo italiano, con il suo De Sica capace di essere eroe per il capolavoro di Rossellini «Il generale Della Rovere» (anche qui tensione cultura-cronaca, l’idea era di Indro Montanelli) come per il bonario «Pane, amore e fantasia» di Comencini, la Loren tragica della «Ciociara», premiata con l’Oscar, e la Loren comica dello spogliarello davanti a Mastroianni al ritmo languido di «Abat Jour», facevano meditare e rasserenare. In America, negli anni terribili della Depressione, Steinbeck racconta l’esodo dei braccianti, il regista Capra conforta con i suoi film, commedie morali. Facendoci riflettere o sorridere, mai annoiandoci però, la cultura è indispensabile negli anni bui. Troppi nostri romanzi, troppi nostri film, troppa nostra tv, riflettono invece opachi la società perduta, che si lamenta, si isola, non vuol combattere né sperare e diserta.

Il populismo corrente addebita, a destra, centro e sinistra, questo vuoto alla «Kasta», un totem che ha finito, complice la nostra disastrosa classe politica degli ultimi 20 anni, per assolvere tutte le colpe parallele della leadership italiana, finanzieri e aziende, la Chiesa, la cultura e i media, la pubblica amministrazione, i sindacati. La mancanza di visione, la paura del futuro, lo sterile attaccarsi ai pochi, diffusi, privilegi, ci ha buttati nel pozzo in cui ci sentiamo infelici. Dall’oblò lontano vediamo poca luce e neppure un pezzetto di quella Luna meravigliosa che il piccolo minatore Ciaula di Pirandello, riesce a scorgere una notte uscendo dalla tomba di fatica dove vive.

L’Italia – ci dicono i centri studi – non cresce da 25 anni, una generazione. Qualcuno scrolla le spalle, invocando il miraggio della «decrescita felice», ossimoro grottesco. È questo deserto culturale, invece, il panorama maligno della decrescita. Non meno tempo sprecato al centro commerciale a comprare roba inutile trasformato in prezioso seminario a Ivrea, su Signorina Felicita e Gozzano. No, niente shopping, niente Gozzano, restare seduti da soli in tinello sul sofà con la tv o il computer che girano a vuoto e neppure guardiamo, aspettando in silenzio i guai di domani.

La Stampa 05.11.013

“Classi di concorso, riforma sparita”, di Alessandra Ricciardi

Rivedere le classi di concorso per ridurle nel numero e farle corrispondere ad aree disciplinari più ampie, funzionali a una gestione più flessibile degli organici. Rivedere le classi di concorso anche per farle corrispondere alle cattedre attive nelle scuole, cioé alle materie insegnate ai ragazzi in base ai nuovi programmi, e a quelle di cui si ha effettivamente bisogno. A 5 anni dalla legge che le prevedeva (il decreto legge 112/20008), a supporto di una riduzione delle ore di lezione nella più ampia e cruenta riforma Tremonti-Gelmini, e dopo innumerevoli bozze di decreto (se ne contano almeno sei), delle nuove classi di concorso non se ne sa più nulla. Non se ne ha traccia neanche ai tavoli di confronto con i sindacati. Intanto si stanno avviando per migliaia di docenti precari nuovi percorsi di abilitazione riservati (i cosiddetti Pas) sulle vecchie classi. Con la conseguenza che potranno anche esserci insegnanti di nuova abilitazione in stenodattilografia e trattamento testi (A075 e A076), discipline in via di esaurimento e i cui docenti già di ruolo sono stati dirottati per esempio su informatica. E si segnalano anche sparute richieste di Pas per la classe di concorso di economia domestica. Il simbolo di un’altra Italia.

La mancata approvazione delle nuove classi di concorso sta creando difficoltà anche nella gestione quotidiana degli organici a livello territoriale, nella confluenza tra vecchie classi e nuove cattedre post riforma Gelmini. E numerosi sono i ricorsi da parte di chi si sente scavalcato rispetto alla propria graduatoria.

Francesco Profumo aveva provato, a pochi giorni dalla scadenza del mandato di ministro dell’istruzione, a firmare il decreto di riordino: per le scuole secondarie, il decreto prevedeva 56 classi di concorso, di cui 6 di nuova istituzione, al posto delle precedenti 122, a coprire l’intera area umanistica e scientifica. Altre 26 per gli insegnanti tecnico-pratici al posto delle 55 del decreto ministeriale del 1998. Una riduzione della frammentazione che rispondeva all’esigenza di una gestione più flessibile dei docenti su ambiti disciplinari più ampi, con risparmi a cascata anche sui corsi di formazione e i concorsi (più corsisti a percorso, meno commissioni ai concorsi). Un riordino complessivo insomma di ordinamenti e reclutamento che ha dovuto fare i conti con alcune incertezze dell’amministrazione e resistenze dei sindacati. «Non si fanno riforme di questo tipo quando ormai il governo è già a casa», tuonò la Flc-Cgil. A creare perplessità la fase transitoria, quella in cui convivono abilitati delle precedenti classi e delle nuove. Preoccupazioni soprattutto per i 170 mila docenti precari delle graduatorie a esaurimento: unificare le vecchie classi per dar vita alle nuove significa infatti anche unificare le graduatorie e gli organici. Con la conseguenza che magari un prof al terzo posto di una graduatoria finisca per diventare decimo dopo l’accorpamento. «In passato c’è stata una gestione confusa, ma la revisione delle classi di concorso per quanto ci riguarda va fatta», dice Massimo Di Menna, segretario della Uil scuola, «garantendo la gradualità dell’attuazione per il personale in servizio sia per la stabilità dell’organico che per la professionalità». Predica cautela Francesco Scrima, segretario della Cisl scuola: «Visto che è stata fatta una riforma delle superiori che non è ancora giunta a conclusione, giacché manca l’ultimo anno, e che comunque ha già richiesto un forte adattamento, aspettiamo di vederne i risultati e poi valutiamo. Non abbiamo bisogno di approssimazioni, che produrrebbero solo ulteriore disorientamento nella scuola». Chiarisce Mimmo Pantaleo, numero uno della Flc-Cgil: «Non ci sono no ideologici da parte nostra, ma motivazioni di merito, per esempio siamo convinti che vadano ripristinati gli ambiti disciplinari, per consentire lo scambio dei docenti tra medie e superiori. Ma le classi di concorso vanno razionalizzate, ci sono classi ormai superate così come ne mancano altre di cui si ha estremo bisogno. Non si può pensare però di procedere con la mannaia».

Da ItaliaOggi 05.11.13

“Libri di testo, un vero optional”, Antimo Di Geronimo

I libri di testo non saranno più obbligatori e potranno essere sostituti da strumenti alternativi. Nel biennio dei professionali sarà reintrodotta la geografia e l’orientamento degli alunni, nell’ultimo anno delle medie e nel biennio finale delle superiori, sarà obbligatorio e rientrerà nell’orario di lavoro.

Sono queste alcune delle disposizioni contenute nel disegno di legge di conversione del progetto di legge 104/2013, approvato dall’aula della camera il 31 ottobre scorso (1574-A). Il testo sarà in discussione al senato da domani, in vista dell’approvazione definitiva. Che dovrà avvenire entro l’11 novembre prossimo, pena la decadenza del decreto. Va detto, inoltre, che la Corte costituzionale, con la sentenza 360/96, ha precluso al governo la possibilità di reiterare i decreti legge. E dunque, l’imminenza del termine di decadenza induce a ritenere che il passaggio al senato dovrebbe essere meramente confermativo.

Formazione e fumo

L’aula di Montecitorio ha mitigato gli effetti della disposizione che puniva con la formazione coatta i docenti delle scuole i cui alunni avessero ottenuto voti bassi alle prove Invalsi. In ciò modificando la norma da precettivo-sanzionatoria a norma di indirizzo, rivolta ad una platea molto più ampia. Anche se qualifica la formazione come un vero e proprio obbligo. Resta confermata, inoltre, la norma che vieta l’uso delle sigarette elettroniche nelle scuole e nelle pertinenze. Ma la camera ha modificato la destinazione dei proventi derivanti dalle multe da applicare ai trasgressori.

I soldi delle sanzioni, inizialmente destinati al ministero della salute per studi sugli effetti derivanti dall’uso di sigarette elettroniche, adesso rimarranno alle scuole. E saranno destinati a finanziare attività formative finalizzate all’educazione alla salute. L’importo della sanzione andrà dai 25 a 250 euro per i meri trasgressori. E saranno raddoppiati per chi fumerà in classe. Ma se a trasgredire il divieto sarà il preside o il soggetto incaricato di far rispettare il divieto, l’importo della sanzione andrà da 200 a 2mila euro. Il provvedimento prevede anche lo stanziamento di 3,6 milioni per l’anno 2013 e di euro 11,4 milioni per l’anno 2014, per avviare in via sperimentale il prolungamento dell’orario di apertura delle scuole nelle aree a rischio dispersione. A questo proposito, il testo licenziato alla camera chiarisce che questi soldi serviranno anche per retribuire le attività aggiuntive del personale docente coinvolto. E quindi i relativi oneri non graveranno sul fondo di istituto.

Orientamento e rete

Ciò non vale, invece, per le attività di orientamento. Che in via ordinaria dovranno rientrare nell’orario d’obbligo (come peraltro avviene di solito). Ma se l’orario di lavoro ordinario non dovesse bastare, la nuova stesura elaborata dalla camera prevede che si attinga al fondo di istituto, previa contrattazione integrativa. Resta confermata anche la norma che prevede la possibilità per le Regioni di contrarre mutui trentennali destinati alla realizzazione di interventi di edilizia scolastica per un importo di 40 milioni annui (art. 10). Idem per quanto riguarda l’introduzione della connettività wireless nelle scuole secondarie (con priorità per le superiori) per la quale è prevista un’autorizzazione di spesa il 2013 e il 2014, rispettivamente di 5 milioni di euro e di 10 milioni di euro. Il progetto di legge prevede, inoltre, l’introduzione di una sola ora di «geografia generale ed economica» in una delle due classi del primo biennio di quegli istituti tecnici e professionali nei quali la materia è stata completamente cancellata dalla riforma Gelmini. E ciò consentirà la formazione di 287 cattedre di geografia in più per le quali saranno stanziati circa 10 milioni di euro a decorrere dal 2014. Il dimensionamento scolastico avverrà in sede di conferenza unificata Stato-Regioni. Ma sempre senza sforare i vincoli di spesa.

Assunzioni e sostegno

Inoltre, l’articolo 15 del disegno di legge prevede che nel triennio 2014-2016 saranno disposte immissioni in ruolo nell’ordine di 27.872 docenti e 13.400 Ata. E in più saranno disposte 26.684 assunzioni a tempo indeterminato di docenti di sostegno, sempre nel triennio. L’aula della camera ha previsto anche l’unificazione delle aree del sostegno nelle superiori. Che si applicherà solo alle graduatorie di istituto: nel triennio 2014/2017 agli elenchi di II e III fascia e a partire dal 2017 anche alla prima fascia. Il testo varato dalla camera conferma la disposizione che prevede la riforma del reclutamento dei dirigenti scolastici tramite un corso concorso presso la scuola nazionale dell’amministrazione. Ma introduce una norma che prevede il previo esaurimento delle graduatorie degli ultimi concorsi. Il testo licenziato dalla camera reintroduce anche la valutazione del bonus maturità, ma solo per quest’anno. Affinché possano giovarsene gli studenti che stanno sostenendo le prove o le abbiano appena sostenute, in deroga al divieto previsto dal decreto 104, che avrà valore dal prossimo anno.

Inamovibilità

Salta il divieto di mobilità interprovinciale per 5 anni, fortemente voluto a suo tempo dalla Lega. Ma non del tutto, il vincolo rimarrà solo per 3 anni. Fatta salva la disciplina speciale contenuta nella legge 104/92 per i portatori di handicap e chi li assiste.

La norma abbassa il limite di permanenza coatta nella provincia di immissione in ruolo, ma non recepisce in toto la normativa comunitaria. Che peraltro, non solo vieta l’introduzione di preclusioni alla mobilità dei lavoratori, ma sancisce espressamente il cosiddetto diritto di stabilimento.

La norma sull’inamovibilità per i neoimmessi in ruolo, peraltro, già adesso è derogabile nel caso del genitore del figlio di età fino a 3 anni e in altri casi previsti dalla legge. Ulteriori deroghe, anche il limite dei 3 anni sono comunque previste dalla legge 104/92 in favore dei portatori per i portatori di handicap. Idem per quanto riguarda coloro che assistono un familiare portatore di handicap grave.

da ItaliaOggi 05.11.13