Latest Posts

“Io, dalla Calabria a Ginevra per aiutare il mondo che soffre”, di Natalia Aspesi

I migranti lasciavano le nostre terre per fame, miseria e crudeltà padronale, in cerca di una faticata sopravvivenza e di dignità. Oggi se ne vanno dall’Italia (e ormai vivono all’estero quasi 5 milioni di italiani) persone, soprattutto giovani, che hanno studiato, che inseguono corsi postlaurea, che cercano di realizzare le loro ambizioni e i loro sogni dove è possibile: non qui comunque, dove il futuro di impegno, creatività e carriera pare non esistere o sembra precluso a troppi. «La mia non è stata una fuga da casa o dall’Italia. Volevo approfondire la mia formazione in un settore, quello del diritto umanitario, il cui centro è altrove ».
Maria Giovanna Pietropaolo, 25 anni, calabrese, minuta, occhi verdi, prima di tre sorelle, padre e madre avvocati, famiglia che vive a Vibo Valentia è, dice lei «cresciuta nell’ideale dei valori cattolici di impegno verso gli altri». Si è laureata a Firenze in giurisprudenza, studiando con grandi internazionalisti come Luigi Condorelli, perché «la mia passione è questa, il diritto internazionale: poi sono stata ammessa all’Accademia del Diritto Umanitario Internazionale e
dei Diritti Umani di Ginevra, che è un centro di eccellenza nel settore». Ha concluso il Master, adesso fa tirocinio, con stipendio, nel Comitato della Croce Rossa Internazionale, e in quell’ambito di impegno fervente e silenzioso, che evita ogni spettacolarizzazione, è diventata subito famosa: è infatti la prima italiana a vincere il prestigioso premio (anche in denaro) Henry Dunant (nel 2005 fu segnalata un’altra italiana, Gloria Gaggioli, oggi consulente
legale della Croce Rossa, ex aequo con Philip Grant). È un premio che viene dato “a un lavoro accademico eccezionale che contribuisca ad approfondire e rinnovare l’impegno nel campo dei diritti umani”. Dice, come la chiamano a Ginevra, Madame Pietropaolo: «Ho cercato in una prospettiva giuridica come si potrebbe riordinare le priorità tra sovranità, esigenze primarie dei singoli e solidarietà: sembra impossibile che di fronte a gente bisognosa di aiuto e ad una società internazionale desiderosa di fornirlo, ci siano governi che per ragioni politiche impediscano che questo “atto di umanità” si realizzi». Quando ciò non è stato possibile? «In molte catastrofi che coinvolgono migliaia di persone, terremoti, inondazioni, carestie: ed è emblematica la situazione post-ciclone Nargis, nel 2008 in Birmania, quando la giunta militare inizialmente rifiutò i soccorsi internazionali mettendo tragicamente a rischio la popolazione colpita». È stato un immane massacro avvenuto in Italia a metà Ottocento a inorridire l’uomo d’affari svizzero Henry Dunant che ne fu casualmente testimone. La sera del 24 giugno 1859, a Solferino, alla fine di una battaglia durata 14 ore, tra 230 mila soldati,
franco piemontesi contro austriaci, erano rimasti sul campo più di 6000 morti, 23mila feriti, mentre 12mila erano i dispersi. Nessuno osava avvicinarsi a quel luogo di morte, sofferenza e abbandono, e fu il fattivo Dunant a convincere la popolazione locale a occuparsi dei morti e dei feriti, senza badare alla loro divisa, improvvisando ospedali da campo e fornendo a sue spese medici e medicinali: le donne della vicina Castiglione delle Stiviere corsero a prodigarsi sul luogo della carneficina, al grido “Tutti fratelli!”. L’eredità umanitaria di Henry Dunant, fondatore della Croce Rossa nel 1863, ispiratore della Convenzione di Ginevra dell’anno successivo, poi, nel 1901, primo Premio Nobel per la Pace con il francese Frederic Passy, è nata quindi da una catastrofe bellica. «Oggi possiamo assistere agli orrori della storia quasi in prima fila come Dunant, grazie a Internet. Ma le guerre sono così tante, soprattutto quelle civili con conseguenti genocidi, che non di tutte il mondo viene informato, come avviene per la Siria: eppure i massacri continuano, ignorati, per esempio in Congo, in Mali». Fugge da guerre, da catastrofi naturali, dalla fame, dalla persecuzione, dalla morte, una moltitudine di disperati che cerca scampo sulle coste italiane, ma sono centinaia quelli che non ce la fanno, uomini, donne, bambini, che scompaiono nelle acque del Mediterraneo. «È imperativo che una simile tragedia si trasformi in azione. Penso proprio ai recenti naufragi a poca distanza dall’idea di salvezza, e citando Tiziano Terzani, dico che nel loro orrore, come la post- battaglia di Solferino, costituiscono per la storia dell’umanità “una grande occasione” che riguarda sia gli alti livelli della comunità europea e anche tutti noi quando ci si deve confrontare con gli strascichi di queste tragedie, come la disperazione degli immigrati nelle nostre città. Guai se tutta questa sofferenza diventasse l’ennesima occasione persa». Come dipendente della Croce Rossa, Maria Giovanna deve rispettare neutralità e imparzialità, e quindi non può parlare di attualità politica, come la legge “Bossi-Fini” e si limita a dire che «sull’immigrazione c’è ancora molta strada da fare». Adesso le piacerebbe mettere in pratica la sua preparazione, attraverso i tanti progetti di selezione: «Che non riguardano l’assistenza medica, talvolta prioritaria, ma l’assistenza legale, ugualmente importante nelle situazioni di grande violenza e caos, per dare aiuto agli individui nei rapporti con le autorità, per esempio a prigionieri di guerra o a detenuti civili». Ha voglia di tornare a vivere in Italia? «Non ho la sensazione di essere altrove perché gli italiani anche a Ginevra sono tanti e molto brillanti. È una città che offre tante opportunità di crescita professionale, un incrocio tra culture e lingue molto stimolante. Noi giovani cresciamo nella splendida consapevolezza che qualunque contributo si riesca a dare nella vita, lo si dà al mondo intero e non solo al proprio Paese. Siamo cittadini del mondo, e saremmo felici di sentirci liberi di fare la nostra parte anche da casa nostra. Se fosse possibile».

La Repubblica 05.11.13

“La denuncia Ue sull’Aquila. Ora qualcuno chieda scusa”, di Sergio Rizzo

Ci sono casi in cui è triste dover ricordare: l’avevamo detto. Il rapporto della Commissione europea sul modo increscioso con cui sono stati spesi i fondi europei per il terremoto in Abruzzo è uno di questi. Non serviva certo un ispettore di Bruxelles per scoprire che il costo delle abitazioni del progetto Case era spropositato non rispetto alla bottiglia di spumante, o alle lenzuola nuove con le cifre (le cifre!) che gli sfollati trovarono nel frigorifero e nella stanza da letto. Spropositato rispetto al mercato e alla qualità delle costruzioni: 2.700 euro al metro quadrato. Né per accorgersi che nel centro storico di una delle città più belle e importanti d’Italia, la seconda del Paese per numero di edifici vincolati, la ricostruzione era pressoché paralizzata, al punto che a quattro anni e mezzo da quella tragedia sono stati restaurati appena due immobili. E neppure per rendersi conto dell’andazzo della spesa per la messa in sicurezza dei palazzi storici, pagata un tanto a snodo dei tubi innocenti: per decine e decine e decine di milioni.
Questa storia era sotto gli occhi di tutti, ampiamente documentata dalle inchieste giornalistiche, dalle denunce che correvano sulla rete, dai libri scritti da protagonisti di quella battaglia quali l’animatrice del movimento delle carriole Giusi Pitari, e perfino da un film documento: Draquila di Sabina Guzzanti, che per questo era stata additata come disfattista dagli esponenti del governo allora in carica, quello di Silvio Berlusconi.
Ma la relazione stesa dal funzionario di nazionalità danese incaricato di indagare a fondo sugli sprechi del dopo terremoto, rivelata ieri da Attilio Bolzoni su Repubblica , dice anche di più. Dice per esempio che i materiali impiegati erano scadenti. Scadenti, c’è scritto proprio così. E tornano alla mente le parole pronunciate in quella frase intercettata per telefono a un affarista che diceva a suo cognato: «Io quella notte ridevo…». Frase che meglio non avrebbe potuto descrivere lo scenario che qualcuno già aveva in mente, e non soltanto il signor Francesco Maria De Vito Piscicelli.
Il rapporto degli ispettori europei è un atto d’accusa spietato nei confronti di un Paese che non soltanto spreca i fondi europei (ma questo, ahimé, non è affatto una novità), ma nel quale c’è persino chi non esita a speculare sul dolore: nell’indifferenza, se non addirittura talvolta la complicità, di una classe dirigente inadeguata e miope. Tanto miope da trattare drammi come quello del terremoto in Abruzzo, e questo vale anche per tutte le catastrofi che hanno martoriato il nostro territorio quali il sisma in Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia o le frane nel messinese, non al pari di emergenze dell’intera nazione, ma alla stregua di faccende «locali» che riguardano esclusivamente gli abruzzesi, gli emiliani, i lombardi, i cittadini di Messina… E che al massimo possono servire alla propaganda politica.
Immaginiamo la rabbia di tanti vigili del fuoco, soldati, volontari che hanno salvato centinaia di vite a prezzo della propria e si sono prodigati fino al limite del sacrificio per aiutare i fratelli più sfortunati, leggendo ciò che ha scritto il signor Søren Søndergaard. Per questa vergogna che ha gettato sul Paese, qualcuno dovrebbe chiedere scusa anche a loro.

Il Corriere della Sera 05.11-13

Legge stabilità, incontro tra i parlamentari Pd e sindaci del cratere

Nel pomeriggio di lunedì 4 novembre si è tenuto presso la sede provinciale del Pd, in via Scaglia Est, un incontro, promosso dalla segreteria provinciale del partito, che ha visto attorno allo stesso tavolo i parlamentari modenesi Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni, Giuditta Pini e Stefano Vaccari e i sindaci dell’area del cratere sismico. “E’ stata l’occasione – spiega il segretario provinciale Pd Paolo Negro – per fare il punto sulla Legge di stabilità in discussione e sulla ricostruzione. In particolare abbiamo rimesso a fuoco le questione relative alle misure ancora necessarie per accompagnare la ricostruzione”. Ecco la dichiarazione di Paolo Negro:

“Come già successo più volte in passato, come segreteria provinciale del Pd abbiamo promosso un nuovo incontro tra i nostri rappresentanti a Roma e i sindaci dell’area del cratere sismico. In questo momento il Parlamento sta predisponendo gli emendamenti alla Legge di stabilità. E’ per questo che ho ritenuto opportuno riunire attorno allo stesso tavolo diversi livelli istituzionali: era necessario rimettere a fuoco le questioni che attengono alle misure in grado di accompagnare la ricostruzione. Sono state tanti i risultati che il lavoro dei nostri parlamentari ha consentito di “portare a casa”: si devono fare nuovi passi in avanti, e la Legge di stabilità vogliamo abbia anche questo segno. Abbiamo ripreso i temi centrali della ricostruzione: i vincoli degli Enti locali, in particolare con riferimento ai vincoli del Patto di stabilità, imprese e fiscalità, famiglie e credito, ricostruzione dei centri storici. Con i sindaci dell’area del cratere abbiamo quindi rimesso a fuoco le necessità e i nostri parlamentari si sono assunti l’impegno, ancora una volta, di fare da tramite tra le istanze locali dei territori e il livello istituzionale nazionale”.

“Trovato il tesoro segreto di Hitler 1500 opere da Picasso a Matisse”, di Andrea Tarquini

Era il tesoro segreto del Terzo Reich, quasi un’eventuale seconda riserva aurea della tirannide dopo quella della Reichsbank sperperata fino all’orlo della bancarotta per finanziare guerre e crimini contro l’umanità: oltre millecinquecento opere d’arte, dipinti dei massimi maestri dell’arte moderna, confiscati dai nazisti come “arte degenerata” o semplicemente rubata agli ebrei prima perseguitati costretti a lasciare la Germania dopo la “Notte dei cristalli”, poi finiti vittima della Shoah, il loro genocidio organizzato su base industriale. E solo adesso si viene a sapere che il tesoro è riemerso per caso, in un blitz del febbraio 2011 della dogana bavarese a casa di un anziano signore, ambiguo ma inosservato. È un evento sensazionale: l’arte e la cultura del mondo riprendono possesso di quelle opere, dal valore stimato di oltre un miliardo di euro, che dal 1945 erano state classificate come disperse per sempre.
Quadri di Pablo Picasso e Henri Matisse, Marc Chagall e Emil Nolde, Franz Marc, Max Beckmann, Paul Klee, Oskar Kokoschka, Ernst Ludwig Kirchner e Max Liebermann. Per decenni e decenni, dopo l’8 maggio 1945 quando il Reich fu costretto dagli Alleati alla resa incondizionata, del Tesoro di Hitler non si era saputo più nulla. Molti sopravvissuti alla Shoah, o i loro discendenti, per decenni chiesero ai governi del mondo ogni sforzo per ritrovarli, ma invano. Tutti si erano ormai rassegnati, tutti pensavano che i millecinquecento quadri fossero andati distrutti nei bombardamenti dei Lancaster e dei B-17 alleati, o a Berlino nei combattimenti tra tank, “carri armati volanti” e soldati di Zhukov e vecchi donne e bimbi arruolati a forza dal Fuehrer nel Volkssturm.
Solo ora si viene a sapere che tutto è stato ritrovato due anni fa.
Millecinquecento quadri di grandi autori sono una parte davvero non piccola del patrimonio culturale mondiale. Tutto era nascosto nell’appartamento lussuoso ma polveroso e decaduto di un anziano abitante di Schwabing, uno dei quartieri più chic della ricca capitale bavarese. Sotto il letto o negli armadi, li teneva nascosti il taciturno, schivo Herr Cornelius Gurlitt. Suo padre, il mercante d’arte Hildebrand Gurlitt, fu uno dei tanti “ariani doc” che seppero profittare del nazismo. Negli anni Trenta e Quaranta aveva acquistato quelle opere dai nazisti. Non si sa bene se doveva custodirle per loro come accadde a opere d’arte rubate e celate dai gerarchi nei forzieri di compiacenti banche elvetiche, o se ne fosse divenuto proprietario a pieno titolo. In ogni caso,sia lui sia il regime avevano fatto un buon affare. Herr Gurlitt senior nascose subito il tesoro nella bella casa di Schwabing, e per sua fortuna Monaco fu ben meno bombardata rispetto ad altre città del Reich.
«Almeno trecento dei millecinquecento quadri appartengono all’arte condannata e vietata dai nazisti come “degenerata” (astratta, surrealista ecc). Altre furono confiscate semplicemente per il loro valore», dice a Focus,il giornale tedesco che rivela la storia nel numero in edicola oggi, la storica dell’arte berlinese Meike Hoffmann. Dopo la guerra, tutto restò in mano a Cornelius Gurlitt, appunto figlio di Hildebrand. Cornelius ereditò almeno un po’ di quadri in più dei 1.500 ritrovati. A lungo visse vendendo ora una tela ora un’altra, senza mai dichiarare nulla al fisco. Per questo finì indagato dalla magistratura, col sospetto di evasione fiscale. Riuscì a farla franca finché un giorno di settembre del 2010 si fece cogliere in flagrante dai doganieri, su un treno tra Monaco e la Svizzera, con in tasca forti somme di denaro contante. Fu ordinata una perquisizione nella casa di Schwabing, e venne effettuata nella primavera del 2011. Da allora, la dogana bavarese è in possesso del tesoro, custodito nel bunker di massima sicurezza a Garching, non lontano dal reattore atomico sperimentale.
Finora, le autorità avevano tenuto tutto sotto segreto. Anche il fatto che, dopo la perquisizione, Cornelius Gurlitt riuscì a intascare 864mila euro vendendo con l’aiuto di complici un quadro di Max Beckmann.
La memoria d’Europa,schiacciata in quei decenni dalle dittature, si risveglia. Nel tesoro di Herr Gurlitt c’era anche un quadro di Matisse, proprietà del collezionista ebreo francese Paul Rosenberg. Il quale fuggendo prima dell’occupazione nazista di Parigi lasciò là la sua collezione. Sua nipote Anne Sinclair (sì, proprio lei, l’ex moglie del controverso Dominique Strauss-Kahn) lottava da anni per ottenere la restituzione dei quadri del nonno. Ma di quel ritratto di donna di Matisse non sapeva nulla.

La Repubblica 04.11.13

“Se anche il carcere divide i ricchi dai poveri” di Chiara Saraceno

Forse a Giulia Ligresti non occorreva neppure l’interessamento della ministra della Giustizia Cancellieri perché il tribunale valutasse il suo stato di salute come troppo rischioso per la sua incolumità psico-fisica e quindi ne decidesse la scarcerazione. Bastava la sua condizione di persona ricca e privilegiata, non abituata quindi ai disagi. Secondo la perizia medica alla base della decisione del tribunale, infatti, proprio la sua condizione di persona abituata ai privilegi e agli agi l’ha resa particolarmente inadatta a sostenere l’esperienza carceraria. Secondo il perito, Giulia Ligresti soffriva “di un disturbo dell’adattamento, che è un evento stressante in modo più evidente per chi sia alla prima detenzione e in particolar modo per chi sia abituato a una vita particolarmente agiata, nella quale abbia avuto poche possibilità di formarsi in situazioni che possano, anche lontanamente, preparare alla condizione di restrizione della libertà e promiscuità correlate alla carcerazione».
Se ne deduce che invece chi non è abituato a una vita particolarmente agiata ha più facilità ad adattarsi alle condizioni di vita in carcere. Ne deriva, per seguire fino infondo la logica di questo ragionamento, che l’istituzione carceraria deve essere particolarmente attenta ai bisogni e alle difficoltà di chi arriva in carcere da una vita di privilegi. Una attenzione che invece non è necessaria nei confronti dei poveri cristi che ci arrivano da vite modeste. Le “difficoltà di adattamento” di questi ultimi, e più generalmente il loro malessere, devono essere molto più vistosi per avere una possibilità di essere presi in considerazione. E non sempre ciò basta, proprio perché mancano loro le conoscenze, il know how, per mobilitare perizie e richiamare l’attenzione. Se poi, oltre a non essere agiate, presentano anche qualche tipo di vulnerabilità sociale (piccoli precedenti, tossicodipendenza, segnalazione ai servizi sociali e simili), le loro condizioni di malessere rischiano di essere sistematicamente ignorate o sottovalutate — qualche volta fino alla morte, come è avvenuto per il povero Cucchi: prima picchiato da chi lo aveva arrestato, poi lasciato morire dai medici per carenza di assistenza medica e per mancanza di cibo e di liquidi.
La ministra Cancellieri afferma di essere intervenuta per motivi umanitari e di averlo fatto in un altro centinaio di casi rimasti sconosciuti e riguardanti sconosciuti. Sarà sicuramente vero. Ma proprio per questo preoccupante, soprattutto se messo insieme alle argomentazioni del perito del caso Ligresti. Segnala che, nel girone infernale delle carceri italiane, la possibilità che i detenuti continuino a essere considerati esseri umani con diritto alla dignità e integrità personale e alla cura è affidato — come nell’ancien régime — alla discrezionalità di chi ha il potere di accogliere una supplica o ai privilegi riconosciuti alla ricchezza e allo status sociale — incluso il privilegio di vedersi riconosciuto un plus di vulnerabilità e sofferenza. Quanti altri detenuti si trovano in condizioni di “disadattamento grave” alle condizioni carcerarie, ma non hanno modo di attirare l’attenzione della ministra, o non viene loro neppure in mente di poterlo fare, e non sono abbastanza agiati da sollecitare la comprensione di un perito? Se non affronta l’ineguale diritto all’umanità dei detenuti nelle carceri italiane, il diritto alla propria umanità rivendicato dalla ministra non è altro che la rivendicazione del diritto alla discrezionalità benevola in assenza di diritti e garanzie per tutti.

La Repubblica 04.11.13

******

“In quelle telefonate il romanzo del potere”, di MASSIMO GIANNINI

FIDUCIA ad Anna Maria Cancellieri, ribadisce il presidente del Consiglio Enrico Letta, alla vigilia di un confronto in Parlamento che domani si annuncia ricco di insidie per il governo e gravido di conseguenze per l’intero quadro politico. PERCHÉ a ripercorrerlo tutto, attraverso le cronache dei giornali e le carte della procura, lo scandalo Fonsai-Ligresti nasconde molto di più del grave “infortunio” di un ministro, che non è in grado di chiarire cosa lo lega alla famiglia siciliana e cosa lo ha spinto ad intercedere per la scarcerazione della figlia anoressica di don Salvatore. Quello scandalo rivela la trama occulta del solito grande Romanzo del Potere. Attraverso il quale, nell’Italia svilita e impoverita degli ultimi decenni, si raccontano l’ascesa e la caduta del «berlusconismo da corruzione» e del capitalismo di relazione. Si narrano i vizi di una politica incapace e irresponsabile e le miserie di una finanza rapace e irredimibile. Si contemplano le manovre segrete del Cavaliere nel 2009, insieme a Cesare Geronzi e allo stesso Ligresti, per mettere le mani sulla Galassia del Nord (come ha raccontato su queste pagine Alberto Nagel nell’estate del 2012), e le pratiche sporche dell’avventuriero di Paternò che nel 2002 si presenta in pigiama da Maranghi, nella sede di Piazzetta Cuccia, per firmare l’offerta su Fondiaria, e poi «compra» da par suo uomini di governo e di palazzo per non venire estromesso da Fonsai. Non sappiamo ancora cosa verrà fuori, dal dibattito parlamentare e dall’inchiesta giudiziaria. Dimissioni, condanne, si vedrà. Ma intanto, con quello che è già emerso, il poeta cantante Fabrizio De Andrè non avrebbe dubbi: anche se voi vi credete assolti, siete per sempre coinvolti.
LO «SPIRITO UMANITARIO» DEL GUARDASIGILLI
La vicenda di Anna Maria Cancellieri è paradigmatica. «Non ci devono essere ombre », esige giustamente il premier. Ma di ombre, nel comportamento del ministro della Giustizia, ce ne sono eccome. E la sua intervista a «Repubblica» non le ha diradate. Sostiene il Guardasigilli: «La mia coscienza è assolutamente limpida e trasparente… Ho conosciuto la compagna di Ligresti, ho sentito il bisogno, sotto il profilo umano, di farle una telefonata perché il marito ultra ottantenne e malato era stato arrestato. Non sono entrata nel merito dell’inchiesta… Era solo per dire che ero vicina al sul dolore… ».
A rileggere il testo di quella telefonata a Gabriella Fragni, intercettata dalla procura di Torino il 17 luglio 2013, si ricava una sensazione diversa. Il ministro si offre per risolvere il caso, dà giudizi su quanto è accaduto. «Senti, non è giusto, non è giusto, lo so, povero figlio… Comunque guarda, qualunque cosa io possa fare, conta su di me… Appena riesco ti vengo subito a trovare, però qualsiasi cosa, veramente, proprio qualsiasi cosa adesso serva, non fate complimenti, guarda, non è giusto, non è giusto…».
È solo spirito umanitario, questo, o c’è anche dell’altro? Quando il ministro chiama, il 17 luglio, non c’è ancora nessun allarme sulla salute di Giulia Maria, arrestata insieme al padre Salvatore e alla sorella Jonella. Dunque, perché il Guardasigilli sente il bisogno di farsi viva, e di rendersi disponibile con la famiglia per «qualsiasi cosa»? Pesano le vicende del figlio Piergiorgio Peluso, ex manager assunto proprio dai Ligresti in Fonsai, che ha scoperchiato il verminaio della compagnia, squassata da un buco di 800 milioni di euro e spolpata dal clan siciliano al gran completo. Pesa un rapporto evidentemente gregario, che consente ora ai familiari di don Salvatore di «non fare complimenti», come chiede la stessa Cancellieri. Lo conferma la telefonata che la Fragni fa a sua figlia il 18 luglio, cioè il giorno dopo aver parlato con il ministro: «Gli ho detto: ma non ti vergogni a farti vedere adesso? Ma tu sei lì perché ti ci ha messo questa persona…». Lo conferma la telefonata che ancora la Fragni fa ad Antonino Ligresti, fratello di Don Salvatore, il 17 agosto, dopo che il gip ha respinto la richiesta degli arresti domiciliari per Giulia: «Senti Nino, vorrei che tu raggiungessi quella nostra amica… Penso che potrebbe fare qualcosa… ». Sarà poi la stessa Fragni a spiegare ai pm che «quella nostra amica» è proprio la Cancellieri. E sarà lo stesso Antonino, il 19 agosto, a tranquillizzare al telefono la compagna di suo fratello («Ho stabilito il contatto, e attendo risposta…»), dopo aver contattato il Guardasigilli prima con un sms («Novità? ») e poi con una telefonata diretta («durata sei minuti», si legge negli atti).
Il ministro nega che il suo interessamento sia andato al di la’ dell’amicizia, e che la «persona » che «ti ha messo li’» (alla quale allude la Fragni) sia Berlusconi. Quello che è certo è che il ministro, come ha detto lei stessa ai pm, attiva il Dap. Giulia Ligresti sarà scarcerata e trasferita ai domiciliari il 28 agosto. Francesco Cascini giura che la decisione era stata presa, a prescindere dalla segnalazione del ministro, che a sua volta sostiene di essersi interessata di centinaia di casi analoghi. Dice di aver ricevuto i familiari di Giuseppe Uva, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi. Cita addirittura Marco Biagi, come esempio da non ripetere di uno «Stato disattento ». Ma non abbiamo mai sentito parlare di iniziative pubbliche prese dal Guardasigilli, per i disperati e i suicidi dimenticati tra i 66.028 detenuti nelle patrie galere. Scaglia e Mazzitelli, carcerati «preventivi» nella vicenda Fastweb-Sparkle, sono marciti in galera per un anno, malati come e più di Giulia Ligresti. Non risultano telefonate partite da Largo Arenula.
IL «SISTEMA CORRUTTIVO» DEI POLITICI
Il ministro confonde l’umanità delle relazioni con la terzietà delle istituzioni. Ma la «piantina» della Cancellieri non deve farci perdere di vista il bosco che si staglia sullo sfondo. Fonsai è un gigantesco buco nero, che come scrive il gip Silvia Salvadori nell’ordinanza di arresto dei Ligresti si deve innanzitutto alla famiglia, che «ha trasformato la compagnia in una scatola piena di debiti prospettici… ha goduto di una politica manageriale che ha portato al graduale depauperamento della società… e alla distruzione del valore delle azioni acquistate da migliaia di risparmiatori». Nel triennio 2008-2010 don Salvatore ha portato a casa 40 milioni, suo fratello Paolo 10, e le figlie Jonella e Giulia rispettivamente 9 e 3,4 milioni. Ma da quel buco nero, a vario titolo, hanno attinto in tanti. Non solo i membri o i manager del clan siciliano. La politica si è fatta risucchiare, dentro quell’abisso. Basta scorrere i verbali della Procura di Torino, per averne un’idea.
La prima traccia si rinviene a dicembre del 2012, quando il disastro della Fonsai non è ancora esploso in tutta la sua portata giudiziaria, oltre che finanziaria. L’ex ad della compagnia Fausto Marchionni parla al telefono con Alberto Alderisio, fiduciario della famiglia. In ballo c’è il rinnovo della presidenza dell’Isvap, l’organo di controllo sulle assicurazioni, cruciale per chiudere un occhio sul crack dei Ligresti. A patto che a guidare l’Autority rimanga Giancarlo Giannini, che per anni ha finto di non vedere la gigantesca voragine in cui Fonsai stava sprofondando. Marchionni riferisce di una conversazione fatta con don Salvatore, che lo rassicura: «Ma si’, lui lo sa che ho parlato con Letta, è tutto a posto, lo rinnovano…». Il Letta in questione e’ Gianni, l’eminenza grigia del Cavaliere che per suo conto e nel suo esclusivo interesse sovrintende da vent’anni al sottogoverno delle autorità di vigilanza. Ligresti, a Palazzo Grazioli, è di casa. Come Berlusconi lo è a casa Ligresti: è lì, nelle fastose stanze di Via Ippodromo, che l’allora premier chiama nell’aprile 2003 per sollecitare (attraverso Ennio Doris) don Salvatore, Profumo, Tronchetti, Tarak e Bollorè a nominare l’amico Bruno Ermolli al posto di Vincenzo Maranghi in Mediobanca. La trama fallirà. Ma è questa la natura dei rapporti tra politica e affari, soprattutto secondo il «rito arcoriano».
MAZZETTE E ARAGOSTE
La seconda traccia è ancora più visibile. La rivela proprio Giulia Ligresti nel gennaio 2013, che da ex vicepresidente Fonsai si lamenta al telefono dei passi compiuti dal commissario ad acta Matteo Caratozzolo, nominato per gestire il pasticcio della compagnia di famiglia, e dell’intervento di Unipol orchestrato da Piazzetta Cuccia: «Se il commissario fa saltare fuori che quelli sono tutti mazzettati, Isvap, Consob, cioè erano tutti appagati da Mediobanca per fare questa operazione…». Mazzette, dunque. Ai vertici degli organi di garanzia del mercato. Ma non solo a loro.
Conviene tornare alla telefonata della Fragni con sua figlia, quella del 18 luglio, già menzionata a proposito della Cancellieri. Siamo alla terza traccia. Commenta la compagna di don Salvatore, ironizzando sulla sua precedente conversazione con il ministro: «Ah, sono dispiaciuta, dice… Eh no, non si è dispiaciuti! Sono stati capaci di mangiare
tutti… Sai com’erano, capaci di chiedere tutti, potrei fare i nomi, hanno mangiato tutti… ». I nomi ai pm che la interrogano non li fa. Ma la Fragni scoperchia il vaso di Pandora: «Hanno mangiato tutti».
E neanche solo in senso figurato. La quarta traccia la illustrano ancora Marchionni e Alderisio, che parlano al telefono il 15 aprile scorso. Dice Alderisio: «Stanno facendo le pulci all’ingegnere (Ligresti) e stanno a guardare anche i conti di Atahotel (la società di famiglia che controlla il Tanka Village, resort di vacanza in Sardegna)… Pare ci sia una tonnellata di aragoste in conto. Fai presto sai? Inviti un po’ di gente… Tu sai quante cene venivano fatte li’ al Tanka… Erano tutte relazioni pubbliche, te incontravi questo, quello incontrava l’altro, il ministro incontra questo, sottosegretario, direttore, tutte le cose che sappiamo…». Questo è lo scenario: mazzette e aragoste. Tutte le cose che sappiamo. E che portano a indagare con inquietudine la «zona grigia» nella quale politica e finanza si incontrano, si scontrano e alla fine si accordano, per tutelare, nascondendole, le reciproche convenienze.
Lo testimonia la quinta ed ultima traccia.
Un’intercettazione ambientale del 29 maggio scorso. Ancora Marchionni, stavolta a colloquio con il collega ex ad di Fonsai Emanuele
Erbetta, al Caffè Norman di Torino. Parlano degli sviluppi dell’inchiesta per bancarotta. Marchionni azzarda: «Speriamo che ci si fermi a questa ipotesi qui, che non salti fuori tutta la storia della parte immobiliare e della corruzione, altrimenti viene fuori un casino…». La preoccupazione dei due ex manager del clan di Paternò è facilmente comprensibile. Ma è troppo tardi per preoccupasi. Il «casino» è già esploso. Qualcuno, a Montecitorio, ipotizza addirittura che dalla mangiatoia rivelata dei Ligresti potrebbero venire fuori notizie spiacevoli per molti politici bipartisan, ma soprattutto per esponenti del fronte «governista» del Pdl. Al grande Romanzo del Potere mancano ancora molti capitoli. Purtroppo, uno più osceno dell’altro.

La Repubblica 04.11.13

“Gli studi condotti hanno evidenziato un dato: la politica dell’austerity è stata un suicidio”, di Carlo Buttaroni

In Italia la spesa della pubblica amministrazione è di poco superiore alla media europea ma inferiore a quella delle principali economie dell’Unione, con l’unica eccezione della Spagna. Rispetto ai 13mila euro per abitante dell’Italia, la Svezia ne spende 21mila, l’Austria 18mila, la Germania 14mila. Anche la pressione fiscale è più alta della media dell’Unione. Sopra di noi ci sono Danimarca, Francia, Belgio, Svezia, Austria e Finlandia e, appena al di sotto, Germania e Regno Unito. Analizzando il periodo tra il 2000 e il 2011, si nota come in Italia la dinamica della spesa della pubblica amministrazione sia stata contenuta, vedendo invece crescere in modo rilevante la pressione fisca- le. In quanto a incremento, ci superano solo Malta, Cipro, Portogallo ed Estonia. Nella Re- pubblica Ceca, in Francia e nel Regno Unito la crescita è stata assai più modesta, mentre ne- gli altri Paesi dell’unione si è registrato addirittura un decremento.

QUATTRO FASCE DI PAESI

La combinazione tra spesa della pubblica amministrazione e pressione fiscale propone uno scenario composto da 4 gruppi di Paesi: quelli dove sia la spesa che la pressione fiscale hanno fatto registrare una crescita rilevante e quelli dove sono diminuite entrambe; quelli dove è aumentata la spesa della PA ma è diminuita la pressione fiscale e, infine, i Paesi in cui la dina- mica è stata opposta, cioè è aumentato soprattutto il peso del fisco. L’Italia rientra in quest’ultimo gruppo.

Per quanto riguarda il Pil pro capite, con circa 25mila euro, l’Italia è nella media europea. Davanti ci sono Lussemburgo (68mila), Paesi Bassi (33mila), Irlanda, Austria e Svezia (32mila), Danimarca (31mila), Germania e Belgio (30mila), Finlandia (29mila), Regno Unito e Francia (27mila). Siamo, invece, all’ultimo posto per quanto riguarda l’incremento registrato negli undici anni considerati: appena il 13%.

I dati, letti nel loro complesso, suggeriscono qualcosa che è più di un semplice indizio: tagliare la spesa pubblica e aumentare la pressione fiscale produce effetti negativi sulla crescita. La prova la fornisce lo studio Moltiplicatori fiscali ed errori nelle previsioni di crescita, firmato da due economisti del Fondo Monetario internazionale, Daniel Leigh e Olivier Blanchard, che hanno messo nero su bianco quello che da tempo sosteniamo: la politica del rigore è stata un suicidio. Analizzando i casi di Spagna, Portogallo e Grecia, i due studiosi hanno dimostrato che la premessa alla base delle politiche «lacrime e sangue» è completamente sbagliata. E dalle conseguenze devastanti. Il principio attivo della cura-austerity messo a punto nei laboratori di Bruxelles, infatti, si basava sulla convinzione che per ogni euro tagliato ci sarebbe stata una contrazione dell’economia pari a 0,50 euro. I dati hanno dimostrato, invece, che la contrazione reale è stata di 1 euro e mezzo. Cioè, tre volte tanto.

IL RISCHIO DELL’«AUTODISTRUZIONE»

In un altro rapporto interno del Fondo monetario internazionale si legge che alcune delle politiche imposte hanno presentato rischi di «autodistruzione» per l’economia locale. Il tardivo mea culpa del FMI arriva dopo la scoperta di grossolani errori nel modello teorico dell’austerity elaborato da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff. Secondo questi studiosi c’è una correlazione tra debito pubblico/pil elevato, cioè superiore al 90%, e bassa crescita economica. Depurando l’analisi da errori grossolani si è scoperto, invece, che il tasso di crescita medio dei Paesi ad alto debito non è -0,1% bensì +2,2%.

Un articolo del blog The Next New Deal della Roosevelt Foundation mette in evidenza come, dato un certo rapporto Debito/Pil, è molto più probabile che la bassa crescita sia precedente tale rapporto e non successiva, co- me ci si aspetterebbe se fosse il debito a causare il rallentamento della crescita. L’aumento del debito pubblico determina, negli anni successivi al «picco», tassi di crescita leggermente maggiori che nel periodo precedente. È la bassa crescita, quindi, la causa di debiti pubblici elevati e non il contrario. Gli effetti negativi dell’austerity sono stati quelli che ogni economista di buonsenso si sarebbe aspettato: crescita pressoché nulla, un enorme declino in alcuni Paesi, innalzamento del debito e modesta riduzione dei disavanzi pubblici, nonostante i forti tagli della spesa. Il tutto con danni collaterali devastanti: disoccupazione, riduzione dei consumi e crescita delle disuguaglianze.

Sotto l’insegna di teorie sbagliate e motivazioni indimostrabili sono state tagliate o rinviate le pensioni di lavoratori ormai avanti negli anni, effettuati tagli indiscriminati alla spesa pubblica, annullate le leve di sostegno alle imprese e alle famiglie e compressi i diritti dei lavoratori. Senza contare quanta disoccupazione è stata «causata» da teorie fondate su errori aritmetici e utilizzo scorretto dei fogli di calcolo. Per non rischiare di diventare poveri nel futuro si è così diventati poveri nel presente.

PIÙ SOLIDARIETÀ RECIPROCA

Anche se i livelli di interdipendenza economico-finanziaria che il mercato unico e l’euro hanno attivato non lasciano dubbi sul fatto che l’Unione debba proseguire, la rete di interessi e convergenze ha necessità di politiche diverse. La prima esigenza è quella di istituzionalizzare i processi di solidarietà reciproca tra i Paesi membri. Un processo che chiama in causa soprattutto la Germania, che per vent’anni ha cercato di impedire la trasformazione dell’Unione monetaria in una vera transfer union, imponendo di fatto la clausola di no-bail out. Regola secondo la quale gli stati appartenenti alla Comunità Europea non possono far- si garanti del debito di un Paese appartenente alla Comunità stessa, con forti limitazioni alla possibilità di intervento delle banche centrali e della Bce. L’ottusa rigidità e la prevalenza dei singoli interessi, oggi, rendono possibili solo acrobazie da parte dei governi ogni qualvolta occorre attivare un’azione a tutela dell’unione e della moneta.
È giunto il momento della svolta, per dare concretezza all’edificio europeo, sviluppando a una vera e propria unità politica con l’obiettivo dell’interesse comune. Solo se i governi faranno propria questa consapevolezza, si potrà invertire il processo di degenerazione economica e dare slancio e reale unità all’Europa.

L’Unità 04.11.13

“La storia capovolta”, di Carlo Galli

Come si fa a non concordare con Galli della Loggia quando sostiene che non c’è politica se il partito su cui si regge il sistema italiano – il Pd, dato che la destra pur socialmente fortissima è politicamente quasi inesistente – non è capace di affrontare apertamente la complessità della storia repubblicana? Se, in altre parole, non si fa carico del compito di ripensare l’Italia, per rifarla? C’è in questa tesi molto di buono: e in primo luogo c’è la percezione che la politica non è quell’attività ridicola, parassitaria, effimera, a cui oggi si è ridotta – quando non è pura gestione tecnica -; che la politica non è ricerca di slogan, ma analisi della costituzione materiale di un Paese, individuazione delle dinamiche del presente, e delineazione di un realistico orizzonte di sviluppo. E che a questo scopo il partito è indispensabile (altro che partito leggero!), come sistema d’interpretazione accorta e partecipata – come forza responsabile e ricca di sapere pratico, e anche di potere legittimo – della storia, del presente e del futuro.

Certo, non si può essere d’accordo con Galli della Loggia quando riduce questo sapere pratico ad un atto d’ammenda che il Partito democratico – in quanto erede della sinistra – dovrebbe fare per le colpe passate della Prima repubblica, delle cui «scelte sbagliate» è corresponsabile. Ora, sulla responsabilità soggettiva c’è da avanzare una prima obiezione: il Pd non è l’erede del Pci (la sua componente cattolica è troppo forte per essere trascurata), e in ogni caso il Pci non ha mai avuto responsabilità dirette di governo, dopo il 1947 (altra cosa sono le responsabilità amministrative). Ciò non to- glie, naturalmente, che la sinistra abbia esercitato una grande influenza sulla storia d’Italia, che ne sia parte e quindi anche (parzialmente) responsabile; ma certo maggior peso ebbe quella Dc di cui solo un settore, la sinistra, è confluita nel Pd, mentre il grosso delle sue file è divenuta la base (e anche il personale politico) di una destra che oggi è allo sbando ma che ha sulle spalle sia il ventennio berlusconiano sia larga parte delle disfunzioni della Prima repubblica.

Sulla stessa linea, va anche osservato che, per quanto si possa essere d’accordo sull’insufficienza dell’antiberlusconismo a sostenere e a legittimare una politica, non si possono tuttavia chiudere gli occhi davanti alle degenerazioni e alle patologie di cui Berlusconi è stato veicolo e promotore: insomma, il mea culpa non può riguardare solo la Prima repubblica, ma anche la seconda; non solo la sinistra ma anche la destra. Ma anche dal punto di vista oggettivo Galli della Loggia avanza tesi non del tutto condivisibili. Infatti, se il nostro passato democratico non è da lui identificato (giustamente) col crimine di Tangentopoli, lo è tuttavia (ingiustamente) con il clientelismo, il parassitismo, l’evasione fiscale di massa, il consociativismo, il debito pubblico. Ora, tutto ciò è la degenerazione della Prima repubblica, dalla morte di Moro (o forse anche da qualche anno prima) in poi; ed è vero che da quella degenerazione non ci siamo mai veramente ripresi, e che con essa non facciamo i conti se non nella sbrigativa vulgata neoliberista e neomonetarista che iscrive tutta la nostra storia passata nella rubrica dei peccati contro le sacrosante leggi dell’economia; ma anche in questo caso un’analisi non sommaria non può trascurare che il cuore della Prima repubblica, il suo significato storico, è stato avere promosso in Italia la prima democrazia civile e sociale della sua storia, fondata sull’antifascismo, sul ruolo dei partiti e dei sindacati, sulle libere istituzioni, e sul benessere diffuso grazie allo sviluppo dell’economia e all’espansione dello Stato sociale. La vera presa di coscienza collettiva necessaria alla rinascita del Paese – una memoria affidata in primis, ma non esclusivamente, al Partito democratico – non può dimenticare questo aspetto della storia d’Italia, e non può fare i conti soltanto con le sue degenerazioni. Né si può buttare l’acqua sporca della profonda corruzione della vita civile, che effettivamente ci tormenta, insieme al bambino della democrazia sociale, come ricordo di quanto abbiamo fatto e come orizzonte di quanto c’è ancora da fare. Senza la percezione della complessità non si fa né storia né politica, ma ideologia. E non vi è dubbio che di questa, nonostante le apparenze, ve ne sia oggi fin troppa: e tutta antipolitica, anti-istituzionale, anti-repubblicana. È proprio contro questa ideologia che devono combatte- re quanti giustamente sostengono che senza co- scienza storica non c’è né politica né futuro.

L’Unità 04.11.13