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“I falsari della ricerca. Si può ancora credere nella scienza?”, di Pietro Greco

«How science goes wrong». Il coloratissimo titolo dominava la prima pagina della più nota e diffusa rivista economica del mondo, The Economist, sulla prima pagina. Annunciando un dossier, piuttosto lungo, sul «come la scienza sbaglia». O, meglio ancora, su «come la scienza funziona male». L’intervento ha scatenato una miriade di reazioni, anche sui media italiani. E, anche se il tema non è nuovo, giunge più che mai opportuno. Per due motivi. Il primo è che la copertina di The Economist, ricorda a tutti ma soprattutto a noi italiani che la scienza occupa un ruolo decisivo nella società e nell’economia del mondo. E che il suo funzionamento interno non è questione da tecnici, ma può ben occupare la copertina di una delle poche riviste globali. Per dirla in una battuta, The Economist ricorda a tutti ma soprattutto a noi italiani che la scienza è questione troppo seria per lasciarla ai (soli) scienziati. Il secondo motivo che torna a merito di The Economist è di averci ricordato come la scienza o meglio, la comunità scientifica mondiale, con le sue prassi e i suoi valori è nel bel mezzo di una transizione epocale. Anche se, bisogna dire, gli estensori del dossier non hanno colto tutta la dimensione del cambiamenti. E, di conseguenza, non hanno colto tutte le ragioni che inducono (che sembrano indurre) la comunità scientifica a sbagliare più che in passato e le prassi scientifiche a funzionare peggio che in passato. Il succo dell’analisi di The Economist, fondata su alcune recenti ricerche scientifiche (e già, la scienza sa indagare su se stessa senza indulgenza), è che molti degli articoli scientifici pubblicati su alcune decine di migliaia di riviste in tutto il mondo sono piene di errori, metodologici e di contenuto, e presentano risultati né verificati né verificabili. Questa situazione costituisce un pericolo sia per il corretto funzionamento della scienza, sia per la sua credibilità. Ma, soprattutto, costituisce uno spreco di denaro, spesso pubblico, e un danno per l’umanità. Perché procedure più corrette consentirebbero di migliorare la qualità della spesa e di produrre risultati migliori a beneficio dei cittadini del pianeta. È vero che anche in passato, riconosce The Economist, non sono certo mancati gli errori e persino le frodi scientifiche. Ma ora la patologia sta diventando più estesa e diffusa. Le cause individuate dai redattori della rivista sono essenzialmente tre. Una è che gli scienziati sono chiamati a confrontarsi con una massa crescente di dati e non hanno ancora acquisito una matura cultura statistica per gestirli. Una seconda ragione è che sta crescendo la competitività scientifica a livello globale e il «public or perish» (pubblica o altrimenti muori), induce, appunto, a pubblicare qualsiasi cosa, anche non rigorosa, anche talvolta falsa. Terzo, è che né le riviste né le istituzioni scientifiche hanno interesse a verificare se le metodologie sono corrette e i risultati pubblicati verificabili. La situazione fotografata da The Economist è reale. E certamente le tre cause indicate colgono parti di verità. Ma, appunto, solo una parte della verità. E, dunque, ci danno un’informazione un po’ deformata sulla ricerca scientifica. Che, come dicevamo, è nel bel mezzo di una trasformazione epocale. Per tre motivi. Mai la ricerca scientifica ha avuto così tante risorse: il 2% del Prodotto interno lordo mondiale, pari a quasi 1.500 miliardi di dollari nel 2012. Con queste risorse possono lavorare oltre 7 milioni di ricercatori: cento volte di più che un secolo fa. I ricercatori di oggi sono superiori alla somma di tutti gli scienziati vissuti nelle epoche precedenti. Con tante risorse, finanziarie e umane, le vecchie e consolidate procedure funzionano necessariamente meno bene. La seconda trasformazione riguarda la scienza finanziate dalle imprese private. I due terzi degli investimenti in ricerca nel mondo (circa 1.000 miliardi di dollari) sono a opera di privati. Tutto questo sta modificando la griglia di valori di una parte della comunità scientifica (quella finanziata con fondi privati). E pone spesso in conflitto l’interesse privato (il segreto, il profitto) con quello pubblico (la trasparenza, il beneficio per tutti). La terza trasformazione riguarda l’internazionalizzazione. Fino a cinquanta anni fa, tre scienziati su quattro vivevano o in Europa o in Nord America: un mondo culturalmente omogeneo. Oggi più della metà degli scienziati vive in Asia. L’universo culturale è cambiato e si è differenziato. Difficile che le regole e i valori che vigevano in Europa e in quell’estensione dell’Europa che è il Nord America possano funzionare senza incrinature in una comunità finalmente globale. In definitiva, la scienza è in piena crisi di crescita. Come potrebbe non avere problemi? A tutto ciò si aggiunga il fatto che la ricerca scientifica costituisce il motore dell’economia di gran parte del pianeta (Italia, ahinoi esclusa): dei Paesi di antica industrializzazione e dei Paesi a economia emergente. Per cui sui ricercatori, pubblici e privati, si esercitano pressioni enormi, del tutto sconosciute in passato. Per questo un acuto osservatore della società scientifica, il fisico teorico John Ziman, sosteneva che la scienza vive una nuova fase storica, post-accademica, profondamente interpenetrata con il resto della società. Diversa dalla fase accademica vigente fino alla seconda guerra mondiale, quando gli scienziati vivevano e si sentivano isolati e ben protetti in una «torre d’avorio». Ma al netto di tutto ci sono ancora due considerazioni da fare. La prima è che quella scientifica, per quanto cresciuta e globalizzata, è una comunità che ha una capacità senza pari di indagare se stessa, di scoprire dove sbaglia e di autocorreggersi. Ne ha dato prova nei mesi scorsi l’esperimento Opera, che aveva rivelato presso il Gran Sasso dei neutrini che sembravano viaggiare a velocità superiore a quella della luce. Ha diffuso questi risultati che, se veri, avrebbero costituito una pietra miliare nella storia della fisica. Ma lo ha fatto con prudenza. E, soprattutto, si è messo alla ricerca di un possibile errore. La ha trovato. E, anche se era un errore banale, non ha avuto paura di metterci la faccia e di riconoscerlo. Quale altra comunità avrebbe fatto altrettanto? Ma, al di là dell’onesta individuale che, sia detto per inciso, tra gli scienziati è in media superiore di gran lunga alla media c’è un altro fattore che ci deve far continuare ad avere fiducia nella scienza. La storia della ricerca è piena zeppa di errori o di studi irrilevanti. Ma le conoscenze più solide e profonde sopravvivono per selezione naturale, e indipendentemente dai comportamenti dei ricercatori. La selezione non è deterministica, ma è efficiente. Tant’è che la scienza, pur con i suoi difetti, è la forma di conoscenza umana più produttiva e solida che si conosca.

L’Unità 04.11.13

“Il paese che perde i suoi giovani”, di Ilvo Diamanti

La fuga dei cervelli. È la formula usata per evocare la migrazione di tanti giovani italiani, ad alto profilo professionale e scientifico, verso altri Paesi. Non solo europei. Dove trovano occupazione e riconoscimento. Fuga dei cervelli. È un’espressione che non mi piace. Perché i cervelli, nei Paesi liberi, sono liberi. E oggi possono sconfinare ovunque, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione. L’unica gabbia che possa imprigionarli è il loro corpo.
Se i “cervelli” se ne vanno dall’Italia è perché fuggono dal loro “corpo”. Troppo vecchio per permettere loro di esprimersi. O almeno: di “operare”. Di utilizzare la loro opera. L’Italia è un Paese vecchio (dati Istat, 2012). Il più vecchio d’Europa. Dopo la Germania, che, però, può permettersi di invecchiare perché attira i giovani migliori dagli altri Paesi. Compreso il nostro. Il problema è che noi non ci accorgiamo di invecchiare. Perché siamo sempre più vecchi. Così ci immaginiamo giovani, sempre più a lungo. Fino a 40 anni. E rifiutiamo di invecchiare. Secondo gli italiani — come ho già scritto altre volte — per dirsi vecchi occorre aver superato 84 anni (indagini Demos). Considerata la durata media della vita, dunque, in Italia si accetta di essere vecchi solo dopo la morte. I giovani, in Italia, sono sempre di meno. Come i figli. Il tasso di fecondità per donna è 1,4. Fra i più bassi al mondo. Se il nostro declino demografico si è interrotto, da qualche anno, è per il contributo fornito dagli immigrati. Che, tuttavia, non hanno modificato la nostra auto-percezione. Perché Noi continuiamo a invecchiare e a far pochi figli, mentre Loro sono giovani e fecondi. In altri termini, abbiamo riprodotto i confini al nostro interno nei confronti degli Altri. Gli immigrati, infatti, restano Stranieri, anche quando sono italiani, da più generazioni. Anche quando diventano ministri… Così invecchiamo senza accorgercene e senza accettarlo. Investiamo le nostre risorse nell’assistenza e nella sanità, com’è giusto. Molto meno nella scuola, nella formazione, nell’università (da qualche tempo ho cominciato a scriverla con l’iniziale minuscola). Cioè, nei giovani. Nei figli. Nel futuro. A loro — ai figli e ai giovani — ci pensano gli adulti. In fondo, quasi 8 italiani su 10 fra 18 e 38 anni (e quasi 3, fra 30 e 34 anni) risiedono con i genitori (Istat, 2011). Sottolineo: non “vivono” ma “risiedono”. Cioè: fanno riferimento a un’abitazione e a una famiglia, per affrontare una biografia sempre più precaria e intermittente. I dati, a questo proposito, sono espliciti e crudi. L’Italia è il Paese con il più alto tasso di disoccupazione giovanile in Europa. Oltre il 40% (fra 15 e 24 anni), in ulteriore crescita nel 2013. Nelle regioni del Mezzogiorno raggiunge quasi il 50%. Non solo, l’Italia è anche il Paese dei Neet. Quelli che non studiano e non lavorano. Circa 2 milioni: il dato peggiore, nei paesi dell’Ocse, dopo il Messico. I giovani: una generazione precaria e disoccupata. Sono pochi e non scendono più in piazza, come un tempo. Così, non hanno peso politico. I genitori, sempre più anziani, si incazzano, per questi figli senza futuro. Ma in fondo, anche se in modo inconsapevole, non ne sono del tutto dispiaciuti. Perché, senza di loro, i figli non potrebbero affrontare un percorso tanto precario. Ma se i figli (unici) si staccassero dalla famiglia troppo presto e in modo definitivo, loro — i genitori — resterebbero soli.
Così, i giovani, peraltro sempre più adulti (la sociologia delle generazioni ha coniato il neologismo (quasi un ossimoro) “giovani adulti” per definire coloro che hanno 30-35 e perfino 40 anni), emigrano. Se ne vanno altrove. Di certo, non debbono affrontare l’esodo drammatico dei disperati che partono dai Paesi dell’Africa e del Medio Oriente, stipati nei barconi. Per fuggire dalla guerra e dalla povertà. I “nostri” giovani se ne vanno con il sostegno delle famiglie. Addestrati da periodi di studio all’estero (Master, Erasmus), trascorsi durante e dopo l’università. Cercano e spesso trovano occupazione. In alcuni casi, di livello elevato. Perché i “giovani cervelli”, in Italia, sono formati da un sistema scolastico e universitario che, nonostante gli sforzi per logorarlo, ancora resiste. E produce laureati e post-laureati di qualità. Apprezzati. Fuori dall’Italia. Così si spiega la crescita continua degli italiani che si trasferiscono all’estero. Quasi 80 mila, nel 2012, secondo le stime ufficiali (dati Aire elaborati da Radio 24). Di fatto, circa il doppio. Al loro interno, i giovani — più o meno adulti — sono in aumento e pesano per circa il 45%. Se ne vanno, prevalentemente, in Europa (Germania e Gran Bretagna, anzitutto), ma anche in America Latina e negli Usa. Non è una fuga, ma la ricerca di lavoro e di esperienza, in un mondo dove i confini sono sempre più aperti — per chi non proviene dai Paesi poveri. E i “cervelli” sono sempre ben accolti. Questo è il problema, per l’Italia. Non che i nostri “cervelli” se ne vadano. Ma che non ritornino. E poco si faccia per farli rientrare. O per attirarne altri, di eguale qualità. Perché noi importiamo lavoratori a bassa qualificazione. Ed esportiamo i nostri figli. Perdiamo i giovani e i cervelli. Perché siamo incapaci di offrire loro un destino coerente con le loro attese e le loro competenze. Così è comprensibile, perfino conseguente, che quasi tutti i giovani (8 su 10, dati Demos) siano convinti che, per fare carriera, occorra partire. Dall’Italia. Un Paese vecchio. Che maschera l’età e le rughe in modo artefatto — e un po’ patetico. E lascia partire i giovani, senza farli tornare. Illudendosi di fermare il tempo. Di non invecchiare. Mentre, così, nasconde soltanto il futuro.

La Repubblica 04.11.13

“L’Aquila, il dossier segreto Ue: sprechi e mafia nel dopo terremoto”, di Attilio Bolzoni

Un danese ha perlustrato l’Abruzzo del dopo terremoto per tre anni, ha visitato una spettrale città chiamata L’Aquila, poi ha steso un report che è diventato un documento d’accusa contro la ricostruzione. Tutto esasperatamente costoso. E per di più tutto fatto in nome della legge. Un dossier della commissione di controllo del bilancio di Bruxelles racconta la fiera dello spreco dopo la notte del 6 aprile 2009. Case troppo care, fondi comunitari spesi male, norme violate, materiali scadenti, appalti sospetti. Firmato Søren Søndergaard, deputato europeo della Sinistra unitaria, inviato in Italia per verificare come è stato usato il denaro dei contribuenti dell’Unione. OGNI appartamento è costato il 158 per cento in più del valore di mercato, il 42 per cento degli edifici è stato realizzato con i soldi dei contribuenti europei (e non con quelli del governo italiano, come ha sempre sostenuto l’ex premier Silvio Berlusconi), solo il calcestruzzo è stato pagato 4 milioni di euro in più del previsto. E 21 milioni in più i pilastri dei palazzi. Cifre ufficiali della Corte dei Conti europea, tutte richiamate nel report di Søndergaard. Dove si censura il silenzio dell’Europa che è stata a guardare mentre qui si sperperava, dove si «deplora » l’invio di dati «apparentemente non corretti» trasmessi a Bruxelles dal Dipartimento della Protezione Civile, dove si elenca minuziosamente tutto ciò che lui stesso ha riscontrato nelle sue missioni. Su prefabbricati, acciaio, ammortizzatori sismici, bagni chimici, contratti a imprese. Sempre oltre i costi preventivati, soprattutto quelli fissati dai «manuali». E anche di tanto.
Il suo dossier sarà discusso al Parlamento europeo giovedì 7 novembre e presentato questa mattina, in anteprima all’Aquila, nelle sale del consiglio regionale.
È la sintesi di una lunga «istruttoria» condotta in Abruzzo da Søndergaard — membro della Cont, la commissione di controllo del bilancio di Bruxelles — insieme al suo collaboratore Roberto Galtieri per indagare su dove erano finiti gli stanziamenti comunitari
dopo la potentissima scossa di quella notte, trecentonove morti, decine di migliaia di sfollati e un business infinito intorno ai cinquantasei comuni abruzzesi dentro il «cratere ».
La prima volta sono arrivati all’Aquila l’8 ottobre del 2010. Poi hanno cominciato a investigare mese dopo mese, fino a ultimare questo report che giovedì prossimo dovrà vagliare il Parlamento di Bruxelles.
Il dossier del deputato danese comincia dalla fine, dall’ultima visita all’Aquila: «La situazione del centro storico rimane sostanzialmente invariata. In quattro anni solo un paio di edifici (uno pubblico e uno privato) sono stati ricostruiti nella cosiddetta zona rossa…». Poi informa la sua commissione dei sopralluoghi negli edifici del progetto CASE (Complessi Antisimici Sostenibili ed Ecocompatibili) e in quello dei MAP (Moduli Abitativi Provvisori), dove ha verificato con il suo «ispettore» Galtieri cosa c’era cosa e cosa non c’era: «Nelle case e nelle scuole non ci sono pannelli a indicare che sono state costruite con i fondi Ue… ma al contrario ci sono pannelli che specificano “edifici realizzati con donazioni da enti privati e amministrazioni locali”. Ciò è in contraddizione con le norme europee… ». Poi ancora segnala alla commissione la qualità delle costruzioni dei MAP: «Il materiale è generalmente scarso… impianti elettrici difettosi… intonaco infiammabile… alcuni edifici sono stati evacuati per ordine della magistratura perché “pericolosi e insalubri”… Quello di Cansatessa è stato interamente evacuato (54 famiglie) e la persona responsabile per l’appalto pubblico è stato arrestato e altre 10 persone sono sotto inchiesta».
Un capitolo intero è dedicato alla criminalità organizzata e alle infiltrazioni nei lavori della ricostruzione. Primo punto: «Un numero di sub appaltatori non disponeva del certificato antimafia obbligatorio». Secondo punto: «Il Dipartimento della Protezione civile ha aumentato l’uso del sub appalto consentito dal 30 al 50 per cento». Terzo punto: «Un latitante è stato scoperto nei cantieri della Edimo, che è una delle 15 imprese appaltatrici ». Quarto punto: «Una parte dei fondi per i progetti CASE e MAP sono stati pagati a società con legami diretti o indiretti con la criminalità organizzata… ma le competenti autorità italiane non hanno ancora reso pubblici questi dati… «. Quinto punto: «La commissione bilancio Ue ha dichiarato di avere scoperto casi di frode, ha comunicato tali risultati al Dipartimento della Protezione Civile, che successivamente ha scambiato questi progetti connessi con la frode con progetti nei quali non è stata scoperta alcuna frode…».
Nel report Søren Søndergaard elenca le denunce dell’associazione Libera e di Site. it (la testata online che ha sollevato fin dai primi giorni lo scandalo della ricostruzione) e poi bacchetta il governo europeo dopo l’ispezione di una delegazione in Abruzzo nel 2010: «Nella sua relazione non menziona nessuno dei problemi che sono stati portati alla sua attenzione da diversi deputati. Un caso di evidente negligenza». È un’accusa di omesso controllo.
E infine, il deputato danese ricorda come la commissione bilancio Ue abbia anche elaborato una propria valutazione dei conti, tenendola però segretissima. Solo i deputati della Cont l’hanno potuta conoscere — e solo il 15 luglio del 2013 — con divieto di prendere appunti e divieto anche di commentare citare il contenuto di quanto avete appena letto. Tutto top secret. Per quattro anni, i contribuenti europei non hanno avuto il diritto di sapere come era stato speso il loro denaro.
Nelle ultime pagine del dossier Søndergaard cita ampiamente la relazione della Corte dei Conti con sede in Lussemburgo. «In questo documento vengono fornite al Parlamento e ai cittadini europei risposte ad alcune delle domande riguardanti la gestione dei fondi Ue in Abruzzo», scrive il deputato danese. E riferendosi alla corte di giustizia europea, ribadisce quale è stata la sua «raccomandazione » al governo di Bruxelles: «È la richiesta all’Italia di rimborsare i fondi europei in caso, nel futuro, derivasse profitto dai progetti finanziati dall’Ue».
È uno dei punti centrali del dossier. I regolamenti Ue impongono che i soldi dirottati ai vari Stati non debbano «generare reddito», ma nelle case nuove dell’Abruzzo fra un po’ si pagherà l’affitto. È già in corso un censimento per capire chi e quanto dovrà sborsare per abitare in quegli edifici dopo il terremoto. Se accadrà, stando alle norme comunitarie, l’Italia dovrebbe restituire all’Europa parte di quei fondi. Sono all’incirca 350 milioni sui 493,7 ricevuti dopo il terremoto.
La relazione della Corte dei Conti è finita alla Commissione europea nel mese di febbraio di quest’anno. In un primo momento, Bruxelles ha giustificato le scelte del governo italiano («Il progetto Case corrisponde pienamente agli obiettivi Ue…»), ha ignorato le «violazioni» denunciate ma giovedì sarà costretta a esaminarla con più cura quel documento insieme al report del deputato danese.
E questa volta, non in segreto. Ma in seduta pubblica e con diretta streaming dal sito del Parlamento europeo. La Corte aveva già fornito numeri espliciti. Aveva fatto una premessa la Corte, sul post terremoto in Abruzzo: «Ai costi è stata assegnata scarsissima importanza relativa». E aveva tirato le sue conclusioni: «A giudizio della Corte il progetto Case non ha rispettato le specifiche disposizioni del regolamento europeo… la Commissione dovrebbe anche riesaminare, alla luce dei criteri di ammissibilità stabiliti dal regolamento, la domanda di assistenza presentata dalle autorità italiane».

La Repubblica 04.10.13

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Dai dubbi sulla sicurezza alle inchieste tutti i flop delle “casette” di Berlusconi”, di GIUSEPPE CAPORALE

— Isolatori sismici fallati, infiltrazioni d’acqua, riscaldamento rotto, cedimenti di intonaco. Nessun servizio intorno, né pubblico né privato. Il tutto dentro 185 palazzine sparse nella periferia che oggi — dopo appena quattro anni dalla loro realizzazione — sono nuove aree di degrado urbano.
La storia delle case provvisorie volute dall’ultimo Governo Berlusconi per 19mila terremotati dell’Aquila, dopo il sisma dell’aprile del 2009, è costellata di flop. Per questo “miracolo aquilano” come lo definì l’allora premier visti i tempi record di consegna degli alloggi, lo Stato ha speso 900 milioni di euro senza seguire il codice degli appalti, ma con affidamenti in “emergenza” ad (appena) sedici ditte nazionali.
La costruzione delle “new town” fu seguita dai media con dirette tv e programmi ad hoc, con tanto champagne nel frigorifero a favore di telecamera.
Ma dal giorno dell’inaugurazione in poi, il “progetto C. a. s. e.” di Guido Bertolaso, allora capo della Protezione Civile, ha cominciato a venire giù. Pezzo dopo pezzo. Il primo atto è un’impietosa relazione redatta dagli ingegneri dell’ufficio tecnico dell’Aquila, pochi mesi dopo la consegna degli appartamenti.
«Sono evidenti segni di deterioramento degli edifici che sono inaccettabili» è il giudizio finale corredato da un centinaio di fotografie a conclusione di due mesi di certosini sopralluoghi in ogni angolo di quelle costruzioni. Piastra dopo piastra, ballatoio dopo ballatoio, garage dopo garage. Ringhiera dopo ringhiera.
Ma è solo l’inizio. Poco dopo, la Procura dell’Aquila apre un’inchiesta sui settemila isolatori sismici che sostengono i 185 palazzi. E la scoperta è amara, amarissima. Almeno duecento degli isolatori sismici a pendolo montati sui pilastri che sostengono gli edifici sono destinati a sbriciolarsi se mai la terra dovesse tornare a tremare come quel 6 aprile di 4 anni e mezzo fa. E quel che è peggio, nessuno è in grado di dire oggi — nemmeno la ditta che li ha prodotti e montati, la società «Alga» — quali strutture esattamente appoggino su quei pezzi fallati.
Per questa vicenda, poche settimane fa il giudice del tribunale dell’Aquila, Giuseppe Romano Gargarella, ha condannato con rito abbreviato a un anno di reclusione Mauro Dolce, responsabile del procedimento del progetto C. a. s. e., accusato di frode nelle pubbliche forniture.

La Repubblica 04.10.13

Bursi: «Il Pd guardi avanti e punti forte sui giovani», di Andrea Marini

I giovani e il futuro. Il Partito Democratico deve ripartire da qui se vuole davvero diventare lo strumento per la soluzione dei problemi della gente. Ne è convinta Lucia Bursi, sindaco di Maranello e candidata – in competizione con Giuseppe Schena sindaco di Soliera – alla segreteria provinciale. Una Lucia Bursi partita subito in vantaggio nella conquista dei delegati che incoroneranno la nuova guida Pd. Si aspettava questo inizio in discesa? «I primi dati sono positivi, ma siamo ancora ad un numero di delegati molto basso. È prematuro fare previsioni». Certo, ma ad esempio, è riuscita anche a conquistare un circolo di Carpi, che si era schierato con Schena. Sono segnali importanti… «Sicuramente, ma ripeto che è ancora presto» Intanto sta emergendo il problema della scarsa affluenza al voto. «Questo in effetti potrebbe rivelarsi un problema, legato soprattutto al fatto di trovarci di fronte a congressi convocati in gran fretta. Io comunque negli ultimi giorni, a quanto vedo registro presenza in aumento nelle affluenze agli incontri che stiamo facendo. Abbiamo mosso interesse. Io sono fiduciosa» Come trova il partito in questo suo girovagare tra i circoli. E’ stanco e poco coinvolto come dice Ori? «Credo non si possa rapportare il congresso attuale con quello del duello Renzi-Bersani. Il tema della stanchezza comunque c’è tutto, non vi è dubbio. E il calo degli iscritti è lì a dimostrarlo. Ed è per questo che bisogna lavorare per ritornare attrattivi, avere energia per proporre il partito come motore nella soluzione dei problemi concreti della gente creando occasioni di coinvolgimento e condivisione sui temi» Tra i punti programmatici principali lei mette al primo posto la condivisione e la visione comune. Come fare in un periodo di grande disamore verso la politica? «Io credo il disamore verso la politica nasca da una percezione di cittadini ed iscritti che la politica sia autoreferenziale. Invece l’obiettivo della politica e del Pd devono essere: la persona e la soluzione dei problemi dei cittadini, come migliorare la comunità e il cambiamento sociale. Il nostro compito è quello di trovare nuova energia per fare capire che il partito è li per le persone. Per cercare insieme la condivisione dei vari punti di vista, trovare la giusta sintesi e poi agire». Come aprire il partito a chi non è iscritto? «A dire il vero oggi come oggi credo che prima ci sia da valorizzare il ruolo degli iscritti, qui deve essere impegnata la nostra prima energia; proprio perché siamo candidati alla segreteria provinciale. E su questo il nostro compito deve essere quello di ravvivare il partito attraverso il ruolo dei giovani con la formazione. Basta divisioni, o ragionare su ex o non ex, il Pd deve lavorare verso il futuro. Dopo è ovvio che si dovrà guardare anche al di fuori». Riuscirete mai a superare l’era degli ex? «Io l’ho detto in tutti gli incontri. Si deve guardare avanti verso il futuro. E i giovani. Loro ci conoscono come Partito Democratico, quello che c’era prima possono conoscerlo come visione di alcuni valori. Noi dobbiamo essere la confluenza di varie esperienze e guardare avanti». Quali temi o sollecitazioni sono emerse dagli incontri sul territorio? «Sono uscite tante cose; al di là delle questioni territoriali, ho sentito molto emergere l’istanza di avere un partito funzionale, in grado di cambiare le persone, la società, e il fare sintesi» Come mai finora non avete fatto riferimento alle mozioni nazionali: Renzi, Cuperlo, Civati, Pittella… «Con Giuseppe abbiamo deciso di interpretare questi congressi come congressi locali. Il nazionale verrà dopo. E comunque credo che un segretario provinciale, pur avendo le sue idee, debba essere segretario di tutti e non di una parte. Da qui la decisione di non fare cenni a come ci schiereremo sulle primarie». I toni di questa campagna elettorale sono stati apprezzati da tutti: c’era bisogno di un confronto vero come questo? «Il confronto è positivo, c’è condivisione rispetto a questa scelta . È giusto lasciare agli iscritti la possibilità di scegliere tra due programmi e due figure». C’è chi sostiene che i vostri programmi siano simili. In cosa vi differenziate? «Non sta a noi dire le differenze. Posso dire che al di là dei programmi, del merito e delle esperienze territoriali, io metto sul campo impegno, la coerenza e la concretezza. Le prime cose che farà nei 100 giorni dopo la sua elezione, se sarà segretaria? «La scelta sarà obbligata. Lavorare subito alle modalità di preparazione dei programmi e di selezione dei candidati per vincere le amministrative in tutti i comuni. Ci sarà da capire come regolamentare in modo omogeneo sul territorio questi passaggi». E le alleanze? «Io credo che sia un dovere cercare di creare alleanze di centro-sinistra ovunque per vincere. Trovare delle strategie che ci porti a trovare condivisioni attorno a un programma. In alcuni territorio ci si riuscirà, in altri forse meno».

La Gazzetta di Modena 03.11.13

“Una giungla di norme variabili che alimenta la fuga di cervelli”, di Stefano Paleari*

Le fasi della crisi sono ora chiare: finanziaria, economica, occupazionale e, da ultimo migratoria. Le statistiche recenti sulla disoccupazione in Italia sono da capogiro: 12,5% con un picco del 40,4% per quella giovanile. Fra non molto anche le statistiche sui giovani fuggiti all’estero certificheranno questa accelerazione anche se, chi vive in mezzo ai giovani come in Università, tocca da tempo con mano l’intensità crescente di questo fenomeno: richieste da parte degli studenti di esperienze all’estero che da temporanee diventano permanenti, dottori di ricerca che trovano in pochi giorni una posizione in Università e centri di ricerca stranieri, ricercatori che a fronte di concorsi italiani di durata e architetture imprecisate vengono chiamati da prestigiose Università oltre confine. E, infine, nelle discussioni con le famiglie della cosiddetta middle class, l’idea per i propri figli di immaginare un futuro fuori dall’Italia. Con il Sud che subisce una doppia migrazione: verso il Nord e fuori confine. È difficile accettare questo epilogo, non solo per la “generazione di mezzo” a cui appartengo ma per tutti coloro che hanno ancora a cuore le sorti del nostro Paese. Tra l’altro, il prezzo finale di questa “fuga” è un impoverimento progressivo e palpabile del Paese, che è culturale e sociale oltre che economico. Rispetto a pochi anni fa sorprende, ripeto, l’intensità crescente del fenomeno come, del resto, la chiarezza delle cause.
Eppure, questa consapevolezza non sembra avvertita adeguatamente, continuiamo a ballare sul Titanic; lo dimostrano le modalità con le quali continuiamo a muoverci su vari fronti. Leggi nuove che si sovrappongono alle vecchie creando una vera e propria giungla di norme, sempre soggette a contestazioni e interpretazioni; un quadro incerto che non permette alcun tipo di pianificazione; una moltitudine di livelli decisionali che nei fatti svuota qualsiasi funzione di indirizzo politico; tempistiche provocatorie per un qualunque giovane intraprendente e di buone capacità; perseveranza nel ritoccare al margine quando è l’intera impalcatura dello Stato a dover essere ripensata; una canea di stratificazioni lobbistiche di basso profilo mantenute per tutelare i privilegi a danno dei meno fortunati. E, ma non meno importante, il confronto, la comparazione con quello che accade altrove, vicino all’Italia e anche molto lontano in Paesi meno ricchi del nostro. Già, perché i nostri giovani viaggiano, guardano, misurano e decidono. L’Italia appare come quei Paesi dell’impero sovietico prima della caduta con l’aggravante di avere istituzioni tremolanti e confini totalmente permeabili. Diciamolo senza peli sulla lingua: un Paese sfasciato.
L’ultima vicenda che riguarda le Università è emblematica al riguardo. Il Ministero che stanzia durante la conversione del decreto sulla Scuola e sull’Università, 42 milioni di fondi propri (circa lo 0,5% del totale) da destinare alle Università in proporzione ai punteggi ottenuti nella valutazione della ricerca (realizzata per la prima volta da un’agenzia indipendente) e la ragioneria che respinge la proposta e tutto decade, malgrado la stessa provenisse dal Governo e dal Ministro dell’Università. Il risultato è che, a due mesi dalla fine dell’anno, non solo le Università non conoscono ancora quale sarà lo stanziamento dello Stato per il loro funzionamento ma quel che è certo è che tutte subiranno gli stessi tagli, indipendentemente dalle loro performance di ricerca. Insomma, quelle che hanno fatto meglio si dovranno accontentare dello stesso trattamento di quelle che hanno fatto peggio. E intanto il Paese sprofonda nella sfiducia e nell’inganno prima ancora che nelle sue fondamenta economiche.
Viene in mente l’ultima sulla fuga dei cervelli: una dottoranda che a un convegno viene contattata da una società norvegese; dopo pochi giorni riceve una proposta di lavoro a cui rispondere entro una settimana. E, infine, la presa di servizio. È il mercato bellezza? No, questa è semplicemente serietà, senso del confronto e ascolto. Quell’ascolto che il nostro Paese sommerge con un assordante silenzio mentre saluta le sue forze migliori.

*Presidente della Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane)

Il Sole 24 Ore 03.11.13

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Tagli all’Università, la risposta «Per ora non c’erano alternative»

«Al momento non c’erano alternative». È la risposta di Manuela Ghizzoni, relatrice in quota Pd del decreto sull’istruzione, alle considerazioni di Stefano Paleari. Il rettore dell’Università di Bergamo, in qualità di presidente della Crui, la Conferenza dei rettori, sul provvedimento appena approvato dalla Camera – e da dove sono spariti i 41 milioni di euro destinati agli atenei più virtuosi – non ci è andato leggero.

«Un’operazione gestita con pessima sensibilità politica», aveva commentato ieri dalle pagine del nostro giornale. Ma uno spiraglio la relatrice del Pd lo lascia aperto, o meglio rilancia la palla a Palazzo Chigi: «Credo che di fronte ad una forte unità d’intenti, tra gli atenei italiani e i parlamentari sulla proposta del ministro Carrozza, forse la questione potrebbe essere risolta con un impegno diretto dello stesso premier».

Mondo politico e mondo universitario, secondo Manuela Ghizzoni, non sono in contrasto. Anzi, ne è sicura l’onorevole, «insieme stanno sostenendo le stesse istanze», nonostante le perplessità avanzate dal rettore dell’ateneo bergamasco. «Non mi interessa polemizzare con il presidente della Crui – spiega Ghizzoni – anche perché, ripeto, ha detto cose condivisibili e di buon senso. Ma noi non potevamo fare diversamente».

da www.ecodibergamo.it

“La guerra dei mondi”, di Luca Landò

Il fisico americano Brian Greene sostiene che l’universo non sia figlio unico. Oltre a quello che conosciamo (o meglio, che conosciamo in minima parte) ci sarebbero altri otto fratelli, chiamati universi paralleli, di cui non sappiamo e non sapremo mai nulla. Difficile dire se la teoria abbia un fondamento o sia il trastullo di un geniale scienziato. Abbiamo però il sospetto che quell’idea, vera o falsa che sia, possa diventare un efficace strumento per comprendere quanto accade da anni in Italia.
Non è necessario essere astrofisici o premi Nobel per capire che nel nostro Paese ci sono due realtà, due mondi che corrono paralleli come i binari di un treno. Nel primo, il mondo di B, c’è un signore condannato a quattro anni per frode fiscale che anziché togliere gentilmente il disturbo annuncia urbi et orbi di volersi candidare per governare il Paese. Nel secondo, il mondo di I, ci sono 3,2 milioni di persone che hanno perso il lavoro, altri che stanno per perderlo e un esercito di giovani (quattro ogni dieci) che se le cose non cambieranno presto, un lavoro qualunque lavoro non lo troveranno mai.
Nel mondo di B si discute e si litiga, ma non sul fatto che un premier abbia potuto approfittare del suo ruolo istituzionale per non pagare le tasse al Paese da lui governato (non lo diciamo noi, ma la Corte di Appello di Milano): si discute e litiga sul tipo di voto che dovrà decidere se quel signore sia ancora degno di rimanere sulla poltrona di senatore. Nel mondo di I non si discute e non si litiga, ma intanto le persone in povertà assoluta (niente casa, niente cibo, niente vestiti) sono raddoppiate in cinque anni: erano 2,4 milioni nel 2007, sono diventate 4,8 milioni nel 2012, come dimostrano le file sempre più lunghe davanti alle mense della Caritas.
Vogliamo continuare? Una delle discussioni più appassionate, nel mondo di B, riguarda la figlia del signore condannato a quattro anni, perché non potendo candidarsi lui (lo dicono una legge e una sentenza) potrebbe almeno candidarsi lei, garantendo continuità sia al partito che al marchio di fabbrica. Ma lei non vuole, o forse sì. Però no.
In attesa di questi avvincenti sviluppi, nel mondo di I si fanno i conti con un Pil che dopo mesi di tracollo sta dando lievi segni di ripresa. Poca roba, intendiamoci, ma proprio per questo bisognerebbe fare il possibile perché il flebile respiro non vada perduto ma incoraggiato. Ci vorrebbe una terapia choc, come ha detto Guglielmo Epifani all’Unità. Ci vorrebbero un piano per il lavoro, una riforma delle istituzioni e una riorganizzazione del Paese. Si potrebbero accorpare i Comuni più piccoli, superare le Province, ridisegnare i confini di alcune Regioni con l’obbiettivo di ridurre costi e duplicazioni e migliorare efficienza e prestazioni. Si potrebbero fare molte cose o almeno iniziare. Peccato che appena cominci a parlare del mondo di I e dei suoi problemi, ecco che spunta il mondo parallelo di B e le priorità cambiano improvvisamente. Perché nel mondo di B. non ci sono quattro punti cardinali ma due: il sole sorge ad Arcore dietro Villa San Martino e tramonta a Roma su Palazzo Grazioli. È un mondo strano ma è fatto così. Lo sanno tutti, anche i ministri del Pdl che un mese fa costrinsero il padre padrone alla famosa piroetta votando la fiducia al governo. Una scelta coraggiosa, ma di breve durata. Perché dopo un giorno e poche ore i disobbedienti fecero marcia indietro, tornando a casa come Lassie.
È chiaro che nessuna terapia, per quanto importante e urgente, potrà mai avere successo se continuamente interrotta: avete mai visto un chirurgo uscire dalla sala operatoria per rispondere al cellulare? Eppure questo è proprio quello che avviene dal 2 ottobre, perché da allora Alfano e soci non fanno che passare, con pendolare regolarità, dal mondo di «B come Berlusconi» a quello di «I come Italia» per poi tornare indietro.
I ben informati dicono che i cosiddetti «innovatori» (cioé gli alfaniani, cioè i governisti) stiano in realtà cuocendo a fuoco lento il vecchio leone giocando sul fatto che senza di loro il cavaliere non ha i voti in Senato per mandare tutto all’aria. Possibile. La storia degli ultimi vent’anni insegna però che Berlusconi una via di fuga la trova sempre: costi quel che costi, come dimostrano i tre milioni del caso De Gregorio.
Mentre Alfano e Berlusconi giocano la loro personale partita a scacchi, nel mondo parallelo dell’Italia le cose non vanno avanti, ma indietro. Come gli indici di fiducia di consumatori e imprese che a ottobre sono tornati a diminuire. Come i prezzi e l’inflazione, che calano perché a calare sono i consumi. E dall’inizio dell’anno gli ordini delle imprese che producono solo per l’Italia sono calati del 10%. Ci vorrebbero misure di sostegno alla domanda, dicono gli esperti, ma nella legge di Stabilità non se ne vede traccia.
Il guaio è che il risanamento del Paese richiederebbe una politica mirata e una maggioranza che la sostenga. Il pendolino di Alfano e soci tiene in piedi il governo, ma non aiuta il Paese. Perché ogni decisione, ogni iniziativa vive sotto l’eterno ricatto che tutto possa saltare da un momento all’altro. La stessa legge di Stabilità, pur timida e con molti difetti, potrebbe venire rinforzata e corretta se il Parlamento si dedicasse davvero ai problemi dell’Italia e non a quelli del Cavaliere, se anziché minacciare il Vietnam parlamentare e la guerriglia (così parlò Brunetta) ci si occupasse di ridurre il cuneo fiscale, correggere le tasse sulla casa, aumentare gli investimenti. E bisognerebbe ripristinare e incrementare il credito a imprese e famiglie. Come ha ricordato Paolo Guerrieri, dalla fine del 2011 i prestiti alle imprese sono diminuiti di oltre 70 miliardi di euro. Il rifinanziamento del Fondo di garanzia per le imprese piccole e medie è un passo nella direzione giusta, ma bisogna che quel passo abbia una falcata più ampia e decisa. Lo stesso per il patto di stabilità interno: un miliardo è una cifra importante ma non sufficiente. E forse, proposta ardita, si potrebbero persino rivedere i saldi di spesa, concetto tabù per il ministro dell’Economia.
Di questo e di altro si dovrebbe discutere nel mondo di I, individuando e realizzando scelte coraggiose per riaccendere il motore economico del Paese. Per farlo è però indispensabile capire se il governo, come dice Letta, ha davvero un’altra maggioranza o se quella del 2 ottobre sia stata una simpatica sceneggiata. Perché la domanda, per quanto imbarazzante, è a questo punto una sola: a quale mondo appartiene Angelino Alfano?

L’Unità 03.11.13

“La corsa a ostacoli delle università italiane per attirare gli studenti stranieri”, di Gianna Fregonara

Sono quasi 4 milioni, erano 3,6 milioni tre anni fa, poco più della metà nel 2000. Arrivano soprattutto dall’Estremo Oriente, dalla Cina innanzitutto da dove ogni anno parte almeno mezzo milione di studenti. Di questo enorme mercato di ragazzi in movimento nel mondo in cerca di un’università, gli atenei italiani faticosamente cercano di conquistare una fetta: gli studenti stranieri che scelgono l’Italia per studiare sono ormai più di 70 mila (Erasmus escluso), dicono i dati del rapporto Unesco 2011, vengono principalmente dal Mediterraneo e dall’Est europeo oltre che dalla Cina appunto. Ma i numeri sono inferiori anche agli obiettivi europei; a parte il sistema anglosassone, Francia e Germania fanno molto di più.
Ca’ Foscari a Venezia ha compiuto un grande lavoro passando in tre anni da un 3 per cento di stranieri al 10: oggi sono cinquecento su cinquemila studenti per ogni anno. «Siamo avvantaggiati dal fatto che Venezia ha anche una sua particolarità per tutto ciò che riguarda l’arte, ma abbiamo aperto desk nelle ambasciate di 18 Paesi, forniamo un servizio di tutoraggio da parte degli studenti italiani ai nuovi venuti e li aiutiamo a trovare una sistemazione», spiega il rettore Carlo Carraro. A Venezia gli studenti stranieri pagano tasse più alte degli europei: «È una scelta che alcuni ci contestano ma noi pensiamo che non sia corretto che sia il contribuente italiano a pagare per gli stranieri. Chi vuole venire a studiare da noi non lo deve fare perché è economico ma perché è di qualità».
L’internazionalizzazione, cioè il numero di studenti e professori attratti dalle nostre università, influisce anche sui risultati delle classifiche dei migliori atenei del mondo: le università italiane nonostante vedano un lento ma progressivo miglioramento — in primis il Politecnico di Milano, la Sapienza e Bologna —restano sempre a ridosso del duecentesimo posto. «Uno dei problemi — ha detto al Corriere.it- scuola Alfio Quarteroni, professore al Politecnico di Milano e all’école Polytechnique Fédérale di Losanna — è che le università italiane continuano ad avere un’attrattiva molto bassa per gli studenti stranieri. Al Politecnico di Losanna il 70 per cento degli studenti è straniero, a Milano non superiamo il venti. Qui ci sono pochi laboratori, le strutture sono obsolete, c’è il problema della lingua nonostante molti corsi siano oggi in inglese e c’è poca recettività per gli studenti nelle nostre città».
A Torino, al Politecnico la quota di stranieri è del 15 per cento: «Siamo in linea con le università tedesche e francesi — spiega il rettore Marco Gilli — per noi il problema non é attrarre gli studenti ma i ricercatori stranieri. In questo campo sono purtroppo Francia e Germania che ci prendono i nostri». Per il resto tra scambi con altre università dalla Cina, al Brasile e alla Colombia e accordi diretti con gli Stati gli studenti arrivano.
Ma il problema dell’internazionalizzazione non è soltanto questione di numeri, per i quali è anche inutile competere con le università di lingua inglese o francese. «È anche un problema di qualità degli studenti — spiega Ivano Dionigi, rettore dell’Università di Bologna, 87 mila studenti — per questo è importante la selezione e trovare studenti che siano “attrezzati” altrimenti ci metteranno due o tre anni solo a imparare la nostra lingua». Bologna guiderà le 11 università italiane scelte dal governo brasiliano per far arrivare nei prossimi 4 anni seimila borsisti dei 100 mila che il governo manderà in giro per il mondo a studiare. Per preparare gli stranieri l’Alma Mater ha in bilancio 950 mila euro: «Certo dopo il taglio ulteriore deciso dalla Camera da qualche parte dovremo prendere i soldi, spero di non essere costretto ad incidere su questo programma», insiste Dionigi.
Eppure anche università non di primissimo piano come quella di Sassari hanno programmi per stranieri: «Soprattutto cinesi, per i quali abbiamo borse di studio, oltre ai catalani con i quali la Sardegna ha un collegamento speciale — spiega il rettore Attilio Mastino —. Qui vengono soprattutto a studiare architettura e medicina. Ma noi siamo un po’ fuori mano, molto ci aiutano i programmi Erasmus. Ma soprattutto ospitiamo professori: oltre duecento sono passati di qui l’anno scorso per soggiorni di diversa durata».

Il Corriere della Sera 03.11.13