Latest Posts

“Sulle Province corsa contro il tempo”, di Gianni Trovati

L’alternativa è secca: o il disegno di legge Delrio diventa legge entro fine anno, o il «superamento» delle Province e il debutto delle Città metropolitane rischia di saltare. Per l’ennesima volta, e per parecchi anni. La ragione è semplice: il 31 dicembre scadono i commissariamenti di 32 Province, che sono state «congelate» dal lungo tira e molla avviato con il Governo Monti e nel 2014 potrebbero tornare al voto, insieme alle 62 Province in cui i mandati amministrativi sono stati avviati nel 2009 e quindi finiscono l’anno prossimo. Un’ondata di 94 elezioni provinciali che, insieme a quelle che si terranno in primavera in 4.069 Comuni, rischia di travolgere ogni tentativo di riforma.
Il Governo lo sa, e anche per evitare il grosso colpo d’immagine che arriverebbe dall’ennesimo addio al riordino delle istituzioni locali ha chiesto e ottenuto la procedura d’emergenza alla Camera. Il disegno di legge è alla commissione Affari costituzionali della Camera, il termine per gli emendamenti scade l’8 novembre e poi sarà la volta dell’Aula. Alla Camera e al Senato sono però da affrontare gli incroci con la legge di stabilità, e le tensioni interne ai partiti che sul tema Province ovviamente si dividono. Le posizioni ufficiali, Lega esclusa, sono per l’abolizione, ma la riforma prende di petto gli interessi di un pezzo di classe politica, e le discussioni sono accese. Nel Pd, per esempio, milita il ministro degli Affari regionali e delle Autonomie, Graziano Delrio, che ha firmato la riforma sugli ordinamenti locali, ma anche Antonio Saitta, presidente della Provincia di Torino e dell’Unione delle Province italiane, che contro quella riforma tuona ogni giorno. Sul tema si è scatenata anche una battaglia fra costituzionalisti. Quelli raccolti dall’Upi (tra cui Valerio Onida e Gian Candido De Martin) sostengono che lo «svuotamento» delle Province, con redistribuzione delle funzioni e sostituzione di Giunte e Consigli con organi di secondo livello composti dai sindaci del territorio, cozza contro l’articolo 114 della Costituzione, secondo il quale Comuni, Città metropolitane, Province, Regioni e Stato sono «equiordinati»: i loro colleghi interpellati dal Governo, fra i quali si incontrano Augusto Barbera e Stefano Ceccanti, ribattono il contrario, e negano l’esistenza di un «diritto naturale» alle funzioni e agli organi elettivi delle Province.
La discussione è aperta, ma intanto il progetto va avanti e prova a raccogliere consensi ulteriori. In cantiere ci sono correttivi importanti, a partire da una clausola di salvaguardia per il personale attuale delle Province, che seguirà la redistribuzione di funzioni sul territorio mantenendo però integrale il trattamento economico attuale. Una novità che trova naturalmente d’accordo Cgil, Cisl e Uil e che secondo Franco Pizzetti, consigliere giuridico del ministro Delrio, «non intacca i risparmi a regime, che derivano dalla distribuzione più efficiente di funzioni e risorse umane e non dagli interventi su stipendi e indennità». Altri correttivi sono in vista sulla definizione delle sorti del patrimonio, anche queste legate alla redistribuzione territoriale delle funzioni, e sulla rappresentanza dei piccoli Comuni all’interno dei consigli provinciali di secondo grado. Sul passaggio delle funzioni a Comuni o Regioni, secondo il progetto del Governo, decideranno i territori, che potrebbero anche confermare alle nuove Province qualche attribuzione degli attuali enti «di area vasta» (per esempio la gestione delle strade extracomunali). «L’obiettivo – sostiene Pizzetti – è arrivare a un’organizzazione più razionale, superando le Province attuali schiacciate fra Comuni e Regioni». Da qui dovrebbero arrivare i risparmi veri, ma proprio sul tema risparmi l’Unione delle Province fa la voce grossa, e arriva a sostenere che la riforma può arrivare a costare «due miliardi in più».
Come si vede, il tiro alla fune torna ad accendersi e strattona sia la Costituzione sia la matematica; per l’esito, comunque, è questione di poche settimane.

Il Sole 24 Ore 02.11.13

******
«Sarebbe una beffa andare al voto per nuovi presidenti». «Le Regioni devono essere riordinate ma con l’intervento sulla Costituzione», di
Gianni Trovati
«Possiamo lavorare anche 24 ore al giorno, ma non possiamo mancare i tempi perché la riconvocazione delle elezioni provinciali sarebbe una beffa per tutti. Anche i commissariamenti sono un’anomalia, che non va aggravata ulteriormente». Alla riforma degli ordinamenti locali il ministro degli Affari regionali e delle Autonomie ha legato una parte importante del proprio ruolo politico attuale. Si dice consapevole che «il calendario è stringente», ma anche convinto che il Parlamento «ha la capacità e la possibilità di esaminare a fondo la legge».
Ministro, è giusto vincolare una riforma così profonda a tempi stretti?
Di Città metropolitane e riforma di Province e ordinamenti locali discutiamo da decenni. Anche sulla costituzionalità ci si è confrontati a lungo, e il comitato per le riforme ha concluso che la strada è corretta.
Le Province contestano però l’idea stessa che così si producano risparmi.
Gli studi portano evidenze diverse, basta guardare i numeri indicati dall’Istituto Bruno Leoni o dalla ricerca del Cerved Bocconi. In più abbiamo raccolto i dati della Sose sui fabbisogni standard, che nelle funzioni generali parlano di spesa inefficiente al 50-55 per cento.
L’inefficienza però è diffusa. Le Province non rischiano di essere il capro espiatorio?
No, perché la riforma parla di tutti i governi locali, e intreccia la gestione associata dei piccoli Comuni che va a regime nel 2014. Anche fra alcuni sindaci ci sono resistenze, ma rimango convinto che si debba andare verso le gestioni in rete, che in Europa riguarda il 90% degli enti mentre da noi è ferma al 12 per cento.
E le Regioni? In quanto a costi non scherzano.
Sono convinto che un ripensamento debba riguardare anche loro, e rilancio l’appello al «grande coraggio riformatore» richiamato da un presidente di Regione (la Campania, ndr) come Stefano Caldoro. L’autonomia legislativa ha portato le Regioni su livelli di gestione che non competono loro, ma qui l’intervento deve passare dalla riforma costituzionale.

Il Sole 24 Ore 02.11.13

Caccia alle discariche segrete di Gomorra “Viviamo su 800 mila tonnellate di veleni”, di Conchita Sannino

Lo vedevano in tanti. Lo sapeva lo Stato. Da vent’anni. E ora che il segreto su quei verbali è finito, e si dissolve la cortina intorno alle parole di uno dei primi boss dei rifiuti, l’imprenditore del clan dei casalesi Carmine Schiavone, saltino gli alibi. Oltre 300 chilometri di terra avvelenata, non solo Campania, ma anche Basso Lazio e Molise, per decenni imbottita di scorie secondo il racconto dei pentiti. Sotto, riempita con tonnellate di scarti di ogni provenienza industriale o tossica. Sopra, malata e in attesa: ma senza diagnosi certa. Ora che, per decisione della Camera, sono accessibili a tutti i verbali del 1997, in cui Schiavone affida alla Commissione bicamerale sulle ecomafie il racconto shock del business miliardario del traffico dei rifiuti pericolosi, si muovono i sindaci, la Coldiretti, le associazioni, i comitati di cittadini sul piede di guerra.
A Casal di Principe, dove le ruspe di Stato sono tornate di recente, il giorno dopo, regna un grande silenzio. Che nasconde rabbia e vergogna. La rabbia di chi vuole certezze su quel che è stato sepolto nei terreni, la vergogna di chi ha venduto la salute dei propri suoli in cambio di 200mila lire dell’epoca, chiudendo un occhio di fronte all’arrivo dei camion con carichi di immondizia “vietata”. I carabinieri e i vigili con gli specialisti dell’Arpac sono arrivati a scavare fino a 12 metri appena qualche giorno fa, hanno trovato fanghi industriali e frammenti di metalli, residui di fusti passati subito dalla procura antimafia di Napoli all’esame degli specialisti dell’Arpa regionale. Una madre, ai bordi del paese diventato sinonimo di
Gomorra, ora si interroga e fa spallucce. «Li ho visti scavare un’altra volta, a via Sondrio, a via Isonzo. Ma li avremo mai i risultati, ce li daranno? Sapremo quali rischi corrono i miei figli?». Angela Cristiano si gira e trascina i ragazzini verso il cortile interno. Alla periferia di Casale, dove il giorno di festa spegne le strade e tiene le famiglie chiuse nei saloni delle masserie, c’è persino un’area della Curia attualmente sotto sequestro per sospetti interramenti di rifiuti gestiti dalla camorra. E nessuno se n’è meravigliato. Renato Natale, l’ex sindaco dell’antimafia, un simbolo per Casale, però attacca: «Hanno lasciato la vecchia immondizia anche intorno agli scavi. Ci sono tante discariche a cielo aperto. Lo abbiamo segnalato, inutilmente».
Arrivavano fino a 30 metri per seppellire i rifiuti industriali, racconta Schiavone. «A Villaricca e Qualiano», nel napoletano, ad esempio furono sotterrati 520 fusti pericolosi. Nel 1991, primo campanello d’allarme: Michele Tamburrino, autista argentino di origini campane, fu costretto a lasciare il camion in strada e a farsi portare in ospedale, aveva i polmoni avvelenati e la vista annebbiata dai vapori dei bidoni appena trasportati per conto dei casalesi. Poco dopo, sarebbe esploso il blitz di Adelphi: la prima inchiesta su logge massoniche, mafie e politica intrecciate intorno al traffico d’oro dei rifiuti, in arrivo dal Settentrione delle nostre industrie e dal nord Europa. Ma Schiavone tocca decine di luoghi. Molte province. Compresa quella di Latina, e il Molise. Una “striscia del rischio” che mette i brividi: carichi da milioni di tonnellate, 800mila quelle sospette. Già da tempo l’Ires (Istituto di ricerche economiche e sociali) calcolava: da fine anni Novanta a oggi i clan della camorra hanno sversato, solo nei 30 chilometri del litorale domizio «341mila tonnellate di rifiuti speciali pericolosi, 160mila di rifiuti speciali non pericolosi e altre 305mila di immondizia solida urbana».
Schiavone dice: «A Castel Volturno, i veleni li interravamo nei laghetti ». Racconta che negli anni Ottanta toglievano sabbia dal litorale domitio per realizzare il calcestruzzo e poi i “laghetti”, «venivano imbottiti di rifiuti». Ma ogni buco era buono per colmarlo a peso d’oro: anche sotto le vasche per l’allevamento di pesci. Neanche le acque si salvavano. Sarebbero stati tombati fanghi a ridosso dei laghi di Lucrino e d’Averno: luoghi per eccellenza del mito, l’Averno era porta d’ingresso dell’Ade, ora l’agonia dell’ambiente. Così il sindaco di Pozzuoli, Vincenzo Figliolia annuncia «una task force per i controlli », anche nella zona flegrea dei laghi. Anche i cittadini della “Terra dei fuochi” dove solo ieri i vigili del fuoco hanno spento oltre quindici incendi, premono per le bonifiche, annunciano una grande manifestazione di piazza a Napoli per sabato 16. «L’abbiamo sempre detto che ci hanno avvelenato da anni». S ì, lo sapevano tutti. Specie i colletti bianchi, ingegneri delle discariche lecite e illecite, e pezzi di Stato deviato che hanno partecipato alla pioggia di miliardi dei commissariamenti sui rifiuti in Campania. E lo raccontavano i pentiti. Non solo Schiavone. Ma anche Gaetano Vassallo, autentico imprenditore dei rifiuti, che ha “rovinato” padrini e politici di spicco, come Nicola Cosentino. E lo sta ripetendo, da qualche mese, il più recente dei collaboratori di giustizia: Luigi D’Ambrosio, alias
Uccellino.
Uno che comincia così i suoi verbali. «Sono quello che spostava la terra e guidava i camion con i rifiuti. Solo io ho visto calare giù una ventina di furgoni. Io sono l’escavatorista».

La Repubblica 02.11.13

“Da Craxi al Cavaliere, la Family al potere”, di Alberto Statera

«A’megghiu parola è chidda ca ‘un si dici». Altra tempra rispetto ai figli il capostipite della Family don Salvatore Ligresti che, chiuso per 112 giorni a San Vittore nell’estate 1992, spiegava al compagno di cella che gli preparava gli spaghetti il vecchio proverbio siculo imparato da giovane a Paternò, provincia di Catania. La figlia Giulia Maria, condannata in settembre a 2 anni e otto mesi per falso in bilancio e aggiotaggio, ha sopportato la cella per poco più di un mese, prima che in agosto la Family mettesse nei guai il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri.
CON la richiesta di intercedere per il trasferimento della signora ai domiciliari. Di ciò «ca ‘un si dici» don Salvatore aveva una gerla cospicua, tra le più fornite dell’epoca di Tangentopoli. Tanto che, ottenuta la liberazione dopo lo scandalo craxiano per l’appalto della Metropolitana milanese, fu arrestato di nuovo nel 1993 per l’affare Eni-Sai avendo distribuito mazzette per 17 miliardi di lire, gran parte dei quali destinati a Bettino Craxi, condannato poi in Cassazione a 5 anni e sei mesi nel 1996.
THE FAMILY
Giulia Maria, aspetto esile, sofferente di anoressia secondo quanto comunicato ai magistrati e al ministro Cancellieri, non ha proprio il carattere roccioso dei siculi che hanno fatto il bello e il cattivo tempo per mezzo secolo a Milano: da Michelangelo Virgillito a Raffaele Ursini, da Michele Sindona al papà don Salvatore e a Enrico Cuccia. Ma l’eloquio rivelato dalle intercettazioni mostra un’indole battagliera, come quella della sorella cavallerizza Jonella. Meno nota alle cronache la cifra caratteriale del fratello Paolo, latitante da mesi. Fatto sta che, sfangata Mani pulite, non potendo più ricoprire cariche ufficiali per le condanne subite, don Salvatore divide i posti di comando del
gruppo tra la figliolanza. Ma continua a comandare lui e torna a comportarsi come un intoccabile. Enrico Cuccia, che lo coccolò per anni perché convincesse l’amico Craxi (anche lui vantava antenati siculi) alla privatizzazione di Mediobanca, non c’è più.
Ma l’Italia ha la memoria corta e il capitalismo di relazione, che molti ottimisti vogliono oggi verso la fine per consunzione, perdona facilmente gli impulsi delinquenziali dei suoi accoliti.
Soprattutto se sono quelli di don Salvatore soprannominato «Mister 5 per cento» perché fino agli ultimi eventi che hanno colpito la dinastia si trovava a controllare partecipazioni in Mediobanca, Pirelli, Gemina, Rcs, Generali. Il cuore del capitalismo familistico delle scatole cinesi e dei conflitti d’interesse. E in più era intimo di Berlusconi, fin dai tempi in cui Silvio era un palazzinaro arrembante che con lui partecipò all’acquisto della televisione Gbr, curato dall’attuale ex ministro berlusconiano Paolo Romani, da recare in dono all’amante di Craxi Anja Pieroni.
PROGENIE FAMELICA
L’amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel è indagato perché avrebbe apposto una firma (dice solo «per visione») al “papello” recatogli da Jonella Ligresti con le condizioni per approvare il passaggio del gruppo Fonsai a Unipol. Richieste fantasmagoriche. Quarantacinque milioni per il 30 per cento di Premafin, emolumenti personali a Salvatore e alla progenie: 700 mila euro a testa per 5 anni, per un totale di 14 milioni; buonuscita per la carica a Jonella; buonuscita a Giulia, più consulenza in Compagnie Monegasque; buonuscita a Paolo fuggiasco.
Contratto «all’ing.», cioè don Salvatore, con Hines, la società del costruttore Manfredi Catella. Poi i benefit accessori: uso gratuito degli uffici di Milano, con segreterie, autisti, foresterie di Milano e Roma, auto attualmente utilizzate: Mercedes, Bmw e Audi. E per le vacanze? Uso gratuito degli appartamenti al Tanka Village, e uso della cascina di Milano.
Pare che nel “papello” non figurassero i jet Falcon sui quali le sorelle viaggiavano, ma non insieme neanche per lo stesso viaggio. Ma se un banchiere come Nagel avesse accettato queste condizioni, sarebbe da rinchiudere, pur non essendo certamente ignaro dell’avidità della figliolanza, che si è rivelata famelica non meno del capostipite e che per anni lo ha aiutato nel saccheggio a spese degli azionisti, con la complicità di banchieri, industriali, politici e autorità di controllo. Difficile dire quanto ha depredato la Famiglia dalle società controllate, come se prelevasse da un Bancomat. Per i cavalli di Jonella, per la sua laurea honoris causa all’Università di
Torino, sponsor il professor Sergio Bortolani, direttore della Scuola di Management ed Economia e nientemeno che consigliere della Banca d’Italia.
Giulia, che in prigione rifiutava di mangiare, faceva la stilista a spese della Fondiaria-Sai ed è la bella di papà, tanto che «Novella 2000», testata della Rizzoli di cui i Ligrestos erano azionisti, la ha impalmata reginetta di bellezza tra le top manager, sulla base del giudizio di una giuria di 20 banchieri e giornalisti economici (i nomi, please).
LA PROGENIE DELLA MINISTRA
Anna Maria Cancellieri è una donna simpatica e forse anche una brava funzionaria dello Stato. Ma non si può fare a meno di chiedersi: come può un prefetto diventato persino ministro intrattenere rapporti così intimi con un pregiudicato pluricondannato e con la sua famiglia? Dice di essere tanto amica della compagna di don Salvatore, che le ha chiesto l’intervento per Giulia. Ma l’ammissione è quantomeno riduttiva. Correva infatti il 1987, quando nella Milano craxiana “da bere” la giovane viceprefetto Anna Maria Peluso, che faceva le pierre in Prefettura, mostrava intimità con Antonino Ligresti, fratello di don Salvatore e proprietario di cliniche. Il giornalista Federico Bianchessi ha raccontato come la giovane signora fosse presente nella clinica Città di Milano a una sua intervista con il potente clinicaro. Ciò che fa ritenere forse successiva l’amicizia con la compagna di don Salvatore, Gabriella Fragni. La quale, peraltro, inconsapevole forse della gravità di quella telefonata partita dal ministero di Grazia e Giustizia subito dopo l’arresto della Family meno uno, insulta persino l’amica ministro. «Ieri ho avuto una telefonata che poi ti dirò», racconta alla figlia. «Gli ho detto: ma non ti vergogni di farti vedere adesso? Ma che tu sei lì perché ti ci ha messo questa persona ». Quale persona? La Ligresti Family in disarmo, sei mesi fa era ancora in grado di fare ministri, come ai tempi di Craxi e di Berlusconi? O l’aiuto ricevuto da Anna Maria è di altra natura? Certo, la carriera di Piergiorgio Peluso, figlio dell’ex viceprefetto Anna Maria Peluso diventata ministro, è folgorante e i suoi redditi da favola. Un bravo manager? No, «un idiota», secondo Giulia Maria, intercettata al telefono con un amico. Se Piergiorgio è davvero un idiota non si capisce la sua carriera fulminea se non con l’appartenenza al cerchio di potere della mamma, un cerchio dove conta soprattutto il «capitale relazionale» in una società ormai divisa in network di potere, dove la competenza è un surplus. Ma Giulia è una donna avvelenata e sull’affermazione secondo cui Piergiorgio in Fonsai « in un anno ha distrutto tutto» va necessariamente presa con le molle.
Quarantacinque anni, dopo la laurea alla Bocconi Piergiorgio lavorò
in Mediobanca, poi in Credit Suisse e in Capitalia ai tempi di Cesare Geronzi, dove trattava i rapporti con il gruppo Ligresti. E’ lì che approda nel 2011.
Indicato da Mediobanca o dai Ligresti stessi? Fatto sta che appena arrivato sulla tolda di direttore generale non può fare a meno di rilevare che la Fonsai ha gravi problemi di solvibilità.
Resta poco più di un anno e se ne va con una buonuscita di 3,6 milioni o di 5, secondo quanto dice al telefono Giulia Maria, calcolando forse anche 14 mesi di stipendio. Un bel gruzzolo che lo accompagna subito nella carica di direttore finanziario di Telecom.
OLIGARCHIE DI POTERE
Chi ha detto che oggi è difficile trovare lavoro? Forse sì per i comuni mortali, ma non per chi fa parte di una oligarchia che si è di fatto eletta in classe separata rispetto alla cosiddetta società civile. Don Totò ha avuto bisogno di tutti e tutti hanno avuto bisogno di lui: politici, imprenditori, prefetti, banchieri: chi può dire di non aver avuto da lui? A parte il noto clan ex fascista dei La Russa, il cui capostipite Antonino gli presentò Enrico Cuccia che poi lo favorì (ricambiato) per una vita, per avere un piccolo test basta scorrere il citofono del suo palazzo romano di via Tre Madonne, dove ha abitato o abita un plotone impareggiabile di potenti: dal vicepremier Angelino Alfano al presidente dei deputati berlusconiani Renato Brunetta; da Italo Bocchino, ex vice di Fini, all’amministratore delegato della Consap Mauro Masi, fino a Marco Cardia (figlio dell’ex presidente Consob) e a Chiara e Benedetta Geronzi. L’immobile è bello, ma non invidiamo gli inquilini. Sembra il palazzo di Devil’s advocate,
dove l’avvocato Milton-Al Pacino conduceva all’inferno i suoi adepti.

La Repubblica 02.11.13

“Ok al bonus e digitale fai-da-te . Ma saltano i 41 milioni per le università più virtuose”, di Valentina Santarpia

Via libera della Camera dei deputati sul decreto scuola, approvato con i voti favorevoli di Pd e Pdl, il parere contrario di Lega nord e Fratelli d’Italia e l’astensione di Sel e Movimento Cinque stelle. Ora passerà al Senato. Saltano i fondi aggiuntivi per le università migliori, si tratta di una questione tecnica. Restano fuori dal decreto anche quasi tutte le proposte di modifica sulle graduatorie, tranne l’emendamento che salvaguarda circa 2386 presidi, trasformando le graduatorie di merito in graduatorie ad esaurimento, e facendo quindi sì che non venga bandito un nuovo corso-concorso finché non saranno assunti i dirigenti scolastici in attesa. Ma la Camera approva un ordine del giorno perché il ministero, una volta per tutte, si chiarisca in quali modi avvengono i reclutamenti e dove possono essere apportati correttivi. Impegno ufficiale dell’esecutivo anche sulle borse di studio: i 40 milioni per finanziarle dovranno essere trovati nell’ambito della legge di stabilità. Tra i provvedimenti approvati, un piano triennale 2014-2016 per l’assunzione a tempo indeterminato del personale della scuola, la rideterminazione della dotazione organica dei docenti di sostegno, risorse per andare incontro alle esigenze di trasporto degli studenti delle scuole medie e superiori.

UNIVERSITA’ – Sfumano i 41 milioni aggiuntivi per le università virtuose: i fondi, già disponibili presso il Ministero delle finanze, sono risorse destinate agli investimenti e non possono quindi essere dirottate sul fondo per le università, quelle risorse degli atenei che vengono attribuite anche in base al merito certificato dall’Anvur. “Abbiamo invano cercato una soluzione contabile che ci permettesse di usare quei fondi, che altrimenti rischiamo di perdere. Ma non è stato possibile”, spiega la deputata Pd Manuela Ghizzoni, la nuova relatrice del provvedimento alla Camera dopo le dimissioni del pidiellino Giancarlo Galan. Secondo Ghizzoni, si è trattato di un problema puramente “tecnico”, che però di fatto frena le aspettative dei rettori. Il fondo per le università, che ammonta a circa 6,3 miliardi, è sottoposto da tre anni a tagli, al ritmo di 300 milioni l’anno, per cui tutte le università arrancano: avranno «solo» 150 milioni in più .

BONUS MATURITA’ –Con il via libera alla Camera, si fa più vicino l’ingresso degli esclusi dal bonus maturità nelle università a numero chiuso, cioè Medicina e chirurgia, Odontoiatria, Veterinaria e Architettura. Come previsto dal compromesso trovato in Commissione, infatti, gli studenti che, vantando il credito del bonus, avrebbero potuto raggiungere il punteggio necessario per essere ammessi, saranno iscritti in sovrannumero nelle università, secondo il punteggio complessivo ottenuto e l’ordine di preferenza delle sedi indicate al momento dell’iscrizione al test di accesso. Potranno vedersi assegnare il voto aggiuntivo della maturità solo gli studenti che hanno ottenuto almeno venti punti al test di accesso. Gli studenti coinvolti potranno scegliere se iscriversi subito, oppure l’anno prossimo, nel caso vogliano completare l’anno accademico presso un’altra facoltà e farsi poi convalidare gli esami sostenuti. La stessa opportunità è data a quegli studenti che non hanno potuto, sempre perché penalizzati dal mancato bonus, iscriversi nell’ateneo preferito: anche in questo caso potranno trasferirsi immediatamente oppure riservarsi quest’opzione per settembre 2014. Una scelta, quella della commissione, dettata dalla necessità di non voler penalizzare chi si è visto cambiare le regole in corsa: il bonus, voluto dall’ex ministro Francesco Profumo, era infatti stato cancellato proprio nei giorni del test dall’attuale ministro Maria Chiara Carrozza, senza essere mai stato applicato.

POLITICAMENTE CORRETTA. E SANA.– La scuola non serve solo a imparare nozioni, ma ad acquisire un pensiero aperto e rispettoso. E’ una delle vere novità che emerge dagli emendamenti approvati durante la discussione finale del decreto scuola. A dettare la linea, due punti: un emendamento, che prevede esplicitamente che i 10 milioni per la formazione dei docenti dovranno essere utilizzati non solo per migliorare le competenze degli studenti, ma puntare anche sull’educazione “all’affettività, al rispetto delle diversità e delle pari opportunità di genere e al superamento degli stereotipi di genere”. E un ordine del giorno, accolto dal governo, che introduce il rispetto del codice delle pari opportunità nei libri di testo: mai più didattica che rischi di discriminare o offendere, per capirci. Il decreto punta anche ad educare al rispetto del corpo e della salute: il divieto di fumo è esteso ai cortili e alle sigarette elettroniche, mentre gli stili di vita sani – educazione fisica e abitudini alimentari corrette- vengono promossi.

PIU’ BREVI E PIU’ SNELLI – Sempre per gli studenti di Medicina, arriva un’altra novità dal decreto scuola: le specializzazioni dureranno di meno, in linea con quanto accade negli altri Paesi europei. In generale, saranno tagliati i corsi di specializzazione almeno di un anno. Le nuove regole saranno gradualmente introdotte per gli studenti dei primi anni, mentre per quelli dal quarto anno in poi saranno valide le norme precedenti.

NO ALLE CLASSI POLLAIO – Una riduzione dovrebbe avvenire anche per il numero di studenti per classe: per ora un ordine del giorno impegna il governo ad occuparsi delle famigerate classi pollaio. E si punta pure a far calare quella fetta enorme di ragazzi che lascia la scuola prima del tempo: fondi ad hoc finanzieranno i progetti integrativi contro la dispersione scolastica.

MONDO DIGITALE –Entro il 2015 gli istituti scolastici potranno elaborare da sé il materiale didattico digitale da usare, sotto la supervisione di un docente che garantisca la qualità dell’opera sotto il profilo scientifico e didattico. E comunque lo Stato non può più tirarsi indietro: il suo compito è quello di “promuovere – si legge al 2 quater – lo sviluppo della cultura digitale”, definire “politiche di incentivo alla domanda di servizi digitali” e favorire “l’alfabetizzazione informatica anche tramite una nuova generazione di testi scolastici preferibilmente su piattaforme aperte che prevedano la possibilità di azioni collaborative tra docenti, studenti ed editori”.

INGLESE ALLA MATERNA – Viene introdotta la lingua inglese anche alla scuola materna dove verrano insegnati i «primi rudimenti» della lingua.

ORIENTAMENTO PERMANENTE – Si comincia all’ultimo anno della scuola media, per capire verso che istituto scolastico secondario orientarsi, si prosegue negli ultimi due anni di liceo o istituto professionale, per indirizzarsi all’università oppure nel mondo del lavoro. Si chiama orientamento, ed è uno dei cardini del decreto, che punta a fare degli studenti di oggi dei lavoratori domani, non fra decenni. Per questo viene avviato, a partire dal triennio 2014-2016, un programma di sperimentazione con formazione in azienda e contratti di apprendistato.

EDILIZIA SCOLASTICA – Ottocento milioni per ricostruire o costruire di sana pianta le scuole malandate del nostro Paese: il mutuo che l’Italia contrarrà con la Banca di sviluppo europea le costerà 40 milioni di euro all’anno per i prossimi trent’anni, ma dovrebbe permettere un risanamento generale delle strutture, in base alle esigenze dichiarate dalle Regioni. Ma, per evitare sprechi e ritardi, il ministro delle Infrastrutture, quello dell’Economia e il titolare dell’Istruzione predispongono insieme una relazione da trasmettere ogni anno alle Camere sullo stato di avanzamento dei lavori relativi a interventi di edilizia scolastica e sull’andamento della spesa.

IMPARA L’ARTE- Nel senso letterale della parola: il decreto rilancia l’Alta formazione artistica, musicale e coreutica e stanzia un milione di euro per le accademie di belle arti non statali “al fine di rimediare alle gravi difficoltà finanziarie”. Al via anche un monitoraggio della didattica negli istituti superiori: dopo aver riportato la geografia negli istituti tecnici professionali, potrebbe essere il primo passo per salvaguardare l’insegnamento della storia dell’arte, penalizzato dalla riforma Gelmini.

Il Corriere della Sera 02.11.13

******

«Certificare la qualità senza incentivi Così puniamo le nostre eccellenze», di Elvira Serra

«Non possiamo morire di cavilli amministrativi». Stefano Paleari, presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane e alla guida dell’ateneo di Bergamo, rinuncia al suo proverbiale equilibrismo («sono considerato un diplomatico, anche nella valutazione e nei giudizi») per commentare la notizia che dal decreto scuola sono spariti i quarantuno milioni di euro previsti per gli atenei virtuosi. I soldi c’erano, ma un problema tecnico non ha permesso lo stanziamento.
Cosa la amareggia di più?
«Mi si può spiegare che è un fattore tecnico, che ci sono delle ragioni precise e insormontabili, ma sono stato a Stoccarda da poco, dove l’ateneo ha 26 mila studenti e i finanziamenti statali sono sette, otto volte quelli italiani. È stupefacente vedere come a fronte di una volontà politica precisa di trovare le risorse per valorizzare il merito, e addirittura in presenza di quei fondi, poi non se ne sia fatto nulla».
Lei lo aveva chiesto in una lettera indirizzata lo scorso settembre al premier Enrico Letta e al ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza: un segnale al merito e ai giovani.
«Sì, due proposte semplici da inserire nella legge di stabilità. Ci sembrava che il messaggio fosse stato recepito. Le università si sono sottoposte alla valutazione della loro attività di ricerca sulla base di parametri internazionali da parte dell’Anvur, l’agenzia di valutazione dell’università e della ricerca: ci aspettavamo che a questo corrispondesse una sensibilità finanziaria correlata ai risultati, non una distribuzione a pioggia. Questa è cultura delle punizioni. Quale messaggio stiamo dando ai giovani?».
Lo dica lei.
«Sono segnali pessimi. Dal 2009 a oggi il costo dell’università è passato da sette miliardi e mezzo a sei miliardi e mezzo di euro, il numero dei ricercatori è sceso da 62 mila a 52 mila: chi è uscito per ragioni di anzianità non è stato sostituito. Siamo l’unico comparto della pubblica amministrazione che ha subito questa riduzione di finanziamenti e di organici. Cos’altro dobbiamo fare? Ovvio che poi i ragazzi se ne vanno. In tutto il mondo, non soltanto in quello occidentale, l’università è considerata uno dei pilastri sui quali costruire la competitività del Paese. Perché in Italia è l’ultima delle preoccupazioni?».
Non si può dire, però, che la crisi stia risparmiando qualche settore…
«In Germania l’università costa 25 miliardi all’anno, in Francia venti, in Inghilterra, malgrado quanto paghino gli studenti, lo Stato finanzia per dieci miliardi. E, restando in Germania, realtà che conosco giacché faccio parte del board dei rettori europei, laggiù non solo studiare costa di meno, ma il rettore ha la possibilità di modulare gli stipendi dei ricercatori sulla base del merito».
Perché la cultura del merito fa così paura?
«Posso dire che oggi i ragazzi costruiscono la loro posizione nella società aperta sulla base dell’impegno profuso e in funzione delle loro qualità. La loro generazione è estremamente competitiva. Ma l’affermazione della qualità e del merito può avvenire solo se trova collateralmente gli incentivi per essere promossa, altrimenti si trasforma in cultura della punizione».

Il Corriere della Sera 02.11.13

“Il leader immaginario”, di Claudio Sardo

Ma davvero la sola alternativa al partito personale è il partito «impersonale», e dunque «senza qualità»? Davvero il partito, inteso come corpo sociale, è destinato a dissolversi nella modernità affidando ogni progetto politico alle leadership individuali e ai relativi comitati elettorali? Il congresso del Pd ha riacceso il confronto. Del resto, la dote maggiore che Renzi si attribuisce – e che tanti sono disposti a riconoscergli – è di essere «vincente» come la sinistra non è mai stata in questi vent’anni.

Tuttavia questa discussione – che torna come un fiume carsico nella crisi della Repubblica – appare sempre più povera, più subalterna, più lontana dai nodi reali del potere e dalle vere fratture sociali.
La leadership è parte essenziale della soggettività di un partito o di un movimento, oltre ad essere funzione irrinunciabile della rappresentanza. Negarlo è impossibile. Affermarlo però rischia di essere una banalità. Senza leader non ci sarebbe stata l’agorà, né il movimento operaio si sarebbe dato forme organizzate. Un leader efficace è da sempre un valore aggiunto. Nella società delle comunicazioni lo è ancor di più. Ma qualcuno crede che oggi per «vincere» basti trasformare la sinistra in un’agenzia demoscopica? Che basti l’affermazione di un nuovo carisma? Se la sinistra si riducesse a questo, avrebbe perso anche quando dovesse conquistare una maggioranza pro-tempore.
Vincere vuol dire rompere i fattori di blocco della mobilità sociale, vuol dire avviare un nuovo sviluppo nel segno dell’equità, vuol dire restituire funzionalità democratica alle istituzioni. Questa è il vero successo, che va oltre le elezioni. Ed è pensabile aprire una nuova strada, affidando tutta l’impresa a un capo che deve giocare la partita con pochi altri capi, in un territorio sempre più separato dai conflitti economici e dai drammi sociali? Il vero dilemma non è tra chi riconosce il valore del leader e chi invece rimpiange il «collettivo». Il vero dilemma non è tra partito solido e partito liquido. Il nodo da sciogliere riguarda l’efficacia della politica dopo la trentennale egemonia del liberismo antipolitico. Tutto ciò che conta oggi è estraniato dal circuito democratico: i margini di discrezionalità degli stessi governi sono minimi nei binari segnati da compatibilità precostituite. Come si può rompere questa gabbia, senza attivare una rete sociale, senza ricostruire un tessuto di solidarietà, senza l’autonomia dei corpi intermedi, senza un’offensiva culturale contro frammentazione e individualismo? In un recente articolo su la Repubblica, Giancarlo Bosetti è arrivato quasi a contrapporre il bisogno di leadership al bisogno di autonomia politica, come se i sostenitori di quest’ultima fossero nostalgici di una «collegialità» perduta nella prima Repubblica. Ma l’approccio è sbagliato. La leadership ha forza, dunque è davvero vincente, se presidia e interpreta l’autonomia politica e culturale di un partito o di un corpo sociale. Una leadership costretta a esibirsi solo in un «teatrino» separato – benché illuminato dai riflettori e monitorato dagli indici di consenso – sarebbe invece priva di efficacia. Il leader vincente sarebbe comunque ridotto a esecutore di volontà e di indirizzi altrui. I sempre più potenti mezzi di comunicazione sono lì ad amplificare, ma anche a proteggere i poteri esterni alla politica, i moderni Gattopardi, che qualcosa vogliono cambiare purché nulla cambi davvero.
La leadership è forte e vincente soltanto se è capace di dare dimensione sociale al cambiamento. In altre parole, se è capace di far compiere un salto al partito. L’idea che la leadership possa surrogarlo è velleitaria. Anzi, è già stata sconfitta. L’Italia del berlusconismo è stata il laboratorio dei partiti personali e patrimoniali: il risultato non poteva essere peggiore. Sarà pur vero, come scrive Mauro Calise nel suo saggio Fuorigioco (editrice Laterza), che la sinistra ha giocato male nel campo segnato dagli altri partiti personali, ma può riscattarsi adeguandosi semplicemente al modello perdente? Perché di questo si tratta: il partito personale che taglia le proprie radici sociali ha perso e ha portato male al Paese.
Non torneranno più i partiti di massa, né le strutture organizzate piramidali. Non si vinceranno le elezioni senza società di comunicazioni e senza squadre operative sul web e sui social. Tuttavia, non c’è una testa senza un corpo. E il corpo va tenuto vivo. Fabrizio Barca usa l’immagine del «partito palestra», dove la sperimentazione democratica è al tempo stesso fattore di partecipazione e di controllo. C’è bisogno di creatività. Di più: di innovazione rivoluzionaria. Ma senza un partito vero, senza persone, senza volontà comuni, senza radici sociali, senza autonomia, il leader è impotente. Anche quando i poteri esterni lo illuminano di consenso riflesso.

L’Unità 01.11.13

“F35, l’ira di Pd e Sel per lo spot Mauro-Lockheed”, di Alberto D’Argenio

«Ma chi li ha mai visti questi della Lockheed?». Di buon mattino il ministro della Difesa, Mario Mauro, leggendo Repubblica scopre di essere testimonial degli F35. Già, perché come riportato ieri da questo giornale nello show di lusso organizzato a Manhattan per rilanciare l’immagine del controverso e carissimo cacciabombardiere, in cima alla lista degli sponsor stranieri campeggia la foto del ministro italiano che pronuncia la frase: «To love peace you must arm peace». Per amare la pace devi armare la pace. A Roma la notizia desta scalpore, viene considerato del tutto inopportuno che il responsabile della Difesa sponsorizzi una multinazionale dell’aviazione militare per di più su un prodotto, gli F35, del quale l’Italia è uno dei committenti con una scelta, ormai vecchia di 20 anni, che con la crisi ha attirato su di sé un mare di critiche visto i costi dell’appalto: 12,1 miliardi per novanta velivoli in tempi di sacrifici.
Sono il Partito democratico e Sel a mettere nel mirino Mauro. Per Gianpiero Scanu, capogruppo Pd nella commissione Difesa della Camera, lo spot «è un episodio molto grave, speriamo di avere una smentita dal ministro altrimenti non potremmo voltare pagina. Il Parlamento ha impegnato il governo a non procedere all’acquisto dei caccia, stiamo conducendo un’indagine conoscitiva che potrà stabilire quali siano davvero le esigenze dei sistemi d’arma del nostro Paese. Dunque, mi pare davvero impossibile che il ministro della Difesa abbia accettato di fare lo sponsor per la Lockheed, l’azienda produttrice degli F35, che si trova evidentemente in serie difficoltà. Se la questione non sarà chiusa dovremmo valutare azioni a difesa della dignità del Parlamento». Andrea Manciulli, vicepresidente della Commissione esteri e anche lui del Pd, si dice «incredulo», aggiunge che «è inaccettabile che il ministro faccia uno spot per un’azienda privata» e sottolinea che se Mauro non fosse in grado di chiarire dovrà rispondere della vicenda di fronte al Parlamento. Stessi toni arrivano da Loredana De Petris, presidente dei senatori di Sel, che annuncia un’interrogazione formale e chiede al premier Letta di «censurare questo comportamento
più da lobbista che da uomo delle istituzioni».
Nel pomeriggio arriva la smentita. Mauro – che comunque difende il programma F35 ereditato dai governi precedenti sostenendo che senza i 90 velivoli chiamati a sostituire 256 vecchi aerei l’aeronautica perderebbe forza mette i suoi al lavoro, ricordando di non avere mai incontrato gli uomini della Lockheed se non in un’occasione pubblica al salone di Le Bourget. Poco prima delle cinque esce un comunicato del ministero nel quale si annunciano azioni legali contro il colosso militare: «Sono state impropriamente utilizzate l’immagine ed alcune dichiarazioni del ministro della Difesa. Chiunque utilizzi in modo improprio, diffamatorio o superficiale l’immagine o le dichiarazioni di Mario Mauro ne risponderà nelle sedi legali deputate ». Quindi dal Texas si fanno vivi quelli della Lockheed Martin. Chiedono scusa al ministro e poco dopo da Fort Worth esce un comunicato con l’ammissione di avere usato l’immagine di Mauro di propria iniziativa e senza averne chiesto il preventivo permesso: «Il ministro della Difesa italiano non era stato messo al corrente che una delle sue dichiarazioni pubbliche sarebbe stata citata durante una nostra presentazione. Ci rammarichiamo per qualsiasi fraintendimento. Per completezza ci preme sottolineare che la dichiarazione del ministro apparsa durante una recente presentazione F35 Lockheed Martin non rappresentava la dichiarazione di un testimonial. Si trattava semplicemente di una delle molte dichiarazioni pubbliche documentate rilasciate dai ministri della Difesa di tutto il mondo e dai leader militari degli Stati Uniti mostrate nella nostra presentazione».

La Repubblica 01.11.13

“Mercato del lavoro a senso unico: non si entra, si esce soltanto”, di Laura Matteucci

In un anno è andato perso quasi mezzo milione di posti di lavoro. Un’enormità a conferma del persistere della recessione e dell’emorragia delle imprese, una caduta libera che riguarda tutte le categorie di lavoratori, uomini, donne e giovani, e che potrebbe fermarsi solo tra qual- che mese, sempre a patto arrivi davvero la ripresa prevista a fine anno. I dati Istat sull’occupazione, al mese di settembre, non sono mai stati così neri dal 1977: i disoccupati sono quasi 3,2 milioni, 29mila in più rispetto ad agosto (+0,9%), 391mila in più su base annua (+14%). È il nuovo massimo per i senza lavoro in Italia, che porta il tasso di disoccupazione al 12,5% (nell’eurozona è al 12,2%), in aumento dell’1,6% sull’anno scorso. Tra i giovani nella fascia 15-24 anni i disoccupati sono 654mila, con un tasso record al 40,4%, aumentato di ol- tre il 4% rispetto a un anno fa (nell’eurozona è poco oltre il 24%): in altri termini, meno di 2 giovani su 10 lavorano, con un tasso di occupazione calato al 16,1%. L’incidenza dei disoccupati in questa fascia d’età sul totale della popolazione giovanile è del 10,9%, Per contro, gli occupati di tutte le età sono 22 milioni 349mila, 80mila in meno rispetto ad agosto (-0,4%) e 490mila in meno su base annua (-2,1%). Il tasso di occupazione è al 55,4% (-0,2 su agosto e -1,2 rispetto a do- dici mesi prima). Poi c’è l’anomalia italiana, almeno nei numeri, degli inattivi (la fascia è quella tra i 15 e i 64 anni), a settembre 71mila in più rispetto ad agosto, ma sostanzialmente stabili nell’arco dell’anno, con un tasso al 36,4%. L’occupazione maschile è al 64,4% (-1,7% sull’anno), quella femminile inchiodata al 46,5% (-0,7%). E la disoccupazione corre per entrambi i generi, per gli uomini (+16,7%) come per le donne (+10,7%).

LE CONFERME DEI NUMERI

Un Paese impoverito, nelle prospettive e nel reddito, dal lavoro che non c’è, dove infatti l’inflazione è ai minimi nonostante l’aumento dell’Iva. I numeri sono questi, non sorprendenti per la verità, anche se messi tutti in fila nero su bianco misurano la crisi meglio di qualsiasi parola. E diventano motivo di pressione sul governo per «un cambio di rotta» a partire dalla legge di Stabilità in discussione in Parlamento. Anche il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, ne fa cenno. Sottolinea come sia «particolarmente negativo il fatto che il livello occupazionale, dopo 3-4 mesi di stabilità, è nuovamente diminuito e che questo accada a settembre, mese in cui ci sono segnali di ripresa in alcuni settori». In quest’ottica, dice sempre il ministro, «la discussione sulla Stabilità è molto importante, proprio per accelerare il contenuto di occupazione perché l’incertezza creata dal mercato del lavoro è un fattore di ostacolo alla ripresa». Giovannini, comunque, mette le mani avanti quando chiarisce anche che «se si pensa di risolvere tutto con un unico intervento legislativo non abbiamo capito nulla». Ancora: «I dati dimostrano come la crisi continui a mordere sul mercato del lavoro, come sempre con tempi molto più lunghi rispetto all’eventuale ripresa dell’attività produttiva».

I sindacati chiedono unanimemente al governo «un cambio di rotta, a partire dalla legge di Stabilità, che deve mettere al centro il lavoro», come dice una nota Cgil: «La recessione non è finita e senza una terapia d’urto non si ferma l’emorragia di posti di lavoro. Le politiche restrittive di questi anni hanno aggravato la situazione, espulso milioni di lavoratori e impedito ad altrettanti giovani di accedere al mondo del lavoro». Mentre sarebbero necessari «una significativa riduzione del carico fiscale sul lavoro e investimenti pubblici che stimolino la do- manda e creino occupazione». Severo anche il giudizio di Raffaele Bonanni, leader della Cisl, che torna a parlare della Stabilità come di un’occasione mancata per imprimere una vera svolta nell’economia, motivo peraltro della mobilitazione già annunciata dai sindacati: «Senza un intervento choc sulle tasse non ci sarà la svolta necessaria – dice – Con la politica dei piccoli passi avremo solo altri dati negativi. Ci vorrebbe molto più coraggio da parte del governo: so- lo tagliando la spesa pubblica, a cominciare dall’obbligo dei costi standard per tutti i settori della pubblica amministrazione, si potranno ridurre drasticamente le tasse ai lavoratori, ai pensionati ed alle imprese che investono. Il nostro sciopero non è contro le imprese, ma contro tutti quelli che vogliono che non si tocchi nulla negli assetti organizzativi dello Stato». Per i giovani, intanto, la re- sponsabile Lavoro e Politiche sociali del Pd Cecilia Carmassi lancia un’idea: «In attesa – dice – che si creino opportunità di lavoro vero, mettiamo a frutto le risorse del servizio civile. Si potrebbero im- piegare subito migliaia di giovani, utilizzando le graduatorie dell’ultimo bando che hanno progetti approvati ma non finanziati. Il tempo non è neutro».

L’Unità 01.11.13