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“Ma un ministro non può avere amici”, di Michele Brambilla

Sarà certamente vero, come assicura la Procura di Torino, che se Giulia Maria Ligresti è stata scarcerata, non lo è stata per l’intervento del ministro Cancellieri. Però la storia non è bella. E soprattutto non è una di quelle storie di cui abbiamo bisogno in questo momento di – come si usa dire – «disaffezione alla politica». I fatti sono questi. Nel luglio scorso, praticamente l’intera famiglia Ligresti finisce agli arresti nell’inchiesta sulla compagnia assicurativa Fonsai. Agli arresti Salvatore Ligresti, il capostitite, e tre suoi figli, tra cui Giulia Maria. Per quest’ultima ci sono parecchie preoccupazioni, perché in passato ha sofferto di anoressia. Come potrà reggere al carcere? Il 17 agosto Gabriella Fragni, la compagna di Salvatore Ligresti, parla al telefono con Antonino, il cognato, e dice che il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, sua vecchia amica, «potrebbe fare qualcosa per Giulia». Il 28 agosto le porte del carcere, per Giulia, si aprono.

Grazie a un intervento dall’alto? Alcune telefonate tra la Fragni e il ministro lo fanno sospettare. Lei, Annamaria Cancellieri, viene interrogata dai magistrati torinesi e conferma di essersi interessata, di avere «sensibilizzato i due vice capi dipartimento del Dap (…) perché facessero quanto di loro stretta competenza per la tutela della salute dei carcerati». È stato, spiega ancora, «un intervento umanitario». E senza alcuna violazione di legge.

Certamente sarà così, nessuna violazione della legge. Ma la storia, dicevamo, è brutta lo stesso. O almeno imbarazzante. Perché?

Annamaria Cancellieri è una specie di incarnazione di quel che gli italiani chiedono, anzi pretendono, dopo tanti anni di malcostume politico: una figura super partes, al servizio delle istituzioni e non di una parte politica. Così è sempre stata: ha fatto il prefetto, poi il commissario a Bologna e a Parma, amministrando (bene) i Comuni in sostituzione di giunte e di sindaci travolte da scandali. Quando, terminato il commissariamento a Bologna, il Pdl le chiese di candidarsi a sindaco, lei rispose di no, per non perdere la sua imparzialità. È stata ministro dell’Interno in un governo tecnico, quello di Monti; e lo è della Giustizia in uno di larghe intese. Sempre senza essere «in quota» a nessuno. La stima che si è conquistata, Annamaria Cancellieri se l’è meritata: e non è un caso se il suo nome è a un certo punto circolato perfino per il Quirinale.

Quando è diventata Guardasigilli, ha preso subito a cuore la condizione dei carcerati, e s’è data da fare, per quanto ha potuto, per alleviarne le sofferenze. Se dice che il suo intervento in favore di Giulia Maria Ligresti era motivato dalla preoccupazione per le condizioni di salute, c’è da crederle. Però, c’è un però. Annamaria Cancellieri è appunto amica da decenni di Gabriella Fragni, la compagna di Salvatore Ligresti; e suo figlio, Piergiorgio Peluso, è stato dirigente della Fonsai. Così quelle telefonate e quell’intervento – per legittimo e ininfluente che possa essere stato – dà agli italiani l’impressione che come al solito ci sono cittadini (in questo caso detenuti) di serie A ed altri di serie B, senza alcuna suocera o zio amici del ministro.

Si dirà che le impressioni non sono fatti. È vero. Ma fino a un certo punto. Mai come in questo periodo la politica ha bisogno che perfino la moglie di Cesare sia al di sopra di ogni sospetto: troppi scandali o scandaletti, favoritismi e raccomandazioni, troppe buone parole e dì che ti mando io hanno indotto gli italiani a pensare che sia tutto uno schifo, anche peggio di quello che è.

Per questo, anche se si è intervenuti in favore pure di altri detenuti, quando chiama un’amica bisognerebbe rispondere «agli altri sì ma a te no, proprio perché sei mia amica». Oggi viene richiesto, a chi è in politica, un supplemento quasi disumano di impeccabilità.

La Stampa 01.11.12

“Quella nebbia che circonda il Pd”, di Guido Crainz

Non può esser sottovalutato il pessimo messaggio che viene dalle pratiche segnalate in alcuni congressi locali del Pd: tessere triplicate, risse, denunce, elezioni fantasma e così via. Un danno vero per l’immagine stessa di una democrazia, non solo di un partito: di qui l’urgenza di prese di posizione concrete, drastiche ed esemplari da parte di tutti i candidati alla segreteria nazionale. L’urgenza di dissolvere ogni nebbia: senza se e senza ma, e senza accuse reciproche che malamente maschererebbero un problema collettivo. Non è lecita nessuna minimizzazione. Quegli episodi mostrano che siamo ben lontani dal rispondere alla crisi della politica con una vera inversione di tendenza, con un colpo d’ala in zona estrema: questa però doveva provare a fare un Pd giunto dopo il voto di febbraio al punto più basso della sua pur breve e tormentata storia. In realtà col passar del tempo la speranza è diventata via via sempre più flebile, e dalla sua vita interna sono venuti segnali sempre più sconfortanti. Lo conferma l’andamento stesso delle iscrizioni, dimezzate in un anno, ed era difficile immaginare un rovesciamento così drastico rispetto alle primarie di appena un anno fa: rispetto alla vitalità che avevano messo in luce, alle passioni e alle speranze che avevano riacceso. Mancò certo dopo di esse la capacità di aprirsi realmente alla società, di muovere alla conquista di incerti e delusi: delusi anche dal funzionamento sempre più appannato della nostra democrazia. Mancò la capacità, se non la volontà, di prender atto del frastuono d’allarme che era venuto dal voto in Sicilia, con l’astensione oltre il 50% e il Movimento 5 Stelle primo partito dell’isola. Allarme presto rimosso: è sembrata prender corpo semmai l’idea nefasta che possa esservi una “democrazia al 50%”: che si possa cioè governare un paese non conquistando nuovi consensi ma perdendone meno del proprio antagonista, e considerando irrilevante il tasso e la qualità della partecipazione. Già tempo fa Ilvo Diamanti segnalava che per una metà degli italiani era possibile anche una democrazia senza i partiti, e da allora questa convinzione si è ulteriormente diffusa. E si è diffusa ancor di più l’idea che non vi possa essere una vera democrazia con questi partiti: un giudizio terribile. Eppure non erano mancati in tempi relativamente recenti segnali di vitalità e di speranza, e si pensi solo alle elezioni amministrative o ai referendum di due anni fa. Sembra purtroppo un’immagine lontana la lunga fila di cittadini in coda a Milano per stringer la mano al neosindaco Pisapia: quei segnali non hanno trovato a livello nazionale una sinistra capace di accoglierli, capace di lasciarsene ispirare. Capace di frenare le derive che investono ormai in modo aperto il rapporto fra cittadini e istituzioni: ma non può esservi oggi nessuna sinistra se non pone al centro la riforma radicale della politica e l’inversione di quella sfiducia che sembra aver superato ogni argine.
Si legga in questa chiave quel che è avvenuto in questi mesi nel Pd, dal non dissolto mistero dei “101” che hanno affondato la candidatura di Romano Prodi al non eccelso livello dei suoi dibattiti, o dei suo scontri, interni: si capirà meglio allora quanto la situazione si sia aggravata. Essa è stata poi ulteriormente, e inevitabilmente, appesantita dallo scenario delle larghe intese e dalla scarsa chiarezza con cui ci si è mossi all’interno di esse: con cedimenti sui contenuti che hanno peggiorato la situazione concreta e offuscato gravemente la direzione di marcia, come è avvenuto sull’Imu; e con l’assenza di priorità capaci di identificare il centrosinistra e il suo progetto di futuro. Un panorama sconsolante, e anche per questo gli episodi di questi giorni, per limitati che possano essere (e non lo sembrano più di tanto), non fanno che ingrossare una valanga di sfiducia già avviata: una valanga che rischia di travolgere qualcosa di molto più importante di un “partito di micronotabili” (sembra difficile oggi dissentire da questa impietosa analisi). Ove le derive non fossero drasticamente e immediatamente frenate rimarrebbero davvero pochi argomenti a chi si oppone all’ipotesi di un “partito personale”: cioè a chi crede ancora ad un’organizzazione politica basata su modalità collettive e continue di progettazione e di azione. E gli stessi contorni di un “partito personale” verrebbero minati alla radice dal molteplice agire di tarli e termiti. Per molti versi dunque quel che è avvenuto in questi giorni sta mettendo preventivamente alla prova la reale idea di partito di ognuno dei candidati alla segreteria del Pd. Di qui l’urgenza di atti concreti, esemplari e drastici: in primo luogo nei confronti dei propri sostenitori che si fossero resi responsabili di quelle inaccettabili pratiche.

La Repubblica 01.11.13

“L’Europa restituisca una speranza al Sud”, di Martin Schulz

Lo scorso settembre abbiamo celebrato un triste anniversario. Sono trascorsi cinque anni dal fallimento delle Lehman Brothers. Il bilancio degli stregoni della finanza per l’Europa è scioccante. Disoccupazione, in particolare quella giovanile, la contrazione del Pil con ricadute dirette sulla spesa pubblica e più tasse, condizioni penalizzanti per l’accesso al credito per le imprese e instabilità politica. Il miglior cocktail per la disperazione.
Ogni Paese europeo si è imbattuto in alcune “complicazioni” che sembravano superate nel continente più ricco del mondo: l’accesso all’assistenza sanitaria di base in Grecia, lo sfratto delle famiglie spagnole per un pagamento in ritardo, la generazione perduta dei ragazzi costretti a rimanere con i loro genitori, dovendo così abbandonare qualsiasi sogno di costruirsi una carriera o una famiglia. Il prezzo che gli europei hanno dovuto pagare era e
resta molto alto.
CI ERA stato detto che non avevamo scelta, che l’austerità fosse l’unica strada percorribile. La ripresa aveva un prezzo che noi, entusiasti, avremmo pagato. Oggi, invece, stando a quanto ci dice il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), l’impatto dell’austerità sull’economia è stato valutato erroneamente. I tagli della spesa hanno «tagliato» la crescita in un modo inatteso. E’ probabile che negli ultimi tre anni miliardi di Pil dell’Eurozona siano stati persi inutilmente a causa di errori politici. L’Fmi ha inoltre stimato che la struttura interna della Troika era inefficace a risolvere i problemi, creando più danni che altro e più recessione di quanto calcolato, senza restituire fiducia agli investitori. La ripresa economica non solo è stata ostacolata, ma così facendo si è impedito all’Europa di riacquistare fiducia. A causa delle decisioni di pochi, la maggior parte dei cittadini si è fatto l’idea di un’Unione europea “aguzzino” senza sentimenti e scrupoli.
Scusarsi non basta più. Qualcuno deve assumersi la responsabilità per questi errori devastanti e un simile dramma, qualcuno deve essere colpevole e pagarne le conseguenze. Non puoi volere il taglio scriteriato dei capelli e accusare le forbici per i danni provocati. La Commissione Economica e monetaria del Parlamento europeo ha già aperto un’inchiesta sul lavoro della Troika in Grecia, Portogallo, Irlanda e Cipro per far luce sul perché siano stati fatti tanti e simili errori; e come sia stato possibile che tante teorie, giudicate tre anni fa giuste, si siano poi rivelate totalmente sbagliate.
Dopo anni di sospensione, il controllo democratico potrebbe finalmente iniziare a funzionare. Pur se fortemente colpiti da tali decisioni sbagliate, i Paesi europei stanno piano piano riprendendo il cammino per invertire il trend. La Grecia si aspetta un ritorno alla crescita nel prossimo anno, l’Ir-landa è pronta ad uscire dal programma di salvataggio entro fine 2013, mentre Italia, Spagna e Portogallo stanno facendo i primi passi verso la ripresa. Ma il danno ormai è stato fatto. Dobbiamo restituire fiducia all’Europa. Non parlo solo per me stesso o delle Istituzioni europee, ma anche dell’economia globale dell’Eurozona.
Come possiamo farcela? L’Europa deve accelerare la ripresa. Deve dare maggior sostegno ai giovani a trovare lavoro, creare maggior stabilità nel settore bancario grazie all’Unione bancaria, rafforzare il
mercato, dare la caccia senza quartiere a evasori ed elusori fiscali e aprire l’Europa a nuovi mercati e investimenti stranieri. Lo stesso Internet potrebbe generare una crescita incredibile se solo armonizzassimo e semplificassimo a livello europeo la nostra legislazione. Potremmo anche considerare il principio di una “Golden rule” che consenta di non calcolare nel deficit gli investimenti produttivi.
Queste sono le grandi sfide, ma i cittadini ci danno poco credito. Sono troppe le promesse fatte e pochi i risultati ottenuti. Non lanceremo slogan, ma misureremo il peso delle nostre richieste con azioni concrete realizzabili. Solo così invertiremo il trend di fiducia e porremo le basi per una ripartenza proprio dal Sud dell’Europa.
(L’autore è presidente del Parlamento Europeo)

La Repubblica 01.10.13

Scuola: Ghizzoni (Pd), un buon provvedimento

“Il Dl Istruzione e’ un buon provvedimento con cui governo e Parlamento finalmente invertono davvero la tendenza degli anni precedenti e scelgono di investire nella scuola e nell’universita’”. Lo ha detto Manuela Ghizzoni, deputata del Pd e relatrice del testo, la quale spiega che “e’ stato fatto un buon lavoro che ha portato ad una ampia condivisione, pur con accenti diversi come mostra la scelta di astensione da parte di Sel e M5S. Questo decreto non aveva l’ambizione di risolvere tutti insieme i problemi della scuola ma e’ sicuramente una prima risposta positiva. Ora sta alla responsabilita’ della politica proseguire sulla strada tracciata”.
Ansa

Prima di tutto il lavoro

Secondo fonti Istat, i dati sulla disoccupazione nel nostro Paese sono sempre più preoccupanti. A settembre 2013 il numero dei disoccupati è pari a 3 milioni 194 mila, aumenta dello 0,9% rispetto al mese precedente (+29 mila) e del 14% su base annua (+391 mila). Il tasso di disoccupazione si attesta al 12,5%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,6 punti nei dodici mesi.

I disoccupati tra 15 e 24 anni sono 654 mila. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 40,4%, in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente.

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“La situazione dei giovani supera ormai ogni livello di possibile sopportazione, un giovane che ormai rinuncia addirittura a cercare un lavoro è un cittadino che può solo coltivare la sfiducia nelle istituzioni e nel futuro”. Così la deputata Maria Luisa Gnecchi, capogruppo PD in commissione Lavoro, che continua: “Questi dati così gravi confermano che non si può continuare a passare da un’emergenza all’altra.

Abbiamo le persone avanti negli anni espulse dal mercato del lavoro che non riescono ad andare in pensione a causa della manovra Fornero, donne che non trovano lavoro, come i giovani, e che si ritrovano ad aspettare cinque, sei anni la pensione di vecchiaia, quindi si deve assolutamente intervenire con correzioni della manovra Fornero e con interventi significativi per favorire l’occupazione”.

Antonio Misiani, parlamentare del PD ha evidenziato in questo contesto di crisi occupazionale, l’atteggiamento del Pdl che “proprio nel giorno in cui l’Istat fornisce dati da incubo sulla disoccupazione, in particolar modo su quella giovanile, il Pdl con i vari Brunetta e compagnia hanno parole solo per gli interessi personali di Berlusconi.

“Da vent’anni – ha evidenziato – le forze politiche espressione di Silvio Berlusconi, hanno sottomesso il bene dell’intero Paese alle sue convenienze. Da mesi, mentre l’Italia si dibatte in difficoltà enormi, non sanno fare altro che ricattare un giorno si e uno no il governo, chiedendo un salvacondotto per il loro capo. Una condotta indegna fatta sulle spalle degli italiani”.

Il deputato democratico e presidente della Commissione Trasporti e Telecomunicazioni della Camera dei Deputati, Michele Meta, commentando i dati dell’Istat sull’aumento della disoccupazione tra i più giovani ha dichiarato: “Se fosse approvata la Legge di Stabilità, senza tenere conto dei dati drammatici sulla disoccupazione giovanile, si tratterebbe di un’occasione mancata per dare quel segnale di svolta e di fiducia a milioni di giovani che meritano un futuro migliore. Invece di assistere, come avviene in questi giorni, al riemergere da più parti della tentazione di cambiare le regole del mercato del lavoro.

Illudendosi che in questo modo si possano garantire nuove opportunità ai più giovani – ha concluso Misiani – la politica dovrebbe porsi come obiettivo prioritario quello di far riprendere l’economia investendo le scarse risorse a disposizione nell’innovazione e in politiche industriali, a partire dalle aziende pubbliche come quelle del gruppo Finmeccanica che troppo frettolosamente, ed in maniera miope, si vogliono liquidare per fare cassa”.

Cecilia Carmassi, responsabile Lavoro e Politiche sociali del PD ha definito inquietante il dato sulla disoccupazione in crescita e che colpisce in modo particolare i giovani. Descrive l’impoverimento strutturale del Paese – ha dichiarato – e costituisce un’ ipoteca sul futuro di una intera generazione.

E’ per questo necessario intervenire con urgenza utilizzando le poche risorse presenti nella legge di stabilità per concentrarle su misure anticicliche in grado di creare occupazione in tempi brevi – per esempio, nei piccoli investimenti come nei servizi alla persona. Tuttavia – ha aggiunto Carmassi – dobbiamo affrontare con urgenza anche il dramma dei troppi giovani che restano senza prospettive. In attesa che si creino opportunità di lavoro vero, mettiamo per loro a frutto le risorse del servizio civile. Si potrebbero impiegare subito, dai primi mesi del prossimo anno, qualche migliaio di giovani, utilizzando le graduatorie dell’ultimo bando che hanno progetti approvati ma non finanziati.

Il tempo non è neutro. Ogni mese che passa senza prospettive, senza opportunità è per questi giovani motivo di grande difficoltà e una ferita profonda nella costruzione della loro identità”.

www.partitodemocratico.it

“Solo la Merkel può fermare l’Europa in salsa tedesca”, di Antony Giddens

Il prossimo semestre – a decorrere dall’esito elettorale in Germania, con la riaffermazione di Angela Merkel come figura dominante, fino alle elezioni europee nel maggio 2014 – segnerà una fase cruciale nell’evoluzione dell’Unione europea. Da quanto accadrà in questo periodo potrebbe dipendere la possibilità dell’Unione di uscire finalmente dalla morsa della crisi dell’euro, in atto ormai da un quinquennio. Di fatto, la cancelliera della Germania è anche “presidente” dell’Ue: è a lei che deve rivolgersi chiunque voglia veramente influenzare il futuro del continente europeo. Secondo il parere concorde dei commentatori politici la politica tedesca nei confronti del resto dell’Europa non cambierà di molto. Il popolo tedesco ha detto la sua. Non vuole accollarsi altre responsabilità, al di là delle misure già adottate per i Paesi sregolati del Sud. Perciò la politica di Angela Merkel nei rapporti intergovernativi – pragmatismo e passi lenti, disciplina economica e rigore per l’Europa nel suo complesso – continuerà come prima.
Ma così non si può andare avanti. In altri termini, se la cancelliera tedesca manterrà questa posizione, il futuro dell’Europa resterà assai problematico. In superficie sembra che le preoccupazioni per l’euro siano rientrate; ma non è pace vera – se mai di pace si potesse parlare. I difetti strutturali della moneta unica, lungi dall’essere risolti, sono solo temporaneamente coperti.
C’è da dire che su questo la politica tedesca non influisce più di tanto. Nulla poteva tranquillizzare i mercati quanto le parole di Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, che nel luglio 2012 ha dichiarato: «La banca è pronta a fare tutto ciò che servirà per preservare l’euro», e ha aggiunto poi: «Credetemi: non sarà poca cosa». Tuttavia a questa promessa non sono seguite, a livello europeo, le azioni necessarie per conferirle reale sostanza. Qualora ad esempio un Paese come l’Italia venisse a trovarsi in una crisi tale da non riuscire più a ottenere crediti da investitori internazionali, l’Ue sarebbe semplicemente nell’impossibilità di far fronte al problema.
Nel bene e nel male, l’introduzione della moneta unica ha accresciuto a dismisura l’interdipendenza economica dei Paesi dell’Eurozona, ma anche degli Stati rimasti al di fuori. Questa condizione di interdipendenza — con la vulnerabilità collettiva che ne consegue — dovrebbe
essere affiancata dai livelli di coesione economica e politica necessari ai fini della stabilità. Di fatto però, il progetto di un’Unione bancaria è ancora lontano dal suo completamento. Nei suoi rapporti con le banche in difficoltà l’Europa sta arrancando, a grande distanza dagli Stati Uniti. Quanto all’integrazione fiscale, non meno necessaria, è appena ai primi passi.
Intrinsecamente instabile, l’“Europa tedesca” sottende le divisioni verificatesi sia tra gli Stati membri che al loro interno. La “presidente Merkel” ha riscosso il sostegno dei suoi concittadini, ma il suo ruolo rispetto all’Europa non ha alcuna legittimazione. I segnali di ripresa economica che si intravedono sono fragili, e rischiano di restare tali in assenza di ulteriori interventi. Nel frattempo, quasi ovunque la fiducia degli elettori dell’Ue ha subito un tracollo. Uno dei maggiori rischi è che i partiti euroscettici e populisti assumano un ruolo dominante alle elezioni europee, quando probabilmente per la prima volta il confronto avverrà su questioni non solo nazionali, ma di portata continentale.
Ecco alcune considerazioni su cui la signora Merkel dovrebbe riflettere. La posizione economica della Germania, apparentemente solida, è in realtà fragile e contingente. Il suo attuale successo può essere ascritto solo in parte alla disciplina e al rigore. Senza la sua appartenenza all’Eurozona, ampi settori dell’industria tedesca cesserebbero di essere competitivi da un giorno all’altro. A fronte dei drammatici mutamenti economici e tecnologici, l’esigenza di riforme e ristrutturazioni riguarda l’intera Europa, e non solo i Paesi del Sud. Ancora pochi anni fa la Germania era il malato d’Europa, e potrebbe tornare ad esserlo. Il successo futuro dell’Unione europea è legato all’impegno collettivo per una maggiore solidarietà: non solo per superare i difetti strutturali dell’euro, ma per creare ammortizzatori in vista degli scossoni che potrebbe riservarci il futuro. Un miglior coordinamento, sia esso limitato a un gruppo ristretto di Stati o esteso all’Unione nel suo complesso, non può essere il surrogato di una maggiore integrazione. Sono necessari progressi più rapidi verso l’Unione bancaria: quella che in questo campo si fa passare per prudenza potrebbe trasformarsi in un rischio mortale. E tutto questo non basta. Non vi può essere soluzione alla crisi europea senza l’adozione di misure per la ripartizione degli oneri tra Paesi creditori e debitori dell’Eurozona. Le travagliate vicende dell’euro hanno posto in piena luce la classica debolezza dell’Unione: la sua mancanza di legittimazione democratica. In assenza di passi significativi verso un’integrazione sia politica che economica, resta incombente il rischio che l’intera impresa finisca per crollare. Il pragmatismo può essere una virtù, ma se non persegue un obiettivo, una visione cui il comune cittadino possa fare riferimento, rischia di rivelarsi autodistruttivo.
Angela Merkel si è mostrata coerente nell’asserire che la Germania non aspira a una posizione di dominio in Europa; e ha riconosciuto che un’ambizione del genere non corrisponderebbe agli interessi del suo Paese. È venuto il momento di tradurre il senso di queste parole in realtà, e di fornire così agli europeisti argomenti positivi e concreti per l’elettorato dell’Ue, in vista delle elezioni del maggio 2014.
La chiave è nelle mani della Germania, e in misura minore anche della Francia. L’integrazione politica non è realizzabile senza l’accettazione — in primis da parte della Germania — di una
qualche forma di mutualità — o in altri termini, di condivisione del debito nell’ambito dell’Eurozona. Alla prova dei fatti, la signora Merkel si è personalmente schierata contro quest’eventualità; la Germania potrebbe dunque continuare ad imporre politiche di austerità agli stati condizioni difficili. Qualora Angela Merkel si arroccasse su questa posizione, le sorti dell’Europa, e in definitiva quelle della stessa Germania, rischierebbero di volgere al peggio.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

La Repubblica 31.10.13

“Nuovi imprenditori per il rilancio del Sud”, di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini

Il Mezzogiorno sta affondando: è questo il grido di dolore del Rapporto Svimez 2013. I numeri sono agghiaccianti: dal 2007 al 2012, il settore manifatturiero ha ridotto la produzione del 25%, i posti di lavoro del 24% e gli investimenti addirittura del 45%. La disoccupazione, che è continuata ad aumentare inesorabilmente arrivando a circa il 30% della forza lavoro, ha fatto impennare l’emigrazione: negli ultimi venti anni 2,7 milioni di persone hanno abbandonato il territorio meridionale. Si tratta principalmente di giovani, il cui esodo sta provocando un fatale scadimento della qualità della forza lavoro e un drastico innalzamento dell’età media della popolazione residente.
Questa catastrofe va ricondotta alla totale scomparsa di politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno e ha riportato le regioni del Sud nella situazione precedente al periodo dell’ “intervento straordinario”. In quella fase, compresa tra il dopoguerra e i primi anni ’60, l’equilibrio tra la domanda e l’offerta di lavoro era assicurato attraverso massicci fenomeni migratori dei meridionali, originariamente verso l’estero e più tardi verso le regioni del Nord.
Ci sono diversi fattori che hanno concorso a provocare il disastro del Mezzogiorno: quelli macroeconomici e quelli relativi all’assenza di una politica industriale, alla restrizione del credito bancario, all’arretratezza della specializzazione produttiva, alla carenza di infrastrutture, di legalità e di efficienza della pubblica amministrazione. Si tratta di un insieme di fattori che dovrebbero essere ricondotti nel quadro di una politica organica della quale non si vede più neanche l’ombra. Il Presidente della Svimez, Adriano Giannola, ha sottolineato che il Sud si trova ad operare in un contesto macroeconomico avverso: l’impossibilità di svalutare il cambio, le politiche di austerità imposte dall’Europa e la concorrenza fiscale e valutaria dei Paesi che non aderiscono all’euro pregiudicano la possibilità di rilanciare in modo vigoroso l’attività economica. A ciò si aggiunge che dalla fine dell’intervento straordinario lo sviluppo è stato lasciato all’iniziativa di quei pochi distretti industriali cui tuttavia non sono stati attribuiti i mezzi concreti per attivare una crescita autopropulsiva. Inoltre, le regioni meridionali incontrano difficoltà enormi ad investire i pur cospicui fondi strutturali europei sia per la scarsità dei fondi necessari per cofinanziare i progetti; sia per la mancanza di progetti e di imprese in grado di realizzarli; sia per l’inefficienza della burocrazia nella valutazione, selezione e monitoraggio dei progetti.
Occorrerebbe dunque cambiare decisamente passo e rovesciare una situazione ormai insostenibile. Paradossalmente, il ritardo di sviluppo del Sud potrebbe rappresentare un punto di forza poiché più alte sono le potenzialità di crescita. La Svimez ha individuato alcuni possibili motori dello sviluppo, tra cui la riqualificazione urbana, il potenziamento delle infrastrutture di trasporto e di comunicazione, l’espansione delle energie rinnovabili a cui si aggiungono la creazione di un’industria meridionale per il riciclo dei rifiuti, la produzione di nuovi materiali biodegradabili in sostituzione delle materie plastiche e molte altre attività che ricadono nel campo della cosiddetta “green economy”.
In questa fase critica per le finanze pubbliche, è necessario puntare su due linee d’azione fondamentali: rinegoziare con l’Europa una nuova fiscalità per le aree depresse e mobilitare le poche grandi imprese che sono ancora nell’orbita dello Stato (Eni, Enel, Finmeccanica, le Ferrovie dello Stato e la Cassa Depositi e Prestiti). Queste imprese hanno risorse finanziarie e capacità tecnologiche per lanciare grandi progetti d’investimento su cui aggregare piccole e medie imprese, centri di ricerca e università e per costruire delle partnership
con grandi imprese straniere. L’obiettivo dovrebbe essere quello di favorire la nascita di una nuova classe imprenditoriale: non abbiamo infatti bisogno di nuove imprese, ma di nuovi imprenditori.
In conclusione, il drastico peggioramento dell’economia meridionale non si discosta da quel che sta accadendo in altri Paesi in ritardo di sviluppo come la Grecia, il Portogallo e la Spagna. La situazione italiana ha, però, una sua peculiarità poiché la stessa vitalità dell’economia del Nord è stata fiaccata dalla crisi generale del Paese. Ciò minaccia di realizzare la profezia inquietante di Giuseppe Mazzini: «L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà».

La Repubblica 31.10.13