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Non c’è ripresa senza credito”, di Angela De Mattia

Non può mancare, in un necessario sforzo generale per il sostegno dell’economia, l’apporto del sistema bancario e finanziario, a partire da un’adeguata espansione dei finanziamenti alle imprese in un quadro di stabilità e di efficace tutela dei risparmiatori, ha scritto ieri il Capo dello Stato Giorgio Napolitano in un messaggio non affatto formale alla celebrazione della Giornata del Risparmio. E, poi riferendosi anche al progetto di Unione bancaria, il presidente ha detto che sono necessarie, nel sistema, innovazioni ed adattamenti che, ancorché onerosi, rechino in sé i presupposti di una maggiore competitività e grandi potenzialità di sviluppo per le nostre banche. Questo invito-monito per una svolta nelle politiche del credito, pur senza disconoscere i problemi della do- manda dei finanziamenti ben si colloca alla testa degli interventi che si sono poi succeduti nel convegno e che non potevano, data l’oggettività del rilievo partito dal Quirinale, non esprimere quasi un idem sentire. Partendo dall’economia reale, il ministro dell’economia, Fabrizio Saccomanni, ha ricordato che stiamo uscendo da una fase difficile e, perciò, si possono evitare ulteriori, pesanti restrizioni.

Ecco, il primo punto: la tempesta che si abbattuta per circa cinque anni è stata tale che oggi noi dovremmo essere quasi soddisfatti di non subire ulteriori limitazioni, il che già costituirebbe un quasi-successo. Davanti a noi permane un sentiero stretto. È ovviamente facile a dirsi, molto meno facile a tradursi in convincenti iniziative. La filosofia alla base della legge di stabilità è quella di un approccio prudente e moderata- mente espansivo nei saldi, dice Saccomanni, sottolineando che non ci sono soluzioni semplici per sgravi fiscali e invitando, però, a non trascurare le entrate straordinarie che potranno derivare da tre misure ancora in corso di definizione: rivalutazione delle quote del capitale della Banca d’Italia, rientro dei capitali irregolarmente esportati all’estero, contrasto all’evasione fiscale. Come si vede, siamo al raschiamento del barile. Non è questione di coraggio, dice Saccomanni, ma di limiti che non possono essere superati e non è vero che la Corte dei Conti, l’Istat e la Banca d’Italia hanno smontato la manovra varata con la predetta legge, dal momento che, leggendo i rispettivi documenti, si può agevolmente rilevare che questi enti ne hanno pienamente condiviso la struttura. Anche il ministro dell’economia, come il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco – ecco il punto di incrocio con le autorevoli parole di Napolitano – ritiene indispensabile riattivare il circuito del credito, come misura fondamenta- le per sostenere la crescita. L’efficiente allocazione del risparmio è condizione necessaria perché la nostra economia, sulla quale gravano debolezze strutturali a lungo trascurate e amplificate dalla crisi globale, possa collocarsi su un sentiero di sviluppo. Ma questa allocazione dipende dal corretto svolgimento del ruolo delle banche, le quali sono chiamate a superare negligenze e ri- tardi e ad adeguare operatività, efficienza, qualità dei servizi e assetti organizzativi all’evoluzione dei mercati. E questi ritardi interessano, in particolare, i canali distributivi, l’impiego delle tecnologie, la governance, i rapporti tra banca e impresa, le politiche di allocazione dei fondi, alcune problematiche categoriali, come quelle della forma giuridica delle banche popolari di maggiore dimensione; ma riguardano anche, e soprattutto in questa fase, i costi operativi. Nel breve termine, il recupero di redditività, ha detto Visco, esige interventi decisi sui costi, inclusi quelli del lavoro, che rappresentano la metà di quelli complessivi, ivi comprese le remunerazioni dell’alta dirigenza. Visco chiede che tutte le parti – evidentemente quelle sociali e istituzionali – siano coinvolte e responsabilizzate in un’azione non dissimile da quella che fu promossa a metà degli anni novanta, quando la profonda riconversione bancaria fu accompagnata da nuovi schemi di relazioni industriali e da misure categoriali e pubbliche agevolative. Ecco, dunque, l’appello alle parti in causa che fa da pendant allo «sforzo generale» di cui il Capo dello Stato ha rilevato l’essenzialità. I costi operativi degli istituti di credito italiani risultano 5 punti percentuali superiori alla media delle maggiori banche europee. È un tema cruciale che non può essere più eluso, ma deve esse- re affrontato, in un contesto di convergenze, come auspicato anche dal presidente dell’Abi, Antonio Patuelli. Sta qui la capacità dei sindacati nel sapere rispondere a questa sfida: gli atti unilaterali di parte datoriale non sono accettabili, ma non ci si può sottrarre all’evidenza di una problematica quando la si voglia affrontare costruttiva- mente per rimediare a uno squilibrio che l’Autorità monetaria segnala, pur riconoscendo che su questo fronte non si è stati fermi, ma sono stati compiuti progressi. Si potrebbe dire che la campana suona per tutti e, allora, bisognerà attrezzarsi con proposte che concernano la produttività, la distribuzione territoriale delle dipendenze, i rapporti con l’estero, le strategie in generale, la formazione e la specializzazione del personale. Insomma, una sorta di spending review anche nel settore del credito da condurre con spirito di coesione. Dal canto loro, anche le Fondazioni sono pronte a fare la propria parte innovando nei loro comportamenti e offrendo la disponibilità ad alcune modifiche normative indicate da Giuseppe Guzzetti, il presidente dell’Acri, in un efficace intervento in cui ha manifestato disponibilità e aperture, ma ha pure rivendicato gli indubbi meriti di questi enti privati di utilità sociale. Allora, se dalla massima magistratura dello Stato al governo, all’Autorità monetaria ai maggiori esponenti delle due associazioni di categoria del settore – Acri e Abi – esiste, da un lato, l’impulso ad agire innovando e, dall’altro (le predette associazioni), l’adesione a darvi seguito, è legittimo attendersi una svolta nelle politiche del credito che sfrutti le opportunità della sia pur lenta uscita dalla crisi. O, almeno, questa è la logica deduzione che se ne dovrebbe trarre. Vedremo. Certo non si potrà non cambiare passo, nell’interesse di tutti.

L’Unità 31.10.13

“La politica-Dynasty da Silvio a Marina”, di Francesco Merlo

«Non sono io la fata con la bacchetta magica che riporterà il mondo al 1994» ha detto a un amico. Marina Berlusconi sta davvero resistendo all’amore furioso del padre che vuole accomodarsi su di lei come Anchise sulle spalle di Enea. E le smentite, «non ci penso nemmeno», non sono di maniera, anche se di Marina non c’è più verità. A 47 anni una delle ereditiere più ricche del mondo ha infatti rilasciato una sola libera intervista non pilotata, e risale a 15 anni fa. Dunque Marina è un solo marchio: «Spero che Marina e Barbara non scendano in politica», ha detto Confalonieri con la faccia platealmente preoccupata e dunque volutamente non definitiva. «Noi facciamo il tifo per Barbara» hanno allegramente dichiarato prima Cacciari e poi Freccero. E così la dynasty è diventata un divertimento con lo schema del reality: la nomination al posto delle primarie, Barbara contro Marina, dove Barbara, la biondina laureata da Cacciari e don Verzé, la figlia disinvolta ed euforica che si fidanza con il calciatore del Milan,
sembra inventata da Goldoni o da Molière per stanare l’introversa e disforica Marina. Ecco a voi la sfida delle sorelle, anzi sorellastre, delle femmine sapute: chi sarà nominata, vale a dire eliminata? Brrr, che brivido, la politica.
Proust direbbe che Marina è “la prigioniera”, e non solo del padre che invece di liberarla di sé vuole ingombrarla al punto di riprodursi uguale in lei, di clonarsi. «Rischio di diventare la parodia della discesa in campo, la caricatura di mio papà», ha confidato la vera Marina che mai salirebbe su un palco alla maniera di Frank Sinatra come nel debutto romano di 19 anni fa e mai riuscirebbe a ridicolizzare Travaglio e Santoro con la gag della sedia, né ha il sorriso e la faccia gaglioffa per correre ad abbracciare piangendo i terremotati mentre in segreto la cricca li truffa ridendo.
Prigioniera dei giornalisti-dipendenti che la raccontano “tosta” per compiacere Forbes e Fortune che la classificano più potente di Hillary Clinton, Marina, come ha sempre confermato Confalonieri che è il suo mago Merlino, è timida, musona e persino ingenua, anche se è costretta a fare “la bersagliera” come dicono in Mondadori.
A meno che “tosta” non voglia dire che ringhia nel difendere papà con il codice monumentale e ridicolo delle milizie giudiziarie, della Spectre dei boia che sbranano il frodatore fiscale, corruttore di giudici, consumatore di prostitute minorenni, compratore di parlamentari… Ma qui è il sangue che parla, sono le gigantografie sui muri del suo ufficio che prendono vita come le tele in Harry Potter:
papà col Papa, papà con Bush, papà che ride, papà che vince, mentre marito e figli stanno nell’angolo, comparse in una vita di identificazione e di avvelenamento direbbe Freud citando Saturno, Cromo, Medea, Elettra… E papà ora le si attorciglia nello stomaco e alla gola, papà-mostro che le cresce dentro e al quale non ha ancora avuto la grandezza di ribellarsi per amore, come fanno tutte le figlie del mondo; di liberarlo e liberarsi con la dolcezza e con la forza di una donna adulta che onora il padre ma non contro se stessa: «Il solo uomo che ho veramente amato è stato mio padre » ebbe la lucidità di confessare Edda Ciano dopo che al padre si era opposta.
E infatti qualcuno in azienda mi parla della crescente magrezza, che non è più solo fatica di bellezza, di un viso tirato e provato, di un nervosismo inconsueto soprattutto sul lavoro, del ritorno di un antico desiderio di «andare via dall’Italia e di tornare a vivere in Inghilterra» dove ha avuto la sua bohème scapestrata e romantica, commessa in un negozio di abbigliamento, al tempo in cui la madre, la signora Carla Dall’Oglio, viveva in campagna nei pressi di Bournemouth, nel Dorset.
Marina non guida l’auto, odia i motori e ha una passione per i cani che ama “contro” gli uomini, alla maniera della Bardot, già da quando era single e viveva in corso Venezia, una miniatura di casa, mobili d’antiquariato e tre cani: ”un canile del settecento”. Tre anni fa il quotidiano Nice-Matin scrisse di un «tentato avvelenamento con veleno per topi di due dei sette cani da guardia della villa di Marina Berlusconi». Un Maigret fu mandato nel villaggio provenzale, ma il giallo non è stato mai risolto, e i cani si sono salvati.
Certo, la prigioniera è una Berlusconi sino in fondo e dunque simbolo come la falce e martello o lo scudocrociato. Basta scrivere “Berlusconi” e sovrapporre i profili. Marina è Berlusconi sino a portare sul corpo i segni di una ricostruzione barocca, dal viso al seno modellati più per compiacere il prototipo femminile di papà che per piacere al bel marito, l’ex primo ballerino della Scala che, nato a Leonforte e cresciuto a Calascibetta, è un siciliano arabo, silenzioso e discreto. Sebbene sia bersaglio del gossip, il “signor Marina”, Maurizio Vanadia, non è mai in mostra, «padre esemplare di due bambini che Marina protegge meglio e più di quanto Silvio protegga lei» che, dopo essersi acconciata anche a first lady e madre di suo padre e “balia” della sua giovane “matrigna”, sa bene che tutto potrebbe fare per lui, ma non diventare lui.
«Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi …» è dunque la colonna sonora dell’ultima anomalia, l’estrema risorsa del conflitto di interessi: cercando di fare della disperata Marina l’erede di una leadership politica, che non sarà mai dinastica come la proprietà della Mondadori o della Fininvest, lo scellerato papà rischia di trasformare la sua fata nella strega che seppellirà il berlusconismo.

La Repubblica 31.10.13

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“Quando la politica è un affare di famiglia”, GIANCARLO BOSETTI

C’è da preoccuparsi di un’eventuale incoronazione politica di Marina come erede politica di Silvio Berlusconi? La risposta è affermativa, ma è bene spiegare perché, dal momento che le dinastie famigliari non sono una novità scandalosa negli ordinamenti democratici. I Roosevelt, i Bush e i Kennedy sono parte della moderna storia americana. Non si tratta delle famiglie reali e imperiali, dotate di una vera “dominazione” (di cui al significato della parola greca: dunasteia)
cui appartiene in senso letterale la trasmissione dinastica del potere: gli Achemenidi o i Sassanidi, i Capetingi o gli Asburgo e i Savoia, per secoli lo scettro se lo sono passato per discendenza di sangue, lineare salvo frequenti complicazioni. L’uso del concetto si estende poi ai livelli inferiori, dei casati principeschi, ducali, comitali e baronali, dove a passare di padre in figlio e talora anche di madre in figlia è il titolo e il patrimonio, anche quando non c’è più la “dominazione” su un territorio. Ma si è allargato ancor di più, anche prima della serie televisiva omonima degli anni Ottanta, Dynasty
(quella di Joan Collins e dei “Carringtons”), a indicare, per analogia, le famiglie imprenditoriali, in cui il passaggio in eredità del patrimonio comporta il passaggio del bastone del comando nelle mani del rampollo più dotato.
Non sempre il talento è distribuito nella misura desiderata tra le generazioni, ma i benefici della elevata posizione e della ricchezza possono durare nel tempo e consentire a un nome di mantenersi in alto nella vita sociale anche quando l’ultimo nipote del casato, che sia Ford, Krupp, Opel oppure Visconti, Medici o Sforza non è più in grado di esercitare un potere imprenditoriale o feudale.
Le moderne democrazie, anche quelle europee coniugate con vecchie monarchie, inalberano sulle loro bandiere promesse contrarie al potere dinastico sulla società, perché si basano su un principio di cittadinanza eguale che respinge ogni forma di privilegio davanti alla legge. Ma non è una novità che ne subiscono l’influenza in due modi: la prima è che molte di quelle promesse sono perforate dalla forza del denaro e del prestigio; la seconda è che la democrazia rappresentativa, per il fatto stesso di selezionare dei rappresentanti e dei governanti con il voto, ha nella sua natura un principio di delega all’élite e produce una specie di aristocrazia non del sangue ma del comando, insediando al vertice delle istituzioni professionisti del potere (che tendono a non lasciare la presa).
Non ci sarebbe dunque da stupirsi se le sorti della destra italiana finissero per identificarsi con una situazione dinastica, grazie al passaggio della leadership da Silvio Berlusconi alla sua primogenita Marina. È vero che di solito in questo campo le storie di maggiore successo e di più elevato rango non coincidono con l’ascesa al potere dei fondatori e dei loro figli, ma richiedono qualche più lunga coltivazione e una educazione adeguata al rango: i Kennedy arrivano alla Casa Bianca alla terza generazione dopo il bisnonno irlandese, i Roosevelt e i Bush, casi dinastici tra i più longevi, dopo tre secoli dall’approdo in America dei progenitori, rispettivamente olandese e tedesco. E tuttavia non è il caso di sottilizzare sui tempi.
E neppure sorprende più la trasmissione di un patrimonio intellettuale e professionale maturato nella politica, come nel caso dei fratelli Miliband, uno, David, già giovanissimo a Downing Street come consigliere di Blair e ministro degli Esteri, l’altro, Ed, attuale segretario del Labour Party. Sono figli di Ralph, ebreo belga diventato inglese combattendo nella Marina britannica e intellettuale di rilievo dello stesso partito dopo la guerra, noto per le sue posizioni marxiste, ispiratore della New Left e oggi difeso con orgoglio dai figli nei confronti di un tabloid che l’ha accusato di essere stato un nemico della patria. All’estrema destra, non è lontano da questo lo schema del passaggio da Jean-Marie a Marine Le Pen, un’altra “figlia d’arte”.
Anche il potente caso dinastico indiano è da considerare come possibile termine di confronto: Rahul Gandhi, figlio della presidente in carica del Partito del Congresso, probabilmente sfiderà l’anno prossimo per il governo il leader della destra Narendra Modi. Arduo paragone, ma è il caso che si preparino in tema dinastico, supporter e avversari, se Marina Berlusconi deciderà di far cadere il suo rifiuto alla candidatura, perché Rahul è figlio di Sonia e Rajiv Gandhi, nipote di Indira e bisnipote di Jawaharlal Nehru, il che significa tre generazioni di primi ministri e una madre leader politico della maggioranza. Lo stesso Rahul si presenta in pubblico parlando della sua posizione come un riassunto dei problemi di un paese che ha elezioni libere, ma rimane estremamente inegualitario. Il caso ha le sue controindicazioni in una prospettiva berlusconiana: la storia di quella famiglia incorpora il prestigio e il carisma immensi che derivano dalle personalità fondative della democrazia indiana e che gli assassini
di Indira e Rajiv hanno consacrato con il sangue.
Ma va detto infine che tutte queste gloriose discendenze non si portano appresso il piombo della eccezionalità della ipotesi che sta prendendo corpo con la possibile discesa in campo della presidente di Fininvest e Mondadori. In questo caso non avremmo solo il passaggio di padre in figlia di un ruolo politico attraverso la “maturazione” in famiglia di una competenza professionale (che è tutta da verificare: Marina si è fatta le ossa in azienda ma non c’è traccia di studi universitari); e non solo la continuità di un cognome da garantire aggirando la interdizione del padre dai pubblici uffici. Quello che accadrebbe di speciale, unico, sarebbe la imposizione dal-l’alto, per designazione dinastica, del transito in capo a Marina della perfetta anomalia italiana, quella di una rendita monopolistica e di un conflitto di interesse, che hanno condizionato clamorosamente la formazione dell’opinione e alterato il sistema di controlli antitrust con una legislazione di favore. Diventerebbe dinastica quel tipo singolare di “dominazione” che mantiene, tuttora, l’Italia fuori dagli standard europei e internazionali di libertà e di pluralismo.
Il beneficio di lungo corso dell’anomalia, che ha consentito la formazione di fondi neri con i quali è stata possibile la corruzione di deputati e giudici, è anche il peccato originale finito sotto giudizio, quello che ha portato il fondatore di Forza Italia in un vicolo cieco. Ora la successione infusa sopra la figlia come l’unzione di una cresima, da parte di un vecchio leader che non si vuole arrendere, dovrebbe magicamente rimettere la “dominazione” in condizioni di funzionare, di ravvivare la propria anomalia in Italia e in Europa, di prolungare la rendita e con essa l’immunità che l’accompagna: un congegno che si autoperpetua e che perpetua, come per un portento divino, il principio originario che si trasmette all’erede insieme al Dna.
Ecco perché c’è di che preoccuparsi. Le aspettative riposte in un passaggio simile a un miracolo producono generalmente pericolose delusioni e scatenano mostri. Si capiscono le esitazioni dell’erede designato. In tutti i casi di successione dinastica che abbiamo menzionato, il fardello è enorme, anche quando si tratta di far transitare sui figli il carisma indiscutibile di uomini e donne memorabili per le loro imprese al governo, come Indira o Nehru.
Ma il pensiero qui va piuttosto a due casi di transizione dinastica, uno riuscito e uno fallito. Il primo è quello di Thaksin Shinawatra, già tycoon monopolista dei media, che, condannato per corruzione, ha dovuto lasciare la Thailandia – se ritorna gli tocca il carcere – ed ha affidato il potere sul suo partito alla sorella, Yingluck, ora primo ministro. Il secondo è quello di Hosni Mubarak, il deposto presidente egiziano, che aveva meticolosamente preparato il terreno al figlio Gamal, come se fosse stato possibile infondergli la capacità, senza scossa alcuna, di perpetuare un regime fragilissimo che era giunto a fine corsa. Qui il percorso acrobatico dell’equilibrista sul filo si è trasformato in una caduta rovinosa che ha portato agli arresti dell’intera famiglia e al disastro l’intero paese. Il passaggio della “dominazione” all’erede, fuori dal contesto monarchico, resta pur sempre una scommessa ad altissimo rischio.

La Repubblica 31.10.13

“La gravidanza in azienda? Non frena la produttività, ma la carriera”, di Flavia Amabile

La gravidanza? Uno dei regali più belli che la vita può riservare. Però può essere anche un problema, e le donne lo sanno, come emerge anche da un’indagine su 4mila dipendenti di grandi aziende private condotta dall’ Università La Sapienza di Roma. I dati si riferiscono alle prime 700 risposte a queste domande. Il 90% degli intervistati (il totale è costituito per il 46% da donne, di cui il 78% con figli, e per il 54% da uomini, di cui l’81% con figli e per il 94,4% di età compresa tra i 35 e 55 anni) ritiene che la produttività della donna al lavoro non sia messa in alcun pericolo a causa della gravidanza e solo un 16% degli intervistati concorda invece con l’affermazione che la gravidanza renda la donna fisicamente limitata al lavoro, lasciando spazio ad un altro confortante 87% di intervistati che ha confermato di non aver percepito alcun tipo di calo nell’efficienza sul lavoro da parte della propria collega incinta.

Parlando di sé stesse le donne accolgono e vivono con grande serenità la notizia: l’87,5% ha dichiarato di aver comunicato quasi subito la notizia a colleghi e superiori, che nel 55% dei casi ha reagito positivamente. E’ anche vero però il 78% degli intervistati continua a ritenere che la maternità rappresenti un limite alle opportunità di carriera di una donna e il 49% pensa che non sia conciliabile con il lavoro quando il contesto è altamente competitivo.

“In Italia – ha dichiarato Donatella Caserta, professore ordinario di Ginecologia ed Ostetricia alla Sapienza Università di Roma e presidente del Congresso – la gravidanza in età avanzata (il 34,7% delle donne partorisce dopo i 35 anni) non è dovuta solo a ragioni meramente economiche (NB: il 99,2% del campione intervistato è assunto con contratto a tempo indeterminato), ma, piuttosto, è causata dalla paura della donna di essere tagliata fuori da ogni possibile progressione di carriera, avanzamento economico o di essere segregata ad anello debole della catena produttiva al suo rientro”. Il 49% delle donne intervistate ha riferito di non essere stata coinvolta dai propri superiori nelle decisioni riguardanti la sua posizione in azienda e l’organizzazione del suo lavoro per il periodo della sua assenza. Il rischio – sostiene Mauro Gatti, Professore Ordinario di Organizzazione Aziendale alla Sapienza Università di Roma – è che ad una iniziale serenità nell’affrontare e comunicare la notizia della gravidanza, subentrino timori e frustrazioni provocate dall’incertezza del proprio ruolo professionale al rientro in azienda.

Del resto, lo scenario complessivo resta allarmante. Negli ultimi venti anni il numero di donne lavoratrici in Italia è cresciuto del 22,2%, in netta controtendenza rispetto a quello maschile che invece è sceso dello 0,3%. Ma i dati sull’occupazione di chi decide di affrontare la maternità, sono decisamente sconfortanti, per non dire un vero e proprio deterrente. In Italia, infatti, la percentuale di donne ancora occupate dopo il primo figlio è del 59%, una percentuale di gran lunga inferiore rispetto a quella delle colleghe europee; rispetto alle tedesche che sono il 74%, rispetto alle svedesi, che continuano a lavorare nel 81% dei casi e rispetto alle spagnole, che si attestano sul 63%.

il 76% dei primi intervistati ritiene, per esempio, – sostiene Flaviano Moscarini, docente di Economia Aziendale della Sapienza – che le aziende, al di là degli obblighi legislativi dovrebbero essere maggiormente orientate nel prevedere speciali benefici o regimi a favore delle dipendenti in gravidanza, mentre oltre il 94% pensa che un’azienda dovrebbe investire nella promozione di una cultura della maternità. Le aziende devono definire adeguate politiche di genere, oggi, per conseguire importanti vantaggi competitivi, domani”.

Di fronte alle evidenti difficoltà delle donne in gravidanza e poi subito dopo, quando diventano madri, che cosa fa la legge? il 63% delle donne ritiene poco o per niente adeguato il periodo di congedo di maternità di 5 mesi previsto dalla legge italiana, così come il 73% ritiene inadeguata la previsione di 1 giorno di congedo obbligatorio e 2 facoltativi per i padri.

La Stampa 30.10.13

“La battaglia sul governo”, di Claudio Sardo

Il compito storico del governo di Enrico Letta è chiudere la stagione di Berlusconi senza ulteriori colpi alle istituzioni e alla reputazione del Paese, accompagnare il Cavaliere alla porta e costruire un nuovo terreno di gioco per la politica. Occorre dirlo con chiarezza, perché altrimenti la babele delle lingue ci sovrasterà e smarriremo anche il criterio per giudicare. Questo governo non ha mai avuto le caratteristiche di una Grande coalizione di stampo europeo: lo stato di necessità non è determinato solo dagli effetti numerici dell’inedito tripolarismo italiano, ma anzitutto da un progressivo collasso del sistema.

Berlusconi è una causa primaria del blocco di sistema e quanto sta avvenendo oggi – tra le resistenze alla decadenza da senatore e le vergognose risultanze delle inchieste a suo carico – accentua i tratti di una vera crisi di regime. Viviamo un passaggio drammatico, reso ancor più pericoloso dalle conseguenze sociali della crisi economica. Il governo Letta è terreno di battaglia politica tra i suoi stessi sostenitori. Non solo sull’Imu. Non solo sulla legge di Stabilità. In gioco è l’Italia di domani, la nostra democrazia, l’autonomia dei governi dai poteri esterni. E visto il peso dell’Italia, vista la crescita dei populismi in tutto il continente, si può dire che in gioco sia anche il destino dell’Europa.

Non possiamo certo cavarcela promettendo che le larghe intese non si faranno più. È troppo poco. Bisogna dire come costruire, da oggi, il terreno di una competizione che faccia risalire la china all’Italia, a comincia- re da chi ha sin qui pagato il prezzo più elevato della caduta di prestigio, di reddito, di competitività del sistema-Paese. È qui il nodo del governo Letta. Il salto che deve compiere con la legge di Stabilità, con il programma del semestre di presidenza dell’Unione europea, con le riforme elettorali e istituzionali. Beppe Grillo ha sin dall’inizio investito tutto sullo sfascio. E ora alza il tono del suo insulto antisistema. L’impeachment contro Napolitano, in sé ridicolo nelle argomentazioni, è un modo per accentuare l’ostilità contro il governo, per spingere verso elezioni anticipate in condizioni di destabilizzazione. L’alternativa per Grillo, come ha scritto Gad Lerner su la Repubblica, è una campagna «destabilizzante» alle europee contro l’Europa. Sente l’onda montante del- la sfiducia, sa bene che ha il segno di una nuova, temibile destra, quella che mescola nostalgie nazionaliste, paura e xenofobia, ma le prossime elezioni europee segneranno appunto l’integrazione dei Cinquestelle nel populismo no-euro.

Non sfugge neppure a Berlusconi che la sua parabola politica è al termine. Merkel e i popolari europei non vorrebbero più vederlo neppure in fotografia. Forse Berlusconi è persino tentato di imboccare la strada dei no-euro, ma arriverebbe secondo anche lì. La sola carta che ha in mano è tentare una nuova spallata al governo. L’obiettivo è coprire la condanna con la più gridata, la più disperata delle campagne elettorali. La legittimazione del voto contro la legittimità della Costituzione. Per questo è pronto a spaccare il suo partito, a bloccare ogni riforma, ad azzerare la legge di bilancio aprendo le porte al commissariamento dell’Italia da parte della trojka.

Sarebbe un guaio, anzi un delirio, se in questo contesto qualcuno nel Pd offrisse una sponda a Berlusconi per chiudere la legislatura senza riforme e affidare alle urne nodi ancora più complicati e problemi sempre più incancreniti. La tentazione c’è. Ma va sconfitta. Il governo Letta rischia oggi di essere sostenuto solo da porzioni dei tre partiti della maggioranza, e forse il sostegno più leale è limitato addirittura a tre minoranze. Tuttavia, la battaglia politica è aperta. Non è detto che Letta arrivi alla fine del 2014 come sarebbe auspicabile per il Paese. E, certo, non ci arriverà ad ogni costo. Perché la sua condizione vitale è aprire la strada del dopo. Il Porcellum va abolito, contro i suoi sostenitori palesi e occulti. La legge di Stabilità va corretta, nel senso dell’equità e della redistribuzione a favore di chi ha più bisogno e di chi ha sempre pagato le tasse. Le riforme istituzionali vanno completate almeno eliminando il bicameralismo paritario e correggendo le storture del federalismo «all’italiana». La presidenza italiana va preparata nel segno del cambiamento delle politiche europee. Il nuovo terreno della politica è lo scontro tra un centrodestra e un centrosinistra europei non più costretti nei rigidi binari dell’ortodossia di Maastricht. Se za un nuovo orizzonte europeista, i Grillo, i Le Pen e i populisti di ogni latitudine avranno la meglio nell’Europa del declino.

Non sappiamo se, a questo punto, il partito di Berlusconi si spaccherà oppure no. Se i «governativi» troveranno l’intesa con una parte di Scelta civica. Certo, sarebbe un atto di chiarezza se le forze del popolarismo europeo in Italia rompessero finalmente con Berlusconi. Ma è una questione che riguarda la destra. La sinistra, come ha scritto ieri Alfredo Reichlin su l’Unità, deve anzitutto mettere in campo la sua idea di futuro. Deve dire quale democrazia, quale società ha in mente in questo cambio d’epoca. Il congresso del Pd è un banco di prova. Ridurre il confronto al destino di questo governo o alla leadership del successivo, sarebbe l’errore più grave. Hanno sbagliato coloro che descrive- vano il governo Letta come una assicurazione nelle mani del Cavaliere. Non vorremmo che qualcuno ora pensasse che sarebbe bene prolungare l’agonia del sistema nella prossima legislatura: non avremo leadership forti, ma solo la continuità di governi limitati nella loro azione. Un neo-centrismo per cause di forza maggiore. Ma è proprio ciò che una sinistra moderna deve assolutamente respingere.ù

L’Unità 30.10.13

“La grande fatica delle famiglie. Raddoppiano i poveri”, di Laura Mattucci

La crisi resta grave per quasi tutti gli italiani (il 91%), e uscirne continua a sembrare un miraggio lontano almeno altri 3-4 anni. In altri termini, gli italiani si aspettano di tornare ai livelli pre-crisi soltanto dopo il 2016-2017. È la conferma di un Paese sfiduciato, impaurito, impoverito, quella che emerge dall’indagine Acri-Ipsos, in occasione della 89esima Giornata mondiale del Risparmio 2013, cui si uniscono anche i dati riportati dal presidente dell’Istat Antonio Go- lini. Che non lasciano molti margini interpretativi: la recessione ha causato gravi conseguenze sull’intensità del disagio economico, e dal 2007 al 2012 il numero di persone in povertà assoluta è raddoppiato da 2,4 a 4,8 milioni. Quasi la metà risiedono al sud (erano un milione 828mila nel 2011) e, di questi, più di 1 milione sono minori, con un’incidenza salita in un anno dal 7 al 10,3%. Tra l’al- tro, secondo i calcoli Istat saranno le famiglie con meno difficoltà a beneficiare di più degli sconti sul cuneo fiscale, perché ci sono più occupati per nucleo.
CULTURA DEL RISPARMIO
Il 65% di famiglie fa meno acquisti in generale: nel primo semestre del 2013 il 17% delle famiglie dichiara di aver diminuito la quantità di generi alimentari acquistati e di aver scelto prodotti di quali- tà inferiore, 1,6% in più rispetto allo stesso periodo del 2012 e 4,9% in più dei primi sei mesi del 2011. In un unico ambito gli italiani non sono tanto disposti a fare risparmi, quello dei medicinali (da- ti Ipsos). Il 62% degli intervistati dichiara di farne un uso uguale al passato, e coloro che hanno incrementato il consumo (28%) sono assai più di coloro che l’hanno ridotto (10%); il saldo è dunque positivo ed è persino superiore a quello del 2012 (+18 punti nel 2013, +17 nel 2012).
Del resto, come conferma l’Ipsos, più si accumulano anni di crisi, più famiglie ne vengono colpite: indirettamente hanno dovuto farci i conti il 40% dei nuclei, per la perdita del lavoro (20%) o per il peggioramento delle condizioni di lavoro (il 15% contro il 9% del 2012). Ma c’è anche chi non viene pagato con regolarità (3%) e chi ha dovuto cambiare lavoro (4%). Le famiglie colpite nei percettori di reddito del nucleo familiare sono invece il 30%, con un incremento di 4 pun- ti rispetto al 2012. Sono il 26%, come nel 2012, le famiglie che segnalano un serio peggioramento del proprio tenore di vita (erano il 21% nel 2011), mentre quasi la metà degli intervistati (il 47%, erano il 46% nel 2012) dichiara di avere difficoltà a mantenerlo costante. Il 25% (come nel 2012) ritiene di mantenerlo con facilità e solo il 2%, cioè 1 italiano su 50, dichiara un miglioramento nel corso de- gli ultimi dodici mesi: nel 2010 erano il 6%. A fronte di oltre 40 milioni di italiani che registrano un peggioramento della propria situazione, circa 1 milione sta meglio di prima.
Sono anni in cui le riserve di denaro si sono ridotte. Oggi una famiglia su 5 (il 20%) dice che non riuscirebbe a far fronte a una spesa imprevista di 1.000 euro con risorse proprie. Se la spesa imprevista fosse maggiore, ipotizzando 10mila euro (un furto d’auto, una complessa operazione dentistica, la sistemazione di un tetto o una cartella esattoriale non attesa), meno di 1 famiglia su 3 potrebbe farvi fronte con le sole proprie forze.
Nonostante tutto questo, però, ha ripreso a crescere la percentuale di italiani che nell’ultimo anno sono riusciti a risparmiare, anche se di poco: passa dal 28% del 2012 al 29%, mentre calano le famiglie in saldo negativo (dal 31% al 30%). Un dato, quest’ultimo, che «segna un’inversione della tendenza al rialzo che durava dal 2010», si legge nell’indagine. Costanti al 40% sono le famiglie che consumano tutto quello che guadagnano. Scende lievemente la percentuale degli italiani che nel corso degli ulti- mi 3-4 anni ha visto diminuire le proprie riserve di denaro, passando dal 64% del 2012 al 63%, circa 2 italiani su 3; mentre il 7% dichiara di avere incrementato lo stock di risparmio cumulato nello stesso periodo (erano il 9% nel 2012). Come dice Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Acri: «Malgrado la crisi gli italiani hanno ancora una cultura del risparmio».

L’Unità 30.10.13

“I neo-iscritti al partito del rinvio”, di Marcello Sorgi

Nel Paese dell’eterno ricorso, rischia di slittare all’infinito anche la decadenza da senatore di Berlusconi, annunciata come la fine del ventennio, dopo la sentenza della Cassazione che ha definitivamente condannato il leader del centrodestra per frode fiscale. Ieri la giunta del regolamento del Senato, mentre discuteva se la fine della carriera parlamentare dell’ex premier dovesse essere stabilita con voto palese o segreto, s’è imbattuta in una nuova questione, considerata decisiva dal centrodestra e irrilevante, va da sé, dal centrosinistra. Secondo i giudici di appello di Milano, che, sempre su richiesta della Cassazione, hanno ridotto la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per il Cavaliere da cinque a due anni, la sanzione prevista dalla legge Severino, cioè la decadenza e l’incandidabilità, «è riservata all’autorità amministrativa», ovvero alla Camera d’appartenenza. Tanto è bastato ai parlamentari del centrodestra per dire che la Severino, proprio perché prevede una conseguenza amministrativa, non può essere applicata a Berlusconi retroattivamente, per reati commessi prima dell’entrata in vigore della stessa legge.

C’era un vecchio detto ai tempi della Prima Repubblica che diceva che quando una crisi politica finisce in mano agli avvocati è un guaio. Niente come quel che sta accadendo al Senato attorno al caso del Cavaliere lo conferma. Nella giunta del regolamento di Palazzo Madama, che nel suo piccolo ha già votato la decadenza, delegando all’aula dei senatori la decisione finale, si confrontano due pattuglie di irriducibili. Secondo quella del centrodestra guidata dall’ex ministro (ed ex giudice) Nitto Palma la decadenza di Berlusconi equivale a un’esecuzione sommaria, se votata senza aver la certezza che la legge Severino sia costituzionale (cioè senza chiedere prima alla Consulta di pronunciarsi in materia). E le motivazioni della sentenza dei giudici di Milano, in questo senso aggiungerebbero altri dubbi, spingendo in favore di un approfondimento. Secondo quella di sinistra pilotata dall’ex magistrato Felice Casson, invece, questi dubbi sono infondati, il centrodestra sta facendo melina e si rifiuta di applicare la legge anticorruzione, che pure aveva votato, solo perchè riguarda Berlusconi.

Queste argomentazioni potrebbero validamente essere sostenute in un’aula di giustizia, o anche in quella suprema della Corte Costituzionale. Ma stavolta, non va dimenticato, a pronunciarsi è il Senato, che prenderà, appunto, una decisione politica e non giurisdizionale. In altre parole l’argomento in base al quale i senatori si pronunceranno, ridotto all’essenziale, sarà: conviene o non conviene? E non c’è dubbio che in base a quest’argomento negli ultimi giorni sia intervenuta una novità non trascurabile. Mentre infatti il 2 ottobre, rispondendo a questa domanda, ventitré senatori del centrodestra avevano firmato un documento per dire che la decadenza del loro leader era un prezzo da pagare pur di tener in piedi il governo, venerdì scorso, lo stesso Berlusconi, che in Senato aveva dovuto sottomettersi a quest’impostazione, ha fatto votare all’unanimità dal vertice del suo partito un documento in cui si dice chiaramente il contrario: se la decadenza sarà votata, in sostanza, il governo cadrà.

A questo punto le cose sono cambiate. Anche se gli irriducibili del centrosinistra continuano a dire che l’uscita dal Parlamento del condannato non può essere rinviata, ieri la proposta del Movimento 5 stelle di anticipare il voto dell’aula del Senato è stata bocciata. Non si voterà almeno fino al 22 novembre. E anche dopo, sarebbe quanto meno azzardato pensare di intrecciare le votazioni sulla legge di stabilità con quella sulla decadenza dell’uomo che un minuto dopo, o cercherebbe di far cadere il governo, come ha già annunciato, o metterebbe in campo una sorta di ostruzionismo contro l’approvazione del testo più indispensabile che il Parlamento deve approvare entro la fine dell’anno. La sensazione è insomma che molti degli argomenti portati dagli irriducibili di centrodestra potranno anche risultare pretestuosi. Ma anche che nel centrosinistra cominci a farsi strada una consistente pattuglia di meno irriducibili: che in silenzio, senza far proclami, preferiscono aspettare a far decadere Berlusconi, pur di salvare il governo e la legislatura.

La Stampa 30.10.13

La rabbia del Cavaliere “Il nemico è il Quirinale”, di Carmelo Lopapa

Questa storia del voto palese è una porcata. Ormai è tutto un complotto per farmi fuori. Letta, Napolitano, l’accanimento dei giudici, non lo merito». Silvio Berlusconi rientra a Roma in serata. Rientra proprio mentre nella giunta per il regolamento gli equilibri si capovolgono e sette senatori contro sei annunciano di schierarsi per il voto palese, quando l’aula dovrà decidere tra qualche settimana sulla sua decadenza.
Le motivazioni dell’appello di Milano sull’interdizione, il no di Palazzo Chigi alla sua proposta di riaprire il capitolo sulla retroattività della legge Severino sono solo gli ultimi tasselli che completano il puzzle dell’accerchiamento di cui si sente vittima. Che diventa anche isolamento politico. «Un accanimento giudiziario incomprensibile e immeritato» come lo definisce lo stesso Silvio Berlusconi commentando quanto sta accadendo con il vicepresidente lombardo Mario Mantovani incontrato ad Arcore assieme ai colleghi piemontese e veneto prima di partire per la Capitale. Proprio per rompere quell’isolamento decide di incontrare in serata a Palazzo Grazioli il vicepremier Angelino Alfano, nonostante la rottura dell’ufficio di presidenza di venerdì scorso. Con i ministri Pdl potrebbe rivedersi oggi a pranzo. Un ultimo invito accorato a «smuoversi». All’ex delfino rinfaccia la chiusura di Palazzo Chigi, chiede conto e ragione, è un refrain: «Cosa farete voi ministri? Starete con loro anche dopo che voteranno magari con voto palese la mia decadenza?» E pesantissima si preannuncia la reazione che Berlusconi prepara per oggi, se dovesse passare in giunta il voto palese: «Scatenerò l’inferno ». E infatti è stata confermata la manifestazione per il giorno della decadenza. Il Cavaliere è furente. Anche nei confronti del capo dello Stato. Nei commenti di ieri proprio il Colle è stato additato quale «complice » di quella chiusura opposta dal premier Enrico Letta alla richiesta avanzata da Berlusconi in giornata: «Tramano ormai insieme contro di me». Fumus di «complotto». Anche se non hanno trovato riscontro le voci secondo le quali il leader forzista, una volta decaduto dal Senato, sosterrebbe coi suoi Grillo nella richiesta di impeachment nei confronti del Quirinale. Nonostante
l’appello del capo, i ministri Pdl ieri hanno taciuto, fanno notare da Palazzo Grazioli. È il motivo per il quale il Berlusconi forse ancora disposto a «salvare» Angelino, non sembra altrettanto ben disposti
verso i suoi colleghi.
«Il voto sulla mia decadenza sarebbe una macchia sulla democrazia italiana destinata a restare nei libri di storia: il leader di centrodestra escluso così, con una sentenza politica che è il contrario della realtà, perché non si riesce a batterlo nelle urne ». È il commento amaro di Silvio Berlusconi riportato da Bruno Vespa nell’anticipazione del suo nuovo libro. Con appello annesso: «Segnalo che il governo, se volesse, avrebbe un’autostrada per risolvere il problema. È tuttora aperta la legge delega sulla giustizia, e basterebbe approvare una norma interpretativa di una riga, che chiarisca la irretroattività, la non applicabilità al passato della legge Severino. Letta dica si o no. Basterebbe rispettare lo stato di diritto». Anticipazioni in cui il Cavaliere fa riferimento anche alla legge di stabilità, che così com’è non va: «I ministri l’hanno approvata con la clausola che avrebbe dovuto essere migliorata in incontri con la nostra cabina di regia e dopo in Parlamento. Certo, ci sono due punti non aggirabili: la legge di stabilità va cambiata, perché è inaccettabile l’idea di nuove tasse o, peggio ancora, del ritorno della tassa sulla casa, addirittura aumentata». Nessuna minaccia esplicita di crisi. Ma è un quadro in evoluzione, in attesa del giorno del giudizio sulla decadenza. Ecco perché Berlusconi ha confermato ad Alfano e ad altri l’intenzione di anticipare il Consiglio nazionale, vuole arrivare al voto in aula con il partito compatto al suo fianco.
Tanto più ora che Palazzo Chigi ha risposto picche anche alla sua ultima offerta. Secondo la Presidenza del Consiglio, fa fede il voto di fiducia del 2 ottobre, quando «è nata una nuova maggioranza». I due piani — giudiziario e politico — vanno distinti. Soprattutto Letta non interverrà per rendere irretroattiva la Severino. E se il Cavaliere dovesse rompere, ne sono certi, il governo andrà comunque avanti.

La Repubblica 30.10.13