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“I pesci piccoli. In cella per reati minori e carcerazione preventiva”, di Salvatore Maria Righi

Nei numeri c’è tutto: tre su quattro, tra i 64.758 che sono in gabbia, sono pesci davvero molto piccoli. O addirittura pesciolini finiti non si sa come nella rete, come i minorenni clandestini rinchiusi nel carcere di Catania per istigazione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. «Il vero problema è chi sia giusto incarcercare, cioè chi debba stare dentro e quale modello vuole darsi questo Paese» sintetizza Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, un osservatorio da cui il pianeta carceri si vede piuttosto bene, in ogni sua piega e fino all’ultima pietra. Un mondo a volte infernale, raramente normale, per la gran parte il disastroso campo di battaglia lasciato a valle dagli effetti della Bossi-Fini e della Fini-Giovanardi, le due leggi che hanno avuto il potere di riempire le celle senza abbassare di una virgola rispettivamente il problema dell’immigrazione e quello della droga. Pesci piccolissimi sono ad esempio i piccoli consumatori e spacciatori che gravitano intorno alla cocaina e agli altri stupefacenti che hanno preso piede negli ultimi anni. Secondo gli ultimi dati in possesso di Antigone, il 39,44% dei detenuti è rinchiuso per un’imputazione o una condanna legata alla legge sulle droghe. Il 35,19% è straniero, uno su tre. E in questo caso, come sottolinea Gonnella, gli effetti della Bossi-Fini sommano quelli indiretti a quelli diretti, perché un extracomunitario che finisce dentro per la vendita abusiva di cd o altri beni, rientra comunque nell’alveo normativo della disciplina contro l’immigrazione clandestina.
L’altra piaga storica delle nostre carceri, l’uso e l’abuso del carcere preventivo, un parcheggio in attesa di giudizio che a volte è diventato esso stesso la pena, è sceso si fa per dire al 37,17% dei detenuti. «Una tendenza che è stata innescata dal decreto legge promosso dalla Cancellieri, per ridurre il più possibile l’impatto della custodia cautelare spiega Gonnella ma il vero punto critico e il problema è il totale ingolfamento del sistema processuale, per via della valanga di processi legati ai reati su droghe e immigrazione, tanto che spesso l’istituto viene usato un po’ a casaccio. Sempre meno legato, o quasi mai, alla ricognizione dei veri motivi che la disciplinano, ossia il pericolo di fuga, quello di reiterazione del reato e dell’inquinamento delle prove».
Il risultato, come ha detto il senatore Luigi Manconi è che il carcere è diventato un enorme incubatrice sociale dove spostare e abbandonare tutte quelle persone, le fasce socialmente più deboli e precarie, di cui lo Stato non riesce pi ù a prendersi cura. La prigione, quindi, come supplente dei servizi sociali e in buona sostanza del welfare che, sottolinea il presidente di Antigone, «non esiste più, dobbiamo prenderne coscienza: una realtà di cui i nostri istituti di pena sono tutt’altro che esenti, in quanto ad effetti e conseguenze� �. Dentro strutture che in alcuni casi rievocano le pagine di Silvio Pellico o le immagini del Regno Borbonico, coi suoi fasti e le sue decadenze, in celle dove ci si ammala e si soffre ancora per malattie che fuori di lì sono state debellate, come la scabbia, la turbercolosi, le epatiti, si vive una realtà quotidiana in cui la popolazione rinchiusa è più che raddoppiata. 22 anni fa c’erano 31.058 detenuti, oggi sono appunto 64.758, dati aggiornati al 30 settembre. Il 170% di affollamento, 170 detenuti ogni 100 posti letto (140 per il Dipartimento): record della Ue. Molto basso il tasso di alfabetizzazione: il 15,3% della popolazione reclusa è analfabeta, o non ha titolo di studio, o con licenza elementare. A proposito di pesci piccoli e di grandi criminali, il 60,45% dei detenuti reclusi per una condanna deve scontare una pena inferiore ai 3 anni. «Credo che i tre quarti della popolazione carceraria corrispondano all’immagine suggestiva tracciata da Papa Francesco aggiunge Gonnella che con le sue parole svolge un fondamentale ruolo di pedagogia sociale al pari del Presidente della Repubblica, che al di là di come la si pensi, nell’unico messaggio alle Camere del suo mandato ha scelto proprio di occuparsi del tema carceri. Mi auguro anzi che questa forza pedagogica delle cariche istituzionali riesca a orientare le decisioni della classe politica. Il nodo, ancora una volta, è il sistema penitenziario nel suo complesso: adesso pagano solo i poveri. L’equità non vuol dire solo mettere dentro anche i ricchi, perché non si risolvono le cose con la detenzione di uno come Berlusconi che sconterà la giusta pena per i suoi reati, ma soprattutto significa far uscire chi è finito dentro solo per una storia personale poco felice o sfortunata». L’avaria e la deriva di una macchina della giustizia che, secondo Gonnella, è cominciata anche quando qualcuno ha indicato i lavavetri come un simbolo dell’illegalità: «Succedeva nella civilissima Firenze pochi anni fa, e credo che da lì abbiamo cominciato a perdere il senso comune, sostituendo la sicurezza sociale con quella della proprietà e spinti dalla retorica della paura. La dismissione dello stato sociale, l’intolleranza e la xenofobia, sono questi problemi che paga in gran parte chi sta in carcere, ancora prima del sovraffollamento che è un problema europeo, non solo italiano, e che è pura demagogia: non servono nuove carceri, serve capire bene chi deve starci dentro».

L’Unità 24.10.13

“Grillo, dietro il Vaffa niente”, di Michele Di Salvo

“Siete pronti? l’evento a 5 stelle che tutti aspettavamo è arrivato!#oltrev3day. Sembra uno spot anni ottanta, come quelli che Grillo faceva paratissimo per gli yogurt, e invece con questo tweet viene rilanciato il nuovo post che presenta la nuova iniziativa di Beppe Grillo. Si tratta del terzo VDay, dopo quello di Bologna del 2007 e quello del 2008 a Torino «per un’informazione libera senza finanziamenti pubblici e senza l’ingerenza dei partiti». Sono passati oltre cinque anni, in cui il «neo» movimento fondato dal comico genovese è entrato nelle Regioni, nei Comuni, in Parlamento. Il nuovo appuntamento, immaginato come lancio in grande stile della campagna per le europee e le amministrative è fissato per il primo dicembre, a Genova.
Questa volta il tema è semplicemente «Oltre», per «andare al governo e liberarci di questi incapaci predatori che hanno spolpato l’Italia negli ultimi vent’anni. Non si salva nessuno, politici, grandi industriali, giornalisti, burocrati, banchieri». Perché secondo Grillo «dopo le elezioni, si sono aperte le cateratte degli ascari dei giornali e delle televisioni. Hanno usato ogni possibile accusa e diffamazione contro i “grillini”, come in tempo in guerra, senza scrupoli, con un bombardamento mediatico mai visto prima».
Questo è il tema secondo Grillo. Le richieste della base di maggiore democrazia interna, le richieste di collaborazione per maggioranze differenti, la richiesta di una maggiore trasparenza decisionale e finanziaria, la richiesta di risposte alle molte domande che è ruolo della stampa porre in democrazia a chi ha un ruolo ed un consenso politico, vengono tutte accantonate. Il problema è «la macchina del fango», e non già che un leader politico non risponde ai giornalisti. Il tema sono «gli incapaci predatori» al governo, e non che i 160 parlamentari a Cinque stelle sono quelli che hanno prodotto meno disegni e proposte di legge di ogni altro gruppo parlamentare. I temi per Grillo sono sempre altri, anche quando lo richiami alle molte falsità che ha pubblicato sul suo blog. Anche il quel caso sono «macchina del fango» – e non si capisce bene come mai, visto che sono frasi sue.
In realtà dietro tanta retorica populista e violenta, e talvolta tendenzialmente xenofoba (come nel recente caso della proposta di cancellare il reato di clandestinità, che lo ha portato ad una dura reprimenda verso i suoi stessi senatori), c’è la necessità di coprire il vuoto pneumatico di proposta politica.
Grillo ha attaccato di recente la Rai, rea di pagare un cachet di mercato a Fazio, uomo di punta di trasmissioni seguitissime e in attivo di bilancio. Ha accusato di usare i fondi del canone per questo. Ebbene il presidente della Commissione di Vigilanza e indirizzo della Rai è un fedelissimo di Grillo, Roberto Fico, che però oltre a dire questa bugia demagogica sul canone, non ha invece detto come la Rai è obbligata a spendere quei soldi, né ha presentato alcuna iniziativa, nella sede da lui presieduta ed a questo preposta, per spendere diversamente quei soldi.
Anche la scelta della data è significativa: rilanciare i propri slogan a ridosso delle primarie Pd, cercando di oscurare mediaticamente forse l’unico evento politico che, tra tanti difetti, è vera espressione di una democrazia dal basso che Grillo millanta e non realizza. Si perché mentre sono milioni le persone che votano a queste – imperfette – primarie davvero aperte, sul suo blog lui si rifiuta anche di fare quella piattaforma che aveva promesso e garantito, e nel migliore dei casi nelle sue consultazioni online (quando funzionano) partecipano circa 30mila votanti, dietro a un monitor, e non certo alla luce del sole.
Il tema invece sono «gli altri», quei partiti che con mille difetti hanno un confronto interno, hanno organi elettivi, hanno assemblee vere, e segretari eletti, mentre lui, il nuovo della nuova politica, è il padrone del marchio, che dispensa e concede, ed espelle per raccomandata. Il tema sono «gli altri» che dichiarano chiaramente con chi faranno gruppi in Europa e con quali idee concrete, e non che «rappresentanti di Grillo» si incontrano con rappresentanti di Albadorata e del Fronte Nazionale della LePen, mentre la sua base ne è ignara.
Ecco allora, andiamo davvero oltre, e parliamo di questi temi. E per farlo non serve nessun Vday, basta confrontarsi democraticamente e rispondere alle domande. Ma forse a lui conviene di più parlare di macchina del fango e di complotto.

L’Unità 23.10.13

“Ustica. Fu guerra nei cieli, ora il governo faccia la sua parte”, di Daria Bonfietti

Bologna. Piovono sentenze definitive, della Cassazione, che ribadiscono che il Dc9 Itavia che trasportava 81 innocenti cittadini italiani da Bologna a Palermo il 27 giugno 1980 fu abbattuto da un missile, che quelle vite non furono difese e che poi fu usato ogni mezzo per coprire la verità. La verità è dunque sempre più sotto i nostri occhi e ci deve finalmente imporre comportamenti conseguenti, per la memoria delle povere vittime, ma soprattutto per la nostra dignità nazionale.
Infatti, come ci indicò già nel 1999 il giudice Priore, un aereo civile italiano è stato abbattuto in un episodio di guerra aerea, in tempo di pace, sui nostri cieli e «nessuno ci ha dato la minima spiegazione». Un grande oltraggio all’Italia!!
Bisogna dunque sia a livello nazionale, sia a livello internazionale avere la forza e il coraggio civile di chiedere spiegazioni.
Il governo deve agire responsabilmente senza tentennamenti e intanto aprire il confronto coi propri apparati. Oggi arriva a conclusione la vicenda Itavia, del povero Aldo Davanzali, la compagnia fu fatta fallire perché si diceva che l’aereo era caduto per un cedimento strutturale. La grande sostenitrice di questa tesi, ricordiamolo era l’Aeronautica Militare. Come poi sostenne la bomba a bordo, in un tragico gioco a nascondere.
Ma nel primo periodo, quello decisivo per l’Itavia, si sosteneva il cedimento, la tragica ovvietà che gli aerei cadono, la tesi più semplice per scongiurare ogni indagine.
E allora è proprio dai militari che si debbono avere le prime risposte: perché hanno sostenuto ogni ipotesi pur di non mettere a disposizione del governo e della magistratura tutte le informazioni esistenti, mentre tante intanto venivano fatte sparire. Bisogna essere chiari: la sentenza di oggi è una sentenza che chiama direttamente in causa il comportamento dell’aeronautica militare.
Poi si debbono affrontare i rapporti con stati amici ed alleati: ricordiamoci che nella notte stessa della tragedia l’ambasciata americana mette in piedi una commissione straordinaria su un incidente apparentemente soltanto italiano, che non coinvolge nessun cittadino statunitense. C’è qualcosa di strano o al contrario di molto chiaro: era ben evidente che qualcosa di tremendo era successo nel cielo. Ma dei documenti che furono esaminati in fretta e furia nella notte nessuno ha avuto conoscenza. Come parecchie sono ancora le richieste dei nostri magistrati che non hanno avuto risposte esaurienti. Un capitolo speciale riguarda la Francia che fino a pochi mesi or sono rifiutava ogni collaborazione affermando che la sua base più al sud, quella di Solenzara in Corsica, chiudeva i battenti d’estate molto presto, alle 17, come una comune rivendita alimentare. C’è poi il problema Libia: Gheddafi ha sempre sostenuto di esser stato il vero bersaglio di quella notte, ma poi non ha dato particolari informazioni. Non stanno facendo meglio i nuovi governanti. Ma al di
là di queste considerazioni deve essere chiaro che quello che è capitato quella notte è un terribile episodio di «disputa internazionale» che vede coinvolti gli Stati che non sono propensi a svelare tutte le loro trame. Con questa consapevolezza deve muoversi il nostro governo, cercando ogni mezzo, proprio in contesto internazionale, con una determinata pressione diplomatica. Le istituzione europee, la Nato debbono essere i primi interlocutori per avere collaborazione e risposte, poi tutte le informazione americane debbono essere reperite. E non sto a ricordare che Cossiga prima della morte puntò il dito contro la Francia. La procura di Roma sta indagando e tutto, proprio tutto deve essere fatto perché abbia ogni informazione.
Rimane poi il tema dei risarcimenti: vorrei fare un appello perché le «perdite» dello Stato non fossero messe sulle spalle dei cittadini, ma di quegli appartenenti agli apparati dello Stato che hanno clamorosamente operato per nascondere e stravolgere la verità.

L’Unità 23.10.13

Ecco come gli Usa spiano l’Italia “Ma lo facciamo solo per proteggervi”, di Carlo Bonini

Come, quando e in che misura la National Security Agency ha catturato le comunicazioni italiane? Nei primi giorni di ottobre, a Washington, il generale John Inglis, vicedirettore dell’Agenzia americana per lo spionaggio elettronico, accoglie i cinque componenti della delegazione italiana del Copasir (il Comitato parlamentare di controllo sui Servizi) in missione negli Stati Uniti con un largo sorriso e una battuta fulminante. «Benvenuti. Vorrei spiegarvi innanzitutto cosa facciamo qui alla Nsa. Noi raccontiamo la storia delle cose che non sono mai accadute».
«Cose che non sono mai accadute». Per chi in quei giorni andava cercando risposte chiare a un quesito semplice (Ci avete spiato? Come?) sollevato in luglio dalle rivelazioni di Snowden, le parole del generale non suonano esattamente un manifesto della trasparenza. Piuttosto come l’allusiva rivendicazione di un lavoro di “prevenzione” che richiede solo buio fitto. E tuttavia, delle informazioni che Inglis ritiene di dover fornire in quell’occasione, non è soltanto il deputato di Sel Claudio Fava a conservare un nitido ricordo, ma anche il presidente del Copasir, il leghista Giacomo Stucchi. «Nella sede della Nsa – dice oggi Stucchi – ci è stato spiegato che l’Agenzia ha raccolto informazioni sui dati di traffico telefonico e telematico. Ma ci è stato anche detto che nessuno in Italia, né l’autorità politica, né la nostra intelligence, era stato messo al corrente di quello che la Nsa stava facendo. Ricordo anche che è stato escluso che le intercettazioni a strascico del programma “Prism” possano aver indiscriminatamente riguardato cittadini del nostro Paese. Non fosse altro perché quel programma, a quanto ci è stato riferito, è dotato di filtri che limitano o interrompono il flusso di informazioni intercettate quando riguardano Paesi alleati cui l’America è legata da particolari vincoli di amicizia».
Un primo punto, dunque, pare assodato. Non fosse altro perché almeno su questo i ricordi di Fava e Stucchi paiono concordi. La Nsa ha intercettato e catturato nel tempo i dati di traffico delle telecomunicazioni anche dell’Italia. Ma non all’interno dei nostri confini (come per altro oggi il governo andrà a riferire al Copasir con l’audizione del sottosegretario con delega alla sicurezza nazionale Marco Minniti). Bensì ogni qual volta il traffico di comunicazioni e dati generato all’interno del nostro Paese si è appoggiato o è transitato, per ragioni tecniche e per l’architettura integrata che hanno i sistemi di comunicazione su scala globale, su “carrier”
statunitensi o nella piena disponibilità americana. Parliamo cioè di provider internet (chiamate Skype, traffico di e-mail, navigazione in rete), piuttosto che di produttori di smartphone (messaggistica gratuita) o di compagnie telefoniche Usa. Spiega Fava: «A meno che qualcuno non voglia fare volutamente confusione, quello che gli americani ci hanno spiegato è che per quanto li riguarda tutte le comunicazioni generate in paesi terzi, compresa l’Italia, una volta fuori dallo spazio fisico sovrano dei singoli Paesi e dunque della loro disponibilità possono essere raccolte. Parliamo di tabulati telefonici, come anche di business record: dalle carte di credito, alle biglietterie aeree, ai database di pubblico accesso».
Non a caso, in quei giorni a Washington, alla delegazione del Copasir, la Nsa consegna un documento declassificato in cui l’Agenzia illustra in forza di quali leggi ed entro quali ambiti eserciti i suoi poteri di intrusione telematica all’estero. «L’executive Order presidenziale 12333 – si legge – consente di individuare come obiettivi cittadini non americani all’estero e di raccoglierne le telecomunicazioni senza che sia richiesta alcuna autorizzazione di una Corte di giustizia federale». E ancora: «Il Foreign Intelligence Surveillance Act, al titolo I, autorizza la sorveglianza di cittadini non americani presenti negli Usa e poco frequentemente all’estero, salvo autorizzazione di un giudice federale». Mentre gli «Emendamenti 702, 704 e 705b ai titoli V e VII del Foreign Intelligence Surveillance act (norme di legge approvate all’indomani dell’11 settembre ndr.), autorizzano la raccolta di “business records” e di “metadati” di traffico riguardanti stranieri e cittadini americani all’estero attraverso providers e carriers americani».
Non è dato sapere (l’Intelligence Usa non lo avrebbe mai comunicato né alla nostra autorità politica, né ai nostri Servizi) la qualità del traffico dati italiano intercettato. E tuttavia, proprio il generale Inglis lascia scivolare durante l’incontro con il Copasir un’informazione che suona come un invito all’autorità politica italiana a non recitare la parte di chi cade dal pero quando si parla di spionaggio elettronico all’estero. «Sappiate – dice il vicedirettore del Nsa ai nostri parlamentari – che grazie al lavoro che facciamo qui abbiamo sventato 54 attentati. Uno proprio in Italia, a Napoli. Nel settembre del 2010». Una vicenda che ebbe come protagonisti cittadini algerini che avevano raggiunto il nostro Paese dalla Francia. Che trovò una fugace visibilità nelle cronache e si chiuse con l’arresto dei “
targets” di cui la Nsa rivendica ora l’individuazione.

La Repubblica 23.10.13

“L’Italia non è più tra gli 8 Grandi superata nel Pil anche dalla Russia entro 5 anni fuori dalla top ten”, di Federico Fubini

Quando nel 2014 l’Italia farà un altro turno di presidenza dell’Unione europea, continuerà a partecipare al G8 con una piccola differenza: per dimensioni dell’economia, non sarà più fra i primi otto.
Dopo la Cina nel 2000 e il Brasile nel 2010, quest’anno la Russia sta compiendo ufficialmente il sorpasso. L’Italia scivola al nono posto per Prodotto interno lordo (Pil), partecipe del G8 per lignaggio politico ma fuori per dimensioni del fatturato, peso economico e capacità di proiettarlo nel mondo. Non è chiaro che valore abbia oggi un club dei “grandi” che esclude una democrazia come il Brasile e tiene dentro Paesi più piccoli, solo perché sono di sviluppo più antico. Forse è qui la radice di quello che il politologo americano Ian Bremmer chiama il mondo del G-zero, un pianeta senza leadership. Certo il riallineamento non si ferma qui: alle tendenze attuali fra non oltre cinque anni l’Italia sarà fuori anche dai primi dieci, scavalcata da Canada e India e relegata all’undicesimo posto; quello per il quale oggi competono Spagna e Corea del Sud.
Forse perché alla Spagna portò sfortuna nel 2006 sbandierare il sorpasso sull’Italia nel reddito procapite, o per l’Italia di Bettino
Craxi fu infausto vantare quello sulla Gran Bretagna di Margaret Thatcher, stavolta è diverso.
Tutto si sta consumando in silenzio. Il presidente russo Vladimir Putin non si fa sfuggire annunci rodomonteschi. Ma la banca dati del Fondo monetario internazionale non lascia dubbi: stimato in dollari a prezzi correnti, il Pil della Federazione russa era allineato all’Italia nel 2012 e sarà superiore di circa 50 miliardi di dollari alla fine del 2013. Sono 2.068 miliardi contro 2.117. Il Brasile è sopra a 2.190; il Canada appena sotto a 1.825 miliardi e l’India segue non distante.
In fondo non c’è quasi niente di sorprendente, nota lo storico dello sviluppo Gianni Toniolo: «Tutti i Paesi europei, uno dopo l’altro, saranno presto superati da economie emergenti con popolazioni più vaste e un livello di benessere degli abitanti più basso – dice -. Se non parleranno con una voce sola, gli europei non saranno più ascoltati».
Eppure Toniolo, docente alla Luiss e alla Duke University negli Stati Uniti, nota un’anomalia: il Canada è un’economia matura, la sua popolazione poco più di metà di quella italiana eppure la sua economia
si prepara al sorpasso. Non è difficile capire perché: le classifiche non diranno tutto, ma il Canada viaggia venti posizioni sopra all’Italia in quella dell’Ocse sul livello di istruzione degli abitanti, sessanta sopra in quella della Banca Mondiale per «facilità di fare impresa» e sessantacinque sempre sopra in quella di Transparency International sulla percezione di corruzione. Quanto a questo, l’Italia batte la Russia in tutto, però l’economia guidata da Putin ha due volte e mezzo gli abitanti dell’Italia e beneficia del superciclo di rincari dei prezzi delle materie prime: è il primo esportatore di gas al mondo e il secondo di petrolio dopo l’Arabia Saudita.
Questo non significa che l’Italia sia condannata a un declino ineluttabile: non se si guarda da dove viene e la strada che ha fatto. Il volume di storia dell’economia del Paese dall’unità, curata da Toniolo per la Banca d’Italia (“Oxford Handbook of the Italian Economy since Unification”) mostra che nel 1861 il 40% degli abitanti del nuovo Regno viveva con quello che oggi sarebbe un euro e mezzo al giorno. L’aspettativa di vita alla nascita era di trent’anni, un bambino su tre non terminava il primo anno di vita, la statura media delle reclute al servizio militare era di 163 centimetri e il Pil per abitante era pari a quello dei 42 Paesi africani meno poveri di oggi. Una nazione così, malgrado un tasso di crescita di zero-virgolaqualcosa nei primi trent’anni di vita unitaria, nel 1870 era già l’ottava economia del mondo: proprio il posto che occupava fino all’anno scorso.
All’epoca le prime due potenze produttive del pianeta erano Cina e India, terza il Regno Unito, quarta gli Stati Uniti e quinta la Russia. Da allora Cina, India e Russia hanno perso terreno durante oltre un secolo, per poi recuperarlo.
Un’altra prova di resistenza dell’economia italiana è arrivata dopo 1945: il debito bellico e i bombardamenti avevano riportato il fatturato in quell’anno ai livelli del 1911, poi il rapido recupero fino alle primissime posizioni del mondo e al riconoscimento ad Aldo Moro a Rambouillet.
Gli ultimi vent’anni rappresentano dunque un record negativo dall’unità in poi, con un tasso di crescita di meno dello 0,5% l’anno e lo scivolamento fuori dalle prime dieci posizioni al mondo. E la dimensione del Pil conta eccome: attrae investitori per l’ampiezza del mercato, consente alle imprese economie di scala che permettono una proiezione all’estero, riduce la dipendenza dal sostegno di altri Paesi. I dati del Fondo monetario mostrano che dal 1980 la Cina è cresciuta di 29 volte, l’India di 9, gli Stati Uniti di 5,8. L’Italia in questo è in linea con Francia, Germania o Gran Bretagna: negli ultimi 40 anni la sua economia si è moltiplicata circa per quattro, non meno delle altre vicine. I tempi lunghi della storia fanno dunque sperare più del presente o dell’ultimo ventennio. Ammesso – ma non concesso che per i senza lavoro e i senza casa che si sono accampati sabato scorso a Porta Pia a Roma, o i milioni rimasti nelle loro città, questa sia davvero una consolazione.

La Repubblica 23.10.13

Lettera dei parlamentari modenesi Pd sulle riforme costituzionali

Mercoledì 23 ottobre, in Senato prende avvio la seconda fase di deliberazioni (a tre mesi da quelle precedenti) sulla legge costituzionale che istituisce il Comitato parlamentare per le riforme costituzionali. Nel tardo pomeriggio di martedì 22 ottobre il comitato “Modena per la Costituzione” terrà un presidio informativo sul voto per la riforma costituzionale. I parlamentari modenesi del Pd, in concomitanza con questi due appuntamenti, hanno deciso di scrivere una lettera aperta a cittadini ed elettori, prendendo le mosse anche da quanto già reso noto nei giorni scorsi sui quotidiani nazionali. Eccone il testo:

Cari amici,
sentiamo il bisogno e il dovere di precisare la posizione di noi parlamentari Pd in relazione al dibattito sulle riforme costituzionali. Crediamo che, in questo momento, sia reale il rischio che il Paese – e quindi il Parlamento – si divida secondo uno schema sbagliato e pericoloso: da una parte chi ama e difende la Costituzione e, dall’altra, chi, volendola aggiornare, per ciò stesso non la ama e non la vuole difendere. La nostra Carta Costituzionale ha necessità di essere aggiornata nella seconda parte proprio per poter essere attuata nella prima parte, quella dei principi, dispiegando appieno le sue molte potenzialità ancora inespresse. La Costituzione va cambiata per poter ridurre il numero dei parlamentari, per poter modificare il bicameralismo paritario, che non funziona e che non ha eguali nelle moderne democrazie, per riformarne il Titolo V, che regola i rapporti tra centro e periferia. Si tratta di tre grandi temi non più rinviabili, rispetto ai quali – come ha recentemente sostenuto il presidente Letta – “non c’è nessuno dei grandi principi costituzionali che vengono toccati e messi in discussione e in crisi”. Temi inderogabili, soprattutto alla luce degli insuccessi precedenti. Ecco perché è stata derogata la norma di revisione costituzionale, cioè l’art. 138, rispetto ai tempi, ma non certo rispetto alle garanzie in essa contenuta: la sua essenza – la sede parlamentare della revisione e la piena tutela delle minoranze – non è stata indebolita, ma anzi rafforzata. La crisi economica e sociale che stiamo attraversando scatena forze e pulsioni antisistema, la demagogia populista da una parte e la diffidenza radicata verso una “carta comunista” dall’altra. Gli attacchi alla Costituzione si susseguono, molto più efficaci quando seminano discredito strisciante verso le Istituzioni e il sistema della politica, che, pure, in questi anni, troppo poco ha fatto per cambiare se stessa e riallacciare un rapporto di fiducia con i cittadini. Il Pd ha scelto la via di una riforma moderata e ponderata della Costituzione, nell’intento di conferire nuova energia e nuova credibilità al sistema istituzionale e, per questa via, a tutto il sistema politico. A questo si collega la ugualmente necessaria, anche se non è materia costituzionale, riforma della legge elettorale, già incardinata al Senato. La centralità della nostra Costituzione rimane immutata. I principi fondamentali che contiene non vengono stravolti. Nessuna tentazione autoritaria o decisionista. Semplicemente la necessità, per questa strada, di realizzare in pieno lo spirito stesso della Costituzione. Senza riforma, viceversa, saranno l’antipolitica e il populismo a conquistare terreno, potendo dimostrare che la politica è incapace di riformare se stessa. Sarebbe un colpo mortale alla nostra Costituzione. Siamo dalla stessa parte, le riforme ci devono avvicinare, non dividere. Anzi l’invito per tutti è quello di far sentire la propria voce all’interno del dibattito che si accenderà nei prossimi mesi. Le forme di confronto sono molte e tutte devono essere praticate, a partire dall’analisi dei risultati della consultazione pubblica sulle riforme costituzionali avviata dal Governo e recentemente conclusasi.

Cordialmente

Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini, Matteo Richetti, Stefano Vaccari

“Quattro idee di Pd. Presentate le mozioni”, di Simone Collini

Gianni Cuperlo punta sulla «rivoluzione della dignità», Matteo Renzi ribadisce la necessità di «cambiare verso», Gianni Pittella si candida «per un partito democratico, solidale, europeo» e Giuseppe Civati rilancia il suo slogan «dalla delusione alla speranza: le cose cambiano, cambiandole». I documenti congressuali dei quattro candidati alla segreteria del Pd sono stati depositati e da ieri sera sono consultabili sul sito web del partito, pubblicati nello stesso ordine che (da sorteggio effettuato la settimana scorsa) ci sarà sulle schede delle primarie dell’8 dicembre.

Nei testi vengono approfondite e dettagliate le tesi espresse fin qui dai candidati ed emergono con ancor più nettezza le idee che hanno sia sul Pd che sulle principali sfide di fronte al Paese. Renzi, che parla della necessità di una «rivoluzione radicale» e illustrerà ampiamente il documento alla Leopolda che si apre venerdì, punta il dito contro il «calo degli iscritti», dice che alle politiche il Pd ha perso perché «gli italiani non hanno considerato sufficientemente forti i nostri leader», insiste sul fatto che bisogna incassare anche i consensi dati in passato al centrodestra e a Grillo perché «non è uno scandalo ma logica» che «se non si ottengono i voti di coloro che non hanno votato il Pd alle precedenti elezioni, si perde» e scrive fin dalla premessa che «ci meritiamo di più, e tocca a noi cambiare verso», che «abbiamo bisogno di una lettura sincera della sconfitta» dello scorso febbraio, e che «tutti quelli che dicono che questo congresso ha un risultato già scontato vogliono allontanare la nostra arma più preziosa: la partecipazione».

Anche nel documento di Cuperlo si sottolinea la necessità di «cambiare il Pd» per cambiare l’Italia, ma si indicano come strade per farlo il «recuperare la nostra auotonomia culturale» e il «cambiare il modo di stare tra le donne e gli uomini che sceglie di rappresentare, a cui vuole dare voce e potere». Si legge poi circa le sconfitte più o meno recenti che «chi pensa che basti sostituire gli attori senza cambiare lo spartito di questi vent’anni, non ha capito ciò che è accaduto e la sfida che abbiamo di fronte».

Tante le differenze tra i documenti dei due principalli sfidanti per la segreteria del Pd. Non ultimo, Cuperlo fa riferimento al sostegno «con lealtà e autonomia a Letta», mentre Renzi non cita mai il premier. O la contrarietà del primo rispetto a «doppi e tripli incarichi». O il fatto che il sindaco definisca un «parametro anacronistico», che «soffre problemi di credibilità» e da superare il rapporto del 3% deficit/Pil e il deputato triestino che invece sottolinea la necessità di rimanere al di sotto di quella percentuale ma portando il deficit «dal 2,5 pre- visto al 2,7» per poter poi destinare i 3 miliardi che ne deriverebbero ad esodati, occupazione giovanile e ad un pro- gramma di investimenti («avrebbe un impatto virtuoso sulla crescita e l’occupazione»): «Al primo posto c’è il lavoro».
Un’altra differenza è che Renzi fa riferimento all’Europa ma non alle famiglie politiche europee, mentre Cuperlo propone che il Pd partecipi al congresso del Pse del prossimo febbraio «e in quella sede concorra alla costituzione del Partito dei socialisti, dei progressisti e dei democratici europei», completando così il percorso avviato con la costituzione del gruppo a Strasburgo: «collocando i democratici italiani nel Pse, e al tempo stesso contribuendo al suo allargamento e rinnovamento».

Cuperlo

Per la rivoluzione della dignità» è il titolo della mozione congressuale di Gianni Cuperlo. Si parte sottolineando che «il Pd può guidare la riscossa civile, economica e morale del Paese» ma anche che «per cambiare l’Italia il Pd deve cambiare se stesso»: «Dobbiamo recuperare la nostra autonomia culturale. Non lo si fa da soli, ma alzando lo sguardo sul mond». Si legge che «la sinistra ha reagito con debolezza all’affermazione di un liberismo senza freni e vincoli, di un’economia piegata alla speculazione finanziaria» e che «in quel passaggio è maturata una sconfitta culturale prima che politica, quando le forze progressiste hanno ceduto all’idea che compito loro, e nostro, fosse temperare gli effetti sociali negativi di quel modello». Scrive Cuperlo: «Abbiamo subito, e talvolta assimilato, la personalizzazione della politica e il mito dell’uomo solo al comando. L’effetto è stato uno svuotamento del Parlamento e delle istituzioni che ha indebolito anche la nostra capacità di rappresentare le fasce deboli e chi la crisi l’ha pagata di più sul piano morale e materiale. Chi pensa che basti sostituire gli attori senza cambiare lo spartito di questi 20 anni, non ha capito ciò che è accaduto e la sfida che abbiamo di fronte».

Nel documento si propone di far partecipare il Pd al prossimo congresso del Pse «collocando i democratici italiani nel Pse, e al tempo stesso contribuendo al suo allargamento e rinnovamento», si parla di un sostegno a Letta «con lealtà e autonomia» per migliorare la manovra finanziaria sapendo che la responsabilità del Pd «è incalzare il governo sul lavoro e si propone «una convenzione per il nuovo Pd»: «La distinzione delle figure del candidato premier e del segretario del partito non può esse- re trattata come un cavillo. È una scelta politica e culturale. L’identificazione dei due ruoli non ha funzionato proprio perché il governo da solo non ce la fa. Il migliore di tutti noi da solo non ce la fa. (…) Il partito non è un comitato elettorale permanente a servizio dei candidati alle varie competizioni elettorali. La distinzione tra incarichi di partito, a tutti i livelli, e incarichi nei governi, a tutti i livelli, deve essere sancita come un impegno comune della rinascita del Pd».

Renzi

Matteo Renzi insiste fin dal titolo del suo documento congressuale che ora bisogna «Cambiare verso». Scrive nella premessa: «La sinistra vince solo quando costruisce il futuro, non quando si chiude sul presente». Scrive anche che «abbiamo bisogno di una lettura sincera» delle cause della «sconfitta» delle ultime politiche. La premessa si chiude con queste parole: «Tutti quelli che dicono che questo congresso ha un risultato già scontato vogliono allontanare la nostra arma più preziosa: la partecipazione».

Il primo paragrafo è dedicato al partito e al calo dei tesserati: «Avevamo detto di dimezzare i parlamentari, non di dimezzare gli iscritti. I dirigenti centrali che spiegavano come fosse meglio un partito pesante rispetto a quello leggero hanno finito con il lasciarci un partito gassoso». Poi Renzi sottolinea che «si vince recuperando consensi in tutte le direzioni: centrodestra, Grillo, astensioni»: «Non parliamo solo ai gloriosi reduci di lunghe stagioni del passato. Vogliamo parlare a chi c’era, e coinvolgerlo. Ma anche a chi non c’era». Dice facendo riferimento alle primarie dell’anno scorso e alle persone «respinte ai seggi»: «Siamo stati bravi a farci del male». Renzi scrive che i democratici saranno «custodi del bipolarismo», che verranno «rispettati sempre i nostri competitor interni, perché non ci sono ‘fascisoidi’ nel nostro partito!», e «rottameremo innanzitutto le correnti». Scrive anche che serve «un partito che sappia comunicare bene perché la parola comunicazione non deve fare paura: chi non comunica è perduto».

Nella parte intitolata «il Pd deve cambiare l’Italia» si legge che «all’Italia non bastano piccoli aggiustamenti, ma serve una rivoluzione radicale», che «tutto ciò che otterremo dal recupero dell’evasione fiscale dovrà essere utilizzato soltanto per riduzione delle tasse», che «il Pd che noi vogliamo è il partito dei diritti» e «della legalità, che è un valore sempre, per tutti non solo contro uno».

Si legge infine nelle conclusioni: «Per cambiare verso propone per la guida del Pd, proponiamo Matteo Renzi, 38 anni, sindaco di Firenze dal 2009. Matteo è molto conosciuto per i suoi slogan, ma il suo slogan migliore è la concretezza delle cose realizzate da amministratore».

Pittella

In Italia non siamo riusciti a trovare sistemi e strumenti per gestire il cambiamento e l’innovazione e siamo ancora immersi in una crisi strutturale e profonda. Gli scambi tra imprese e imprese si sono ristretti considerevolmente, la circolazione del capitale sta interrompendosi in una fase di deflazione che sta causando l’abbassamento sia dei margini delle imprese che dei consumi degli italiani.

La crisi che aggredisce il nostro Paese non è soltanto economica ma anche etica, sociale e politica. Una crisi che ha portato l’Italia sull’orlo dell’abisso. Ma oggi è il momento per tornare a determinare le nostre possibilità

(…) È necessario un Partito democratico vivo ed energico, che deve saper essere campo largo delle forze progressiste italiane, un partito di ispirazione europea, aperto alla società e al confronto con l’associazionismo diffuso, una forza politica che renda protagonista ciascun militante nell’impegno per costruire uguaglianza ed opportunità. Il Partito democratico deve diventare un partito speranza, capace di mobilitare intelligenze, competenze e passioni, superando la cultura della contrapposizione e dell’indifferenza. Occorre una vera rigenerazione del partito sul piano culturale, progettuale e programmatico. Dopo la sconfitta alle elezioni politiche dello scorso febbraio ed avendo preso finalmente coscienza dei nodi irrisolti che ci trasciniamo dietro sin dalla nascita del partito, il nuovo momento che viviamo potrà essere la Bad Godesberg annunciata e mancata all’origine dell’ambizioso progetto che è il Partito democratico e finalizzare il nostro impegno alla costruzione di un’area autenticamente alternativa alla destra conservatrice.

(…) Il Partito democratico deve riappropriarsi della parola libertà, una libertà dei moderni che sappia relazionarsi con responsabilità, solidarietà e uguaglianza. In una dimensione empatica e per una sintesi superiore che riesca a riannodare i fili spezzati di una libertà sequestrata dalla destra interpretata soltanto come la chance di assecondare gli istinti di un individualismo esistenziale e sociale, inevitabilmente in conflitto con l’obiettivo del bene comune e dell’interesse generale.

Civati

Il Pd, oggi al governo in una coalizione innaturale e che assume sempre più i connotati di un disegno politico nato in un accordo di Palazzo anziché da una proposta elettorale, ha bisogno innanzitutto di ritrovare il proprio profilo culturale e politico, e nel farlo ha il dovere di ricostruire il popolo della sinistra facendo in modo di essere da questo attraversato: per chiudere un ventennio, ci vogliono libere elezioni democratiche, con una nuova legge elettorale, che avremmo potuto e dovuto già avere individuato. Prima ancora di selezionare i propri dirigenti (dai circoli al segretario) un congresso dovrebbe servire a dire chi siamo e cosa vogliamo fare quando siamo al potere e che rapporto avremo con esso.

(…) Un congresso è un patto che si rinnova con i propri iscritti ma è anche il processo con cui ci si contamina e si può crescere: al nostro esterno si agitano fenomeni e esperienze che ispirano la propria azione a quegli stessi valori a cui facciamo riferimento. Le proteste sociali dei sindacati, i comitati civici e le associazioni a tutela del territorio e dei beni comuni, il parallelo congresso di Sel che vorremmo fosse già con noi, i movimenti degli studenti, le innumerevoli esperienze di mobilitazione che trovano una sintesi nell’idea delle Costituzione come progetto da condividere ed attuare, tutti quei singoli che da soli si battono per una politica differen- te, per una società più giusta ed eguale, con tutti loro abbiamo il dovere di confrontarci e se possibile contaminarci. (…) Dobbiamo recuperare il senso del mondo intorno a noi, dopo averlo dimenticato per vent’anni e insomma perduto. Il movimento progressista è nato in Europa un secolo e mezzo fa con un’ispirazione e un’organizzazione fortemente internazionalista, dissoltasi poi nel corso di divisivi eventi storici. Si tratta di rafforzare il Partito del Socialismo Europeo, aprendolo alla “contaminazione” della cultura ecologista espressa dai Verdi Europei e ad alcune proposte radicali-riformatrici della Sinistra europea, nonché alle caratteristiche del progetto dell’Ulivo, che abbiamo affossato in Italia ed esportato in Europa soltanto in occasione della presidenza di Romano Prodi.

l’Unità 22.10.13