Latest Posts

Carlo Ginzburg: “perchè è un errore punire i negazionisti”, di Simonetta Fiori

«Quello contro il negazionismo è un disegno di legge inaccettabile. Reputo grave il modo dilettantesco con cui la classe politica l’ha riproposto, senza tenere conto delle serie obiezioni mosse in passato su questo tema». Carlo Ginzburg è lo storico italiano più conosciuto all’estero. Figlio di due ebrei illustri, Leone e Natalia, ha intercettato nelle sue vaste ricerche il tema del complotto e della persecuzione. «È una materia scottante e molto dolorosa. Ma proprio per questo non ho paura dell’aggettivo “freddo”: è mancata un’analisi distaccata, fredda, razionale su un provvedimento che rischia di produrre effetti gravi».
La nuova legge è ora affiorata in Parlamento in coincidenza di due fatti incrociati: la morte dell’aguzzino Priebke, seguita dalla vicenda tempestosa della sua sepoltura, e il settantesimo anniversario della razzia del Ghetto, con gli oltre mille ebrei condotti a morire.
«Sì, questo duplice contesto ha creato una forte emozione pubblica. Ma le emozioni non sono mai consigliere di buone leggi. E allora la prima operazione che dobbiamo fare è recidere il legame tra questo nuovo disegno di legge e i contesti immediati in cui è stato proposto».
Perché il disegno di legge non la convince?
«Vanno fatte due valutazioni diverse: una riguarda il principio e l’altra l’opportunità. Dico subito che a mio parere entrambe portano a giudicare in maniera negativa questo disegno di legge. Sul piano del principio, è inammissibile imporre per legge un limite alla ricerca. È un punto di principio che prescinde dal contenuto. Le tesi dei negazionisti sono ignobili dal punto di vista morale e politico e non costituiscono in alcun modo una provocazione sul piano intellettuale. Nessuno storico può essere indotto a rivedere le proprie argomentazioni sulla base di queste tesi. Però sul piano del principio non si possono porre dei limiti alla ricerca. E non sono ammesse eccezioni».
E le ragioni di opportunità?
«I negazionisti sono farabutti in cerca di pubblicità. Cercano un “martirio” a buon mercato e colgono ogni pretesto per farsi propaganda. Nei paesi in cui è stata adottata la legge, i tribunali sono diventati una formidabile cassa di risonanza delle loro tesi. Ma poi si aggiunge una seconda ragione di opportunità, e qui entriamo in un tersi
reno più delicato».
Quale?
«È quello che investe la ricerca storica. Parlo per esperienza diretta. Mi sono trovato, in un contesto accademico non italiano, a discutere un lavoro che ho definito, con un giudizio messo agli atti, “un caso di negazionismo felpato”, morbido. In esso non venivano formulate tesi negazioniste esplicite: però, attraverso una serie di distinguo, si avanzava una conclusione che andava implicitamente in quella direzione. Portare un caso del genere in tribunale sarebbe una follia. Se ne possono immaginare molti altri: la ricerca è fatta di argomentazioni che non s’identificano sempre con l’alternativa tra bianco e nero».
Poi quello del genocidio è un tema di discussione continua tra gli storici. Si fatica a trovare una nozione condivisa.
«Cosa distingue lo “sterminio” ? Sembra la traduzione tragica di un problema logico posto dai greci: il sofisma del sorite (o del mucchio) detto anche dell’uomo calvo. Se ti strappo un capello, diventi calvo? E se te ne strappo due? O tre? Ora, nel caso del genocidio, non si tratta di capelli immaginari ma di vite umane. A che punto scatta la nozione di genocidio? Mi fa orrore pensare che questo tipo di discussione possa finire in tribunale. Se poi qualcuno arriva a sostenere che quello che è successo in Europa tra il 1941 e il 1945 non è stato un genocidio, allora è inutile discutere: chi pronuncia queste affermazioni si autoesclude dalla comunità storiografica. Ma non si porta alla sbarra».
Il testo della legge è molto generico: punisce chi nega l’esistenza del genocidio ma anche dei crimini di guerra e di quelli contro l’umanità. Indro Montanelli, che ha a lungo negato l’uso del gas iprite in Etiopia, sarebbe finito in galera.
«Sul livello morale di Montanelli rinvio al libro, molto documentato, di Renata Broggini: Passaggio in Svizzera.
Certo quello che lei cita è un caso che avrebbe dato origine a un contenzioso giuridico assurdo. Non sono queste le cose da portare in tribunale. Ho l’impressione (ma posso sbagliare) che oggi gli storici italiani siano abbastanza compatti contro la legge. Non c’è unanimità, ma quasi. Anche per questo colpisce la quasi unanimità, ma di segno contrario, della classe politica».
Il dissenso grillino ha riguardato più la modalità di approvazione che il contenuto della legge. Qualcuno tra gli storici si domanda se il negazionismo vada penalmente condannato perché servirebbe a contrastare la possibilità della discrimilegge nazione e della persecuzione.
«Non c’è dubbio che l’antisemitismo dichiarato sia oggi molto più presente, in Italia, rispetto a dieci anni fa. Un antisemitismo complesso, in cui confluiscono sia una componente neonazista sia una componente di sinistra, che identifica il capitalismo con la finanza ebraica. Un libro recente di Michele Battini ci ricorda che questo antisemitismo di sinistra ha radici nell’Ottocento, tra i seguaci di Proudhon. E poi c’è una terza componente, più recente, che si nutre dell’ostilità alla politica di Israele nei confronti dei palestinesi. È una politica che mi ripugna: ferocemente ingiusta e (nel lungo periodo) tendenzialmente suicida. Ma l’antisionismo è stato ed è, molto spesso, una maschera dell’antisemitismo».
Questa pericolosa miscela agisce anche in altre parti d’Europa.
«In Italia però l’antisemitismo s’inserisce in un panorama più ampio, caratterizzato da un razzismo vergognoso che, diversamente da quanto succedeva in passato, è entrato a far parte del discorso pubblico. Basti pensare agli insulti contro la ministra Kyenge, che hanno fatto il giro del mondo. Oggi l’immagine dell’Italia nel mondo include anche questo. Potrebbero verificarsi episodi di razzismo ancora peggiori di quelli ai quali assistiamo: ma una che punisse il negazionismo non servirebbe a impedirli».
Adriano Prosperi ha sostenuto che sia la propaganda negazionista sia le leggi improvvide per combatterla sono sintomi di un problema italiano: non aver fatto i conti fino in fondo con la Shoah.
«I crimini compiuti dal nazismo sono stati di gran lunga superiori, per entità, a quelli compiuti dal fascismo. Ma anche il processo di elaborazione si è svolto, nei due paesi, in modo molto diverso. In Italia la Resistenza è stata usata come un alibi per rimuovere il passato. Anche in Germania, nel dopoguerra, c’è stata continuità col nazismo, in alcuni settori: l’università, la burocrazia. E il Sessantotto ha rappresentato una vera cesura: una resa dei conti con la generazione dei padri, compromessa col nazismo. Oggi, un fenomeno ripugnante come quello che si è verificato in Italia – un vero sdoganamento del razzismo – sarebbe impensabile in Germania».
Al di là del giudizio morale, un tratto che colpisce nel negazionismo è l’aspetto paradossale: a essere negato è uno degli eventi più documentati della storia umana.
«Il negazionismo si alimenta di molte cose: per esempio, del mito del complotto degli ebrei. Da quando in Francia, nel 1321, circolò la voce che i lebbrosi, istigati dagli ebrei, avevano cercato di avvelenare i cristiani, le versioni del complotto sono state innumerevoli, fino ai
Protocolli dei Savi Anziani di Sion e oltre. È un elemento che differenzia l’antisemitismo da altre forme di razzismo: nessuno ha mai parlato, credo, di complotti dei neri americani contro i bianchi. Ma dietro il fantasma del complotto si legge l’ambivalenza, il timore della superiorità attribuita agli ebrei. E di un complotto della lobby ebraica, ricca e potente, abbiamo sentito parlare anche di recente ».
Forse è anche per la sua ambivalenza che la teoria del complotto ebreo trova oggi terreno fertile tra i giovani impauriti di realtà depresse, sul piano economico e culturale. È un fenomeno che vediamo anche in Italia.
«Questo è vero. Basti vedere quel che succede in Ungheria. In una situazione di crisi profonda la proposta di un capro espiatorio preconfezionato può avere successo. Ma a questo pericolo non si risponde con una legge. Il terreno privilegiato per contrastarlo è la scuola».

La Repubblica 22.10.13

“La storia di Lea che sfidò le ‘ndrine”, di Silvana Mazzocchi

Picchiata, torturata e uccisa. Punita per aver osato trasgredire e ribellarsi ai vetusti codici delle ‘ndrine. Il suo corpo venne bruciato e le sue ossa frantumate in migliaia di frammenti. È Lea Garofalo, la testimone di giustizia per la cui morte la sentenza d’appello ha confermato nell’agosto scorso quattro ergastoli e distribuito una rosa di pene minori. I funerali con i suoi resti, ritrovati soltanto tre anni dopo grazie alle dichiarazioni un pentito, complice del suo ex compagno e degli altri suoi aguzzini, sono stati celebrati a Milano lo
scorso 19 ottobre. E lo stesso giorno la storia di questa donna coraggiosa che osò sfidare omertà e sottomissione e quella di sua figlia Denise, divenuta la principale accusatrice di suo padre, è arrivato in libreria con La scelta di Lea, la ribellione di una donna alla ‘ndrangheta (Melampo) firmato da Marika Demaria, la cronista che, per Narcomafie, il giornale dell’Associazione fondata da Don Luigi Ciotti, ha seguito con precisione e passione i processi di primo e secondo grado per l’omicidio della giovane donna.
Un simbolo potente Lea Garofalo, come «enorme», e lo sottolinea nella prefazione al libro Nando Dalla Chiesa, era stata la trasgressione compiuta dalla ex ragazza di Petilia di Policastro nei confronti dell’ambiente di provenienza della sua famiglia e del suo compagno Carlo Cosco, padre di Denise. Una donna che, per allontanarsi dal contesto di illegalità e morte in cui era cresciuta e per garantire un futuro migliore alla sua unica figlia, alza la testa, denuncia ed entra nel programma di protezione dello Stato. Con Denise, prima ancora bambina e poi adolescente, gira in lungo e largo l’Italia, cambia città e identità. E, quando, delusa e stremata dalla vita in eterna fuga, si allontana dal programma di protezione, trova in Libera un punto di riferimento. Presto però decide di tornare in Calabria; crede di non correre più rischi, (del resto le sue testimonianze non hanno prodotto alcun processo), ma sottovaluta le conseguenze dello sgarro compiuto, un’offesa che non prevede perdono. Prima tentano di rapirla nella sua casa di Campobasso. Infine, quando cede e va con Denise a Milano per farla incontrare con il padre che insiste per vederla, scompare. È il pomeriggio del 24 novembre del 2009. Poche ore dopo muore per mano del suo ex compagno. Ha appena trentacinque anni.
È Denise ormai quasi ventenne e che, con Lea ha condiviso orrori e paura, a testimoniare in aula già al processo di primo grado. E, quando ancora suo padre si diceva innocente, ha avuto il coraggio di accusarlo insieme ai suoi complici, con coraggio, lucidità e fermezza.
La scelta di Lea, racconta il contesto dove il delitto si è consumato, la forza della ribellione delle due donne, di una madre che, infranto ogni tabù, passa il testimone del coraggio alla figlia, perché sia fatta finalmente giustizia.
Lea Garofalo, simbolo del cammino di liberazione femminile contro i vetusti codici delle ‘ndrine e non solo, emerge nel libro di Marika Demaria, come la protagonista di una ribellione che già da tempo serpeggia nell’universo maschilista di cui la ‘ndrangheta è portabandiera. Ma è a Denise, che dopo il processo è tornata sotto protezione proprio come le accadde quando era bambina, e alle tante ragazze e ragazzi che fanno capo alle associazioni e ai gruppi antimafia o che sono stati assidui testimoni in aula durante i due processi, (per non lasciare Denise sola) che è affidata la speranza per il futuro.

La Repubblica 22.10.13

“Giallo sul decreto Monti. E sul blocco dei gradoni”, di Carlo Forte

È giallo sull’inabissamento dello schema di decreto presidenziale varato dal governo l’8 agosto scorso. E sul destino degli scatti di anzianità. Il provvedimento, che risale al governo Monti, aveva superato pressoché indenne il vaglio delle commissioni parlamentari e degli organi di controllo.

Ma poi, atteso in Gazzetta ufficiale, non se ne è saputo più nulla. E le disposizioni in esso contenute hanno preso nuovamente forma nel disegno di legge di stabilit à. Sebbene, stando alla bozza del provvedimento, con qualche modifica e qualche omissione.

Il decreto presidenziale, che è in attesa di essere pubblicato, nelle intenzioni del legislatore doveva essere un decreto di attuazione dell’art.16, comma 1, del decreto-legge 98/2011.

Il comma1, infatti, nel disporre la proroga fino al 2014 delle disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici anche accessori del personale delle pubbliche amministrazioni, delega il governo a disporre la normativa di attuazione. L’esecutivo, però, è andato oltre la delega. Perché nella bozza di decreto ha introdotto delle disposizioni innovative. Il provvedimento prevede il blocco della contrattazione collettiva per altri due anni, senza possibilità di recupero. In più anche la cancellazione dell’indennità di vacanza contrattuale per il 2013 e per il 2014. E infine dispone il blocco dei gradoni per un altro anno, cancellando l’utilità del 2013, per la scuola. In buona sostanza, dunque, il governo, anziché limitarsi ad individuare le disposizioni da prorogare e a disporre il differimento dei termini, ha scritto delle nuove disposizioni. Pertanto, se il regolamento fosse entrato in vigore, così come era stato concepito, avrebbe fatto la fortuna dei ricorsifici.

L’errore, se di errore si tratta, comunque potrebbe essere sanato dalla Stabilità. L’art. 11 della bozza del disegno di legge interviene sulle stesse materie dello schema di decreto.

In particolare, il primo comma modifica il comma 17 del decreto legge 78/2010. E lo fa nel senso di prorogare fino al 2014 il blocco della contrattazione collettiva. Sempre stando alla bozza del cdm, il ddl non tocca l’indennità di vacanza contrattuale fino al 2015, lasciando inalterata la parte finale del comma 17. Che prevede l’erogazione dell’indennità in assenza di rinnovo del contratto. Il disegno di legge lascia inalterata anche la decontrattualizzazione delle relative procedure disposta dalla Finanziaria del 2010. E dunque, l’amministrazione dovrà versare gli importi in busta paga senza attendere la previa stipulazione di un accordo con i sindacati.

L’ipotesi di provvedimento non fa alcuna menzione di un eventuale ulteriore blocco dei gradoni, tramite la cancellazione dell’utilità del 2013.

Se l’ulteriore stop alla contrattazione nel pubblico impiego si traduce in una perdita del potere di salari, il blocco dei gradoni costituirebbe invece una vera e propria decurtazione delle retribuzioni.

Il disegno di legge di stabilità, sempre nella bozza di questi giorni, prevede tra l’altro una riduzione generalizzata del 10% delle risorse destinate a finanziare lo straordinario nelle amministrazioni statali.

Qualora tale riduzione dovesse essere applicata direttamente al fondo di istituto, ciò comporterebbe una riduzione di circa 90 milioni di euro delle risorse attualmente disponibili. Ma ciò non comprometterebbe comunque la possibilità di finanziare il recupero del 2012 ai fini dei gradoni, di cui le parti stanno discutendo in questi giorni.

Si tratta dell’ultima tranche da recuperare dopo la cancellazione dell’utilità del 2010, del 2011 e del 2012 disposta dal decreto legge 78/2010. Il 2010 è stato recuperato con i fondi residuati dai tagli al personale operati con il piano programmatico dell’art.64. E il 2011 è stato reintegrato con una parte dei fondi di cui sopra e altre risorse attinte da quelle per il finanziamento del fondo delle istituzioni scolastiche.

da ItaliaOggi 22.10.13

“La scuola allo sciopero breve”, di Alessandra Ricciardi

Quattro ore di sciopero con manifestazioni da gestire e mettere in campo da qui a met à novembre a livello territoriale. Mezza giornata di astensione dal lavoro per protestare contro la legge di Stabilità del governo Letta, trasmessa ieri dal governo al senato, che nella scuola potrà essere ridotta anche a una sola ora di sciopero, a inizio oppure alla fine delle lezioni.

Si deciderà sempre sul territorio. Al centro delle contestazioni il blocco dei contratti dei dipendenti pubblici, di cui la scuola rappresenta con i suoi 900 mila dipendenti il settore più corposo. A proclamare la mobilitazione i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, rispettivamente Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Obiettivo: ottenere la modifica della legge di Stabilità in parlamento, attraverso un pressing continuo della piazza.

Nei prossimi giorni i sindacati chiederanno un incontro con i capigruppo di camera e senato per «spiegare le nostre ragioni e convincerli della necessità di introdurre dei cambiamenti». A metà novembre le tre sigle riuniranno i direttivi per fare il punto sugli esiti della protesta.

Per i dipendenti pubblici, la Stabilità porta un blocco dei contratti fino a tutto il 2014, la riduzione degli straordinari, la rateizzazione del pagamento del Tfr. Con una riprogrammazione del pagamento dell’indennità di vacanza contrattuale che lascia presagire un blocco degli stipendi ancora più esteso.

«Dopo 5 anni di fermo del contratto e 350 mila posti tagliati nel pubblico impiego, la spesa pubblica continua a crescere», spiega il segretario della Cisl scuola, Francesco Scrima, «questo dimostra che non è la ricetta di cui abbiamo bisogno. Sono altri gli sprechi da tagliare e le rendite su cui intervenire». Autorizzare il rinnovo del contratto non solo sotto il profilo normativo «ma anche economico e garantire il pagamento degli scatti di anzianit à», è la richiesta sintetizzata da Massimo Di Menna, leader della Uil scuola. Gli scatti rappresentano l’unica forma di progressione stipendiale per una categoria che ha medie retributive tra le più basse in Europa: costano circa 300 milioni di euro l’anno per lo stato e negli ultimi due anni sono stati autofinanziati dal settore in larga misura grazie ai risparmi frutto dei tagli della riforma Gelmini. «Serve un’inversione di tendenza generale sui settori della conoscenza», ribadisce Mimmo Pantaleo, numero uno della Flc-Cgil, «la scuola non può essere importante per il governo solo a parole».

La legge di Stabilit à, ha detto la Camusso, ha il peccato originale di «non determinare il cambiamento necessario, continuiamo ad essere il solo paese in recessione e, soprattutto, continuiamo a perdere il lavoro». Il segretario della Uil Angeletti ha proposto: «Rivedere la tassazione sulle rendite finanziarie e operare un’operazione di redistribuzione fiscale a favore di lavoratori e pensionati». Allargare la riduzione del cuneo fiscale, per esempio, sul lavoro dipendente, richiederebbe però dai 5 ai 10 miliardi in più. Trovare il bilanciamento giusto e possibile sarà la battaglia dei partiti in parlamento, battaglia nella quale il sindacato vuole esercitare il suo ruolo di rappresentanza.

da ItaliaOggi 22.10.13

“L’unica strada possibile”, di Vincenzo Visco

La legge di stabilità è stata accolta inizialmente in modo favorevole perché, si è detto, «iniziava un percorso innovativo», per poi essere progressivamente sommersa da critiche di vario genere. In verità si ha l’impressione che i critici ignorino, o non si rendano conto, che la legge di stabilità appena varata era l’unica possibile nella situazione data e considerati gli equilibri politici su cui si regge e si basa il governo Letta. Un governo di grandi intese, di natura politica (e non tecnica) non può che produrre nelle sue proposte un equilibrio derivante dalle diverse e talvolta opposte visioni dei componenti la coalizione. Non era lecito quindi attendersi novità di rilievo o riforme radicali che avrebbero provocato polemiche, recriminazioni, fratture e difficoltà per gli attuali equilibri politici. Del resto se la stabilità è un valore, come è stato più volte affermato e ricordato, e come realisticamente occorre riconoscere, sarebbe insensato metterla a rischio in una situazione che rimane precaria e ancora soggetta ai ricatti e ai colpi di coda di Berlusconi. Sempre che sia possibile evitare che la stabilità diventi immobilismo. In altre parole una grande coalizione in Italia sembra avere l’effetto opposto a quello che le attribuiscono i suoi sostenitori, e cioè quello di rendere più difficili le riforme.

È probabilmente per questi motivi che dalla lettura della legge di stabilità sembra emergere l’assenza di una strategia coerente idonea ad affrontare la crisi attuale. Infatti, se, come sembra evidente, l’economia italiana, oltre ai noti e complessi problemi strutturali, soffre di una crisi di domanda provocata dal crollo dei consumi privati e degli investimenti (pubblici e privati) in seguito alle durissime misure di austerità introdotte dal precedente governo, sarebbe stato logico concentrare le poche risorse disponibili su una più rilevante riduzione dell’Irpef e su un maggiore allentamento del patto di stabilità interno in modo da consentire agli enti locali di accelerare la spesa per investimenti diffusi sul territorio e di immediata realizzazione. E da questo punto di vista appare anche discutibile aver disperso una certa quantità di risorse in mille rivoli di misure di sicura rilevanza politica ma incerto impatto economico.
Se invece si fosse ritenuto più utile sostenere la competitività delle nostre imprese esportatrici, le risorse andavano concentrate sulla riduzione del costo del lavoro per le imprese (cuneo). Sarebbe stato un errore, sia perché la misura non avrebbe potuto essere selettiva per ragioni comunitarie e quindi sarebbe andata a beneficio di tutte le imprese e non solo di quelle esportatrici con scarsi risultati pratici, sia perché le esperienze recenti in proposito (e cioè le misure di riduzione del cuneo fiscale del governo Prodi e del governo Monti) non sembrano aver prodotto risultati tangibili, sia perché si tratta di una misura che potrebbe risultare utile dopo che abbia avuto inizio una vera ripresa, ma non per promuovere la ripresa stessa.

Aver seguito, contemporaneamente due strategie diverse, se non opposte, produce l’effetto di ridurre il possibile impatto positivo della manovra sulla crescita.

Va ancora considerato che la manovra presenta alcune problematicità di copertura dal momento che nei prossimi anni si prevede una riduzione della spesa pubblica per 10 miliardi facendo affidamento su una spending review tutta da costruire e da verificare e sulla cui effettiva efficacia nel contesto politico italiano è lecito dubitare. Ciò ha reso necessarie l’introduzione di una clausola di salvaguardia (secondo il discutibile approccio di Tremonti e Berlusconi) che prevede, nel caso in cui i tagli non si materializzino, un aumento semiautomatico di alcune imposte. Sono poi previste alcune entrate straordinarie e una tantum di incerto ammontare, e quindi correttamente non quantificate, di cui già si discute l’utilizzazione (e le proposte vanno tutte in direzione di un aumento della spesa corrente o di riduzione delle imposte), mentre esse dovrebbero essere dedicate interamente alla riduzione del debito pubblico sia per impegni comunitari assunti, che per allentare le pressioni e lo scetticismo dei mercati nei confronti della nostra solvibilità finanziaria.

In tale situazione desta molta preoccupazione l’atteggiamento assunto da più parti volto a richiedere nuovi interventi di spesa o di tagli fiscali sottolineando l’insufficienza della manovra: rispetto a cosa? Rispetto ai desideri e alle fantasie di ciascuno, dal momento che i vincoli di bilancio sono quelli che sono e potranno essere allentati solo gradualmente e se le cose andranno per il verso giusto, cosa niente affatto certa. È impressionante a questo proposito la memoria corta della nostra classe dirigente e il rifiuto di assumersi le proprie responsabilità. Infatti, se la situazione non viene mantenuta sotto controllo il rischio di dover tagliare salari e pensioni in essere, spesa sanitaria e servizi locali sotto il dictat della troika è tutt’altro che remoto.
Vi è infine un’ultima osservazione da fare: l’introduzione della nuova imposta sui servizi consentirà nel 2014 di recuperare l’intero gettito dell’Imu sulla prima casa a carico sostanzialmente delle seconde case e degli affittuari. Tuttavia per il 2013 il problema rimane: si tratta di circa 3 miliardi per i quali è stata promessa l’eliminazione di ogni pagamento. Finora nulla è stato previsto e quindi a dicembre l’imposta dovrebbe essere pagata. E poiché risorse aggiuntive non esistono, la misura non potrà essere finanziata, a meno di non superare il tetto del 3% di deficit. Né sembra percorribile la linea da alcuni prospettata di trasformare la rata Imu di dicembre in un acconto della nuova imposta dal momento che l’Imu è una imposta reale e non personale, sicché l’obbligazione tributaria relativa a un dato immobile potrebbe riguardare un proprietario diverso da un anno all’altro (trasferimenti di residenza, vendita dell’immobile, ecc) e qui un acconto risulterebbe inapplicabile. Ne deriva che a breve termine sono prevedibili ulteriori fibrillazioni nella maggioranza che potrebbero fungere da pretesto per una nuova crisi politica.

L’Unità 22.10.13

“Giù le mani dalla sanità”, di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini

Mentre negli Stati Uniti si è consumato uno scontro feroce tra i democratici e l’ala più estrema della destra repubblicana sulla storica riforma sanitaria del Presidente Barack Obama, in Italia il governo ha deciso saggiamente di non procedere lungo la strada di ulteriori tagli alla spesa per la sanità, sebbene fossero in atto pressioni pesantissime in tal senso.
L’attacco alla sanità pubblica nasce dalla crisi dei bilanci statali della maggior parte dei paesi avanzati, una crisi che sta spingendo inesorabilmente verso l’adozione di politiche di drastico contenimento della spesa. E poiché è diffusa la convinzione che la sanità sia essenzialmente una voce di costo da ridurre, il diritto alla tutela della salute è messo sempre più a rischio. In Italia ciò potrebbe aprire la strada ad un nuovo sistema, peggiore e profondamente iniquo. Dobbiamo tener presente che in questa fase di crisi, con 8 milioni di cittadini in povertà e circa 15 milioni a rischio di esclusione sociale, la sanità pubblica sta svolgendo un ruolo fondamentale di ammortizzatore sociale. Oggi la componente sanitaria copre circa il 25% della spesa complessiva per prestazioni di protezione sociale erogate dalle amministrazioni pubbliche, dopo la previdenza che ne rappresenta la componente più rilevante con il 65%. Inoltre, l’articolo 32 della Costituzione Italiana, nel sancire la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, obbliga, di fatto, lo Stato a promuovere ogni opportuna iniziativa utile alla migliore tutela della salute. Ma da diversi anni in Italia sono in atto tendenze preoccupanti: nel 2011 la spesa sanitaria pubblica pro capite è stata del 22% inferiore alla media dei principali paesi europei, mentre la spesa farmaceutica pro-capite è stata del 14,5% al di sotto della media con un andamento in controtendenza rispetto agli altri paesi dell’Unione. L’unico aspetto positivo riguarda la gestione dei conti della sanità italiana: dal 2005 al 2011 il disavanzo di esercizio è passato da 5,7 miliardi a 1,3 miliardi di euro. La fetta più grossa del disavanzo è riconducibile a cinque regioni (Liguria, Lazio, Campania, Calabria e Sardegna): è qui che si concentra oltre l’87% del deficit nazionale.
Ora, nessuno mette in dubbio che la sanità pubblica debba essere modernizzata e debba diventare più efficiente, ma è molto discutibile che ciò possa essere ottenuto attraverso una pesante restrizione della spesa, che metterebbe a rischio il funzionamento degli ospedali e la capacità di offrire un’assistenza adeguata alle fasce sociali più deboli.
Diversa è la situazione negli Stati Uniti, dove l’estrema destra repubblicana ha cercato di sabotare con tutti i mezzi la nascita di un forte sistema sanitario pubblico. L’occasione per sferrare l’attacco frontale è stata fornita dalla necessità di alzare il tetto dell’indebitamento federale, pari a 16.700 miliardi di dollari, per continuare a finanziare le spese governative e per rispettare gli impegni con i creditori. In cambio dell’innalzamento del tetto del debito, i repubblicani avrebbero voluto delle modifiche della riforma sanitaria che, nell’immediato, ne avrebbero bloccato l’attuazione e, nel medio-lungo periodo, ne avrebbero svuotato la portata. Ricordiamo che la riforma sanitaria di Obama permetterà a trentatré milioni di americani che ne sono privi di avere un’assicurazione sulla salute. Di questi, 17 milioni saranno associati a Medicaid, l’assistenza pubblica per i poveri; mentre altri 16 milioni fruiranno di una sovvenzione pubblica tramite un credito d’imposta correlato al livello di reddito. Per concludere, siamo convinti che in questa fase di crisi la priorità non sia quella di ridurre ulteriormente il finanziamento pubblico alla sanità, ma quella di potenziare gli investimenti pubblici per la modernizzazione delle infrastrutture ospedaliere, per l’innovazione delle tecnologie sanitarie, per la formazione professionale e per gli interventi di diagnostica e prevenzione. Si tratta di una strategia che non solo permetterà di aumentare l’efficienza della sanità pubblica, ma consentirà anche di offrire maggiore protezione sociale alle fasce più deboli, condizione fondamentale per rilanciare i consumi e quindi la produzione e l’occupazione nel nostro paese.

La Repubblica 22.10.13

“Il balletto delle coperture mette a rischio il Dl istruzione”, da La Tecnica della Scuola

Il provvedimento (n. 104 del 12 settembre scorso) che prevede tra l’altro il cosiddetto welfare dello studente, norme da hoc per i dirigenti scolastici, fondi per ridurre la spesa per i libri di testo, la lotta alla dispersione scolastica e la tutela della salute a scuola, dovrebbe essere licenziato questa settimana dalla commissione Cultura della Camera per poi passare all’Aula di Montecitorio con il rischio di lasciare al Senato solo due settimane per la seconda lettura e la conversione in legge, che dovrà arrivare prima dell’11 novembre prossimo.
Tuttavia, a parte questo travagliato iter “temporale”, il Sole 24 ore pubblica che ci sono ben altri nuvoloni. Tra questi da riparare c’è quello della copertura del decreto legge in parte assicurata dall’aumento delle aliquote di accisa sulla birra, sui prodotti alcolici intermedi e sull’alcol etilico. Un aumento che, secondo quanto prevede la relazione tecnica all’articolo 25 del decreto d’urgenza, dovrà garantire maggiori entrate erariali per 13,3 milioni nel 2013, 147,8 milioni nel prossimo anno, nonché 229,4 milioni per l’anno 2016 e 224, 6 milioni a decorrere dall’anno 2017.
A chiudere l’ombrello ci sarebbe pure l’intervento del relatore al decreto legge, Giancarlo Galan (Pdl), tanto da spingerlo a presentare un emendamento che sostituisce integralmente le coperture. Ma questo parapioggia, scrive sempre Il Sole, potrebbe rilevarsi anche peggio.
L’emendamento Galan, infatti, evitando l’aumento delle accise, dovrebbe garantire le corrispondenti risorse indicate dal Governo nel Dl attraverso l’applicazione dell’Iva al 22% a quasi tutti i servizi resi da Poste Italiane senza possibilità di rivalsa sul cliente e quindi accollandosene il relativo costo.
Entrate insufficienti per l’Erario
Se da un lato l’emendamento Galan appare in linea con il parere reso dalla commissione Finanze della Camera, dall’altro la proposta di puntare sull’aumento dell’Iva al 22% sui prodotti postali non determina gli effetti finanziari attesi, ossia le maggiori entrate per l’erario occorrenti per compensare l’eliminazione degli aumenti delle accise, mentre la modifica prospettata con l’emendamento Galan esporrebbe l’Italia alle censure comunitarie ai sensi dell’articolo 258 Tfue.
È opportuno ricordare infine, dice sempre Il Sole 24 Ore, che l’emendamento Galan sulle coperture, come detto, ricalca in toto un emendamento che la scorsa estate in occasione del Dl n. 76 ha già subito lo stop in partenza della Commissione Bilancio di Palazzo Madama per i maggiori oneri che generava e quindi non ritenuto in grado di assicurare le risorse attese.
Una questione di non poco conto, se si considera che il provvedimento arriverà, come indicato, all’esame del Senato quasi al limite del tempo massimo per la conversione in legge e quindi con poche possibilità di essere modificato per una terza lettura. Ma, nel caso in cui dovesse passare alla Camera la proposta Galan (anche se va detto che la Commissione Bilancio della Camera ancora si deve esprimere), di fronte ad una disposizione che la Commissione Bilancio del Senato ha ritenuto contraria all’articolo 81 della Costituzione, una terza lettura sarebbe inevitabile, con tutti i rischi di decadenza del decreto “istruzione”.

La Tecnica della Scuola 22.10.13