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“Due scandali della democrazia”, di Ezio Mauro

Ma in quale democrazia abbiamo vissuto in questi ultimi anni? Se lo chiedono probabilmente i cittadini americani, tedeschi e francesi, non se lo domandano gli italiani. Il Datagate, con lo spionaggio americano che attraverso la National Security Agency esonda dai confini della sicurezza attaccando il mondo degli affari e della finanza europea, infiltra le ambasciate di un Paese alleato, fino ad intercettare il cellulare di Angela Merkel, esplode in mezzo all’Occidente spezzandolo in due come non erano riusciti a fare né la crisi né la guerra fredda incrinando la sua stessa identità morale.
Non è infatti lo spionaggio interno ad un’alleanza l’elemento più grave. È che tutto questo sia maturato nel grembo del mondo occidentale, che dopo aver perso con l’Urss il nemico ereditario che lo definiva per differenza, e non avendo ancora trovato un vero sfidante nei competitor emergenti in Asia e Sudamerica, aveva in questa fase l’occasione per ritrovare una compiuta identità e una piena coscienza di sé come la terra della democrazia dei diritti e della democrazia delle istituzioni. Proprio questa presunzione identitaria – in nome della quale si è attraversato il Novecento, e oggi si risponde alle sfide del terrorismo internazionale – viene incrinata dall’abuso di autorità e dall’abuso di sovranità che gli Usa di Obama realizzano attraverso l’uso improprio dello spionaggio della Nsa. Non vale il movente della sicurezza, che certamente dopo l’11 settembre spinge la Casa Bianca e le sue agenzie ad uno sforzo eccezionale di prevenzione e di deterrenza a tutela del Paese attaccato per la prima volta nelle Torri e nel Pentagono, uno sforzo che vista la globalità della minaccia non può che essere universale e senza confini. E tuttavia, come abbiamo sempre detto, vivere in democrazia obbliga terribilmente. Perché se le democrazie hanno il dovere – esercitando come Stati il monopolio della forza – di garantire la sicurezza nazionale, hanno anche la necessità concorrente di fare questo rimanendo se stesse, senza sfigurarsi nei principi fondamentali fino ad assomigliare alla caricatura deformante che ne fa il terrorismo.
La coppia diritti-sicurezza, oppure libertà e forza, scricchiola sempre nei tempi di crisi, sotto attacco. Dentro la legittima paura, di cui sia lo Stato democratico che la politica devono tener conto, e dentro l’ossessione securitaria (che è un’ideologizzazione della paura) il cittadino isolato nella solitudine repubblicana del contemporaneo chiede protezione prima di tutto, il che non è molto diverso dal chiederla ad ogni costo, anche con sistemi da “Dirty Hands”, come dice Michael Walzer, perché sporcano le mani dei governi. Ma la democrazia deve credere che è possibile rispondere all’aspettativa di sicurezza conservando anche nei tempi di queste guerre bianche della globalizzazione i principi che si professano nei tempi di pace e di tranquillità.
Il modo per farlo è ancorare la funzione di governo alla regola, così da evitare abusi di sovranità: regola costituzionale all’interno, regola di diritto internazionale all’esterno. Dunque regola democratica. Che si basa su un principio: la democrazia non può essere indifferente al percorso, alle procedure e agli strumenti che utilizza per raggiungere i suoi fini, perché non contano solo questi ultimi, e l’efficacia per raggiungerli. No. La democrazia al contrario deve continuamente vigilare sulla compatibilità dei mezzi rispetto ai fini, sulla coerenza dei mezzi con i principi che professa.
Solo così, peraltro, il processo democratico di
decisione può venire “controllato” dai cittadini, e non viene confiscato e oscurato nei suoi passaggi- chiave, per mostrare alla pubblica opinione soltanto il risultato finale, ottenuto chissà come, e con mezzi che vengono sottratti al giudizio, come se non ne facessero parte. La democrazia pretende che anche le sue fragilità, le sue debolezze, vengano denunciate, evidenziate e “curate” alla luce del sole perché soltanto in quella luce vive e sopravvive il concetto di cittadinanza. E perché l’opinione pubblica è intrinseca all’identità dell’Occidente, e quell’opinione chiede conoscenza e trasparenza, mentre non accetta che la decisione si sposti in luoghi segreti, oscuri e separati. In buona sostanza, in democrazia il sovrano è legittimo finché è democratico, cioè consapevole di essere soggetto alla regola. Altrimenti, deve rendere conto dell’abuso di sovranità e di potere. Proprio questo sta accadendo tra l’Europa e Obama.
La stessa cosa non sta accadendo in Italia. Qui l’inchiesta giudiziaria di Napoli e la decisione del Gup di rinviare a giudizio per corruzione Berlusconi e il suo “uomo di Stato in incognito”, cioè il faccendiere Lavitola, per aver “comperato” con tre milioni un senatore nel 2008, convincendolo ad abbandonare la maggioranza guidata da Romano Prodi mettendola in crisi, svela qualcosa di più di un abuso di potere. Rivela una violenza alla democrazia, che ha modificato la rappresentanza popolare decisa dal voto dei cittadini, deformando il rapporto tra maggioranza e opposizione e deviando il corso della legislatura. Tutto è avvenuto nell’ombra, in quanto l’“Operazione Libertà”, come la chiamava la fantasia di Arcore, era inconfessabile in pubblico. E si capisce perché. Questa operazione infatti si fonda su uno dei cardini dell’anomalia berlusconiana, quello strapotere economico (costituito anche sui 270 milioni di fondi neri portati alla luce dalla sentenza definitiva di condanna nel processo Mediaset) che consente ad un leader politico di alterare un mercato delicatissimo come quello del consenso, già adulterato dallo strapotere mediatico, che squilibra a destra ogni campagna elettorale, nell’indifferenza di tutti.
Ora, qui con ogni evidenza non c’è nessuna scusa che chiami in causa la sicurezza nazionale: se mai, quella personale del leader che visto ciò che sa di se stesso, cerca riparo nell’accumulo improprio di potere politico per costruirsi uno scudo istituzionale illegittimo. Né si può dire che la maggioranza di sinistra in quegli anni era così gracile e incerta che sarebbe morta da sola: è possibile, ma in democrazia c’è una differenza capitale tra un normale processo fisiologico di deperimento – che fa comunque parte dell’autonomia politica e parlamentare – e un assassinio di governo per avvelenamento, che fa parte invece dell’eccezionalità criminale.
Naturalmente il processo avrà il suo corso. Ma intanto c’è non solo il rinvio a giudizio di un ex Premier per un reato infamante, c’è la condanna per patteggiamento del parlamentare corrotto, che è diventato il principale e pubblico accusatore, e c’è la lettera dello “statista incognito”, cioè Lavitola, che presenta il conto ricattatorio delle sue prestazioni, enumerandole e magnificandole.
Quest’ultima vergogna nazionale è talmente clamorosa che sta facendo traboccare il vaso fragile della maggioranza e induce in queste ore un Berlusconi traballante a pensare allo strappo di governo e alla crisi, se avrà ancora i numeri. Ma il punto non è nemmeno più questo. Perché non si può aspettare che sia Berlusconi a valutare la gravità di quanto emerge a Napoli, senza che la politica, le istituzioni, i suoi antagonisti culturali e storici (cioè la sinistra) diano un nome a quanto sta emergendo e diano un giudizio. Senza che si domandino – incredibilmente – in quale Paese abbiamo vissuto in questi anni. Senza che incalzino il protagonista di questa vicenda chiedendogli di spiegare al Paese come può restare in scena – politicamente, non giudiziariamente – con un’accusa così vergognosa e circostanziata. Senza trarre le conseguenze davanti ai cittadini di una cultura politica che comporta questa pratica, la quale sconta un abuso permanente, nel segno della dismisura come fonte di potere illegittimo e dell’onnipotenza che si crede impunita.
Se le larghe intese devono silenziare la libera coscienza delle istituzioni e dei partiti, allora la stabilità diventa una ragnatela, non una risorsa. Non si tratta di anticipare sentenze. Basta molto meno per pretendere un rendiconto politico. Basterebbe una nota d’agenzia con poche parole: «Oggi il presidente del Consiglio ha avuto una conversazione telefonica con il professor Romano Prodi». Persino questo Paese capirebbe.

La Repubblica 25.10.13

“Un attacco alla democrazia”, di Michele Prospero

Per Berlusconi i guai giudiziari non finiscono mai. La lunga “notte delle procure” continua e il Cavaliere affonda, sempre infilzato in punta di diritto. L’ultimo graffio arriva da Napoli: rinvio a giudizio per compravendita di senatori. Il quadro degli eventi diventa così, per lui, sempre più drammatico. Il rinvio a giudizio di ieri segna infatti un salto qualitativo. La vicenda processuale avrà i suoi tempi ma la sostanza politica però è già nitida. Si profila un attacco al cuore dello Stato. Un colpo che pare persino più grave, se confermato, della sfilza di reati cui già è incappato miseramente per accumulare ricchezza. L’alterazione della funzionalità degli organi costituzionali, con la vile mediazione del pagamento in contanti, è il frutto di una terribile strategia distruttiva che svela la fragilità di una democrazia malata dinanzi a un capitalista che si impossessa dello Stato e lo privatizza.

Non si tratta degli episodi di normale trasformismo parlamentare, dei poco edificanti cambi di casacca dettati da opportunismo, o delle prosaiche trame che sempre sorreggono gli scambi politici. Qui si narra di altro, non di bassi compromessi e di sconce trame politiche, che sempre scandiscono le vicende dei parlamenti quando le idealità sonnecchiano. È in questione l’intervento spudorato del denaro fatto annusare per determinare la caduta dei governi legittimi.

Si ritrova con le spalle al muro, il Cavaliere. E l’incalzare impietoso delle sentenze lo lascia inerme, senza alcuna realistica via di scampo. Berlusconi è un animale ferito, sempre più solo nella sofferenza che precede il commiato. Vede svanire i segnali della grande potenza che fu. E proprio questo esaurimento dell’irresistibile potere antico lo getta sempre più nel rancore. Ce l’ha a morte con le sue truppe. Con quelli che avrebbero dovuto assisterlo sino al sacrificio estremo e invece marciano in ordine sparso. Vorrebbe trovarseli tra le mani i colonnelli da lui stesso nominati e che ora tentano delle comode vie di fuga per sopravvivergli dopo l’evento annunciato.
Ma è solo la cupa rabbia dell’impotenza. Senza un piano, Berlusconi ha deciso di resistere alla cieca scagliandosi contro la furia del destino che sordo lo travolge. Ma avvertirà ben presto che lo scudo della sua antica sovranità è troppo pieno di buchi per resistere ai colpi dei nemici. Ed è troppo visibilmente ammaccato per incutere timore reale ai suoi amici, che ora lo abbandonano in fretta. Modi per sopravvivere agli eventi nefasti, come politico di rango, non ce sono. Si illude se si ostina a cercarli. Le vie della leadership non sono infinite, neanche per un unto del Signore. Un politico deve saper gestire con razionalità anche la sua caduta. Dovrebbe cioè percepire quando è arrivato il tempo di lasciare ad altri il comando, conservando la facoltà di condizionamento e il potere di consiglio. E invece Berlusconi non vuole proprio sentire i richiami della ragione, reagisce isterico al duro principio di realtà. Non esita a tentare i più subdoli colpi di coda per coinvolgere tutti quanti nella sua inevitabile rovina. Ma la sconfitta, quando è senza alternative, va riconosciuta e accettata. Non si scappa dallo scacco che pare definitivo. Neanche l’accusa di aver sfregiato con l’odore dell’oro la democrazia pluralista indurrà Berlusconi a mettersi da parte. Anzi, farà di tutto per far saltare ciò che resta del sistema parlamentare e dell’ordinamento costituzionale. E però qui il discorso scavalca il Cavaliere. Con troppa disinvoltura gli uomini di Alfano e Quagliariello hanno deposto le asce di guerra per tentare delle impossibili ricuciture con il capo. Dopo il gesto di rivolta hanno subito presentato il ramoscello di ulivo. Ma questo procedere ambiguo e timoroso è solo un modo per consegnarsi inermi al supplizio.

Il proposito di salvare tutto il partito, e di collocarlo con le sue forze intatte in una nuova stagione, è fallito. Quando era giunto il tempo per farlo, Berlusconi non ha voluto saperne di gestire questo progetto di istituzionalizzazione di una creatura carismatica irregolare. Solo lui avrebbe potuto imporre ai suoi colonnelli il percorso verso una creatura mostruosa, metà aziendale e metà politica, e cercare di esercitare con i suoi mezzi il controllo. Questo proposito di conservare le forze di un tempo e dispiegarle in una nuova offerta politica è ormai solo un sogno svanito.

Per impedire che Berlusconi faccia ancora del male, i suoi antichi colonnelli, quelli che fanno continue professioni di fede in senso liberale, dovrebbero separare in fretta il loro destino dal Cavaliere ingombrante. Quello che è certo è che la precaria stabilità non può permettersi lo spettro di una convivenza con Berlusconi fotografato mentre morde la gracile democrazia costituzionale.

L’Unità 24.10.13

“Il nuovo lavoro dell’Occidente”, di Robert B. Reich

Negli Stati Uniti e in altre economie avanzate, la percentuale di pil che va ai salari continua a contrarsi, mentre la fetta che va ai profitti aumenta. Quasi tutti i guadagni economici realizzati in America dalla fine della crisi sono andati all’1% più ricco della popolazione, che possiede il grosso degli asset finanziari, mentre il 90% meno abbiente si è ulteriormente impoverito. I singoli stati dell’Unione si sono a loro volta gettati nella mischia, cercando di attrarre investimenti e posti di lavoro – spesso a spese degli stati vicini – con tasse minime, alti sussidi, normative leggere e bassi salari .
Questo, tuttavia, non è un destino ineluttabile. Le nazioni (America inclusa) hanno la possibilità di recuperare un po’ di potere contrattuale rispetto al capitale globale, per esempio rifiutando il gioco al massacro reciproco e unendo invece le forze per fissare requisiti comuni di accesso ai propri mercati. Dopo tutto, il capitale transnazionale dipende dai consumatori e l’accesso a grandi mercati – come gli Stati Uniti e l’Unione Europea – è essenziale alle multinazionali per generare profitti alti e stabili. Perché la Apple, ad esempio, deve poter accedere al mercato statunitense se si rifiuta di pagare la sua giusta quota di tasse necessarie a finanziare l’istruzione e le infrastrutture di cui gli americani necessitano per accrescere il loro tenore di vita? Gli americani possono benissimo smettere di comprare Apple e acquistare invece i prodotti della concorrenza. Analogamente, non ha senso che stati e regioni all’interno dei singoli paesi competano tra loro per i posti di lavoro e gli investimenti; queste pratiche non fanno che rafforzare il capitale globale e indebolire il potere contrattuale dei governi; e non generano nuova occupazione e investimenti, ma si limitano a spostare la prima e i secondi da un luogo all’altro. Dovrebbero essere proibite per legge.
Anche l’Unione europea potrebbe agire da negoziatore o mediatore con le multinazionali per conto dei propri cittadini, se condizionasse l’accesso al suo enorme e lucroso mercato al versamento di tasse proporzionate ai profitti generati in loco e alla realizzazione, in misura analoga, di investimenti produttivi (incluse ricerca e sviluppo).
Qualsiasi iniziativa mirante ad accrescere la forza di uno Stato o di un gruppo di Stati rispetto alle multinazionali provocherà senz’altro forti resistenze. Ma ciò non rende l’obiettivo meno importante; lo rende solo più difficile da raggiungere. Un’altra strada – complementare, non alternativa al coordinamento internazionale – per scongiurare il declino socioeconomico consiste nel forgiare una strategia nazionale per gli Stati Uniti volta ad aumentare l’occupazione e i salari. Quali devono essere i pilastri di tale politica?
Anzitutto, l’aumento della produttività di tutti gli americani attraverso un’istruzione migliore, che parta dall’età prescolare e offra una scuola superiore semigratuita. Ciò comporta una rivoluzione nel modo in cui il paese finanzia l’istruzione pubblica: ad esempio, è folle che la scuola primaria e secondaria in America sia finanziata per metà con le imposte locali sulla casa, cosa che accentua la segregazione geografica per reddito. Inoltre, non ha senso affidarsi al debito studentesco per finanziare l’istruzione superiore dei giovani provenienti da famiglie a reddito medio-basso: ciò si è tradotto in una montagna di debiti che in molti casi risultano inesigibili e ha alimentato il falso mito che l’istruzione superiore sia un investimento privato, piuttosto che un bene pubblico. Innalzare la produttività di tutti gli americani implica anche che scuole e università curino maggiormente la preparazione complessiva degli studenti, non solo i loro risultati ai test di valutazione. L’unico parametro che tali questionari standardizzati misurano con esattezza è l’abilità dell’esaminato di fare un test a risposta multipla; ma nella nuova economia si richiede di risolvere problemi e di pensare fuori dagli schemi, non di rispondere a domande standard.
Un’istruzione migliore è solo il punto di partenza. Occorre sindacalizzare i lavoratori a basso reddito del terziario, per dare loro quel potere contrattuale necessario a conquistare salari più alti. Questi lavoratori – impiegati soprattutto nella grande distribuzione, nelle catene di fast food, negli ospedali e negli alberghi – non sono esposti alla concorrenza globale e svolgono mansioni difficilmente automatizzabili, eppure i loro stipendi e le condizioni di lavoro sono tra le peggiori del paese. Ed è in questi segmenti che si registra l’aumento maggiore di posti di lavoro.
È necessario portare il salario minimo ad almeno la metà di quello medio ed espandere gli sgravi fiscali per i redditi medio-bassi. Le tasse sul lavoro vanno eliminate totalmente entro i primi 15 mila dollari di reddito, e il conseguente ammanco nel bilancio della previdenza sociale va compensato innalzando il prelievo sui redditi non esenti.
Va inoltre ripensato il rapporto tra governo dell’azienda e lavoratori. Ad esempio, si può imporre alle imprese di dare ai loro impiegati pacchetti azionari e maggior voce in capitolo nella conduzione aziendale; ma anche di destinare il 2% dei profitti alla formazione professionale dei dipendenti meno qualificati e pagati.
La generosità del governo verso le aziende dev’essere condizionata all’impegno di queste ultime per la creazione di maggiore e migliore occupazione; ad esempio imponendo a chi riceve finanziamenti pubblici per ricerca e sviluppo di svolgere tali attività negli Stati Uniti.
Bisogna proibire alle imprese di dedurre i costi di remunerazione dei dirigenti oltre una soglia pari a 100 volte la media retributiva dei dipendenti o dei dipendenti delle controllate; e va loro impedito di concedere ai manager benefit esentasse, se non sono conferiti anche al resto dei dipendenti.
Infine, occorre far sì che il sistema finanziario torni a essere uno strumento per investire il risparmio delle nazioni, piuttosto che un casinò dove piazzare scommesse enormi e rischiose, i cui profitti vanno a vantaggio di pochi e i cui costi, quando le cose vanno male, sono puntualmente scaricati sul contribuente e sui piccoli risparmiatori. Ciò vuol dire limitare la dimensione delle maggiori banche e resuscitare il Glass-Steagall Act, varato nel 1933 sull’onda del precedente disastro finanziario per separare nettamente le attività commerciali da quelle speculative. Non esiste una formula magica in grado di generare buona occupazione e i contorni di questa politica nazionale restano imprecisati; ma almeno se ne dovrebbe discutere animatamente. Invece, i profeti del determinismo economico e gli ideologi del libero mercato impediscono persino che un simile dibattito decolli.

Il Sole 24 Ore 24.10.13

“Il centro impossibile”, di Michele Ciliberto

C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, direbbe il poeta: un gruppo di homines novi sta cercando di costruire in Italia un partito del centro. Una assoluta novità, da noi, in cui sono impegnati giovani talenti, ancora poco conosciuti, della politica italiana: si chiamano Casini, Lupi, Cesa, Mauro, tutta gente alla quale – direbbe un hegeliano di Napoli – «fumano i mustacchi». Non è facile capire cosa si propongano: uno dei più autorevoli, trasferitosi in Italia da Strasburgo per dirigere l’operazione, ha detto che il centro vuole opporsi al «dirigismo» e allo «statalismo» della sinistra, cioè – se capisco bene – alla «pianificazione» di tipo sovietico, su cui anche da noi ci fu un interessante dibattito, ma negli anni Trenta, specialmente tra i teorici del corporativismo.

Uno che li conosce bene, perché li ha lungamente frequentati, ha detto che quello che si propongono è una «caricatura» della Dc: espressione un po’ pesante alla quale la nostra «civiltà della conversazione» – adusa a un lessico sobrio e misurato – non è abituata; ma in questo caso efficace e opportuna.

Se si scava negli archivi della Repubblica, si vede infatti che un partito con questo nome è esistito, ma in un contesto del tutto diverso: era diretto da uomini formatisi nelle file dell’antifascismo; aveva forti radici confessionali, pur essendo laico; si oppone- va frontalmente al comunismo; agiva in una situazione internazionale divisa in blocchi, nella quale l’Italia era una importante marca di frontiera; aveva forti connotati sociali, come appare dai documenti conservati negli archivi.

Fra i «giovani» che vogliono formare il nuovo partito del centro molti, invece, pro- vengono direttamente dalla destra fascista; il cattolicesimo oggi non svolge più il ruolo politico che ha avuto una volta; il comunismo è finito; la situazione internazionale è cambiata dalle fondamenta; l’Italia non ha più alcun ruolo da svolgere come zona di confine tra oriente e occidente. E, infine, i promotori del nuovo partito di centro non mostrano alcuna particolare sensibilità sociale: se incontrassero uno come La Pira, singolare e stravagante esponente di quel vecchio partito (così risulta dagli archivi) lo tratterebbero come un pazzo, un appestato. Chi è costui, che vuole? Salvare una fabbrica? Il Nuovo Pignone, ma che roba è? Il novecento è finito; la classe operaia non c’è più; spazio ai giovani…

Il nuovo centro non è perciò una caricatura della Dc, è veramente una cosa inedita, originale. Bisognerebbe perciò capire cosa è e se può servire all’Italia, ma va fatta una osservazione preliminare: se si consulta l’archivio, specie i faldoni più recenti, si vede che qualche tentativo dello stesso tipo è stato già fatto, e senza grandi risultati: quando formazioni del centro si sono presentate alle elezioni, sono andate, certo, oltre percentuali da «prefisso telefonico», ma non hanno mai raggiunto le due cifre: 4, 5, 6 per cento. Né il destino cinico e baro si è placato quando dall’Olimpo è sceso direttamente Zeus per generare la «renovatio»: hanno continuato ad ansimare, senza mai riuscire a correre come dovrebbe fare, non dico Mercurio, ma almeno il «padre degli dei»…

Come e perché è accaduto questo fatto, che non consente di pronosticare un esito positivo al novissimo centro al quale lavorano questi juniores? Perché l’Italia è un Paese singolare: è certamente, nelle visceri, moderato per una lunga storia; ma è prontissimo, se viene adeguatamente aizzato e «vin- colato», a spostarsi a destra, anche su posizioni «estreme». Come risulta dagli archivi, nell’Italia non è mai esistito un partito moderato di massa. Con una sola, grande, eccezione; ma la Dc fin dal nome evocava la sua matrice confessionale, ed era soprattutto questo predicato – l’essere cattolico, in stretto rapporto con la gerarchia – che consenti- va alle «differenze» sociali, politiche, culturali di conciliarsi in un centro che, proprio per questa sua natura, era disponibile ad aprirsi sia a destra che a sinistra.

Quando però la matrice cattolica – e l’interclassismo che ne scaturiva -, per una serie di motivi si sono frantumati, le «differenze» sono prevalse sull’«unità » e il centro si è dissolto, esplodendo in varie direzioni, co- me è avvenuto negli ultimi venti anni. E che le cose stiano così, sul piano storico, è confermato dal fatto che nel campo «laico» non è mai esistita una «terza forza» di grande peso, nonostante la presenza di figure importanti come La Malfa o Visentini: è sempre rimasta, inesorabilmente, minoritaria. Certo, il Pri è stato un «piccolo partito di massa», come disse una volta un grande dinosauro; ma, appunto, piccolo. Questa è stata la storia e, come direbbe Croce, «non c’è che fare»; la storia è però magistra vitae: in Italia un grande Centro che governi il Paese, oggi, non ha futuro, prospettive. Ne mancano tutte le condizioni. Prima o dopo, se ne convinceranno anche i «giovani» talenti che si stanno buttando in modo impetuoso in questa avventura, nonostante le dure repliche della storia.

Ma il destino del centro nel nostro Paese svela un curioso paradosso su cui meriterebbe riflettere: pur essendo moderata, l’Italia tende, sul piano politico, alla polarizzazione, a meno che non intervengano, come av- venne nel caso della Dc, motivi ultra-politici che spingano verso la «sintesi» dello stesso centro. Ma è una «sintesi» che si spezza quando intervengono, come è accaduto da noi, processi di «secolarizzazione» che travolgono e distruggono gli involucri ideologi- ci: allora prevalgono e si impongono l’esperienza e l’ideologia delle «cento città». Tutti fenomeni che vengono da lontano – addirittura dal Medio Evo, dal Rinascimento – e che la crisi ha potenziato, generando e inasprendo rotture, frantumazioni. Varrebbe la pena di fare, in profondità, una riflessione sulla «identità» italiana, anche per com- prendere il destino della sinistra e come essa, in questa situazione, possa riuscire a costruire visioni generali e condivise, senza cui non può esserci futuro: il nostro Paese, oggi più che mai, è uno strano animale. Una sorta di ircocervo.

L’Unità 24.10.13

“Un paese ostaggio dei rancori”, di Cesare Martinetti

Sarà mai possibile in questo nostro Paese aprire una discussione su un argomento – mettiamo, non a caso, l’emergenza carceri – e discutere del merito di quel problema e non aprire una rissa su un aspetto eventuale e marginale di quella questione? Per poi risolvere tutto nel nulla, dimenticarsi il fondo di quell’emergenza, naturalmente non risolverla e passare a una nuova emergenza purché si possa trasformare al più presto in rissa?
No, non pare possibile. Abbiamo citato le carceri non a caso perché sono l’esempio più recente e più plastico di questo fenomeno tutto italiano.

Il sistema penitenziario italiano è una vergogna, l’Italia rischia di subire l’onta di una condanna europea – ma la si potrebbe semplicemente definire una condanna «di civiltà» – per lo stato delle nostre carceri, un inferno dove esseri umani sono costretti a vivere in un metro e mezzo quadrato, in un supplizio inimmaginabile e feroce che si perpetua quotidianamente.

Quanto se n’è parlato quando il Presidente della Repubblica ha messo il Parlamento e il sistema politico di fronte a una responsabilità come questa? Un giorno, due. Ma subito la rissa politica è diventata il retropensiero per cercare di capire se in quel messaggio era nascosto come in un cilindro un salvacondotto per il pregiudicato Berlusconi Silvio. Legittime le polemiche politiche, ma i sessantamila esseri umani galeotti in uno spazio dove ce ne starebbero stretti 40 mila? Dimenticati.

Ecco, questo è diventato il discorso pubblico italiano, che si tratti dei funerali di Priebke dove il grottesco ha superato l’indecente, o del comico Crozza e del suo passaggio alla Rai. Nessun serio dibattito sulla memoria in un caso, nessuna considerazione approfondita sul mercato televisivo nell’altro. Viviamo di flash emozionali, sia che si tratti del caso Shalabaieva, la moglie dell’oligarca-dissidente kazako, prelevata insieme con la figlia bambina dalla casa affittata a Roma e spedita nel giro di poche ore ad Alma-Ata su richiesta del regime petrolifero di Nazarbayev. Ricordate? A giugno sembrava diventato il caso diplomatico più imbarazzante per l’Italia. E ora?

Infinite emergenze dettate dalla cronaca sono terminate senza che mai si sia arrivati nemmeno a sfiorare i problemi che pure avevano fatto emergere, che fossero i sassi lanciati dai viadotti sulle autostrade o l’aggressività mordace dei pitbull, ogni problema che compare nella nostra società finisce in una centrifuga emotiva che si alimenta di rancori, magari indefiniti, ma vivi, sempre partigiani. L’interesse generale – o nazionale – è un concetto sconosciuto. Il sospetto è generalizzato, ogni affare sa di mafia, ogni presa di posizione è sospetta di corruzione, c’ è sempre un secondo fine o un «vero» motivo di un certo atto che si nasconde dietro quello ufficiale.

Ne siamo tutti responsabili, inutile tentare di sottrarsi. È una specie di malattia, siamo diventati impermeabili a una discussione che regga lo spazio di qualche ora, siamo al tempo stesso spacciatori e consumatori di falene che non depositano la consapevolezza dei problemi e dunque non possono generare la ricerca di soluzioni. Non crediamo nemmeno più che sia possibile trovarle le soluzioni. Siamo delusi e disillusi. La politica è lo specchio di questo stato d’animo nazionale. Chi cerca compromessi (che poi costituiscono l’essenza della politica) viene accusato di inciuci con l’avversario, chi lavora intorno a soluzioni complesse per problemi che forse non sono mai stati così complessi viene deriso.

I populismi, in Italia e nel resto dell’Europa, nascono anche da questa insofferenza figlia del nostro tempo. È un po’ banale e come al solito si rischia di apparire esterofili a dire che non dappertutto è così e che anche laddove il populismo sta raccogliendo consensi, c’è un discorso pubblico che resiste, un’idea di realtà e di problemi condivisa. In questi giorni il giornalista francese Philippe Ridet, corrispondente di Le Monde a Roma dal 2008, ha pubblicato il suo libro di osservazioni sulla vita italiana. All’inizio vi si legge una citazione che colpisce. Al momento di prendere possesso della nuova sede, sulla sua scrivania ha trovato un biglietto del suo predecessore che diceva così: «Dopo cinque anni lascio un paese nello stesso stato in cui l’ho trovato». Ecco.

La Stampa 24.10.13

“Un corruttore come alleato”, di Massimo Giannini

Puoi governare con il tuo carnefice? Puoi considerare «alleato» un leader politico, pregiudicato e spregiudicato, che solo cinque anni fa ha comprato un parlamentare a suon di milioni per far cadere la tua maggioranza? Di fronte al rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi, deciso dal Gup di Napoli nell’inchiesta sulla corruzione del senatore De Gregorio, conviene ribaltare la questione, famosa e ormai annosa, della cosiddetta «agibilità politica» del Cavaliere. Conviene guardarla dal punto di vista non delle reazioni del centrodestra, ma delle decisioni del centrosinistra. Un rinvio a giudizio non equivale ovviamente a una sentenza di condanna. Ma significa che un giudice terzo, diverso dai pubblici ministeri inquirenti, ritiene che siano state raccolte prove sufficienti a giustificare l’avvio di un processo. Nell’inchiesta Berlusconi-Lavitola- De Gregorio le prove, più che sufficienti, paiono schiaccianti. Nella primavera del 2006 l’Unione di Prodi vince per un soffio le elezioni. A Palazzo Madama ha solo 4 voti di maggioranza. Basta una modesta transumanza, e il governo va a casa. Nel luglio successivo il Cavaliere lancia la campagna acquisti. Il senatore De Gregorio già eletto nelle file dell’Idv di Di Pietro viene agganciato da uno dei faccendieri più indecenti ma più efficienti ad Arcore, Valter Lavitola. È lui che comincia a foraggiare De Gregorio: 3 milioni di euro in tutto (ne riceverà solo una parte). Con quel «tesoretto» sul conto corrente, il senatore lancia a sua volta l’«operazione Libertà». La racconta lui stesso nelle carte dell’inchiesta, spiegando che ogni passo è stato concordato con il leader del Pdl. «Era deciso a individuare il malessere di alcuni senatori che potessero determinare l’evento finale». Cioè la caduta del governo Prodi. De Gregorio dichiara agli atti: «Allora discussi a Palazzo Grazioli con Berlusconi una strategia di sabotaggio… ». La missione è: «Procurarsi voti in Parlamento».
Come procurarseli è fin troppo facile. Con il denaro, che per il Cavaliere, dalle toghe sporche alle olgettine ripulite, non è mai stato un problema. De Gregorio tenta prima con un senatore suo amico. «Dissi a Berlusconi che forse Giuseppe Caforio poteva ascriversi al ruolo degli indecisi». «Puoi offrirgli fino a cinque milioni», risponde il Cavaliere. L’abbocco fallisce: Caforio fa finta di stare al gioco, registra il colloquio e presenta una denuncia penale. Ma l’Operazione Libertà è ormai partita, e nulla può fermarla. Le prove generali iniziano il 28 febbraio 2007, quando Prodi si salva al Senato per appena tre voti. «L’evento finale » si produce il 24 gennaio 2008, dopo le dimissioni del Guardasigilli Mastella che ha saputo di una richiesta d’arresto ai danni di sua moglie da parte della procura di Santa Maria Capua Vetere. Prodi viene sfiduciato al Senato, dove va sotto per 5 voti. A impallinarlo, oltre a Mastella e a Lavitola, ci sono Lamberto Dini, Vito Scalera e Luigi Pallaro, eletto in Argentina e misteriosamente scomparso il giorno del voto.
Sono prove, queste? O solo calunnie? Sono prove, nient’altro che prove. La conferma arriva dallo stesso Lavitola, in una lettera spedita il 13 dicembre 2011 all’ancora premier Berlusconi. Valterino batte cassa per l’Avanti, e ricorda al «socio » tutto quello che ha fatto per lui. «Lei — scrive — subito dopo la formazione del governo, in questa legislatura, con Ghedini e Verdini presenti, mi disse che era in debito con me e che Lei era uso essere almeno alla pari. Era in debito per aver io “comprato” De Gregorio, tenuto fuori dalla votazione cruciale Pallaro, fatto pervenire a Mastella le notizie dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, da dove erano arrivate le pressioni per il vergognoso arresto della moglie, e assieme a Ferruccio Saro e al povero Comincioli “lavorato” Dini. Ciò dopo essere stato io a convincerla a comprare i senatori necessari a far cadere Prodi».
Questo è dunque lo scandalo che emerge dalle carte dell’inchiesta di Napoli. Questo è il «golpe bianco» che si sospetta Berlusconi abbia ordito contro il governo Prodi. Dietro al quale, ancora una volta, si intravede non un blitz episodico. Ma piuttosto il solito e collaudatissimo «sistema corruttivo», che ricorre in tutte le vicende giudiziarie in cui il Cavaliere è stato a vario titolo condannato, coinvolto o prosciolto (grazie alle prescrizioni e alle leggi ad personam). Un «metodo» che ha funzionato per le tangenti alla Gdf e per Mills, per il Lodo Mondadori e per i diritti tv. E se ha dato frutti nell’affare De Gregorio, è lecito pensare che ne abbia generati sia per il primo ribaltone dei due senatori che salvarono il Berlusconi I nel 1994, sia nella campagna acquisti dei «Responsabili» che salvarono il Berlusconi IV nel 2010.
Il processo di Napoli si aggiunge alla lunga sequenza di conti in sospeso che il Cavaliere intrattiene tuttora con la giustizia. Dopo la condanna definitiva per i diritti tv Mediaset, l’interdizione di due anni dai pubblici uffici sui quali dovrà pronunciarsi la Cassazione, il voto dell’aula di Palazzo Madama sulla decadenza, l’appello del processo Ruby per prostituzione minorile e concussione e l’uscita delle motivazioni della condanna di primo grado nello stesso processo (prevista per metà novembre). Basterebbe un’occhiata all’agenda giudiziaria dell’ex premier, per liquidare con un sorriso amaro le pretese di «pacificazione », le parole al vento sui doverosi «atti di clemenza», le pressioni inaccettabili su un fantomatico «motu proprio» del Capo dello Stato, le allusioni insopportabili su un ipotetico indulto ad personam del Parlamento. Non c’è scudo possibile, per un imputato-condannato di questo calibro. Non si tratta di consumare una vendetta ideologica, né di realizzare un’eliminazione politica per via giudiziaria. Più semplicemente: anche volendo (e nessuno che abbia a cuore lo stato di diritto dovrebbe volerlo) non esistono nei codici dell’Occidente «condoni tombali» che cancellino le pendenze penali passate, presenti e soprattutto future.
Il Pdl è squassato da una strana lotta intestina. Eredi rissosi si contendono inutilmente il lascito di un «de cuius» che nonostante tutto resta pi ù vivo che mai. Di fronte alle pessime notizie che arrivano dai tribunali, i «parenti della vittima» celebrano il rito stanco di sempre. «Persecuzione», «caccia all’uomo», «attentato alla democrazia». Parole violentate, abusate, svuotate di senso. Ma lanciate come pietre contro la sinistra «togata» e contro il governo Letta.
Immaginare un futuro radioso per le Larghe Intese, a questo punto, è illusorio. I segnali di rottura erano già numerosi, dalla legge di stabilità all’antimafia. Ma ora, com’era facile prevedere, è l’ossessione giudiziaria che domina la scena a Villa San Martino e a Palazzo Grazioli. Il rinvio a giudizio di Napoli segna un possibile punto di svolta. Non tanto giudiziario, quanto politico. Di fronte all’enormità dell’ultima imputazione, si torna alla domanda iniziale. C’è da chiedersi se non tocchi alla sinistra riformista il «dovere» di rompere l’alleanza innaturale con l’uomo che ha ucciso il governo Prodi, comprando quattro traditori per trenta denari. Piuttosto che concedere ancora una volta a una destra irresponsabile il «diritto» di far saltare il tavolo, legando indissolubilmente e colpevolmente i destini della nazione a quelli del suo «Cavaliere dell’Apocalisse».

La Repubblica 24.10.13

“L’arroganza dell’America”, di Federico Rampini

L’opinione pubblica americana pensa ad altro (il pessimo debutto della nuova sanità obamiana), i mass media “dormono al volante”, Barack Obama è lento a reagire all’ultima puntata del Datagate. Il presidente è colto di sorpresa dalla durezza di Angela Merkel, dalla brusca telefonata “voluta da Berlino”, per protestare vibratamente contro lo spionaggio del cellulare della cancelliera. L’impreparazione della Casa Bianca e dell’America intera di fronte allo sdegno degli alleati, traspare nei bizantinismi adottati per placare, minimizzare. False smentite, bugie dalle gambe corte, tradiscono imbarazzo e pigrizia, sottovalutazione o arroganza. OBAMA risponde alla Merkel che “l’America non spia e non spierà la cancelliera tedesca” ma si guarda bene dall’usare il verbo al passato, dunque non esclude che lo spionaggio sia accaduto in passato. Trucchi semantici come quelli usati dal suo capo dell’intelligence, James Clapper. Di fronte alle rivelazioni di
Le Monde sulle 70 milioni di telefonate francesi sorvegliate dalla National Security Agency in un solo mese, Clapper smentisce che «siano state intercettate ». Ma lo spionaggio nell’èra di Big Data, per controllare quantità così smisurate di comunicazioni,
non ne invade tutti i contenuti bensì cattura i “meta-dati” (chi ha chiamato chi, da dove, quando). L’intercettazione dei contenuti scatta semmai ex post, se gli algoritmi che analizzano i meta-dati segnalano qualcosa di sospetto. Questo è il succo dei due maggiori programmi di spionaggio, Prism e Swift. Né Clapper smentisce l’intercettazione nelle ambasciate francesi a Washington e all’Onu. Quest’ultima indebolisce una linea difensiva di Obama: che la Nsa abbia «salvato vite umane, sventato attentati terroristici, anche ai danni dei nostri alleati ». No, lo spionaggio delle ambasciate all’Onu serviva per le manovre della diplomazia Usa ai tempi delle sanzioni contro l’Iran.
Quella difesa di Obama è la linea adottata fin dall’inizio del Datagate. In particolare in un altro memorabile screzio con la Merkel. A Berlino, 19 giugno: mancano poche ore all’atteso discorso del presidente Usa a Brandeburgo, che molti vorrebbero paragonare allo storico “Ich bin ein Berliner” di John Kennedy. La conferenza stampa che precede quell’evento è gelida, la Merkel avanza proteste per le prime rivelazioni sullo spionaggio della Nsa ai danni degli alleati. Obama le risponde con cortesia e fermezza: «Sono servite a prevenire attacchi terroristici, anche qui sul territorio tedesco». È l’argomento che i media Usa hanno ripreso, che l’opinione pubblica assuefatta al Grande Fratello post-11 settembre ha spesso accettato. Così ieri mattina, quando inizia la giornata politica a Washington, tutti i titoli dei Tg e le prime pagine dei giornali Usa sono monopolizzati da polemiche domestiche, sul software informatico impazzito che blocca le nuove assicurazioni sanitarie. Le proteste del presidente francese Hollande per lo spionaggio? Quattro righe nei notiziari esteri del
New York Times, un colonnino sul Wall Street Journal che precisa: «Il governo francese vuole già ridimensionare, non ci saranno conseguenze».
In questo clima, autoreferenziale e distratto su quel che accade nel mondo, Obama è colto in contropiede dalla cancelliera, dalla sua minaccia di “gravissimi danni” nella relazione bilaterale Germania-Usa. Difficile, stavolta, rispondere alla Merkel che il suo cellulare fu spiato per prevenire attacchi terroristici.
L’incidente con Berlino giunge al termine di un crescendo di disastri. Dilma Roussef, presidente del Brasile, non si è accontentata di cancellare una visita di Stato: è venuta qui all’Onu per proclamare la sua indignazione all’assemblea generale. Il Messico, alleato di ferro degli Stati Uniti, è in subbuglio per lo spionaggio sul suo ex-presidente. L’intera America latina sprofonda in un clima “antiyankee” quale non si ricordava da decenni. Valeva la pena pagare un prezzo così alto, pur di lasciare le briglie sciolte al Grande Fratello della Nsa? È questo il dibattito assente negli Stati Uniti, tra la classe dirigente e sui media. È vero, Obama promise già quest’estate una riforma delle normative sull’intelligence, nuove tutele per la privacy, un riesame complessivo del ruolo della Nsa. È la rassicurazione che lui ripete alla Merkel nell’ultima telefonata: «L’America sta rivedendo il modo in cui raccoglie intelligence, per bilanciare la sicurezza dei cittadini con le preoccupazioni sulla privacy». Ammesso che questa riforma avanzi, la sua lentezza tradisce la sottovalutazione del danno inflitto nel mondo intero al “soft power” americano.
Visti da Washington, gli europei sono sempre un’Armata Brancaleone che reagisce in ordine sparso. Hollande, Letta, Merkel, ciascuno parla per sé, con sfumature diverse, mentre non esiste ancora una protesta unitaria dell’Europa in quanto tale. Forse uscirà dal vertice Ue di oggi e domani. Nonostante questa tradizionale debolezza, dall’Europa si sente crescere la voglia di rappresaglie: contro la cooperazione anti-terrorismo tra le due sponde dell’Atlantico, o contro il patto per la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti. Per un’America obamiana che partiva da una popolarità a livelli record, la caduta dovrebbe essere inquietante. «Gli Stati Uniti non sanno avere alleati, per loro il mondo si divide tra nemici e vassalli», tuona da Parigi il presidente della commissione affari legislativi dell’Assemblée Nationale. Sono avvertimenti che stentano a “bucare” il muro di disattenzione degli Stati Uniti. Troppo abituati a considerarsi “la nazione eccezionale”, per misurare quel che stanno rischiando.

La Repubblica 24.10.13