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“L’ultima arma della nostra epoca”, di Bernardo Valli

La sorveglianza elettronica è la grande arma della nostra epoca. È l’inafferrabile sistema planetario che raggiunge e spia gli angoli più segreti degli avversari e i più riservati degli alleati. Non c’è distinzione tra amici e nemici. Al tempo stesso ha come obiettivi naturali le nostre vite familiari, sebbene siano estranee alle tenzoni politiche e ai segreti industriali. Per i servizi di intelligence è uno strumento impareggiabile, che rende in parte obsoleti gli eserciti tradizionali, destinati allo sfoltimento. Per i paesi avanzati i conflitti non sono più gli stessi.
Ma la sorveglianza elettronica non riguarda soltanto il militare, si insinua nelle nostre esistenze private, intime, e quindi colpisce i nostri diritti democratici. L’uso dell’orecchio elettronico, il cui valore è immensamente cresciuto in seguito all’11 settembre di New York, è diventato un’insidia perché non ha ancora trovato un equilibrio tra sicurezza, libertà pubblica e privata e diritto all’informazione. Le innovazioni possono essere creatrici e temibili. In questo caso rappresentano un’efficace arma contro il terrorismo e i traffici illeciti: e al tempo stesso una minaccia alla libera concorrenza economica, oltre che alla privacy di noi liberi cittadini. Dopo i tedeschi e i brasiliani, che sono stati i primi a reagire alle rivelazioni di Edward Snowden, ex impiegato della Cia e della Nsa (l’Agenzia nazionale di sicurezza americana), adesso i francesi esprimono ufficialmente la loro indignazione e chiedono spiegazioni agli Stati Uniti per l’intrusione nel loro spazio nazionale, al fine di spiare personalità politiche, privati cittadini e anzitutto, sembra, aziende industriali.
Tra alleati non si dovrebbe fare. Ma lo si fa. Parigi non l’ignorava. Sono state le dettagliate rivelazioni del quotidiano Le Monde a costringere il primo ministro a reagire e il ministro degli Esteri a convocare d’urgenza l’ambasciatore americano. La tardiva, improvvisa mobilitazione, chiaramente provocata, imposta, dalle notizie della stampa, mette in rilievo la lunga discrezione di Parigi, di solito suscettibile, orgogliosa, per tutto quel che riguarda la sovranità nazionale. In questo caso non ha avuto fretta. La perplessit à degli uomini di governo occidentali (compresi quelli italiani) di fronte al sistema di spionaggio elettronico cui sono sottoposti, è senz’altro all’origine del loro singolare, insolito comportamento, del loro ritardato riflesso. Si possono elencare tanti stati d’animo. La timidezza di fronte alla super potenza; il complesso di inferiorità davanti alla superiorità tecnologica del grande alleato; la complicità subalterna. Nel caso inglese è evidente la collaborazione. Nel resto dell’Europa è facile richiamarsi a George Orwell, al suo immaginario Statod’Oceania,sucuidomina l’invisibile Grande Fratello. Il quale ti tiene d’occhio in ogni momento e tu ti sottometti. Ma non è questo il rapporto tra le due sponde dell’Atlantico.
Il passaggio dalla fiction orwelliana alla realtà americana, tanto più se si verifica tra alleati, tra società amiche, non può che creare, comunque, un profondo malessere. Snowden, il rivelatore del sistema di ascolto elettronico, ha parlato del «più vasto programma di sorveglianza arbitraria della storia umana». In giugno, il
Guardianha rivelato che la Nsa aveva ricevuto (dall’operatore telefonico Verizon) intercettazioni riguardanti parecchi milioni di americani, nel quadro di un’ordinanza giudiziaria segreta. Più tardi è emerso che (grazie al programma Prism) sempre la Nsa aveva avuto dal 2007 il privilegio di ottenere i dati di nove grandi imprese americane di Internet, tra le quali Google, Facebook e Microsoft. Un altro metodo di intercettazione ha permesso e permette di prelevare dati attraverso i cavi sottomarini, lungo i quali transita il 99 per cento delle comunicazioni mondiali. Dai documenti verificati dal quotidiano parigino risulta che in un solo periodo di trenta giorni, dal 10 dicembre 2012 all’8 gennaio 2013, sono state registrate dalla Nsa 70,3 milioni di telefonate di cittadini francesi. La sorveglianza
elettronica ha recuperato anche gli sms. I quali sono stati archiviati insieme alle telefonate. Snowden ha spiegato che la Nsa, l’Fbi, la Cia, la Dia (Defense Intelligence Agency) e altri possono servirsi in qualsiasi momento dei dati registrati e archiviati, senza bisogno di particolari autorizzazioni regolamentate. Le restrizioni possono essere soltanto politiche, vale a dire determinate dalla situazione del momento. Insomma grazie al Foreign Intelligence Surveillance Act i dati raccolti dalla sorveglianza elettronica, attraverso i vari programmi, sono a disposizione della Nsa. L’Europa è nuda sotto gli occhi dell’intelligence americana.
Gli Stati Uniti possono frugare nelle nostre vite anche se hanno scarso interesse, spetta loro decidere; sorvegliano i nostri politici; registrano le decisioni dei nostri governi. Loro sono gli entomologi e noi le formiche. Non conosciamo tuttavia, per ora, i personaggi che li interessano particolarmente nei paesi alleati. Edward Snowden ha rivelato un documento dell’aprile 2013, in cui si spiega in quarantuno pagine come servirsi dei dati ricavati da Microsoft, da Yahoo, da Facebook e da Google. All’inizio dell’anno l’attenzione era puntata su
Wanadoo.fr e Alcatel-Lucent.com. Il primo, Wanadoo, ha quattro milioni e mezzo di clienti. Il secondo, Alcatel-Lucent, impiega settantamila persone. I due gruppi sono importanti operatori nel campo delle comunicazioni. Lo spionaggio elettronico americano nei paesi alleati, come la Francia, sembra riguardare soprattutto quell’area.
Da questo si ricava un’evidenza: tra le due sponde dell’Atlantico la concorrenza economica è forte e (se non tutti) molti colpi bassi rientrano nella prassi. Una pratica inaccettabile perché appare chiaro che le grandi imprese di Internet risultano stretti collaboratori della Nsa. Intelligence e commercio si intrecciano. Le regole, democratiche e giudiziarie, possono essere infrante non per soli motivi di sicurezza. Invece di convocare e sgridare gli ambasciatori nei momenti di pubblica collera, bisognerebbe rivedere e poi far rispettare i rapporti tra l’Europa e il suo principale alleato con l’orecchio elettronico.

La Repubblica 22.10.13

“La banca di Verdini e quei pagamenti in nero”, di Sergio Rizzo

Impossibile non fare un salto sulla sedia quando Denis Verdini ammette davanti alla telecamera di aver ricevuto un pagamento in nero. Ottocentomila euro per un terreno venduto a un muratore di Palermo trapiantato a Campi Bisenzio, alle porte di Firenze. «Un’operazione», dice, «che per fortuna risale a tantissimi anni fa». Il 1989, quando il protagonista di questa vicenda non era ancora uno degli uomini politici più potenti d’Italia, senatore e coordinatore del partito di Silvio Berlusconi. E poi, si giustifica, «come si fa normalmente nella vita, se tu nel contratto scrivi dieci e invece è venti…». Anche se proprio normale non è, soprattutto se poi i soldi il suo debitore li prende dalla banca della quale il senatore in questione è anche il dominus, il Credito cooperativo fiorentino.
Come non è normale che un signore al centro di mille misteri e con seri precedenti penali dia 800 mila euro al senatore in questione come contributo per il suo giornale claudicante. Si chiama Flavio Carboni, e in quel momento ha in ballo un investimento eolico in Sardegna che incontra difficoltà perché il governatore pidiellino Ugo Cappellacci ha deciso di cambiare le regole. «Era interessato ad aprire le pagine in Sardegna», dice il coordinatore del Pdl. «Ma cosa me ne fregava? Chiamavo frequentemente Verdini perché insistesse su Cappellacci per, diciamo così, applicare la legge. La legge del suo predecessore», è la versione di Carboni. Che adesso vuole il denaro indietro.
Sono due frammenti del lungo servizio di Sigfrido Ranucci che stasera va in onda su Rai tre per Report di Milena Gabanelli nel quale si ricostruisce l’incredibile scalata di Verdini ai vertici del potere politico. È lui che nel partito stabilisce nomine e incarichi. È lui che decide chi occupa un seggio in Parlamento grazie al famigerato Porcellum che porta anche il suo marchio, essendo copiato dalla legge elettorale della rossa Toscana frutto di un accordo fra Verdini e la sinistra. È lui che s’impegna per difendere Berlusconi dall’«assedio» dei magistrati…
Viene da una famiglia povera e nessuno lo aiuta. Ma nella capacità di creare cortocircuiti fra la politica e gli affari è quasi imbattibile. In pochi anni mette insieme una fortuna, dalle attività editoriali alle proprietà immobiliari: ne ha pure in Svizzera, a Crans Montana. Tutto ruota intorno a una piccola banca, il Credito cooperativo di Campi Bisenzio. Da quel piccolo istituto arrivano i soldi per gli imprenditori amici e soci di Verdini impegnati negli appalti pubblici, quale il costruttore Riccardo Fusi, che sarà coinvolto nelle inchieste sulla Cricca. Arrivano anche i finanziamenti per i compagni di partito in difficolt à, come il senatore Marcello Dell’Utri. E arrivano anche i denari per alimentare le attività dell’editore Verdini. Al punto che quando interviene la Vigilanza salta fuori che fra i più esposti con la banca della quale è presidente da tempo immemore c’è proprio lui. Dodici milioni di euro, per l’esattezza. «Deve rientrare», commenta Milena Gabanelli, «e qui si mobilita l’esercito della salvezza. Il compagno di partito Antonio Angelucci ha fatto partire dal suo conto in Lussemburgo circa 10 milioni e in pegno si prende le due ville in Toscana. Si mobilita anche Riccardo Conti, il parlamentare Pdl diventato noto per aver comprato il palazzo di via della Stamperia a Roma per 26 milioni, rivenduto nella stessa giornata a 44, e in quello stesso giorno stacca anche un assegno alla signora Verdini per un milione 150 mila euro. Sette milioni e mezzo invece arrivano da Veneto Banca. Ma chi garantisce?». Le garanzie, spiega Ranucci, vengono nientemeno che da Berlusconi.
Vi chiederete: com’è possibile che un senatore in carica gestisca una banca, che per giunta presta quattrini a lui stesso, ai politici e a discussi imprenditori? La legge in effetti lo vieta, ma siccome c’è una deroga per le cooperative, e quella di Campi Bisenzio è una coop pur essendo una banca commerciale a tutti gli effetti, non ci sono ostacoli formali. Una sovrapposizione di ruolo inconcepibile in qualunque Paese normale, che lui però non fa nulla per nascondere. Anzi. È proprio quella la sua forza. Per i cento anni del Credito di Campi Bisenzio organizza perfino una grande festa con un testimonial d’eccezione: Rosario Fiorello. Qualche mese dopo l’istituto viene commissariato. E il Fondo di garanzia delle Bcc tappa il buco. Milena Gabanelli ricorda che i commissari hanno chiesto ai manager del Credito cooperativo un risarcimento danni di 44 milioni. E i guai sono appena cominciati. Domani è prevista l’udienza preliminare del procedimento per presunta truffa allo Stato nel quale è coinvolto Verdini per i finanziamenti pubblici incassati dal gruppo editoriale del suo «Giornale della Toscana» .

Il Corriere della Sera 21.10.13

“I bambini invisibili. Sono i piccoli migranti con le loro tragedie”, di Manuela Trinci

“Non andiamo con la stessa barca perchè spesso le barche affondano, e uno di noi deve sopravvivere per raccontare dell’altro, per raccontare di noi”. Questo aveva detto ad Alì il suo compagno di avventura al momento della partenza per Lampedusa. Da questa frase, oggi più che mai drammaticamente vera, addirittura in attesa come siamo di un «cimitero per i migranti», Giancarlo Rigon e Giovanni Mengoli hanno voluto scrivere un saggio di straordinaria limpidezza narrativa che nulla concede al vuoto sensazionalismo della contemporaneità, focalizzando piuttosto l’attenzione su alcune «vite» di ragazzini, cittadini stranieri, che si trovano nel nostro paese privi di assistenza e rappresentanza da parte di genitori o di altri adulti legalmente responsabili per loro. «Minori stranieri non accompagnati» si definiscono e in Italia, nel 2012, ne sono stati segnalati 7.575 dei quali molti sono poi spariti, vittime di quella «invisibilità» che li caratterizza sino dal loro arrivo. Così, con semplicit-à e immediatezza, nel libro Cercare un futuro lontano da casa. Storie di minori stranieri non accompagnati (pp. 120, euro 10, Edb) si raccontano le tragedie e le speranze di alcuni ragazzini, appena adolescenti.
Diciamo subito che non sempre sono storie a lieto fine. Alcune sono storie ancora senza fine e comunque sono storie che iniziano male, in luoghi sfortunati e proseguono a stento: tra pericoli, ferite, cadute, miserie, separazioni e tradimenti, fughe e inciampi. Sono storie epiche per loro: piccoli eroi senza volerlo. Perché è vero che sono miracolosamente vivi, però non sono illesi. Se avessero voce, se non fossero «invisibili», chiederebbero solo il rispetto del diritto di asilo politico e il riconoscimento dell’identità, indispensabili per crescere. Invece loro, che hanno fra i dodici e i sedici anni, hanno il terrore di compiere quei diciotto anni che segnano il passaggio a una condizione giuridica differente: da minori passeranno a essere solo stranieri!
Provengono da terre dove soffiano venti di guerra oppure dove disperazione degrado e miseria non danno speranza. Hanno calli nelle mani e una falsa furbizia negli occhi, magari sono già passati dalla prigione o hanno vissuto nei campi profughi o combattuto, a forza, nelle milizie islamiche. Scappano dai guardiani della fede, da dittatori sanguinari, da famiglie spezzate e rase al suolo dalla cieca barbarie dell’odio. Scappano e viaggiano talvolta anche aggrappati a due tavole di legno tra le ruote di un tir, o nascosti per giorni tra frutta e verdura, o semiassiderati in celle frigo. Odissee. Cercano nell’Europa, una terra, un paese, dove stare tranquilli, dove nessuno ti fa morire e ti fa del male e dove magari, lavorando, si possono persino mandare i soldi a casa, a chi è rimasto. Si chiamano Mehdi, Ahmed, Alì, Arif, Hamin, Bledar, Irina, Mohamed, Tarik e Mudassar, ma una volta in Italia, per loro, inizia un altro viaggio, verso l’integrazione in un paese ignoto. E questo secondo viaggio è contrassegnato da ostacoli di tipo diverso, sgambetti burocratici e non solo…, certo non meno insidiosi, come commenta anche Giannantonio Stella nella sua rigorosa prefazione. E se al loro fianco ci sono gli educatori delle comunità che, oltre e al di là degli ingiusti tagli economici, continuano a svolgere il loro cruciale compito, le conseguenze di tanti patimenti si fanno sentire. Non di rado i ragazzini di giorno si tagliano per dar nome a quel cumolo di sentimenti che preme dentro e la notte gridano urli di guerra oppure proprio non dormono, perché hanno visto che, nella traversata verso Lampedusa, chiunque si addormentasse veniva gettato in acqua, per alleggerire la carretta del mare.
In più, in questo imperdibile libro, alle storie narrate seguono commenti autorevoli: da Ballerini, a Prodi, da Lerner a Zampa a Frascaroli, Giovannini, Guerra, Milano e ancora Spadafora.
Voci di denuncia per far da coro a piccole biografie, che nulla hanno da invidiare a Remì, il trovatello di Senza famiglia, o a Marco, il bambino che traversò Dagli Appennini alle Ande per raggiungere la mamma malata. Un libro, dunque, uno scritto per lasciare traccia di queste vite ignorate, e per pensare che una via d’uscita è possibile sempre che gli sguardi di tutti non si voltino dall’altra parte e non ci si rassegni all’idea che tutto questo scempio sia perfettamente normale.

L’Unità 21.10.13

“Tra le tende di Porta Pia”, di Rachele Gonnelli

Restano le tende ma non la tensione. Gli organizzatori del corteo di Roma «ad alto rischio» sono soddisfatti: «Non era accettabile che qualche ragazzo rovinasse un lavoro di mesi». Monti in tv: «Manifestazione forte ma composta. Vogliono un futuro e hanno ragione».
Il giorno dopo la «Sollevazione generale» sono tutti effettivamente «sollevati», tanto tra le tende dell’acampada di Porta Pia quanto al Viminale. Niente di grave è successo, la manifestazione è stata grande ed è rimasta nell’alveo della contestazione lecita, i pochi che volevano andare oltre petardi e fumogeni sono stati respinti dal servizio d’ordine che cordonava gli spezzoni e la testa del corteo, mentre le forze di polizia hanno avuto un comportamento ineccepibile, con cariche solo di alleggerimento. Lo riconosce il ministro dell’Interno Angelino Alfano, che ringrazia non solo i 4mila agenti schierati ma anche e «di cuore» quella «parte larghissima dei partecipanti che si sono mostrati pacifici e anzi sono andati contro coloro i quali volevano andare contro le leggi». Per Alfano dunque «è andata molto meglio di quanto tante Cassandre sperassero». Poco prima, l’ex premier Mario Monti aveva avuto parole persino di stima per gli organizzatori del corteo antagonista davanti all’intervistatrice Lucia Annunziata: «È stata una manifestazione forte e per fortuna composta», ha esordito aggiungendo «quei ragazzi che vogliono avere un futuro hanno ragione».
Tra le tende sotto al monumento al bersagliere di queste manovre di palazzo non se ne sono accorti, non interessano. Ma le ragioni per un sorriso disteso ci sono tutte e persino più forti. «Abbiamo preparato il corteo per mesi e non potevamo permetterci che tutto il lavoro fatto venisse spazzato via perché qualche ragazzo voleva sfogare la propria rabbia e divertirsi. Ci siamo chiesti: ci conviene che finisca tutto come il 15 ottobre di due anni fa? Avere di nuovo l’opinione pubblica contro. No, noi non mandiamo le famiglie allo sbaraglio, le immigrate con i passeggini, e lo abbiamo chiarito in ogni sede». Chi parla è Barbara, dello sportello di Action, una delle tre gambe del movimento «per il diritto all’abitare» della capitale che ha organizzato, animato e protetto le ragioni della protesta. Le altre due gambe romane, quelle su cui poggia ora il presidio con le tende fino all’incontro con il governo di domani, sono lo storico Coordinamento di lotta per la casa e i Bpd, che sta per Blocchi Precari Metropolitani, gruppo nato nel 2007 tra disoccupati, immigrati, giovani precari, sfrattati, che hanno occupato immobili privati lungo l’asse della Prenestina. Roma è anche la capitale dell’emergenza abitativa, con 60mila senza casa. Ed è a Roma che si è tenuto il primo incontro nazionale su questo tema da cui è partita l’idea della «Sollevazione del 19 ottobre». L’incontro è stato il 2 giugno e poi ce ne sono stati molti altri a Napoli, Livorno, Milano, in Val di Susa, a Bergamo. Negli ultimi mesi, mentre il fronte si allargava ai NoTav e ad altri movimenti e cominciavano a serpeggiare anche idee più radicali e violente, è stato il movimento romano a ricondurre tutti a un obiettivo concreto: l’apertura, appunto, del tavolo con il governo.
Ieri mattina nell’assemblea plenaria tra gli igloo di tela, è stato Paolo Divetta, dei Bpd, ha ricordare gli obiettivi. Primo: l blocco degli sfratti per morosità. «Che sono sempre di più, ormai ci chiamano ache dai quartieri bene come Prati», racconta Barbara. Gli squat però non chiederanno al governo alcun nuovo piano di edilizia economica e popolare o come si voglia chiamare. Nessuna costruzione di nuovi palazzoni, magari oltre la cintura del «Sacro Gra». «Non vogliamo altri quartieri-ghetto, né altri favori ai palazzinari, hanno già costruito abbastanza dilapidando territorio, ci sono milioni di metri cubi di edifici sfitti, basta riqualificarli, se non sono capaci lo possiamo fare noi», dice Roberto, anche lui dello Sportello Action, che lavora a contatto con gli assistenti sociali, chiedendo l’Isee prima di inserire un nucleo familiare tra gli occupati. La Regione Lazio e il Comune di Roma hanno già tavoli aperti.
Ma gli squatter vogliono anche servizi, «reddito diretto e indiretto», come lo chiama Fulvio Massarelli del Laboratorio Crash di Bologna, del sito Infoaut, ala dura del movimento. E quindi spostamento di fondi dalle grandi opere come la Tav alle esigenze sociali che i Comuni da soli oltretutto con il taglio dell’Imu non ce la fanno più a sostenere. I mille asilanti eritrei arrivati da Lampedusa che l’altra settimana hanno occupato un palazzo vicino Termini, anche loro, dicono: «il nostro problema è comune: vogliamo un tetto». Il resto, dal no alla Bossi-Fini, diritto di transito per l’Europa, anche per loro viene dopo.

L’Unità 21.10.13

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Il racconto “Ai black bloc non frega niente di noi ecco perché li abbiamo cacciati via”. Tra gli “acampados” di via Nomentana: loro la casa e la macchina ce l’hanno di Corrado Zunino

HANNO deciso di stare ai patti, dopo aver registrato il successo del lungo corteo del sabato che ha attraversato lento e corposo il centro di Roma. Hanno attutito i guaiprevisti.
HANNO abbandonato alle imprese luddiste i violenti d’attitudine e i disperati crescenti (sempre più giovani, va registrato). Quelli di Porta Pia, i post-indignati, glioccupy per sempre, restano a presidio di una piazza simbolica, ma oggi non paralizzeranno il traffico della Nomentana. Hanno inviato i fax in questura: tredici tende e due gazebo restano ai piedi del ministero delle Infrastrutture, li hanno già spostati, però, nell’area parcheggio liberando l’incrocio.
Quelli di Porta Pia parlano sempre più ad alta voce di rivoluzione — «il giorno che non ci sarà polizia, il giorno che non ci sarà bisogno di un Parlamento e la politica la faremo tutti noi» —, ma tengono la luce accesa sull’obiettivo quotidiano. Sono riusciti a contenere i danni collaterali della marcia più pericolosa dell’anno, necessità primaria per sopravvivere, e, quindi, a portare all’attenzione del paese una questione sommersa eppure urgente: il problema della casa (di chi non ce l’ha, di chi l’ha occupata, di chi, ceto medio andato in pensione con 2 milioni e 800 mila lire e 400 mila lire d’affitto da pagare, ora che la pigione è passata a 1.200 euro al mese è in morosità e sotto sfratto). Quelli di Porta Pia, metà sono stranieri, africani, sudamericani, manovali dell’Est, si mettono in fila per la pasta al sugo con il pecorino preparata dalle madri delle organizzazioni. Leggono i giornali in tenda, commentano acidi lo spazio offerto agli assalti dei black bloc quando l’assedio del corteo voleva essere duro, non violento. Poi alzano lo sguardo verso gli interventi al microfono sul piedistallo della statua dei bersaglieri. Una ragazza, ha preso una manganellata durante le cariche all’Economia, racconta: «A quei centocinquanta che chiamano black bloc non glie ne frega niente di noi e delle nostre lotte, molti hanno casa, macchina e garanzie ».
Non erano solo centocinquanta, in verità. E molti sono sottoproletari urbani. Rivela ancora la ragazza: «Durante la manifestazione un poliziotto si è spostato dal suo contingente, mi ha preso da parte e mi ha detto: “In un’altra situazione ti avrei chiesto il numero di telefono”. Agenti, abbiamo bisogno di voi, venite a difenderci. Difendete i cittadini a cui hanno tolto i diritti». Metà piazza applaude, metà intona canzoncine sulla “malattia polizia”.
Lo scarto degli antagonisti dai luddisti questa volta c’è stato, in parte è riuscito. Il movimento dei movimenti — dicitura riecheggiata ieri, ma il copyright è del Casarini no global del 2001 — ci aveva provato due anni fa, a San Giovanni.Allora la carica rabbiosa fu prepotente, il numero dei casseur impressionante e chiara l’organizzazione dei centri sociali belligeranti. Due anni fa Askatasuna, ora al centro delle lotte No Tav, fu protagonista militare, ieri ha partecipato senza guidare nulla. Così il temuto Acrobax romano. A cinque attivisti fiorentini, ancora, la polizia ha consegnato il foglio di via al casello di Roma Nord, a corteo iniziato. «Io li ho visti in faccia, i vendicatori, quando hanno tirato giù le maschere », racconta Angelo Fascetti, storico leader dell’Asia, movimento romano per la casa. «Ho provato a parlare con loro, ma parlavo con un muro: c’era solo rabbia, voglia di spaccare». Andrea “Tarzan” Alzetta, fuori dal Consiglio comunale di Roma per le sue condanne da strada, fondatore di Action, racconta: «Abbiamo respinto le teste di c… perché qui c’è gente che lotta per cose concrete ».
Sul piano formale il movimento deve restare unito, e allora «non ci sono buoni e cattivi tra noi». Oggi, dopo le prime solidarietà sotto il carcere di Regina Coeli, ci sarà un presidio rumoroso in piazzale Clodio, dove i pm si sono presi 48 ore per valutare le prove offerte dalla polizia per i sei arrestati (tre donne, un cinquantenne anarchico di Genova, poi un sedicenne denunciato). Uno dei sequestri è la mappa con il percorso e i tre obiettivi per l’assedio (ministero Finanze, Cassa depositi e prestiti, ministero Infrastrutture) trovata in una tasca, ma quella fotocopia è stata distribuita a tutti i corteanti alla partenza di piazza San Giovanni.
Una nuova manifestazione, sempre a Porta Pia, è stata convocata per domani, un’ora prima dell’incontro alle Infrastrutture con il sindaco Marino e il ministro Lupi. Le richieste «non sono negoziabili »: blocco degli sfratti e della vendita del patrimonio pubblico, un piano di politiche abitative pubbliche, no alle grandi opere e ai grandi eventi, ritiro della Bossi-Fini e cittadinanza per i rifugiati. Gli antagonisti si infilano tra le contraddizioni delle larghe intese al governo. Il movimento assedierà a Firenze il ministro dell’Interno, Angelino Alfano (tra il 24 e il 26 ottobre), e organizzerà una nuova assemblea a Roma il 9 e 10 novembre. «Porta Pia è stato l’inizio, l’assedio continua, è l’ora della vendetta».

La Repubblica 21.10.13

“Una Maastricht per la ricerca”, di Pietro Greco

«Una Maastricht per la ricerca». È il manifesto programmatico che hanno lanciato, giovedì scorso a Bruxelles, due europarlamentari italiani, Amalia Sartori presidente della Commissione industria, ricerca ed energia e Luigi Berlinguer, già ministro per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca del governo italiano alla fine degli anni 90.
La proposta non è nuova. E andrebbe rafforzata. Ma, oggi più che mai, ha un valore strategico. È una priorità assoluta. L’unica che può far ripartire l’economia creare nuovi posti di lavoro e puntare a uno sviluppo ecologicamente oltre che economicamente sostenibile.
Viviamo – e non è un vezzo accademico ricordarlo – nell’era della conoscenza. In Italia pochi se ne sono accorti, ma ormai i due terzi della ricchezza prodotta nel mondo è ad alto contenuto di conoscenza aggiunto. Non c’è possibilità di crescita economica e neppure di «dolce decrescita» la prospettiva che ha (incredibilmente) proposto di recente per il nostro Paese un noto industriale senza ricerca, scientifica e umanistica, e senza innovazione.
L’Europa o, almeno, parte di essa è l’area che più di ogni altra al mondo sta vivendo la crisi. Non solo e, forse, non tanto per motivi finanziari. Ma anche e, forse, soprattutto, per la sua politica di ricerca scientifica e tecnologica. Una parte dell’Europa – la parte che maggiormente soffre la crisi e che comprende l’Italia – è fuori dall’«economia della conoscenza». Ha un’economia reale che non regge la competizione con il resto del mondo nella produzione di beni e servizi ad alto valore di sapere aggiunto.
Questa parte, Italia in primis, ha bisogno urgente, addirittura impellente, di cambiare modello di sviluppo. E la conoscenza è l’unica opzione che ha, con buona pace di quegli economisti che ci riservano il ruolo di destinazione turistica dei nuovi ricchi dell’Estremo Oriente.
D’altra parte basta una rapida comparazione, per verificare che gli unici Paesi europei che sono fuori dalla crisi e riescono a competere nel mondo della nuova globalizzazione (la Germania, la Svizzera, i Paesi scandinavi), sono i Paesi che investono: nell’alta formazione; nell’industria e nei servizi creativi; nella ricerca scientifica e nello sviluppo tecnologico.
I Paesi che vivono la crisi (Italia in primis) hanno urgente impellente bisogno di nuove politiche nazionali per un’economia (sostenibile) fondata sulla conoscenza. Sapendo, però, che nessuna politica nazionale da sola può riuscire a ribaltare la condizione di declino, che è un declino europeo (seppure con gradienti nazionali diversi).
Se il problema è del continente, allora solo una politica a scala continentale può risolverlo. Le difficoltà che ha l’Europa a entrare, come comunità regionale, nell’economia della conoscenza lo dicono bene nel loro manifesto Amalia Sartori, del gruppo dei popolari europei, e Luigi Berlinguer, del gruppo dei socialisti europei sono essenzialmente due: la quantità e la qualità degli investimenti; la frammentazione delle politiche.
Per oltre tre secoli l’Europa ha avuto il monopolio pressoché assoluto della produzione di nuova conoscenza scientifica e dell’innovazione tecnologica a essa legata. Per oltre settant’anni ha diviso la partnership mondiale con gli Stati Uniti. Ora fatica a tenere il passo anche non solo dei Paesi di più antica industrializzazione (Usa, Giappone), ma anche e soprattutto dei paesi emergenti. L’Europa laurea meno giovani di altre aree del mondo. L’Europa investe in ricerca meno di altre grandi aree geografiche. Da locomotiva della scienza universale ora rischia di diventare un vagone piombato.
Anche la qualità inizia a mostrare i primi segni di incrinatura. Il programma europeo Horizon 2020 sembra aver dimenticato l’insegnamento dell’americano Vannevar Bush che nel 1945 inaugurò la politica della ricerca e aprì l’orizzonte di una nuova economia ricordando il valore prioritario della scienza di base.
Ma, forse, il dato più preoccupante è la frammentazione. Solo il 5% degli investimenti in ricerca nell’Unione Europea è gestito a livello centrale, dalla Commissione di Bruxelles. Il 95% è gestito da stati gelosi. Con il risultato di avere 27 diverse e spesso divergenti politiche.
L’Europa deve riscoprire il suo rapporto privilegiato con la scienza e con l’innovazione. È un problema culturale. Ma anche politico. Occorre realizzare, finalmente e immediatamente, l’antico progetto di Antonio Ruberti: creare un’area europea della Ricerca. È questo il succo, strategico, del manifesto di Amoresi e Berlinguer. Le loro proposte concrete infrastrutture comuni, carriere comuni, cooperazione e coordinamento vanno nella giusta direzione. Ma, probabilmente, non bastano. Per avere una Maastricht della ricerca occorrono dei vincoli stringenti, come quelli della Maastricht economico/finanziaria. Proviamo a indicarne tre, in aggiunta a quelli di Berlinguer e Sartori. Portare gli investimenti europei in ricerca decisi centralmente a Bruxelles dal 5 al 30% entro il 2020. Fissare al 3% del Prodotto interno lordo la soglia minima degli investimenti in ricerca nazionali (di cui almeno l’1% di fonte pubblica). Fissare come obiettivo per il 2020 una quota di laureati nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni pari ad almeno il 50%. Sapendo che l’Europa e, con essa, l’Italia si salvano non solo e non tanto abbattendo il loro deficit finanziario, ma anche e soprattutto abbattendo il loro (ahinoi) crescente deficit cognitivo.

L’Unità 21.10.13

Stupro, Ghizzoni “Serve l’impegno della scuola e della comunità”

Il commento della vicepresidente della Commissione Istruzione della Camera dei deputati. “Il ruolo della scuola è fondamentale e deve essere rafforzato, ma non si può delegare alla sola istituzione scolastica il cambiamento di una mentalità radicata, occorre che tutti gli adulti sentano la responsabilità di essere parte di una comunità educante”: lo afferma Manuela Ghizzoni, vicepresidente della Commissione Istruzione della Camera dei deputati, in relazione alla gravissima aggressione di cui è rimasta vittima una 16enne modenese. “Risorse sono state stanziate per la formazione dei docenti nel decreto contro la violenza sulle donne appena varato – ricorda l’on. Ghizzoni – come Pd stiamo lavorando affinché anche nel decreto “L’istruzione riparte”, che abbiamo appena cominciato a discutere, vengano rafforzate le competenze del personale della scuola in materia di educazione all’affettività e contro gli stereotipi di genere”. Ecco la dichiarazione di Manuela Ghizzoni:
«Siamo agghiacciati dalla gravità di quanto accaduto e nel contempo perplessi da quella che sembra essere una sorta di incapacità degli aggressori, ma anche degli altri giovani presenti, di valutare appieno il peso del reato commesso. Lo stupro da parte del branco non è avvenuto in un contesto sociale e culturale degradato, anzi, almeno all’apparenza, tutto il contrario. Evidentemente le leggi non bastano, non basta la sanzione sociale: bisogna lavorare profondamente per contrastare una mentalità di violenza e prevaricazione nei conforti delle donne a partire dalla scuola. Ma tutta la comunità degli adulti, donne e uomini, devono sentire la responsabilità di quanto accaduto e farsi promotori di una “educazione” che rispetti la libertà e la dignità delle donne. Oggi più che in passato si tende a delegare alla scuola nuove funzioni educative. E in parte è giusto così: non a caso, nel decreto contro la violenza sulle donne appena varato, sono state stanziate risorse da destinare alla formazione dei docenti. Ora, in Parlamento, sta iniziando la discussione per la conversione in legge di un altro provvedimento, il cosiddetto “L’Istruzione riparte”. Come Pd stiamo lavorando affinché, nell’articolo relativo alla formazione del personale scolastico, vengano inserite risorse destinate, cito testualmente, “a rafforzare in particolare le competenze relative all’educazione all’affettività, al rispetto delle diversità e delle pari opportunità, al contrasto degli stereotipi di genere”. Ma di fronte a quanto successo a Modena, dobbiamo anche ribadire che se il ruolo educativo della scuola è fondamentale, e anzi deve essere rafforzato, non si può però delegare alla sola istituzione scolastica il cambiamento di una mentalità radicata: occorre che tutti gli adulti si sentano partecipi di una comunità educante che pratica, e non solo teorizza, il rispetto della dignità delle donne».

“La Cassazione contro le norme sullo stalking: sbagliato il passo indietro sulla querela irrevocabile”, da ilsole24ore.it

La Cassazione boccia la legge sul femminicidio appena approvata (tra le polemiche) dal Parlamento. A non piacere è soprattutto la possibilità di ritirare la denuncia per stalking quando è relativa ad atti non gravi (a fronte di gravi minacce ripetute, ad esempio con armi, la querela diventa irrevocabile). Sbagliata la «parziale retromarcia» sull’irrevocabilità della querela.
In una relazione firmata dal vice direttore Giorgio Fidelbo e redatta dal consigliere Luca Pistorelli, l’Ufficio del Massimario della Suprema Corte critica vari aspetti del decreto con le misure contro la violenza sulle donne definitivamente convertito in legge a metà ottobre, e in particolare l’irrevocabilità, uno dei punti qualificanti della prima versione del provvedimento. «Scelta che però ha avuto vita breve – fa notare la Cassazione – giacché la legge di conversione è nuovamente tornata sulla disposizione citata, cercando un compromesso tra le opposte esigenze di rispettare la libertà della vittima del reato e di garantirle una tutela effettiva contro il menzionato rischio di essere sottoposta ad indebite pressioni». Si è fatta così «una parziale retromarcia».
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Remissione processuale non tutela dal rischio di pressioni indebite
«Il Parlamento ha deciso di ripristinare la revocabilità della querela, salvo nel caso in cui il reato sia stato realizzato “mediante minacce reiterate”, e ha posto dei paletti: la remissione deve essere esclusivamente processuale. L’intenzione del Legislatore era quella di «affidare al giudice il compito di svolgere una verifica effettiva sulla spontaneità remissione della querela». Ma poiché «è remissione processuale della querela anche quella resa alla polizia giudiziaria o mediante procuratore speciale», lo strumento introdotto per delimitare i casi in cui la querela resta revocabile e per «prevenire illeciti condizionamenti, non sembra particolarmente funzionale allo scopo» e presenta dubbi interpretativi.

Bene nuova aggravante comune su “violenza assistita”
Positivo, invece, il giudizio sulla norma relativa alle aggravanti nei casi di “violenza assistita”, quando cioè i minori assistano a episodi di violenza. Nel testo originario erano previste solo per maltrattamenti in famiglia e rapina, e non invece per reati più gravi, suscitando molte perplessità tra i giuristi. «Riserve di cui il Parlamento si è fatto carico», osserva la Cassazione, provvedendo a «configurare una nuova aggravante comune» a tutela dei minori di 18 anni e anche delle donne in gravidanza. Ciò non toglie che, nell’applicazione concreta, possa esserci qualche «interferenza» con altre disposizione del Codice penale.

Atti persecutori, perplessità sulla definizione di “relazione affettiva”
Il giudizio del Massimario promuove anche la ridefinizione del reato di atti persecutori, con una formulazione che supera un limite della legge precedente legge sullo stalking del 2009: quello che delimitava il reato al coniuge legalmente separato o divorziato o all’ex partner della vittima. La legge di conversione, invece, «ha ora definitivamente recepito le osservazioni critiche» dei giuristi sul punto, e ha preso come parametro unicamente la relazione tra due persone, convivenza o vincolo matrimoniale, attuale o pregressa. Un buon risultato, secondo la Cassazione, anche se restano «perplessità» sulla nozione di “relazione affettiva”, che, piuttosto sfuggente, «si presta a incontrollate estensioni interpretative dell’aggravante» stessa.