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«In Senato per dire ai politici: non strumentalizzate la ricerca», di Giovanni Caprara

«Che forza c’era in Rita Levi Montalcini, che entusiasmo per la scienza, che determinazione nelle sue idee». Elena Cattaneo, illustre ricercatrice e neosenatore, ricorda la grande scienziata con passione. «Se penso alla sua scoperta, sono ammirata perché nel suo tempo aveva davanti due sfide: il deserto della conoscenza nel quale si inoltrava e la solitudine in cui agiva, pensava, esplorava. Non era come oggi che con Internet è facile scambiare pareri, comunicare, vedere ciò che di nuovo continua a emergere. Immagino quali fatiche quotidiane deve aver affrontato per far fronte al desiderio inarrestabile della sua ricerca, delle idee che la sua mente coltivava in maniera inarrestabile. Esile nella figura ma che grande esempio per tutti noi».
C’è un’ altra scienziata rimasta indelebile nei ricordi di Elena Cattaneo ed è Margherita Hack. Anche lei ci ha lasciato, come Rita Levi Montalcini, nei mesi scorsi creando un vuoto perché entrambe erano parte attiva della società oltre che della scienza. «Era un personaggio pluridimensionale — rammenta — non guardava solo le stelle ma condivideva senza sosta e grande partecipazione la vita civile. Penetrante era la sua azione, il suo parlare, la sua sensibilità al mondo quotidiano che la circondava».
Essere ricercatrice, oggi, non sempre è facile. «Ma per me non c’è differenza alcuna. Maschi o femmine si confrontano con i problemi e ciò che è importante è la loro capacità. Nella costruzione di una squadra io guardo con trasparenza ai valori che si esprimono. Considero tutti indistintamente coloro che hanno idee, guardano all’obiettivo e alla loro voglia di raggiungerlo. Certo, talvolta le esigenze della vita cambiano la storia personale. Essenziale è per una scienziata la complicità familiare perché ognuna ha il diritto di inseguire le proprie aspirazioni. Sempre confrontandosi con i colleghi a pari merito e tutte le difficoltà si possono superare. Pensiamo a scienziate come Fabiola Gianotti al Cern, alla guida di tremila ricercatori, nella sfida affascinante delle frontiere della fisica; o a Elisabetta Dejana che all’Ifom di Milano scruta i segreti dei geni per curare malattie; oppure a Maria Grazia Roncarolo dell’Ospedale San Raffaele-Telethon, esploratrice di successo degli enigmi del nostro sistema immunitario».
Poi c’è la scienza unita alla politica, nuova dimensione di Elena Cattaneo, senatrice a vita. «Il presidente Giorgio Napolitano mi ha nominato pensando all’importanza del mondo della ricerca, parte inscindibile, ormai, delle grandi decisioni che la politica deve esprimere. E da essa possono uscire prospettive bellissime per la nostra vita, il nostro futuro, ma talvolta escono anche cose cattive, pericolose».
Purtroppo gli esempi di questi mesi confermano la mancanza di legame tra chi decide politicamente e la necessità di sapere il significato di ciò che nell’Aula si affronta e le conseguenze generate. «Penso — aggiunge con un filo di tristezza, unita alla voglia di intervenire e cambiare — alle scelte compiute sul presunto metodo stamina, privo della verifica scientifica, alla incredibile lotta che si è aperta contro la sperimentazione animale, senza sapere che non si possono conquistare risultati utili alla nostra salute senza una ricerca priva di queste possibilità».
Ma che cosa si può fare perché la pericolosa condizione del dibattito politico muti la sua direzione diventando più consapevole e responsabile? «Ognuno deve esercitare il suo ruolo. Ci sono questioni nelle quali si deve ascoltare lo scienziato invece che strumentalizzare il tutto emotivamente per interessi politici di parte. Io farò tutto ciò che devo e non sarò sola, perché il Senato possa legiferare al meglio della conoscenza dei temi scientifici che tratta e affinché nell’Aula cresca una nuova sensibilità e attenzione oggi indispensabile per affrontare le preziose prospettive della biologia, dalle staminali agli ogm, entrate nelle opportunità della nostra vita. Dobbiamo fermare il pericoloso declino del Paese ricco di storia, arrestare l’irrazionalità e la superficialità dilagante, stimolare i giovani a impegnarsi, a studiare. E dobbiamo diffondere i valori della scienza come il Festival della scienza di Genova da anni si impegna a fare».
Un pensiero finale di Elena Cattaneo corre verso Marie Curie. «Quanto coraggio deve averla sostenuta — conclude — in un mondo e in un’epoca dove la donna nella scienza non era considerata. Pensiamo a queste grandi donne e anche noi trarremo forza» .

Il Corriere della Sera 21.10.13

“Qualcuno dica che quel gioco non è un gioco”, di Concita De Gregorio

È Come stare pomeriggi interi al telefono, a canzonare il tempo a prenderlo in contropiede e ingannarlo. Una ragazza di sedici anni è una persona a cui la vita deve ancora succedere e non lo sa, e ha un po’ paura e un po’ fretta, e molto desiderio che passi veloce il momento e che arrivi quello, alla meta dei diciotto, in cui “nessuno mi può obbligare, ora”.
Io non lo so, nessuno lo sa tranne lei e quelli che erano lì, cosa è successo alla ragazzina di Modena che – dicono gli investigatori, i parenti, ora anche gli adulti che rivestono incarichi pubblici – una sera d’estate a una festa di compagni di scuola è stata violentata da cinque, sei, non è sicuro quanti amici. Amici, attenzione. Nessun livido, nessun graffio, nessun segno di violenza che segnali la sopraffazione fisica in senso proprio. Erano compagni di scuola. Alcuni maggiorenni da poco, varcata l’agognata meta dei diciotto, altri, almeno uno, no. Aveva bevuto lei, avevano bevuto probabilmente tutti perché come sa chi si guarda intorno gli adolescenti, oggi, bevono. Superalcolici, moltissimo. Costano meno delle droghe, spesso si trovano nelle case già disponibili all’uso. Shortini, alla mescita. Pochi euro a bicchiere, nessuno chiede la carta d’identità. Bevono i quindicenni come i trentenni, uguale.
Io non lo so com’è andata, quella sera, in una casa della più rassicurante delle città emiliane, la Modena delle scuole modello degli imprenditori che non si arrendono al terremoto, delle donne imprenditrici che vendono figurine nel mondo, dei ristoranti celebrati oltreoceano. Uno faceva il palo, scrivono gli agenti di polizia, gli altri a turno nella stanza “avevano rapporti sessuali completi” con la ragazzina. Non c’è niente di più algido di una relazione, niente di meno adatto a descrivere il tumulto, il disordine, lo sgomento, la resa. Lei cosa pensava, come stava, cosa voleva, cosa diceva? Non si sa, nessuna relazione può raccontarlo.
Dicono, i verbali, che erano tutti ragazzi “incensurati e di buona famiglia”. Aggiungono, le cronache, che sono passati quasi due mesi dall’evento e che nessuno – nessuno – ha fatto un gesto o ha detto qualcosa, né a scuola né in famiglia, nelle molte famiglie coinvolte, che somigliasse alla presa d’atto di un reato, o quanto meno di una vergogna, di una colpa, di un dispiacere. Niente, silenzio. Il sindaco ieri ha detto che “inquieta che questi ragazzi non distinguano il bene dal male”. Inquieta, certo. Pone il problema della responsabilità. È loro, che geneticamente, naturalmente non sanno distinguere o è della generazione che li ha cresciuti, e non gli ha fornito i ferri essenziali per l’opera di elementare distinzione? È dei figli o dei padri, la colpa?
Anni fa, a Niscemi, Caltanissetta, un gruppo di minorenni massacrò di botte, strangolò con un cavo di antenna e gettò in una vasca di irrigazione una coetanea, Lorena Cultraro, 14 anni. Era incinta, rivelò l’autopsia. Uno degli assassini, quindicenne, chiese al giudice, dopo aver confessato l’omicidio: “Ora che le ho detto cosa è successo posso tornare a casa?”. A vedere la tv, a giocare alla play. Tornare a casa. Era il 2008, cinque anni fa. Si scrissero articoli sgomenti, intervennero psicologi di fama, dissero che certo in quelle zone del Paese, al Sud, è tutto più difficile. Zone d’ombra, povertà di mezzi e di sapere, l’adolescenza sempre un enigma. Ora, cinque anni dopo, siamo a Modena. Emilia culla di bandiera di democratica civiltà e di sapere. Certo questa ragazzina non è morta, per sua fortuna. Forse non ha nemmeno lottato per evitare quel barbaro rituale che chissà, magari era proprio quello che l’avrebbe fatta diventare grande, finalmente. Forse per qualche tempo ha pensato: è stato quello che doveva essere.
Però arriverà, deve arrivare, il momento il tempo e il luogo in cui qualcuno di molto molto autorevole senza essere per questo canzonato e dal coro irriso dica no, non è quello che deve, non è questo che devi accettare per essere accettata. Non devi fare silenzio. Verrà il giorno in cui questo tempo avariato scadrà e sarà buttato come uno yogurt andato a male e ricominceremo tutti, dalle case, dalle televisioni, dai giornali, dalle scuole elementari a dire alle bambine: quando ti chiedono di stare al loro gioco, digli di no. È un gioco sbagliato, non è il tuo gioco. Non è nemmeno un gioco.
Verrà il giorno in cui capiremo l’abisso in cui siamo precipitati pensando che fosse l’anticamera del privé del Billionaire, che fortuna essere ammessi all’harem, e sapremo di nuovo dire, come i nostri nonni ci dicevano: è una trappola, bambina. Quando ti chiedono di mostrargli le mutande non è vero che si alza l’auditel, come dice la canzone scema. Quando te lo chiedono vattene, ridigli in faccia e torna a casa.

La Repubblica 21.10.13

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Stuprata dagli amici, la rabbia di Modena “Quei cinque dovevano essere arrestati”, di CATERINA GIUSBERTI

Modena si è svegliata in un incubo, ieri mattina. «Dov’erano gli altri amici mentre una loro compagna sedicenne veniva violentata nel bagno, durante una festa? E perché i cinque ragazzi – quattro 18enni e un 17enne – indagati dalla procura di Modena e da quella dei minori per violenza sessuale di gruppo aggravata, sono ancora a piede libero?». Se lo chiedono nei bar, alle fermate dell’autobus, nei tavolini del Caffé Concerto di piazza Grande, nelle telefonate concitate tra presidi, professori, genitori. Il primo a dirlo a voce alta è il sindaco, Giorgio Pighi. «In questa vicenda ciò che più mi ferisce è la mancanza di solidarietà tra i ragazzi, gli altri amici e le altre amiche che sapevano e non hanno impedito quanto stava accadendo».
Poco importa, precisa il sindaco, che «non ci siano tracce di botte o lividi, anche aver approfittato della situazione è altrettanto grave». È gravissimo il ruolo degli “spettatori” anche per Annalisa Guarini, ricercatrice in psicologia dell’Università di Bologna ed esperta di bullismo. «Il tema che inquieta di più in tutta questa vicenda — dice — non è solo la colpa degli aggressori, ma anche il ruolo di questi spettatori, che hanno una responsabilità durante e dopo. Non basta dire io fisicamente non ho fatto niente. Gli altri 25 che cosa stavano facendo mentre i cinque erano chiusi in bagno con la ragazza? ».
Lei, la ragazza, a quella maledetta festa c’era andata con due amiche, persone che aveva già frequentato, con le quali usciva abitualmente. Il suo ragazzo era via per le vacanze, lei era in città, aveva accettato l’invito. Conosceva il padrone di casa, uno di quelli che ha poi abusato di lei. Sembrava una serata normale: l’estate, la piscina, la cena, il dopo cena. Una ragazza normale, con una vita sentimentale serena, ottimi voti a scuola, una famiglia tranquilla. Poi la festa, i cocktail uno dopo l’altro. E l’incubo: dentro al bagno e fuori, dopo. Quando nessuno le ha offerto aiuto, nessuno l’ha portata al pronto soccorso, nessuno l’ha accompagnata a casa. C’è andata da sola, a casa. E sempre da sola ha trovato il coraggio di parlare con la madre, e denunciare tutto. Madre che ora rifiuta di parlare e che ieri, leggendo la storia della figlia sui giornali, è scoppiata in lacrime.
A settembre la ragazza è tornata a scuola, fianco a fianco con i suoi aggressori. «Sono rimasta molto, molto perplessa — sbotta il provveditore Silvia Menabue — per il fatto che questi ragazzi siano ancora a piede libero. È stupefacente. Mi pare un ulteriore offesa alla ragazza, costretta a vivere accanto ai propri aguzzini. Ma questo è frutto dell’insensibilità degli adulti, non dei ragazzi». Per Daniela Rebecchi, psicologa dell’Ausl di Modena, è una vicenda «inquietantissima soprattutto pensando a quello che facciamo a Modena
per prevenire la violenza sulle donne ». Dura anche Patrizia Zanolini, avvocato e presidente dell’associazione Donne e giustizia. «L’aspetto più grave — dice — è che dietro quei ragazzi non esistono famiglie. Oltre che colpevolizzare loro bisognerebbe colpevolizzare i genitori, che in questi mesi evidentemente li hanno coperti, non li hanno spinti a costituirsi. Davanti a vicende come queste si prova vergogna, si fa di tutto per insabbiare. Ma dei 18enni in un bagno con una ragazza stanno commettendo un atto di violenza, sono assolutamente imputabili e con il nuovo decreto sul femminicidio potrebbero già essere in carcere». Per il comandante dei carabinieri Stefano Savo però si è trattato di una «normale applicazione della procedura penale, dato che non c’era rischio di reiterazione ne possibilità di fuga. Nessun garantismo eccessivo». Per andare avanti con il processo, comunque, sarà decisivo l’esito dell’esame del Dna prelevato sui cinque ragazzi, che dovrebbe arrivare entro una decina di giorni.

La Repubblica 21.10.13

“Se la destra non archivia il Cav”, di Michele Ciliberto

La Corte di Appello di Milano ha stabilito in due anni il periodo di interdizione di Silvio Berlusconi dai pubblici uffici. Questo, come recitava uno spot del governo di centrodestra alcuni anni fa, è un fatto, che si aggiunge ad altri due fatti: la condanna della Corte di Cassazione per frode fiscale; il voto di fiducia al governo Letta il 2 ottobre quando Berlusconi, in seguito alla presa di posizione dei ministri del Pdl, fu costretto a rimangiarsi la decisione di fare cadere l’esecutivo.

In qualunque altro Paese si prenderebbe atto di questi fatti e si aprirebbe una nuova pagina nelle politiche del centrodestra italiano, chiudendo una stagione ventennale. Invece, come si vede dalle prime reazioni, i pretoriani di Berlusconi – anche quelli che se ne differenziano nel giudizio sul governo – hanno subito cominciato a parlare di persecuzione giudiziaria, di condanne ad personam, di agibilità politica che va comunque garantita al loro capo. È singolare ma non stupefacente, che in questa protesta si distinguano soprattutto le cosiddette colombe, quelli cioè che lo hanno «tradito» (il lemma è di Berlusconi) il 2 ottobre in occasione del voto di fiducia: quasi a volersi ricostituire una verginità e a dichiarare la propria legittimità nell’aspirare alla eredità politica del leader finito. Miserie di cui è costellata la vita politica italiana di questi mesi, istinti darwiniani. Ma il problema è questo: ci sono, nell’ambito del centrodestra attuale, forze che siano in grado, per motivi strategici e non per opportunismo, di avviare una nuova stagione chiudendo il lungo dominio di Berlusconi? Ovviamente non è solo un problema del centrodestra; e che sia all’ordine del giorno è dimostrato proprio dai cataclismi che si producono con ritmo quotidiano sia nel Pdl che in Scelta civica. Partiti che hanno come terreno di scontro l’opposto giudizio sul governo da parter dei «governativi» e dei «lealisti» fedeli al vecchio leader (e anche questo lessico è indice dei processi di feudalizzazione in corso). La principale differenza politica fra costoro si potrebbe esprimere in questi termini: gente come Mauro, Alfano, Lupi, Casini vuole fare propria, mutatis mutandis, l’eredità di Berlusconi; Monti – che qualunque sia il giudizio sulla sua opera di governo è persona di altro livello – vuole rompere con quella eredità e operare, rispetto al ventennio passato, una svolta strategica reale, ancorata effettivamente, e non in forma propagandistica, ai valori e alle politiche del Partito popolare europeo. Nel centrodestra la posta attualmente in gioco è dunque altissima, perché concerne il suo futuro e, come è naturale, anche il giudizio sul passato. E con questo arriviamo al punto centrale del problema, al berlusconismo.

Nonostante lamenti e piagnistei, Berlusconi è ormai personalmente «out» ma il berlusconismo continua ad essere vivo e vegeto. Ed è un sistema profondamente radicato nella politica e nella storia italiana, con proliferazioni anche nello schieramento di centrosinistra (e neppure questa è una novità). La classe dirigente del centrodestra – parlamentari, manager pubblici e privati, giornalisti, cortigiani di diverse competenze – pur avendo varia provenienza (democristiana, radicale, socialista), è berlusconiana come concezione del potere, dei rapporti tra i poteri, come cultura politica e ideologia sociale. È berlusconiana soprattutto nella concezione della democrazia. È gente abituata a muoversi sul terreno del «dominio», un dominio dolciastro, ma sempre «dominio» e in questo senso non è un frutto maligno caduto dal cielo: è profondamente radicata nella storia della destra italiana.

Pensare perciò che d’improvviso possa realizzarsi una conversio – cioè una effettiva e profonda trasformazione – nello schieramento del centrodestra italiano quale si è strutturato negli ultimi venti anni, è una illusione politicistica degna di una fiction televisiva. Si ripete spesso che la fine politica di Berlusconi non coincide con la fine del berlusconismo: giusto, eppure non se ne traggono le necessarie conseguenze. Come ci fu una «cultura» del fascismo, c’è stata una «cultura» del berlusconismo, anche se ci sono voluti molti anni per rassegnarsi a riconoscerlo: una «cultura» materiale e di «massa» diffusa in modi e forme capillari.

Se questo è vero, la costruzione di un nuovo centrodestra e di un efficace bipolarismo – fondamentale per l’Italia – è un lavoro arduo e complicato da svolgere sul piano culturale, politico, sociale, perché implica un’idea dell’Italia e del suo destino negli Stati uniti di Europa. E sarebbe bene che quelli come Monti capissero la profondità e la complessità del problema, se non vogliono continuare ad accumulare sconfitte e generare «traditori» (altro lemma tipico dei tempi).

Così come sarebbe necessario che la sinistra comprendesse che costringere la destra a darsi altre e nuove strategie liquidando il berlusconismo in tutte le sue forme, è un compito che la riguarda direttamente, perché coinvolge il presente e il futuro dell’Italia, e anche se stessa. E che agisse perciò di conseguenza: come direbbe il filosofo, i «contrari» operano nello stesso «soggetto» e ne portano la responsabilità. Altrimenti continueremo a camminare sull’orlo dell’abisso, come stiamo facendo da troppo tempo.

L’Unità 20.10.13

“Inesistente il welfare per le mamme”, di Luigina Venturelli

Non è certo per scarso spirito materno che le italiane fanno meno figli delle francesi, con un indice di natalità che non raggiunge la media di 1,4 figli per donna rispetto al 2 tondo tondo delle transalpine. Né è per un caso sfortunato che l’occupazione femminile in Italia non arriva nemmeno al 50%, di dodici punti più bassa della media europea e di oltre venti rispetto all’inavvicinabile Svezia. La causa principale a cui sono riconducibili queste pesanti carenze del nostro Paese – e, in ultima anali-i, la sua generale difficoltà ad uscire dalla crisi economica per agganciare la ripresa – è la scarsa spesa pubblica che lo Stato italiano destina alle mamme che lavorano.

Secondo l’Osservatorio sull’imprenditoria femminile curato dall’Ufficio studi di Confartigianato – che verrà presentato domani a Roma, nel corso del- la 15esima Convention di Donne Impresa – la spesa pubblica per aiutare le don- ne a far nascere e crescere i figli è pari a 20,3 miliardi, pari all’1,3% del Pil e inferiore ben del 39,3% rispetto alla media dei 27 Paesi dell’Unione europea. In particolare, le prestazioni assistenziali a favore delle nascite – tra cui rientrano le misure di sostegno al red- dito per le madri in maternità – si asse- stano sui 3,1 miliardi di euro, una cifra inferiore del 26,6% rispetto alla media europea. Quelle a sostegno della crescita dei bambini – come gli assegni familiari – sono di 2,8 miliardi, più basse del 51,2% rispetto alla media Ue, mentre quelle destinate ai giovani sotto i 18 anni ammontano a 6,6 miliardi, uno stanziamento inferiore del 51,5% rispetto a quello europeo.

LE CONSEGUENZE SOCIALI

Ma uno Stato poco generoso nei confronti delle famiglie, incapace di attribuire il giusto peso agli investimenti in welfare per favorire la conciliazione tra attività professionali e cura familiare, inevitabilmente paga pesanti conseguenze sociali. La crisi economica e la qualità dei servizi pubblici per la famiglia, infatti, influenzano direttamente la natalità, che in Italia ha registrato un costante calo delle nascite, diminuite tra il 2008 e il 2001 del 7,3%.

Insieme con la diminuzione delle nascite, è in discesa anche l’utilizzo di alcuni strumenti di welfare a sostegno della maternità e della conciliazione lavoro-famiglia. In dettaglio, il congedo obbligatorio retribuito di maternità che spetta alla lavoratrice madre, dipendente o autonoma, nel 2012 ha visto un calo del 6,8% degli utilizzatori rispetto al 2011: la diminuzione è stata del 5,6% per le dipendenti, mentre è crollata del 17,6% per le lavoratrici autonome e del 18,6% per le artigiane. Stessa sorte per il congedo parentale, i cui utilizzatori sono scesi del 4,9% tra il 2011 e il 2012, mentre per quanto riguarda l’assegno di maternità dello Stato e dei Comuni, il calo dei beneficiari è stato del 4%. Segno negativo anche per l’assegno al nucleo familiare, i cui destinatari sono diminuiti dello 0,9% nell’arco dei dodici mesi in esame.

L’Osservatorio di Confartigianato si è occupato anche di verificare il livello qualitativo di alcuni servizi pubblici utili per le donne che devono conciliare lavoro, famiglia e maternità. E i risultati dell’analisi, purtroppo, non si sono rivelati confortanti. I servizi comunali per l’infanzia, come gli asili nido, i micronidi o i servizi integrativi e innovativi, sono infatti utilizzati soltanto dal 14% dei bambini sotto i 3 anni. Non va meglio per la quota di posti letto nei presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari che sono, sulla media nazionale, pari a 7 ogni mille abitanti. Molto bassa anche la percentuale degli anziani sopra i 65 anni che utilizzano il servizio di assistenza domiciliare integrata, pari ad appena il 4,1%.

Ne consegue una forte incidenza negativa sull’occupazione femminile: in Italia quasi una donna su due (46,5%) è inattiva. Con differenze molto marcate tra Nord e Sud: se a Bolzano il tasso di inattività femminile è pari al 31,9%, in Campania tocca il record negativo del 64,4%. Pur in un contesto così problematico per il lavoro femminile, l’Italia mantiene però la leadership in Europa per il maggior numero di imprenditrici e lavoratrici autonome: 1.524.600, pari al 16,3% delle donne occupate nel nostro Paese, rispetto alla media europea del 10,3%. In particolare, le imprenditrici artigiane sono 364.895.

L’Unità 20.10.13

“Destinazione 34° parallelo qui dove si salvano i disperati”, di Andrea Malaguti

Il mare ha restituito un altro cadavere. È lì sotto. Gonfio. Bianchiccio. Gelatinoso. I pesci si sono mangiati il naso, le orecchie, un pezzo della bocca. E quello che rimane del volto è girato verso l’alto. Le braccia larghe come se fosse crocifisso. E attorno al corpo una macchia bluastra. Dall’elicottero è impossibile dire se sia una vittima del naufragio del 3 o dell’11 ottobre. L’ha avvistato il tenente di vascello Riccardo Chericoni, a tre miglia da Lampedusa. Adesso. Alle 11 di mattina.
Ha identificato il punto e chiamato i soccorsi. È lui che pilota l’AB 212 che integra il lavoro del pattugliatore Vega, una delle cinque navi della marina militare impegnate nell’operazione «Mare Nostrum». Una barriera più umanitaria che difensiva pensata per contenere, come se fosse possibile, questa mattanza che dura da vent’anni. Chericoni ha detto: «C’è qualcosa laggiù». E si è abbassato evitando che le pale sollevassero un’onda. «Che cos’ è quella macchia blu, tenente?». «Il corpo che si sfalda. In un processo che si chiama saponificazione», ha risposto ai due giornalisti a bordo. Poi ha ripreso il volo. Verso sud. E ha girato attorno alla nave Vega che controlla un quadrante largo trenta miglia e lungo novanta, arrivando fino al 34° parallelo, coprendo la rotta battuta dai barconi che partono dalla Libia.

Il ponte, visto dal cielo, è grande come un guscio di noce. Come fa a fermarsi lì sopra? È assurdo. Non c’è abbastanza spazio. Invece c’è. «Possiamo scendere anche su ponti più piccoli. Siamo bravi noi italiani». Il rumore delle pale cessa. Due uomini fissano con le catene l’AB 212. Attorno c’è solo acqua. Uno sterminato orizzonte liquido profondo centinaia di metri. Di notte, nell’oscurità, mette paura. Che cosa devi avere in testa per affrontarlo a bordo di una bagnarola di legno?

La nave Vega è un pattugliatore d’altura, con un equipaggio di sessanta persone. Adesso, a bordo, ci sono anche otto uomini del reparto speciale San Marco. Un medico. Un infermiere. In più l’elicottero. È fuori da domenica scorsa. Ci resterà per altri otto giorni. Nelle sue ultime due settimane in mare è intervenuta sette volte, caricando 330 naufraghi, scortandone altrettanti fino a Lampedusa. Il comandante è il tenente di vascello Giovanni Urro, un pugliese di 34 anni con i lineamenti da James Franco. Ha organizzato i suoi uomini in tre turni di otto ore. «Siamo in grado di intervenire pressoché in ogni condizione. Ci aiuta una strumentazione sofisticata». Radar, visori a infrarossi, sistemi satellitari. Una rete difficile da penetrare adesso che le navi in ricognizione sono raddoppiate. «Non ci si può avvicinare ai barconi. Sarebbe il caos. Spesso sono lunghi dieci metri e magari portano più di duecento persone l’uno. Molti si butterebbero a mare per cercare di salire sulla Vega da soli». Così in acqua viene calata una scialuppa che fa la spola offrendo il primo soccorso. Salvagenti individuali. Cibo, acqua, coperte. C’è sempre odore di marcio. Di decomposizione. La puzza di benzina si mischia a quella degli escrementi, del sudo

«Sul ponte li visitiamo e facciamo un primo censimento. È il momento in cui diventa chiaro che queste persone non sono numeri. Sono spaventati, confusi, ma rimangono calmi». Come se il dolore avesse insegnato loro l’economia dei gesti. Ma soprattutto la necessità di affidarsi al destino. Quando sono fortunati quel destino è la Vega. Diversamente è la saponificazione. «Spesso diamo loro i vestiti che i nostri uomini hanno portato da casa. E i piccoli avresti voglia di adottarli tutti». Come diceva Chericoni? «Siamo bravi, noi italiani». A volte. Non sempre. Non tutti. Questi sì.

Di notte i bambini dormono agitati. Gridano. Si alzano. Sono angeli sonnambuli. Le mamme li abbracciano, li baciano, promettendo di proteggerli per sempre. «All’inizio ci chiedevamo perché molti ragazzini attorno a dieci anni avessero i capelli rasati. Poi abbiamo capito». Massimiliano Rossignolo, secondo in comando, accende il computer della saletta operativa. Mostra una serie di filmati. Di fotografie. Cataste di esseri umani appiccicati come galline bagnate. Molti sono feriti. Alcuni hanno le braccia e le gambe rotte. Perché? «Una donna eritrea mi ha raccontato il suo calvario. È emblematico». La fuga dal Paese, a piedi, tre mesi per arrivare in Libia. Le botte degli scafisti. Lo stupro. «Ora vattene o ti ammazziamo». L’incubo del mare. L’arrivo sulla Vega. «Mi ha detto che radono le bambine per proteggerle. A dieci anni, senza seno, è difficile distinguerle dai maschi, così nessuno pensa di violentarle». Gli si arrossano gli occhi. «Le ossa rotte, invece, sono frutto dei pestaggi».

Sul monitor passano le immagini di corpi sottili come ombre, che evidentemente si sentono il canale di una pena che viene dal passato e che attraverso i viaggi, e soprattutto gli occhi di molte generazioni, inclusa la loro, si trasformerà prima o poi in vita vera. Oggi essere umiliati, defraudati, stuprati, lo considerano l’inevitabile il prezzo da pagare. «Viaggiano in mezzo al loro vomito, perché quando finiscono l’acqua dolce usano quella di mare e il loro stomaco non regge. Li troviamo sempre disidratati e febbricitanti», dice Sebastiano Laudani, il medico di bordo. Un’umanità persa nei labirinti della Creazione, che si aggrappa alle navi come alla fonte di una nuova vita. «Non è così. Loro lo sanno. Noi lo sappiano. Ma cerchiamo di dargli un po’ di conforto. E loro lo danno a noi».

I clandestini questo calore se lo appiccicano addosso come una seconda pelle, eppure mentre la terra si avvicina anche i respiri, che confondono il sollievo con la malinconia, tra le loro labbra continuano a sembrare singhiozzi.

La Stampa 20.10.13

“Il restyling del ceto medio”, di Nadia Urbinati

Le tensioni sociali che crescono nei Paesi europei, e sempre più fortemente in Italia, impongono una responsabile riflessione a politici e governanti sulla qualità e l’impatto delle loro scelte, sull’impossibilità di continuare con la politica delle misure contingenti. Spostare i libri sugli scaffali è un restyling che non basta a dare l’impressione che si cambi l’ordine delle cose. Sul fronte della diagnosi, politici e governanti devono interrogarsi sul peso che le loro scelte hanno e avranno sulla classe media, la cui sofferenza va di pari passo con la sofferenza della democrazia. Esserne consapevoli è la premessa per comprendere l’importanza delle politiche sociali e l’irragionevolezza di procedere senza un progetto che le rilanci, un nuovo New Deal per le democrazie sociali in declino.
C’è abbondanza di analisi quantitative sulla classe media e tuttavia, come ha osservato l’economista Anthony Atkinson, essere classe media è un affare complicato che il reddito da solo non spiega: perché avere aiuto domestico, affittare o possedere una casa decente, avere un lavoro ben retribuito o condurre un’attività lavorativa autonoma, non si traduce sempre e dovunque in una qualità della vita associabile con la condizione della classe media. E inoltre, in alcuni Paesi, come l’Italia, queste condizioni economiche diventano, ogni giorno di più, un privilegio di pochi. La classe media si è impoverita e la democrazia ne paga le conseguenze in termini di stabilità sociale e legittimità politica.
In tutti i Paesi occidentali la classe media ha subito un processo di dimagrimento. In Italia la classe media non è più quel largo e solido cuscino tra i pochi veramente ricchi e i pochi veramente poveri. La classe media comincia a essere per troppi un privilegio. E questo è un paradosso stridente, visto che la sua condizione mediana si è affermata proprio contro i privilegi di classe e per garantire al più gran numero di persone, con il lavoro e la professione, quella solidità di vita materiale e di riconoscimento sociale che nell’antico regime era solo di pochissimi. Essere classe media ha per questo significato fare da spina dorsale alla cittadinanza moderna.
Va da sé che il maggior nemico del governo democratico è una società nella quale la ricchezza è accumulata in una porzione ristretta della popolazione mentre la maggioranza, o quasi, è composta da chi vive nella povertà effettiva o nel timore di diventare povero. La classe media non è solo una categoria economica, dunque, ma una condizione psicologica e politica: basata sulla “tranquillità dell’animo” o l’essere certi che si può non soltanto vivere decentemente oggi, ma programmare un futuro altrettanto sicuro. È questa condizione di progetto che si è negli anni assottigliata e, in alcuni Paesi, come l’Italia, in maniera davvero consistente.
Se si calcola la classe media solo in base al reddito, non si coglie questo malessere effettivo, sociale, morale e psicologico. Che invece viene registrato da tutti i sondaggi sulle aspettative per il futuro e le preoccupazioni associate alla stabilità della condizione lavorativa propria e dei propri figli. Per cui possedere una casa può comportare un rischio di povertà perché i salari e gli stipendi si erodono o scompaiono e, in aggiunta, perché i servizi sociali sono sempre meno sostenuti dalle politiche pubbliche. Quel che resta della classe media è quindi, per molti, il benessere della classe media di ieri. Viviamo sulle spalle dei nostri vecchi o di chi ci ha preceduto. Con le nostre fatiche non costruiamo più ma sopravviviamo, spesso a malapena.
Una classe media in grande sofferenza, dunque. Alla base della quale vi è un fattore che non viene messo in luce dagli economisti neo liberali: il declino dello stato sociale. Larghe fasce di cittadini devono far fronte al dimagrimento (in alcuni Paesi estremo) dei servizi sociali e al trasferimento sul reddito del costo di prestazione di base: la sanità, la scuola, l’assistenza ai bambini e agli anziani. Dalla capacità a far fronte a queste che sono necessità, non opzioni, si misura l’insufficienza di una definizione della classe media che non presta attenzione alla condizione socio-economica generale e che ispira politiche sociali inefficaci quando non distruttive (si veda la riforma Gelmini). Ecco perché la classe media diventa un vero e proprio indicatore del funzionamento delle democrazie e della fiducia dei cittadini verso le politiche dei loro governi.
Quello che i neo liberali non dicono è che la classe media è stata definita presumendo quel che non c’è più, cioè uno Stato che si prendeva cura di molte delle funzioni necessarie che oggi gravano direttamente sul reddito. La classe media presumeva un’economia socialdemocratica. Nulla di che sorprendersi, perché le democrazie sono rinate nel dopoguerra sulla promessa della piena occupazione in cambio del contributo fiscale per finanziare le condizioni sociali della cittadinanza, come la scuola, la sanità e l’assistenza. Su questi pilastri si è consolidata sia la classe media sia la democrazia; sul loro sgretolamento si gioca l’intero ordine delle cose.
Il destino della classe media coincide con quello della democrazia sociale. Per questo, una politica democratica non può non aiutare la solidità della classe media con politiche sociali. È irragionevole non vedere questo problema nella sua magnitudine, non comprendere che il malessere sociale si farà sempre meno sporadico e tollerabile.

La Repubblica 20.10.13

“Quella piazza un simbolo: Milano non si piega alla mafia”, di Oreste Pivetta

Forse capita per la prima volta che una figlia debba assistere nascosta ai funerali della madre. Assiste ma non può esserci, non può stare accanto alla bara, non può ricevere i saluti dei parenti e degli amici, non può stringere mani. Assiste, ma si deve nascondere. Unica prova della sua presenza, la voce. Perché Denise Cosco parla alle persone, alcune migliaia, che in piazza liberamente assistono al funerale di Lea Garofalo. La ferocia della mafia e delle sue regole è anche in questa distanza imposta senza pietà tra una ragazza e la madre, nell’aver ridotto una giovane donna ad alcune parole diffuse dagli altoparlanti. La mafia non sopporta i nemici.

Chissà se Denise sarà riuscita a percepire la solidarietà di quanti si sono presentati ieri in piazza Beccaria, a Milano, davanti al comando dei vigili urbani, per quel funerale, mille duemila tremila persone, non una folla oceanica ma c’era il sindaco e il sindaco si spera sia la città, esprima il sentimento di una città, di Milano, di un popolo, di una regione, la più ricca d’Italia e da sempre il boccone più ghiotto. Quale sarà stata la reale partecipazione (partecipare non significa sempre e solo “presenziare”), quanta invece l’indifferenza. Tutti, a Milano e attorno, sanno quanto sia cospicua la presenza della criminalità organizzata. Si cominciò tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta. La grande migrazione trascinò con sé costumi, tradizioni, dialetti, anche vocazioni ed esperienze criminali. Si disse dei “calabresi”. Ma non ci fossero stati loro ci sarebbero arrivati altri. Cominciarono dalla periferia, poi nella provincia. Il sud Milano fu il campo di prova. Qualcuno, piccolo amministratore o piccolo dirigente politico, si lasciò catturare. L’intreccio si sviluppò e arricchì assessori, sindaci e mafiosi. L’altro giorno è stato sciolto un consiglio comunale per mafia. La criminalità si è insediata, si è rafforzata, ha conquistato il territorio e il controllo del territorio significa estorsioni, sfruttamento della prostituzione, spaccio della droga, gioco d’azzardo (in ultimo imponendo ai baristi di ospitare nei loro locali quelle macchinette mangiasoldi), usura, smaltimento dei rifiuti e appalti per l’edilizia. Gli occhi adesso sono su Expo 2015. I milanesi sanno benissimo che non si tratta solo di un fenomeno di importazione, perché al nord la mafia si è persino “globalizzata” e “modernizzata”, riciclando denaro che finisce depositato ovunque.

I funerali a Lea Garofalo, oltre che un segnale d’ammirazione per una calabrese coraggiosa, sono una testimonianza di ribellione di chi non accetta, di chi ancora sente il primato della legalità, di chi crede nella giustizia, nelle norme della convivenza.

Pochi giorni fa fu una festa di quartiere a radunare tante persone attorno ai gestori di alcuni bar, che avevano rifiutato offerte assai vantaggiose per installare quelle famose macchinette, che rubano molto ma garantiscono molto di più a chi le sistema contro la parete di un caffè e le amministra. Lo disse un barista: ho rinunciato a un bel guadagno. Quanti saprebbero “rinunciare a molti soldi”.

Forse sommando tanti atti, tanti gesti, le imprese di tante associazioni, la commozione di alcune migliaia di persone ieri in piazza Beccaria, la stessa presenza del sindaco si può dare il senso di una possibilità di reazione, possibilità che non si vuol lasciare solo nelle mani di magistrati. Gli anticorpi sani che ci salvano da una declino morale senza limiti possono essere numerosi.

Milano potrebbe stare ancora tra gli esempi virtuosi: domani, se riuscirà a salvare l’expo dalla ‘ndrangheta; ieri, con quei funerali. Si procede così: dare l’esempio. Come è successo altre volte. Così alla ricostruzione del dopoguerra, così ai funerali per le vittime di piazza Fontana (quella piazza piena fu il primo altolà al terrorismo). Piazza Beccaria per Lea Garofalo non sarà la stessa cosa, ma il suo valore simbolico non lo si può negare e si capisce l’esistenza di una rete attorno e, soprattutto, dal passato, da una storia di democrazia e di lavoro, viene l’eredità di una cultura della comunità, che sarà minoritaria ma che nei momenti peggiori ha salvato Milano dalla caduta. La battaglia ora è più difficile. La mafia uccide, ruba, sequestra, ma corrompe pure. Rappresenta qualcosa che si insinua e pervade, che ispira una cultura che non sarà mafiosa ma è di certo di tipo mafioso: per pagare in nero un operaio immigrato, per frodare il fisco, per pagare un funzionario pubblico ottenendo un favore non occorre essere mafiosi o camorristi, ma serve riuscire a nuotare sicuri nello stesso mare.

L’Unità 20.10.13