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“Investire in conoscenza per uscire dalla crisi”, di Valentina Santarpia

L’Italia deve investire in conoscenza per cambiare il futuro: la ricetta è più o meno risaputa, è lo chef che la suggerisce stavolta a stupire: si tratta di Ignazio Visco, il governatore di Bankitalia, che parlando al Forum del libro di Bari ha lanciato un accorato appello per rilanciare la scuola e l’università italiana e contrastare quell’«analfabetismo funzionale» che ci mette agli ultimi posti della classifica per livello d’istruzione rispetto agli altri Paesi avanzati. «Il rendimento dell’investimento in conoscenza- ha ricordato il numero uno di palazzo Koch citando Benjamin Franklin – è pi ù alto di quello di ogni altro investimento. E’ la radice del progresso umano e sociale, la condizione per lo sviluppo economico». Per cui la chiave dell’Italia per ritrovare la forza di crescere e competere sui mercati globali, spiega il governatore, sta tutta nella capacità di investire in «capitale umano».

I DATI – Vanno tutti nella stessa direzione: il livello di istruzione dei giovani italiani è «ancora distante da quello degli altri Paesi» e questo, sottolinea Visco, «è particolarmente grave». Nellaclassifica dell’Ocse, pubblicata la scorsa settimana, l’Italia si posiziona, per ogni categoria di età, nelle ultime file tra i 23 Paesi oggetto dell’indagine. Il 70% degli adulti italiani non è in grado di comprendere adeguatamente testi lunghi e complessi al fine di estrarne ed elaborare le informazioni richieste, contro il 49% della media dei Paesi partecipanti. Sette italiani su dieci allo stesso tempo non sono in grado di completare compiti basati sull’elaborazione di informazioni matematiche estrapolabili da contesti verbali o grafici, contro il 52% della media degli altri Paesi. Non è tutto. Il primo rapporto sulla promozione della lettura in Italia, curato proprio dall’associazione Forum del libro, ricorda come nel 2012 oltre la metà della popolazione italiana non abbia letto neanche un libro: succede solo nel 40% dei casi in Spagna, mentre in Francia solo un terzo della popolazione dichiara di non aver mai sfogliato un testo, e in Germania solo un quinto. Anche le percentuali sull’abbandono scolastico non sono confortanti: l’Eurostat segnala che l’anno scorso la quota dei giovani tra i 18 e i 24 anni che ha interrotto precocemente gli studi era prossima al 18%, rispetto all’11-12% di Francia e Germania e il 13% della media europea. E anche se la quota di laureati nella popolazione tra 25 e 64 anni è salita dal 10 al 16%, non si può non considerare il fatto che nella media dei Paesi europei la stessa quota ha raggiunto il 28%, 8 punti in più rispetto al 2000. Non cambia il quadro se si guarda alla platea dei più giovani: nel 2012 solo il 22% dei giovani tra 25 e 34 anni era laureato, contro il 35% della media Ue. Estudiare in Italia conviene meno che negli altri Paesi: mentre nel resto d’Europa, in media, lavorava l’anno scorso l’86% dei laureati contro il 77% dei diplomati, in Italia per chi aveva raggiunto il massimo titolo di studio tra i 25 e i 39 anni la probabilità di essere occupati era pari a quella di chi aveva finito la scuola superiore (73%), e superiore di soli 13 punti rispetto a quella di chi aveva solo la licenza di scuola media.

LE CAUSE- «Lo sviluppo relativamente recente dell’aumento della scolarità e una popolazione mediamente più anziana spiegano solo in parte questa carenza», sottolinea Visco, dato che «anche per i più giovani i ritardi restano ampi». Ci sono altri fattori che vanno presi in considerazione: «Il ruolo della famiglia, l’organizzazione scolastica, i mezzi di comunicazione». Influisce sicuramente anche la «congiuntura economica molto difficile che stiamo vivendo, e che sta imponendo grandi sacrifici a gran parte delle famiglie italiane». Una congiuntura che non è solo la conseguenza della peggiore crisi dal dopoguerra, innescata dalla crisi finanziaria del 2007-2008 e aggravatasi con le tensioni sui debiti sovrani dal 2011. Ma è anche il risultato – è il cane che si morde la coda- proprio di «un diffuso indebolimento della capacità del nostro Paese di crescere e competere».

COME SE NE ESCE – Serve una risposta di sistema, conclude il governatore della Banca d’Italia: delle famiglie, della scuola, della politica, del settore produttivo che esprime troppo spesso un basso livello di domanda di lavoro qualificato. «Il capitale umano – sottolinea Visco – è il perno del nostro ragionamento. Per il sistema produttivo un capitale umano adeguato facilita l’adozione e lo sviluppo di nuove tecnologie, costituendo un volano per l’innovazione e quindi per la crescita economica e l’occupazione». Quanto investe oggi l’Italia in questo capitale? Troppo poco, sottolinea il governatore: poco sopra al 4% del Pil, contro l’11% degli Stati Uniti. Bisogna invertire la rotta, conclude Visco: «Perché i benefici del capitale umano non si esauriscono con quelli di natura materiale: più istruiti si vive meglio e più a lungo».

Il corriere della Sera 19.10.13

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La mezza modernità dell’Italia a scuola

Possibile (parziale) interpretazione della crisi italiana: il salto nella modernità il Paese l’ha fatto solo per un pezzo. Poi l ’ha abbandonato. Viene da pensarlo se si guardano le statistiche sulla scolarizzazione e le si confrontano con i partner europei. Ne risulta un quadro drammatico. Nella fascia di età tra i 25 e i 54 anni, solo il 16,1% degli italiani ha una laurea o un’educazione di livello definito «alto», cioè comparabile (dati e definizioni di Eurostat). La media dell’Europa dei 27 è il 28,8% . La Francia è al 33,4% , la Germania al 28% , la Gran Bretagna al 39,3% . Peggio di noi, non uno dei Paesi della Ue. Nella stessa fascia di età, il 39,5% degli italiani ha un livello di educazione «basso», cioè non ha ottenuto un diploma di scuola secondaria: la media europea è il 23,5% , quella francese il 23,8 , la tedesca il 13,1 e la britannica il 21,4 . Peggio di noi solo Spagna, 41,4% , Malta, 62,8% , Portogallo, 60,4% .
Naturalmente le cose non vanno meglio tra coloro meno giovani, tra i 55 e i 74 anni, che solo in parte hanno beneficiato della scolarizzazione di massa. La percentuale dei laureati è dell’8,6% , superiore solo a quelle maltese (7,1% ) e rumena (7,1% ). La media dei 27 è il 17,6% . La Francia quasi ci doppia (16,7% ) e la Germania (23,8% ) e la Gran Bretagna (27,3% ) non ci vedono nemmeno. Anche in questa fascia di età, la percentuale di italiani con istruzione «bassa» è elevatissima: il 67,5% . Peggio di noi la Spagna, 72,1% , Malta, 85,7% , Portogallo (85,5% ). La media Ue è 42,7% . Partivamo male, da Paese agricolo e poco avvezzo all’università, riservata fino al dopoguerra alle élite . Ci siamo industrializzati, siamo diventati una delle maggiori economie dell’Occidente, ma non siamo lontanamente riusciti a colmare il gap di istruzione con la stragrande maggioranza dei Paesi europei.
Non si tratta di dati statistici di poco conto. Questi numeri danno il segno della difficoltà strutturale, ormai di lungo periodo, che il Paese ha nel rispondere a un’economia globale che chiede di competere attraverso i saperi, le competenze, la ricerca, l’innovazione. Non è che lo studio universitario garantisca qualcosa in sé, che assicuri il successo a un individuo (anche se chi è laureato ha redditi mediamente piuttosto superiori a chi non lo è).È che l’Italia sta del tutto mancando l’adeguamento al mondo di oggi che pretende si punti sulle classiche tre cose: capitale umano, capitale umano, capitale umano.
Sempre l’Eurostat indica che il numero dei cosiddetti dropout , coloro che abbandonano gli studi prima di avere raggiunto un livello medio-alto, è in Italia tra i più elevati. I ragazzi tra i 18 e i 24 anni che non hanno preso un diploma e che non sono più a scuola e nemmeno seguono programmi di training sono il 14,5% del totale della fascia di età. La media della Ue a 27 è l’11% e risultati peggiori si registrano solo in Spagna, 20,8% , a Malta, 17,6% , e in Romania, 16,7% . La Germania e la Francia sono al 9,8% , la Gran Bretagna è al 12,4% . Sono confronti imbarazzanti da commentare. Raccontano l’inadeguatezza dell’Italia a stare nel mondo moderno. E dicono che uscire da questo abisso sarà un processo lungo e difficile. Ammesso che cominci.

Il Corriere della Sera 20.10.13

“La mossa del cavallo”, di Massimo Gramellini

Visti da lontano dobbiamo fare una certa impressione: un Paese in mutande, e non per metafora, che la sera combatte l’ansia appassionandosi al romanzo sceneggiato di un plutocrate ottantenne (in questi giorni è in cartellone l’acclamata sottotrama saffica, protagoniste una bulgara e una napoletana). Visti da vicino, anzi da dentro, abbiamo una spiegazione che però non è una giustificazione: il desiderio di distrarsi è tipico dei depressi e la realtà procura tali bordate di angoscia che si preferisce guardare altrove. Persino l’indignazione si esercita meglio, se la si applica a un argomento piccante e grottesco. Provate a sorridere con il ministro del Welfare, che ammette come fra qualche anno potrebbero non esserci più soldi per le pensioni. Provate a ricaricarvi con un governo frigido, che attira il plauso dei potenti stranieri e il magone dei contribuenti italiani.

Il saggio del Quirinale sostiene che il coraggio è cosa diversa dall’incoscienza. Ha ragione. Eppure oggi l’unica alternativa alla scelta perdente tra rimozione e rassegnazione (all’ordinaria amministrazione) consiste nel lasciarsi invadere da un pizzico di follia. Il declino economico rappresenta l’effetto, non la causa, di un declino psicologico che avanza da decenni. Siamo così avviliti che pur di non pensarci ci aggrappiamo ai pettegolezzi d’alcova su un vecchio o ai rimpianti per un passato che non tornerà. Non è più il tempo degli esecutori, questo, ma dei creatori. Alla vita pubblica, forse anche a tante vite private, servirebbe un gesto di rottura, un cambio di abitudini, una mossa del cavallo in grado di restituire significato alla parola futuro.

La Stampa 20.10.13

“La condanna per l’eccidio. Cefalonia. Giustizia è fatta, ergastolo”, di Adriana Comaschi

Sono passati settant’anni, ma ieri il boia di Cefalonia è stato condannato all’ergastolo. Alfred Stork, 90 anni, è stato giudicato colpevole dal Tribunale militare di Roma di aver ucciso 117 ufficiali italiani. Il verdetto arriva in contumacia. L’Anpi: «Finalmente».
«Finalmente un po’ di giustizia». Le parole dell’Anpi fotografano un’attesa lunga 70 anni. Tanto ci è voluto infatti perché si arrivasse, ieri, alla prima condanna per l’eccidio di Cefalonia, perpetrato dai tedeschi nei confronti dei militari italiani della divisione Acqui. Ed è ergastolo per l’ex nazista Alfred Stork, 90 anni, giudicato colpevole dell’uccisione «di almeno 117 ufficiali». Una sentenza storica, anche per il riconoscimento del diritto al risarcimento (che verrà definito in seguito) delle parti civili, tra cui è stata ammessa l’Anpi.
La sentenza di primo grado della seconda sezione del Tribunale militare di Roma, presieduta da Antonio Lepore, è senza precedenti in Italia sui fatti di Cefalonia, e la prima in Europa dopo Norimberga (i giudizi precedenti si sono conclusi con un’archiviazione, o per la morte dell’imputato). Il verdetto arriva però in contumacia: l’ex caporale del 54° battaglione «Cacciatori da Montagna» vive tranquillo in Germania a Kippenheim e ha sempre evitato il processo. Secondo un copione consolidato, il suo legale Marco Zaccaria insiste sulla tesi del subordinato costretto a obbedire ai superiori: «Stork è un capro espiatorio, era un semplice caporale che non poteva disattendere quegli ordini, in quel particolare momento storico». L’avvocato tira in ballo «il clima di questi giorni sul caso Priebke, può avere avuto il suo peso» e annuncia che presenterà appello non appena saranno disponibili le motivazioni (per cui il Tribunale si è riservato 60 giorni): «La condanna è eccessiva. E resta da vedere quale sarà la posizione della Germania di fronte a un’eventuale richiesta di estradizione».
UNA COMODA DIFESA
Lo stesso Stork ha ammesso di avere fatto parte di uno dei due plotoni di esecuzione dei militari italiani alla «Casetta Rossa»: qui caddero 129 ufficiali, i corpi poi ammassati uno sull’altro, praticamente l’intero stato maggiore della Acqui. L’ex nazista ne parla nel 2005 davanti ai magistrati tedeschi (senza difensore, la confessione è dunque inutilizzabile), e si dipinge come chi ha «solo» obbedito a degli ordini. Una linea contro cui si scaglia il procuratore militare di Roma Marco De Paolis, quando a marzo 2012 firma la richiesta di rinvio a giudizio per Stork. Con ragioni evidentemente accolte dal Tribunale. La condanna, sottolinea allora De Paolis, «afferma un princìpio molto importante: gli ordini illegittimi non devono essere eseguiti, nessuno può farsene scudo per giustificare crimini tanto orrendi. Anche i soldati devono rifiutarsi davanti a ordini scellerati. In tanti hanno detto no, e le fucilazioni non sono proseguite».
A Cefalonia non fu così. L’8 settembre 1943 Badoglio annuncia l’armistizio con gli angloamericani. La reazione degli ex alleati nazisti piomba anche su quest’isola, presidio al golfo di Corinto, dove sono di stanza la divisione Acqui oltre che carabinieri e forze della Regia Marina, protagonisti di una strana convivenza con i greci: non sparano un colpo, gli italiani, e per questo si fanno benvolere. I sopravvissuti ricordano la speranza, caduto il fascismo il 25 luglio, di poter finalmente tornare a casa. Dopo l’8 settembre invece la situazione precipita, l’ordine dalla Germania è che gli italiani consegnino le armi, in caso contrario saranno uccisi. Il generale Gandin, comandante della Acqui, prende tempo, molti dei suoi uomini decidono di fare resistenza, inizia la battaglia. Ma hanno «lo status di prigionieri di guerra», ricorda l’accusa a Stork, quelli poi fucilati senza pietà, «essendo nel frattempo intervenuta la resa delle truppe italiane nei confronti delle forze armate tedesche». E le convenzioni internazionali «imponevano un trattamento umano per i militari che avevano deposto le armi».
«Quello della divisione Acqui fu il primo atto di resistenza militare ricorda Ernesto Nassi, vicepresidente Anpi Roma e per questo migliaia di militari furono assassinati dalla ferocia nazista. Questa sentenza restituisce un po’ di giustizia, riportando l’attenzione sui fatti di Cefalonia». Ma il bicchiere è mezzo pieno per lo stesso Pm, soddisfatto «al 50% perché la sentenza arriva troppo in ritardo, sa di giustizia imperfetta». Parla poi di «colpevole ritardo» della giustizia il presidente dell’Anpi nazionale, Carlo Smuraglia, che rivendica però «lo sforzo investigativo del Procuratore militare e la caparbia tenacia di alcuni familiari delle vittime, delle associazioni e dell’Anpi». La cui ammissione a parte civile ne certifica l’impegno «a non disperdere il messaggio antifascista». L’Anpi Roma ha filmato tutte le udienze del processo Stork: ne farà un documentario «per colmare un buco nella memoria storica del nostro paese».

L’Unità 19.10.13

«La manovra si può migliorare. Inaccettabile l’attacco frontale Pdl», di Maria Zegarelli

«Forse c’erano troppe aspettative su questa manovra». Il ministro per gli affari regionali e le autonomie, Graziano Delrio, risponde così alle molte critiche che si muovono da più fronti al ddl stabilità licenziato dal governo. Non che vada tutto bene, lui per primo indica i punti vulnerabili del provvedimento, ma definisce «inaccettabili» le bocciature tout court di parte del Pdl. Ministro, le critiche affatto morbide, però, arrivano anche dal suo partito. Angelo Rughetti dice: «Manca il taglio, non i tagli». Vi invita a considerare l’impatto di Imu, Tari e Tasi sui contribuenti già in sofferenza.

«Il Pd aveva scelto un taglio molto netto per la manovra: evitare interventi sulla Sanità e invertire il passo sul Patto di stabilità con un allentamento e non ulteriori penalizzazioni per i Comuni. Questo è avvenuto anche grazie allo sforzo di Errani e quindi i nostri obiettivi sono stati raggiunti. È chiaro che tutti avremmo voluto molto di più, sul patto di stabilità avrei preferito due miliardi e non uno perché da lì nasco- no posti di lavoro, ma è stato fatto un passo in avanti. L’altro tema che ci eravamo imposti era quello della service tax, uno strumento fiscale adeguato per i Comuni e che desse agli stessi una piena manovrabilità delle aliquote per distribuire il peso di questa tassa sui servizi indivisibili in maniera più equa rispetto all’Imu».

Hanno ragione o no i tutti coloro che temono che questa nuova imposta si traduca in maggiori esborsi per i contribuenti?

«Da questo punto di vista la critica di Rughetti è sensata, ma riguarda il 2014, perché il tetto dell’aliquota del 2, 05 per mille riguarda soltanto il prossimo anno. Sono convinto che si debba aumentare l’aliquota, altrimenti non ci saranno le detrazioni e di conseguenza non ci sarà equità. Sarebbe stato tutto più semplice lasciando le cose come pri- ma ma abbiamo dovuto trovare un compromesso sull’Imu per la prima ca- sa. Adesso bisognerà farla entrare a pieno regime, rendere pienamente manovrabile l’aliquota, introdurre l’esenzione per i figli e le detrazioni fiscali per le situazioni particolari. Soltanto così si avrà uno strumento più equo rispetto all’Imu».

Per Bondi questa manovra tradisce gli impegni presi dal Pdl con gli elettori. Ci risiamo, dopo solo 15 giorni di tregua?

«Ci risiamo. Nel Pdl c’è una discussione aperta, la rispetto, ma non vorrei che si ricominciasse con le minacce di crisi come ai primi di ottobre. Se le co- se si decidono insieme poi bisogna sostenerle, un attacco così frontale alla legge di stabilità da parte del Pdl, diverso dai distinguo e dagli inviti a migliorare, non lo capisco davvero. Non capisco cosa voglia dire».
Stefano Fassina minaccia le dimissioni. Qualcuno ha fatto ironia, Epifani lo ha difeso. Si ricomporrà la rottura?

«Non lo so, ma capisco che ognuno vorrebbe essere più coinvolto. Vale per tutti il discorso che ha fatto Stefano Fassina, d’altra parte la manovra era sotto la regia del Ministero dell’Economia, immagino quindi si riferisse soprattutto al suo dicastero».

Molti renziani hanno detto che sarebbe stato necessario più coraggio. Condivide l’osservazione?
«Non si può pensare di fare politiche di grande coraggio quando ci sono visioni così diverse sull’economia. Anche sul cuneo fiscale ci sono punti di vista molto diversi nel governo che è di coalizione. Non si può pensare che la manovra abbia l’impronta legata ad uno solo dei sentimenti che animano questa maggioranza».

Sta dicendo che uno degli effetti collaterali delle larghe intese è l’impossibilità di fare riforme radicali, quelle di cui c’è più bisogno?

«Ci sono temi sui quali si può trovare il coraggio di fare riforme forti, penso al superamento del Bicameralismo o alla riforma delle Province. È chiaro però che centrodestra e centrosinistra divergono sulla visione della spesa pubblica – che secondo me serve al Paese, motivo per cui ho difeso la Sanità – o dell’economia. Quello che cerco di ricordare spesso è che bisogna avere le aspettative giuste per non rimanere delusi. Noi, con le risorse date, abbiamo cercato di fare il massimo».

Come Bersani ritiene che ci siano state troppe aspettative?
«Assolutamente sì. Chi pensava a una riforma strutturale in campo economi- co in grado di cambiare il volto del Paese sottovaluta un particolare: per riuscirci bisogna avere la stessa visione e questo difficilmente è possibile in un governo di larghe intese. Mi sembra im- probabile che Pd e Pdl possano avere la stessa idea su società ed economia. Possono trovare convergenze sul rafforzamento delle piccole e medie imprese, sul rifinanziamento della cassa integrazione, ma su molto altro no». Sarà, come dice Letta, meno arduo l’obiettivo del 2015 per il governo?

«Io credo di sì, noi ce la stiamo mettendo tutta, ma il governo si regge sui voti in Parlamento. Il Pd è sempre stato il più serio nel sostegno al governo e nel contrastare le crisi fondate sul nulla».

L’Unità 19.10.13

“I cinquant’anni della scuola media (in crisi d’identità)”, di Gianna Fregonara

La scuola media italiana compie cinquant’anni. Anzi li ha compiuti 18 giorni fa perché fu proprio dal primo ottobre del 1963 che tutti i bambini italiani poterono continuare la scuola dell’obbligo con tre anni di «Media Unica» che sostituiva la divisione, creata dalla riforma Bottai nel 1940 tra scuola di avviamento professionale e scuola media per chi avrebbe proseguito gli studi.
«Una grande riforma democratica dopo la riforma Gentile», l’ha definita il ministro Maria Chiara Carrozza. Ma che cosa resta oggi, cinquant’anni dopo? Qualche dato: nel 1962 i bocciati furono il 16 per cento degli studenti, nel 2007 solo il 3 per cento. Le rilevazioni Ocse-Pisa però sono impietose e dimostrano che le medie sono diventate l’anello debole del sistema educativo italiano. A 15 anni sei ragazzi su dieci non sanno da che cosa dipende l’alternarsi del giorno e della notte. Secondo uno studio della Fondazione Agnelli, pubblicato due anni fa da Laterza, i risultati dei test di matematica tra la quarta elementare e la seconda media segnano un abbassamento dei punteggi del 23 per cento. E ancora: gli insegnanti sono in media i più vecchi del sistema scolastico e uno su tre lascia il posto dopo un anno in cerca di altri approdi, alle superiori soprattutto. Si capisce perché alla domanda diretta i ragazzi italiani rispondano che a loro la scuola media non piace, che si sentono a disagio più dei loro coetanei in Germania, Inghilterra e Francia.
«Ricordo le medie come un momento oscuro. Non si è né bambini né adulti, è difficilissimo — racconta lo scrittore e insegnante Eraldo Affinati, che sulla scuola ha appena scritto L’elogio del ripetente —. Odiavo la scuola e le merendine e chissà cosa avrei risposto a chi mi avesse detto che pochi anni dopo sarei entrato in una classe a insegnare le Ricordanze di Leopardi alla mia prima supplenza alle medie della borgata Giardinetti a Roma».
Se è vero che la «Media Unica» ha avuto un ruolo importantissimo nell’alzare il livello di scolarizzazione negli anni Sessanta oggi dimostra tutta la sua età. «È una sfida vinta soltanto in parte — spiega Raffaele Mantegazza del dipartimento di Scienze umane per la formazione della Bicocca —, è una scuola che è rimasta senza identità specifica, schiacciata tra primaria e secondaria. È una scuola che ha scelto di privilegiare l’aspetto cognitivo rispetto a quello emotivo e pedagogico. Sono anni difficili per i ragazzi quelli della preadolescenza, in cui c’è una elaborazione anche psico-sessuale molto importante che la scuola ignora del tutto».
E invece sono gli anni in cui si comincia ad essere un po’ più adulti, in cui «l’acquisizione critica del sapere» andrebbe privilegiata. «Ma siamo rimasti ad una impostazione fordista della scuola, unica organizzazione che non si sia evoluta — spiega il pedagogista Giuseppe Bertagna dell’Università di Bergamo —: c’è solo uno studio libresco, disciplinare e separato, troppo strutturato».
Di come riformare o rilanciare la scuola media si è discusso ciclicamente ad ogni proposta di riforma, ma non molto è cambiato. «Per esempio è dal 1977 che sono previste 160 ore di attività interdisciplinari di risoluzione di problemi, di compiti per gruppi — insiste Bertagna —, ma non si sono quasi mai fatte perché prevederebbero la rivoluzione degli organici e del modo di insegnamento».
Anche per Mantegazza la soluzione si chiama «flessibilità»: «Tanto per cominciare ci vorrebbero percorsi differenziati per maschi e femmine perché negli anni delle medie hanno tempi di sviluppo molto diversi. Ci vorrebbero classi aperte in cui i gruppi si formano a seconda di quello che si deve fare o studiare. Infine manca la continuità con le scuole superiori: come è possibile che, mentre alle medie quasi tutti vengono promossi, arrivati in prima superiori dopo quattro o cinque mesi almeno due su dieci sono in serie difficoltà?». I dati del ministero in parte lo spiegano: quattro ragazzi su dieci alle medie passano l’esame con la sufficienza. «Le medie non sono formative — conclude Bertagna — e non è soltanto questione che un undicenne di oggi è molto diverso da un undicenne di cinquant’anni fa. Le medie dovrebbero integrare la scuola con la società e con il lavoro, ma è stato trascurato il fare, l’esperienza applicata: così l’Italia non raggiungerà gli obiettivi di Europa 2020 per i propri ragazzi».

Il Corriere della Sera 19.10.13

“Gli errori della scienza troppo competitiva”, di Anna meldolesi

«La ricerca scientifica ha cambiato il mondo. Ora deve cambiare se stessa ». Il monito arriva dall’ Economist , che questa settimana dedica la copertina alla vulnerabilità della scienza agli errori. Il settimanale economico non è tenero: sostiene che il successo del passato è padre del cedimento attuale. Che i ricercatori d’oggi, per sopravvivere in un ambiente sempre più competitivo, sfornano risultati in quantità a scapito della qualità. Anzi «a detrimento della scienza e dell’umanit à». Una vera strigliata. Ma lo stato di salute della nobile impresa della conoscenza è davvero così precario?
Prima di rispondere vale la pena di passare in rassegna le condivisibili argomentazioni che l’Economist sviluppa per arrivare alla sua diagnosi. Troppo spesso gli esperimenti sono mal progettati. Non sempre i ricercatori padroneggiano gli strumenti statistici necessari per interpretare i dati. A volte cedono all’umana tentazione di addomesticare i risultati senza esserne pienamente consapevoli. In qualche raro ma gravissimo caso, truccano le carte scientemente, con dolo. Ma il problema principale non sono i singoli ricercatori che, per quanto cognitivamente allenati, possono sbagliare come gli altri uomini. La questione cruciale sono le debolezze del sistema, che cominciano con i criteri di erogazione dei finanziamenti e arrivano alle regole adottate dalle riviste scientifiche per decidere cosa sia meritevole di pubblicazione. È in queste sedi che vengono a mancare i giusti incentivi, nota correttamente l’Economist . Ecco un esempio: replicare l’esperimento svolto da altri, per verificarne l’affidabilit à, è costoso e se i risultati vengono confermati non c’è nulla di nuovo da pubblicare. Anche se il lavoro è stato utile e faticoso, il gruppo che lo ha svolto sembrerà poco produttivo. Ed ecco un altro esempio: supponiamo di cercare la correlazione tra due fenomeni e di non trovarla. Ben poche riviste scientifiche saranno interessate a pubblicare questo «non-risultato», ma se di questo lavoro non resta traccia è possibile che altri ricercatori si perderanno nello stesso vicolo cieco.
Tutte queste bucce di banana seminate lungo le strade della scienza hanno prodotto clamorosi scivoloni. L’anno scorso su Nature abbiamo letto che solo 6 studi di oncologia su 53 avevano superato la prova della riproducibilità. Nell’ultimo decennio circa 80.000 persone hanno preso parte a sperimentazioni cliniche basate su ricerche che poi si sono rivelate inadeguate. Per fortuna generalmente gli errori vengono riconosciuti prima che i candidati farmaci si affaccino sul mercato, perciò i pazienti non sono danneggiati. I fallimenti, comunque, non sono una peculiarità delle scienze biomediche, riguardano tutti i settori. Nel 2005 un epidemiologo di Stanford ha sostenuto, in base a ragionamenti statistici, che «probabilmente la maggior parte dei risultati pubblicati sono falsi». Il mese scorso Science ha raccontato di uno studio appositamente sbagliato, inviato a 304 riviste scientifiche di seconda scelta per vedere quante avrebbero accettato di pubblicarlo. Hanno risposto positivamente in 157. Qualche anno fa uno scherzo del genere l’aveva orchestrato il British Medical Journal . La malattia è grave dunque, anzi è un’epidemia? Fermiamoci un momento prima di annuire. Leggendo questo articolo avrete notato che tutti i dati ripresi dall’Economist vengono da scienziati e riviste scientifiche. Persino le trappole usate per smascherare i punti deboli del sistema sono state piazzate dagli scienziati per allertare altri scienziati. Non è questa la dimostrazione più convincente che la scienza sa di essere fallibile e si auto-controlla con una severità sconosciuta in altri campi del sapere e dell’agire umano? Finché continuerà a farlo, vorrà dire che le fondamenta sono sane, che ci possiamo fidare.

Il Corriere della Sera 10.10.13

“Con la memoria non si scherza”, di Silvia Ballestra

Giornata della memoria, musei, sacrari, programmi scolastici, seminari. E ancora: romanzi, film, correva l’anno, teche Rai, documentari di History Channel. La memoria istituzionalizzata, pubblica, condivisa, si regge su riti, luoghi, momenti che non si discutono. SEGUE A
Eppure, la memoria è cosa fragile, a rischio, spesso sotto attacco di revisionismo, negazionismo addirittura. E quindi va protetta, sostenuta, alimentata, come giustamente non ci si stanca di ripetere. Eppure, puntualmete, anche il discorso sulla memoria può dividere. Tanto è benedetta, incoraggiata e sostenuta una memoria del ricordo, una memoria tramandata, tanto è derisa e vilipesa qualsiasi memoria «militante». Si sa, per definizione la memoria è cosa che pesca dal passato per guardare all’oggi e al domani. Eppure quando la memoria si declina al presente – quando per così dire si colgono i frutti di quel ricordo difeso e protetto, quando si mette in pratica la lezione della memoria – ecco scattare i distinguo, le dissociazioni, ecco spuntare un «buonsenso» che quella memoria tende a negarla.
Si dirà (e si è detto) che quello di Albano Laziale non è stato un bello spettacolo. Vero. Ma vero anche che la rivolta, spontanea e sincera, contro il feretro maledetto del boia Priebke è stata una manifestazione di rabbia vera, popolare, viva, contro lo sfregio del passaggio di quella salma che nessuno voleva. È il caso più recente, ma non l’unico. Tutti si adoprano a celebrare la memoria, ma quando per Milano passa un corteo di croci uncinate e passi dell’oca, si trova sempre chi giustifica e sopporta. E quando un sindaco lombardo (a Cantù) concede agibilità ai nipotini dichiarati di Priebke, provenienti da tutta Europa, lo scandalo non sembra poi così grande. È uno strano testacoda. Viva la memoria, quando è museale, teorica, quando non sporca, quando non blocca il traffico, quando non riguarda l’oggi. E invece, colpo di scena, abbasso la memoria quando si applica nella vita reale, quando risponde ad offese brucianti in presa diretta, quando sputa e tira calci.
Non dovrebbe essere questo, la memoria? Ricordare le vergogne passate per evitarne di nuove? E non sarebbe una buona applicazione della memoria – materia tanto benedetta – impedire di insultare una ministra di colore? O impedire marcette nazifasciste in una città italiana?
C’è una sorta di doppia morale nei commenti, così sensati e posati, così benpensanti e ragionevoli, ai fatti di Albano. Un apprezzamento senza se e senza ma di una memoria teorica, e una condanna variegata («incivile», «becera», «sguaiata», eccetera) di una memoria viva, vorrei dire militante. Impedire che in una città medaglia d’oro della Resistenza (Milano, per dire) passi un corteo di camicie nere con il braccio teso, o che si tenga un funerale indesiderato dalla popolazione in una cittadina partigiana (Albano, per dire) è questo: è memoria applicata. Certo, ha i suoi toni accesi, le sue cose brutte, le sue ineleganze, i suoi eccessi.
Ma non ha i suoi eccessi e le sue schifezze anche la storia che si vuole ricordare? Anche la memoria, come le guerre, le rivoluzioni, i rivolgimenti sociali, non è un pranzo di gala, può sporcarsi le mani, può incattivirsi. I cittadini di Albano, i sindaci che negano raduni nazisti, le iniziative che bloccano revisionismo e negazionismo fanno questo. Fanno memoria. Ricordano il passato e applicano quella lezione al presente. Niente di più, niente di meno. Ed è memoria non meno utile e preziosa di quella che sta nei libri.

L’Unità 19.10.14