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“Errani vara l’operazione verità. Ecco le scadenze per ricostruire”, di Francesco Dondi

Per non perdere i contributi bisognerà comunicare entro fine novembre la volontà di sistemare casa Muzzarelli: «Vogliamo sapere davvero quali sono le intenzioni delle persone, è ora di accelerare». Assessore Muzzarelli, ma questa ricostruzione va o viaggia con il freno a mano tirato? «Chiedetelo al sindaco de L’Aquila. Era con me in un convegno a Bologna e diceva che vorrebbe il modello emiliano. Bisogna saper usare i numeri e non dare i numeri. Ormai le ordinanze sono definite, siamo al 90% dei riferimenti legislativi anche se, come ha scritto Errani, ci sono alcuni punti da definire. Sul pubblico abbiamo stanziato 530 milioni su un piano da 1,2 miliardi; le assicurazioni realmente incassate dai privati sono oltre il miliardo e i procedimenti Mude e Sfinge viaggiano bene». Stando sul territorio la sensazione è opposta, con i Comuni che fanno da imbuto. «Stanno arrivando rinforzi per gli uffici tecnici in modo da essere più spediti e con un tavolo ad hoc cerchiamo di omologare i comportamenti dei tecnici pubblici. Dobbiamo aiutare al massimo la liquidazione dei contributi. La sfortuna che il territorio ha dovuto sopportare va ribaltata, ricostruendo meglio, in modo antisismico e preservando la memoria, soprattutto dei morti e dei feriti. Anzi, dirò di più: ci sono tanti imprese che si stanno informando per andare nelle zone terremotate ad investire. Dobbiamo creare occupazione e in quest’ottica si inserisce il tecnopolo di Mirandola e i 50 milioni per la ricerca». Resta il fatto che molti lamentano i ritardi dei fondi. «Giusto ieri è stata firmata la prima delle due cambiali alla Menù di Medolla: 22 milioni. La famiglia Barbieri ha scelto come simbolo la Fenice che risorge, bene mi piace questo approccio. I soldi ci sono, lo ribadirò allo sfinimento, è da bischeri non usarli». Inizia a serpeggiare il timore delle scadenze: il 31 dicembre si chiudono le domande per B, C ed E leggere? «No, faremo una proroga, ma sarà vincolante. Facciamo partire un’operazione verità: vogliamo sapere davvero chi vuole ricostruire e chi invece non lo farà o ha scelto strade diverse». Allora come funzionerà l’operazione verità? «La proroga sarà valida solo per chi la prenota, o meglio per chi ci dice che vuole fare i lavori. Per le B e le C bisognerà prenotarsi, per via telematica, entro il 30 novembre e i Mude andranno inoltrati entro il 28 febbraio. Per le E e i procedimenti Sfinge la prenotazione potrà essere fatta entro il 31 gennaio con scadenze delle domande al 31 dicembre. Discorso diverso vale per le abitazioni all’interno delle Umi. Ci sarà tempo fino al 31 dicembre 2014 con una proroga, nei casi più complessi al giugno 2015. Ma questa, sia chiaro, sarà l’ultima occasione. Dobbiamo contarci e capire». Ma ci spieghi perché il meccanismo appare così complesso? «Prima di tutto vorrei dire che con gli ordini professionali c’è un ottimo rapporto e l’anticipo dell’80% sulle loro spese è stato accolto bene. Sono il punto di riferimento delle famiglie, indicano i lavori e magari le imprese. A loro spetta il lavoro più gravoso. La stragrande maggioranza è gente onesta, ma c’è qualche mela marcia che dobbiamo contrastare. Il 100% andrà sui costi ammissibili e non a chi cerca di fare il furbetto. Abbiamo, purtroppo, segnali sempre più allarmanti di tentativi di infiltrazioni e non vogliamo dare chance a chi non fa le cose per bene. Con i soldi pubblici, deve essere chiaro, le porcherie non si fanno». Nelle centinaia di gare degli ultimi giorni si assistono a ribassi sconcertanti. «Le anomalie sono monitorate, ma la rivisitazione del prezziario regionale è sintomo che la Regione vuole fare le cose per bene».

La Gazzetta di Modena 19.10.13

“Ecco dove intervenire”, di Paolo Guerrieri

Le reazioni alla legge di stabilità sono state per lo più critiche e di delusione. In taluni casi appaiono fondate. Eppure le novità nella manovra sono assai significative e ampi spazi si offriranno a breve per ulteriori modifiche e miglioramenti. Sfruttarli appieno da parte di tutti, a partire dal Parlamento, potrebbe avere un impatto rilevante sulle sorti future della nostra economia.

Partiamo da un dato di fatto, cioé l’espansione dell’attività economica in corso in Europa e a livello globale. Anche nell’area dell’euro la produzione è tornata a crescere nel secondo trimestre di quest’anno, dopo sei periodi consecutivi di riduzione.

Gli indicatori congiunturali più recenti prevedono una prosecuzione della ripresa, a ritmi moderati, nel corso del 2014. Anche l’economia italiana ha cominciato a mostrare i primi segni di un’inversione di tendenza, grazie soprattutto al buon andamento delle esportazioni. Le prospettive per noi rimangono comunque fragili. Il consolidarsi dei segnali di ripresa e la loro trasformazione in un percorso sostenibile di crescita dipenderanno in larga misura dalle scelte dei prossimi mesi. Una crescita che appare obbligata per il nostro paese sia per garantire la sostenibilità del nostro debito pubblico che per frenare e invertire l’aumento drammatico della disoccupazione. La legge di stabilità e le misure in essa prospettate vanno lette all’interno di questa fase di transizione. Esse sono state pesantemente criticate, innanzi tutto, perché poco coraggiose, sia nei contenuti che nelle scarse risorse stanziate. Sono delle critiche mosse da chi invoca a piè sospinto riduzioni shock del carico fiscale e/o forti ammontare di risorse da impiegare per il rilancio dell’economia, ma senza spiegare dove trovare le risorse. Se non immaginando rapidi quanto improbabili tagli della cosiddetta spesa pubblica «improduttiva». Com’è noto, negli ultimi anni in conseguenza delle politiche restrittive adottate si sono verificate prime riduzioni della spesa pubblica nominale (al netto degli interessi). Certo non bastano e dovranno aumentare in futuro ma solo attraverso operazioni di ristrutturazione e riconversioni dell’apparato pubblico (spending review), che richiedeno necessariamente tempi lunghi e strumenti d’intervento adeguati.

Al di là delle novità importanti contenute nella legge di stabilità, il problema è semmai un altro. Per sperare di agganciare la ripresa e tornare a crescere occorre in questa fase sostenere e rivitalizzare la domanda aggregata, in particolare quella interna fatta di consumi e investimenti, e, allo stesso tempo, iniziare a rimuovere quelle rigidità strutturali, sul fronte dell’offerta, che hanno abbassato fin quasi ad azzerare il tasso di crescita potenziale della nostra economia. La legge di stabilità, nell’attuale sua formulazione, contiene misure espansive ma che appaiono troppo timide e poco concentrate sugli interventi in grado di avere gli effetti moltiplicativi maggiori, a parità di onere per il bilancio pubblico. Così si rischia di non agganciare la ripresa.

In particolare il taglio del cuneo fiscale, presentato fin dall’inizio come il tassello centrale della manovra, non appare in grado, per le poche risorse ad esso dedicate, di sostenere adeguatamente la ripresa che si profila. Si può comunque migliorare concentrando di più il beneficio sui redditi più bassi, ma per dargli efficacia e produrre una auspicabile spinta ai consumi si dovrebbero stanziare molte più risorse, così ingenti che al momento non appaiono reperibili.

Più utile è concentrare le risorse – quelle già stanziate e le altre da poter reperire – in un pacchetto di misure di stimolo all’economia incentrate su tre comparti in particolare: gli investimenti pubblici, il credito alle imprese, le politiche sociali. Tutti comparti ad elevato effetto di spesa.

Nel caso degli investimenti pubblici (che restano la voce di bilancio con il moltiplicatore più alto) oltre allo sblocco già annunciato di un miliardo di investimenti per il patto di stabilità e ai 3,2 miliardi per le opere pubbliche, si potrebbero favorire investimenti aggiuntivi in tutta una serie di settori innovativi, quali infrastrutture immateriali, innovazione e ricerca, terzo settore, e altri.

In tema di credito alle imprese, all’operazione già prospettata di rifinanziamento del Fondo di garanzia per le Pmi, pur se in misura (1,8 miliardi) ancora inadeguata alle richieste, si potrebbero aggiungere garanzie dello Stato su rischi non assicurabili dai mercati coinvolgendo nell’operazione la Cassa depositi e prestiti al pari di quanto avviene da tempo in altri Paesi europei, come Germania e Francia. Infine sul tema del sociale, spazi di intervento importanti su cui investire risorse, anche per obiettivi di equità, si aprono, ad esempio, in tema di ammortizzatori sociali, ampliamento dell’indicizzazione delle pensioni, fondi per i non autosufficienti, intervento per le disabilità.
Nel complesso si tratterebbe di modificare e migliorare la manovra di stabilità per darle più forza quale azione di stimolo all’economia in questa decisiva fase di transizione per agganciare la ripresa e trasformarla nell’avvio di una vera e propria fase di crescita già a partire dalla prima metà del prossimo anno. È uno scenario realistico che oltre a segnare una vera discontinuità rispetto a questi ultimi cinque anni di crisi offrirebbe una base di partenza forte nel negoziato con l’Europa nell’ambito del semestre europeo.

L’Unità 19.10.13

«Made in», stavolta Italia batte Germania, di Adriana Cerretelli

Ci hanno provato fino all’ultimo i tedeschi a ottenere ancora una volta all’Europarlamento partita vinta per plasmare a modo loro la legislazione industriale europea. Ci hanno provato anche ieri a Bruxelles, convinti che ce l’avrebbero fatta, come era accaduto soltanto qualche giorno fa con l’auto, quando sono riusciti a imporre all’intero settore europeo limiti di riduzione delle emissioni di Co2 con uno spregiudicato sistema di crediti, a esatta immagine e somiglianza degli interessi di Bmw e Daimler. Che non a caso hanno poi generosamente ricompensato il partito di Angela Merkel, la quale nei mesi scorsi si era spesa in prima persona per tirare acqua al loro mulino. Sulla nuova legislazione europea a tutela dei consumatori anche attraverso una più stretta sorveglianza sulla sicurezza di tutti i prodotti in commercio, compresi quelli importati, invece no. È stata l’Italia, insieme a Francia, Spagna e a un nutrito gruppo di Paesi, compresa la nordica Danimarca, ad avere la meglio. E non per il rotto della cuffia ma con numeri decisamente convincenti. Il vecchio cavallo di battaglia italiano, quello della tracciabilità dei prodotti in nome della sicurezza e della trasparenza, ha tagliato il traguardo con 27 sì, 5 no e 7 astenuti. Contro, inglesi e svedesi. Di fronte alla malaparata, oltre che a sensibilità e interessi che in casa non sono del tutto univoci, i tedeschi hanno ripiegato dell’astensione. Per una volta lo spartiacque del voto non è passato dal solito solco Nord-Sud. In nome della protezione dei consumatori, la battaglia dei “Made in” incontra infatti attenti proseliti anche nei Paesi scandinavi. «Con le europee alle porte sarebbe difficile spiegare ai nostri cittadini che l’Europa garantisce meno trasparenza di Stati Uniti e Giappone e perfino della Cina sulla tracciabilità dei prodotti che circolano sul nostro mercato» dice Antonio Tajani, il commissario Ue all’Industria che spera di riuscire a chiudere il cerchio entro primavera. Ma la battaglia non è finita. Quella di ieri è stata un’importante vittoria di tappa alla commissione Mercato interno dell’Europarlamento, dopo quattro vittorie consecutive nelle altre commissioni competenti. «Dopo oltre cinque anni si è tornati a votare a favore del marchio d’origine» ricorda Cristiana Muscardini, la storica pasionaria del “Made in” a Strasburgo. La partita finale è ancora tutta da giocare ma, con un compromesso equilibrato, la tracciabilità dei prodotti può anche diventare una delle carte vincenti della futura politica industriale europea in un’Unione dove i consumatori si fanno sempre più attenti a qualità e sicurezza dei prodotti. Bandi a Ogm e carni Usa agli ormoni insegnano. «Ben oltre il 90% dei prodotti che entrano sul mercato europeo non sono controllati da nessuno. Risultato, ne circolano troppi che non sono sicuri, come gli accendini da quattro soldi che provocano decine di incendi e ustioni ogni anno» secondo la finlandese Sirpa Pirtikainen, l’europarlamentare autrice del rapporto sulla sorveglianza del mercato. Tracciabilità dei prodotti non significa soltanto più sicurezza, meno spese sanitarie, lotta alla contraffazione e maggiori entrate fiscali. Può significare
anche il principio della reindustrializzazione europea dopo anni di delocalizzazione degli investimenti alla ricerca di costi sempre più bassi, spesso a detrimento di qualità e alta gamma. Se è vero che lo scontro con gli emergenti si giocherà su ricerca e innovazione più avanzate, il segnale arrivato ieri può diventare lo stimolo a riscoprire e produrre il meglio del Made in Europe. Naturalmente facendo i conti con la Germania, il maggior Paese manifatturiero europeo, con l’Italia però al secondo posto. Dopo l’alluvione di critiche piovute sul cancelliere e sull’industria dell’auto tedesca, accusate in Germania non solo di annacquare l’impegno ambientalistico ma di cercare facili scorciatoie in Europa frenando così la spinta a ricerca e innovazione d’eccellenza, facendo in breve scelte lesive per la competitività futura, è anche possibile che il no alla tracciabilità dei prodotti diventi inaccettabile per i consumatori tedeschi. Come dire che, dopo il voto di ieri a Bruxelles, è anche possibile che si creino le premesse per scrivere un “industrial compact” più compatibile con le esigenze di tutti gli attori della manifattura e del mercato europeo. Naturalmente questo non dipenderà solo dalla buona volontà dei tedeschi ma anche e soprattutto dalla determinazione dell’Italia e di tutti gli altri partner Ue a continuare a difendere con coerenza e con metodo i propri interessi industriali.

Il Sole 24 Ore 18.10.13

“Stabilità, troppe aspettative”, di Massimo D’Antoni

La legge di stabilità varata dal Governo scontenta un po’ tutti e, si dice, manca di coraggio. Certo, gli scontenti dovrebbero mettersi d’accordo. Si riduce troppo poco la spesa? Ma quando si è ipotizzato un taglio alla sanità c’è stata giustamente una levata di scudi di fronte al rischio di un taglio delle prestazioni. Si doveva ridurre in modo più deciso il cuneo fiscale? Ma i sindacati annunciano barricate rispetto al blocco dei contratti dei dipendenti pubblici, nei fatti una tassazione selettiva dei redditi dei lavoratori del settore pubblico. Ed è vero, la riduzione dell’imposta sul reddito ammonta a pochi spiccioli, qualcosa come mezzo euro al giorno per i più fortunati. Ma non è che l’Imu sulla prima casa abbia poi un peso tanto maggiore, eppure ha monopolizzato il dibattito politico per mesi.

Molte critiche sono corrette. Eppure, la sensazione è che il dibattito sia viziato da un eccesso di aspettative e una non corretta percezione degli effettivi spazi di manovra del governo.

Chi avrebbe voluto un taglio più deciso del cuneo fiscale dovrebbe spiegare dove intende trovare le risorse per un intervento di quindici o venti miliardi. «Spesa pubblica improduttiva» è espressione tanto diffusa quanto vaga e inafferrabile. Ogni qualvolta ci si avvicina al tema con un minimo di serietà ci si accorge che non esistono soluzioni facili o tesoretti da scoprire.

Qualche esempio? Prendiamo le pensioni cosiddette elevate, su cui qualcuno ipotizza un intervento. Con un po’ di azzardo consideriamo elevata una pensione che supera i 3 mila euro lordi mensili (circa 2.150 euro netti), e ipotizziamo una riduzione del 10% di quanto eccede tale livello. Con qualche semplice conto ci accorgeremo che l’ipotetico
risparmio (al netto delle minori imposte) non supera i 700 milioni di euro, che si dimezzano se fissiamo il limite a 4000 euro lordi; stiamo parlando di entrate pari a una frazione dell’intervento varato sul cuneo fiscale. Facciamo un altro esempio, che riguarda gli investimenti finanziari, ipotizzando un aumento dal 20 al 22% della tassazione su tutti i redditi da capitale (lasciando da parte i titoli di stato, che in questo Paese sono considerati intoccabili anche per il più coraggioso dei governi). Quanto gettito darebbe? Non più di mezzo miliardo di euro.

E i famosi 10 miliardi di aiuti alle imprese che il professor Giavazzi aveva individuato come «eliminabili» nel prossimo biennio? Un rapporto preparato nel marzo scorso per la presidenza del Consiglio chiarisce che la cifra effettivamente aggredibile è in realtà un decimo di quella indicata, e si compone in buona parte di contributi a cinema, teatro, editoria, e anche alle università non statali.

Sono tutti interventi che un governo coraggioso può certamente attuare, ma gli importi in gioco chiariscono che abbiamo ormai raggiunto il cosiddetto fondo del barile. Del resto, molto è stato fatto: negli ultimi tre anni, per la prima volta nella storia della Repubblica, la spesa pubblica al netto degli interessi è scesa in termini nominali. Si può fare di più? Certamente sì, ma ulteriori interventi dovranno passare per una riorganizzazione complessiva della macchina pubblica, che richiede tempi lunghi e non promette risultati miracolosi.

Insomma, un bagno di realtà non farebbe male ai commentatori e a molti dei protagonisti del dibattito politico (e, in alcuni casi, accademico). Aiuterebbe ad abbandonare l’idea che il rilancio dell’economia possa venire da una riduzione shock del carico fiscale.

Se una critica ci sentiamo di muovere alla legge di stabilità, questa va dunque nella direzione opposta rispetto a molti interventi di questi giorni: sarebbe stato meglio lasciar perdere del tutto l’idea di intervenire sul cuneo fiscale, per concentrare le (poche) risorse su interventi più mirati ed efficaci sul piano degli effetti moltiplicativi. Anche in ambito accademico è in corso una riabilitazione della vecchia idea per cui nelle fasi recessive ai fini del rilancio della crescita i tagli alle imposte sono meno efficaci dei programmi di spesa. Quindi: edilizia scolastica, incentivi al risparmio energetico, infrastrutture per il trasporto, investimenti in banda larga. Ma se i soldi mancano per ridurre le imposte, mancano anche per la spesa. Diventa allora necessario esplorare la possibilità di altri strumenti. Lo Stato, benché vincolato nella sua capacità di spesa, ha ancora la capacità di assorbire rischi non assicurabili dai mercati e può per questa via contribuire a riattivare il canale esangue del credito alla produzione (pensiamo al fondo di garanzia o a possibili soluzioni che coinvolgano Cassa depositi e prestiti). Da questo punto di vista, non mancano alcune luci. Anche nella legge di stabilità in discussione.

L’Unità 18.10.13

“Pd: cambiare su pensioni e cuneo Fassina pronto a dimettersi”, di Maria Zegarelli

Più critici rispetto alla legge di stabilità nel Pd sono i Giovani turchi e i renziani. Ma è il viceministro Stefano Fassina ad aprire un fronte di tensione tutta interna al Pd: ha scritto a Enrico Letta una lettera nella quale comunica di essere pronto a rimettere il proprio mandato se non ci sarà un chiarimento al suo rientro dagli States.

Duro il viceministro per essere stato escluso da tutta la fase preparatoria del ddl stabilità e per non aver ricevuto, malgrado ripetute richieste, la documentazione. E in serata il segretario Pd, Guglielmo Epifani, parlando ai microfoni del Tg5, gli dà ragione: «Credo che lamenti una mancanza di collegialità e credo che abbia ragione». Nel merito del provvedimento del governo, poi, lo stesso segretario chiede cambiamenti, soprattutto per gli interventi che riguardano «la parte di popolazione che sta peggio». È lì, dice, che bisogna rimettere mano: «Su tutta la parte relativa al sociale: indicizzazione pensioni, fondi per i non autosufficienti, intervento per le disabilità… Abbiamo tutta la parte della popolazione che sta peggio alla quale la finanziaria non dà l’attenzione necessaria».

Una legge di stabilità che spacca il Pdl tra lealisti e governisti, provoca le dimissioni di Mario Monti da Scelta Civica e agita il Pd. Effetti collaterali delle larghe intese, forse.

Nel Pd spetterà al responsabile economico del partito, Matteo Colaninno, lavorare di fino per cercare una mediazione interna e di sicuro il clima congressuale non aiuta. Sono i punti elencati dal segretario i più dolenti per i democratici dagli assegni di accompagnamento, all’indicizzazione delle pensioni, agli interventi in busta paga e al cuneo fiscale. Cesare Damiano entra nel merito: il taglio del costo deve essere destinato ai lavoratori dipendenti che percepiscono redditi medio bassi; per l’indicizzazione delle pensioni «si deve ripristinare quanto era previsto dalla Finanziaria del 2012 per le pensioni fino a sei volte il minimo, perché il Governo ha peggiorato la normativa che doveva de- correre dal primo gennaio del prossimo anno», mentre per gli esodati si devono trovare risorse per risolvere definitivamente il problema.

Il responsabile economico del Pd, però, se è convinto che dei miglioramenti vadano apportati, non accetta bocciature come quelle che dal fronte renziano e dai Giovani turchi sono arrivate: durante l’incontro di mercoledì con gli uffici di presidenza e i capigruppo di Camera e Senato ha più volte ribadito che questo è il primo provvedimento che dopo anni restituisce e non toglie. E se i tagli alla Sanità, ha aggiunto, sono stati evitati è stato grazie al lavoro del Pd, così come è avvenuto per il Patto di stabilità interna.

Troppo poco per i sostenitori del sindaco fiorentino, come sottolinea il suo consigliere economico, Yoram Gutgeld: «È così stabile, soffice ed equilibrata che praticamente è come se non fosse mai stata fatta, come se non esistesse». Gli rispondono su fronti opposti il lettiano Francesco Boccia e Pier Luigi Bersani. «È la base di partenza che possiamo rafforzare in Parlamento: certamente non è più tempo di pretendere che non si tocchi la spesa e al contempo si riducano le imposte», dice il primo aggiungendo che il ddl «è una speranza di cambiamento e si basa su tre pilastri: abbassamento delle tasse per famiglie e imprese, taglio della spesa improduttiva e avvio concreto delle dismissioni del patrimonio pubblico». L’ex segretario Pd non condivide le «riserve ingenerose», pur ammettendo che «sul tema del sociale, del pubblico impiego qualcosa da correggere c’è, dopo di che forse si sono create troppe aspettative».

Per i Giovani turchi è Matteo Orfini in un post su Facebook a spiegare cosa non va e perché, dice, non condivide il giudizio del segretario Guglielmo Epifani. Bisogna cambiare la filosofia su cui si reggono le misure. Come? «Con le stesse risorse destinate alla riduzione del cuneo potremmo produrre una vera svolta occupazionale, che avrebbe evidentemente anche l’effetto di rilanciare consumi e crescita. Investiamo quelle risorse in settori innovativi: infrastrutture digitali, cultura e ricerca, terzo setto-re, messa in sicurezza del nostro malan- dato territorio». Critico anche Gianni Pittella: «È una legge “camomilla”, che produrrà effetti per 8 euro nel 38% del- le famiglie italiane, quindi veramente una cosa inutile».

A spezzare una lancia a favore di una manovra che non piace ai sindacati e spacca il Pdl è il ministro Graziano Delrio, renziano della prima ora, secondo il quale non ci sarà ancora una vera ripresa ma, «vedremo un segno più del Pil». Delrio guarda le cose positive: «Lo sblocco di un miliardo di investimenti per il patto di stabilità e i 3,2 miliardi per le opere pubbliche». Le proteste dei dipendenti pubblici? «Hanno completamente ragione, è un sacrificio per loro ma non c’era altro modo».

L’Unità 18.10.13

“Gli studenti: una class action contro le classi-pollaio”, di Salvo Intravaia

Studenti contro le classi-pollaio e questa volta sono i singoli presidi a rischiare di persona. “Abbiamo lanciato una class actioncontro le classi-pollaio e stiamo pensando di denunciare i singoli capi d’istituto per una situazione che ci sembra ormai intollerabile”, dichiara Daniele Lanni, portavoce della Rete degli studenti medi. In questi giorni i ragazzi delle scuole superiori sono alle prese con il calcolo del numero massimo di alunni che, in base alle norme vigenti, può contenere l’aula dove svolgono giornalmente le lezioni. E le segnalazioni di aule fuori norma giunte all’indirizzo bastaclassipollaio@gmail. com predisposto dalla Rete degli studenti medi sono già tantissime.

“Siamo stanchi – continua Lanni – di continuare a vivere nelle nostre scuole situazioni di questo tipo. Per questo abbiamo deciso di muoverci per vie legali, per denunciare il tema e accendere i riflettori sulle troppe situazioni di disagio che siamo costretti a vivere nelle nostre scuole”. “Allesuperiori – conclude il portavoce degli studenti – buona parte delle aule non rispetta le norme di sicurezza. La nostra campagna invita tutti gli studenti a controllare la propria aula, misurarla, confrontare il numero di alunni con i parametri di riferimento e contattarci per procedere per vie legali in caso di violazioni”.

La normativa sul massimo numero di alunni per classe prevede tre restrizioni: quella indicata dalla circolare sugli organici predisposta anno per anno dal ministero dell’Istruzione, quella prevista dal decreto del ministero dell’Interno del 1992 sulle Norme di prevenzione incendi per l’edilizia scolastica e un decreto del ministero del Lavori pubblici del 1975 sulle Norme di progettazione degli edifici scolastici in Italia. Gli ultimi due stabiliscono che per agevolare l’evacuazione in caso di incendio l’affollamento massimo per aula non deve superare le 26 unità: 25 alunni più un docente.

Mentre per rendere funzionale la didattica le norme sulla progettazione degli edifici scolastici prevedono per le aule di scuola superiore almeno 1,96 metri quadrati per alunno. I limiti fissati dal ministero dell’Istruzione guardano invece a ridurre gli organici dei docenti e consentirebbero di stipare in un’aula anche 30 alunni. “Questa norma è semplicemente assurda”, osserva Lanni. Ma, almeno di non volere
disattendere una o più norme, ogni aula dovrebbe contenere un totale di alunni pari al minore dei numeri che si ottengono dalle tre normative in questione. Anche perché il numero di studenti per classe dipende dall’ampiezza della stessa.

Due anni fa, il Codancons ha vinto una class-action contro le classi-pollaio che ha costretto il ministero dell’Istruzione a pubblicare un lungo elenco di oltre 13mila plessi scolastici particolarmente carenti dal punto di vista della sicurezza. Scuole in cui è assolutamente “vietato” costituire classi sovraffollate. E qualche mese fa la commissione Cultura del Senato ha approvato una risoluzione del Movimento cinque stelle che impegna il governo ad “adottare con sollecitudine tutte le iniziative più opportune volte al coordinamento della normativa primaria e secondaria applicabile in materia di numero minimo e massimo di persone per classe”.

E, continua il testo approvato, “a introdurre modifiche alla normativa vigente volte al ridimensionamento del numero massimo di alunni per classe, con particolare alle disposizioni relative alla formazione delle classi negli istituti secondari di II grado”. Ma poi le buone intenzioni si scontrano con le esigenze di cassa e le classi-pollaio restano. Per ottenere da due classi da trenta alunni, tre classi da venti occorre allargare i cordoni della borsa e pagare altri docenti, precari o di ruolo. Ma, nonostante 21mila alunni in più, l’organico degli insegnanti è bloccato sugli stessi numeri dell’anno scorso. E non c’è spazio per classi meno numerose.

“Il tramonto di SuperMario che doveva salvare il Paese”, di Filippo Ceccarelli

Mario Monti o della dissipazione. Crudele è il destino dei salvatori della patria, chiamati a domare con successo lo spread e finiti vittime delle beghe para-condominiali di Scelta Civica. Passati dal garantire l’Italia con la cancelliera Merkel e ridotti a dolorosi zimbelli di un Cesa o di un Olivero. «Super Mario» avevano preso a chiamarlo anche a Strasburgo, e allora lui con ferma modestia: «No, no, solo Mario». Ventisette applausi alla presentazione del suo governo; e adesso un gelo imbarazzante ogni volta che il professore interviene al Senato, nemmeno il consenso pieno dei suoi, «un dilettante della politica» lo definiscono dopo avergli sfilato il partito, «la forza che ho ispirato e fondato», da sotto i piedi, come un tappeto, e addirittura ricevono felicitazioni per questo, ammirati bigliettini a sfondo cannibalico: «Complimenti, Pier, per come ti sei cucinato Monti».
Sventuratissimo tecnocrate, e si cercherebbe qualcosa, una parola, un gesto, un qualche segno che possa illustrare questa caduta come un autentico dramma, ma invano. La vera tragedia del potere, in questi tempi di chiacchiere e visioni a distanza, è che tutto si abbassa e s’immiserisce, e nella triste vicenda di Scelta Civica, tra velleità e fallimenti, caos e voltafaccia, si resta come ipnotizzati dal modo in cui le cronache hanno descritto gli stati d’animo di Monti dalle elezioni a oggi: deluso, eppure smanioso, poi risentito, quindi provato, poi ancora allibito e infine disgustato.
Patetici frammenti autobiografici accompagnano gli ultimi mesi: «Mi basta varcare i confini per essere riconosciuto», donde la tentazione di restarsene all’estero, senza più dover combinare pensieri e parole per tenere a bada gli appetiti dell’Udc, le bramosie dei superstiti di Fli o le frustrazioni del segmento montezemoliano. Come pure angosciosi soprassalti trasmettono di tanto in tanto lampi di verità: «Ho lavorato una vita intera a costruirmi una reputazione e adesso ho avviato la mia sistematica demolizione».
E comunque: quale incredibile e dissennato spreco di credibilità! Troppo facile adesso ricordare gli errori, il primo dei quali la «salita in campo», cioè mettersi in proprio, ma mischiandosi e perciò diventando in un paio di mesi come tutti gli altri, senza vocazione, e tuttavia accettandone i biechi codici, i nipotini, i cagnolini, la foto con Paulo Coelho, gli sportivi in lista, la recita «sugnu sicilianu» e la pizza napoletana con su scritto “Monti”. E questo già bastava a dimostrare come il gusto del potere, prima ancora dell’ambizione, trasfigura non solo le persone, ma anche le migliori e costose intenzioni.
Napolitano gli aveva detto: meglio di no. Lo stratega americano, a nome Axelrod, gli era costato 350 mila bombi; la società dei sondaggi, che dio la benedica, appena 48 mila. E però, anche dopo la sconfitta, del tutto indifferente al motto diabolicum perseverare, il professore si era messo in testa di fare il presidente del Senato. Gliela dovevano, «o me o nessun altro» fremeva con malcelato disappunto mostrando gli sms con cui il Quirinale, di nuovo, gli esternava il «divieto impostomi».
Non si pretenderà qui di seguire passo passo la genealogia e gli sviluppi dello scontro tra Monti e i suoi stessi parlamentari, oltretutto con la partecipazione straordinaria di uno specialista come Pierfurby Casini, ma certo la serietà e la sobrietà di un tempo erano già andate a farsi benedire. Ad aprile l’ex tecnocrate offeso toglieva il nome dal simbolo e dallo statuto; a maggio si impegnava di nuovo; a luglio minacciava nuovamente le dimissioni («Posso andarmene anche domattina»); ad agosto un ragazzetto incontrato per caso gli chiedeva: «Ma lei è triste e non avere più un lavoro?».
Arrivati a una certa età, sono domande cui è ancora più triste rispondere, altro che Bildenberg. Nel frattempo il ministro Mauro, come un sommergibilista, navigava in profondità estendeva la propria vogliosa agitazione al Ppe prefigurando grandiosi scenari centristi; e ironia della sorte, i berlusconiani erano tornati al governo e addirittura lo irridevano, come Brunetta, che dopo l’ennesima messa a punto l’aveva chiamato, anche evocando certe debolezze filogermaniche: «Il Grosse Rosikonen».
C’è forse una lezione, in questa parabola. La solita; che il potere è una bestiaccia che consuma anche le migliori personalità. Mario Monti, non super-Mario, apparteneva senz’altro a questa categoria. Ma l’uso scriteriato di risorse è un guaio vero, e non riconoscerlo in tempo porta ad altri peggiori guai.

La Repubblica 18.10.13