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“Le riforme da semplificare”, di Piero Ignazi

Non c’è nulla da eccepire a quanto sostengono i saggi della Commissione per le riforme costituzionali: il nuovo sistema elettorale deve rispondere a tre esigenze fondamentali. Nell’ordine: ridurre la frammentazione partitica; favorire la costruzione di una maggioranza; ricostruire un rapporto di fiducia e responsabilità tra elettori ed eletti. Ottimi propositi. Peccato che la Commissione, dovendo tener conto delle varie posizioni, offra un ventaglio di soluzioni pratiche molto ampio e, inevitabilmente, contraddittorio. E dire che, per rispondere alle tre esigenze, esiste un sistema già sperimentato, qui da noi e altrove: il sistema maggioritario a doppio turno con sbarramento; quello adottato in Francia dal 1958 per l’elezione dei deputati, e in Italia, in versione semplificata, per i sindaci. Questo sistema si basa su una competizione in due fasi, due turni , appunto. Vi è una prima votazione nella quale ogni partito “fa la sua gara” presentando un proprio candidato in ciascun collegio (e i collegi sono tanti quanti sono i deputati da eleggere). Vi è poi, a distanza di una settimana o di 15 giorni, una seconda votazione alla quale partecipano solo i candidati di quei partiti che, in quel collegio, hanno superato una soglia di sbarramento, una quota minima di voti. Viene infine eletto chi, a questo secondo turno, ottiene il maggior numero di voti. Perché questo è un buon sistema elettorale e per di più
rispondente alle giuste esigenze sottolineate dai saggi? Perché nessuno parte necessariamente sconfitto: al primo turno un brillante candidato di un piccolo partito può superare la soglia di sbarramento. Perché pur “aprendo” la competizione anche ai partiti minori non favorisce la frammentazione in quanto la soglia di sbarramento – che deve essere alta, almeno il 15% dei votanti – punisce le liste velleitarie. Perché facilita le aggregazioni tra i partiti al fine di presentare un candidato comune tanto al primo turno (per superare lo sbarramento) quanto al secondo turno (per vincere). Perché le alleanze sono fatte alla luce del sole e prima del voto, prefigurando in tal modo le future coalizioni governative. Perché si vota un candidato che diventa il rappresentante di quel collegio e al quale i cittadini possono fare riferimento. Perché, infine, chi vince raccoglie una quota di consensi elevata – a volte la maggioranza assoluta di più del 50,1% dei voti – e quindi ottiene una forte legittimazione da parte dell’elettorato, contrariamente a quanto accade nel sistema maggioritario a un turno unico dove, a volte, il candidato è eletto con appena il 30% dei voti.
Riduzione della frammentazione, prefigurazione di una maggioranza governativa, rafforzamento del rapporto cittadini-rappresentanti sono tutti effetti positivi del maggioritario a doppio turno. In più, si tratta di un sistema semplice, dalle regole chiare e trasparenti, un sistema privo di trabocchetti e misteri. Il Mattarellum, al contrario, era un sistema pieno di arzigogoli incomprensibili – lo scorporo – e per di più rimaneva un ibrido mal congegnato di maggioritario e proporzionale. Anche il maggioritario a turno unico, pur vantando grande semplicità di funzionamento, ha i suoi difetti, dalla brutalità di una eccessiva semplificazione del panorama partitico alla bassa quota di voti con cui si può essere eletti.
Nonostante siano evidenti i benefit del sistema francese (maggiore rispondenza verso gli elettori, maggiore legittimità degli eletti, maggiore trasparenza delle alleanze), in Parlamento continuano a circolare proposte di sistemi elettorali tortuosi e complicati. Solo ora un gruppo di parlamentari del Pd ha preso posizione a favore del doppio turno. Sarebbe tempo che il maggior partito si assumesse la responsabilità di indicare pubblicamente la sua opzione in favore di questo sistema elettorale e lasciasse ad altri l’onore di dimostrare gli eventuali meriti di altre proposte. A volte, nella nostra politica, semplicità e chiarezza sembrano essere difetti insuperabili.

La Repubblica 17.10.13

“Un balletto grottesco”, di Luigi La Spina

Il lamento è ormai diventato un luogo comune: gli italiani non hanno senso dello Stato. Ma come si fa ad averlo, se neanche lo Stato ha senso dello Stato? Il grottesco balletto funebre della salma di Priebke nella provincia romana, tra omaggi neonazisti e aggressioni di discendenti delle sue vittime, lo dimostra, purtroppo, con una evidenza umiliante. Come facciamo a pretendere che i nostri concittadini rispettino le istituzioni, osservino le leggi, paghino le tasse a uno Stato che, di fronte a un caso del genere, offre all’opinione pubblica, anche internazionale, un tale squallido spettacolo?

Era davvero imprevedibile che la morte del centenario criminale nazista non aspettasse decenni per porre il problema della sua sepoltura? È ammissibile che sul caso del responsabile di uno dei più sconvolgenti delitti della follia umana, o meglio disumana, lo Stato italiano riuscisse a squadernare tutti i peggiori e i più meschini difetti del nostro pubblico costume: l’improvvisazione, la piccola furbizia, il palleggio delle responsabilità, l’assoluta mancanza di autorevolezza e di credibilità dei suoi funzionari?

Ripercorrere le scene che, in questi giorni, si sono succedute all’annuncio della scomparsa di Priebke è come rivedere, in flashback, un film dell’orrore, l’orrore di uno Stato assente, incapace di prendere una seria decisione, una istituzione che abdica i suoi poteri a chi, di volta in volta, si arroga il diritto di esercitarli. Compare un avvocato dagli annunci irresponsabili, spunta una fantomatica congrega di nostalgici lefebvriani, s’infuria un sindaco alle prese con un problema certamente più grande di lui, si agita un prefetto che, prima autorizza i funerali e, poi, è costretto a vietarli, di fronte alle più che prevedibili conseguenze delle sue sconsiderate decisioni. Così, appaiono sui video di tutto il mondo spettacoli che abbiamo sempre pensato potessero arrivare solo da qualche Paese mediorientale alla caduta del dittatore di turno, con la bara di un uomo, sia pure un criminale, sballottata tra insulti, calci, sputi e cori di impudente omaggio nostalgico, costretta prima a sfuggire all’assedio con una manovra diversiva all’ombra delle tenebre e, poi, a riparare addirittura in un’aeroporto militare, senza che nessuno possa neanche immaginare la sua destinazione finale.

Neanche la notte porta consiglio, perché ieri la scena, questa volta spostata dal fuoco della piazza alle austere stanze della diplomazia, non cambia: si susseguono assicurazioni sull’intervento della Germania e secche smentite da parte dell’ambasciata tedesca che, in serata, precisa di non potersi occupare di una questione che riguarda la sola competenza dell’Italia. Confusione, imbarazzo e qualche piccola bugia fanno ancora da vergognosa colonna sonora a un film davvero da brivido, perché mostra uno Stato ormai svuotato, assente, incapace di far fronte alle responsabilità di una istituzione a cui, secondo il patto fondamentale stretto tra i cittadini, è affidata non solo la rappresentanza degli interessi degli italiani, ma la rappresentanza dell’onorabilità degli italiani di fronte al mondo. Quello Stato che, al di là delle diverse opinioni dei suoi abitanti, delle loro diversità ideologiche, delle diverse sensibilità, magari anche dei contrastanti umori e risentimenti, giustifica ancora la necessità, ma anche la voglia, di riconoscersi in una sola nazione.

Se questa è la penosa rappresentazione di impotenza istituzionale offerta dal nostro Paese, non ci possiamo meravigliare che cerchino visibilità mediatica confusi epigoni nostrani del negazionismo storico come Odifreddi o che pseudo estremisti di sinistra come i grillini vadano in caccia di trasversali consensi tra i nostrani pseudo estremisti di destra, bloccando la rapida approvazione della legge che istituisce il reato di apologia del nazismo e dell’antisemitismo.

Eppure ci dev’essere un limite al disfacimento del nostro Stato nel silenzio un po’ complice dei suoi abitanti e, forse, lo squallido spettacolo di questi giorni servirà almeno a impedire che qualche italiano possa dire di non essersene accorto.

La Stampa 17.10.13

“Quella credibilità persa agli occhi del mondo”, di Timothy Garton Ash

Lunedì gli uffici statali a Washington sono rimasti chiusi per celebrare il Columbus Day. Peccato che in gran parte fossero comunque chiusi per lo shutdown. Come tutti sanno si presume che Cristoforo Colombo, al servizio della corona spagnola, abbia “scoperto” l’America rivelandone le potenzialità alla curiosità del mondo. Ho trascorso l’estate negli Stati Uniti osservando sempre più allarmato il Paese dar prova di un autolesionismo tale che, se riscontrato in un adolescente, porterebbe gli amici a chiamare un medico.
LA CONCLUSIONE che traggo è questa: l’America dovrebbe comportarsi come un Colombo alla rovescia. Al mondo non interessa più scoprire l’America, ma l’America ha urgente bisogno di scoprire come il mondo la vede. Dall’esterno infatti si osserva che il potere americano subisce un’erosione più rapida del previsto — mentre i politici a Washington incrociano le corna come cervi in lotta.
I notiziari Usa seguono ogni balzo e ogni guizzo di questa battaglia, quasi fossero l’equivalente politico delle cronache sportive non stop. Solo ogni tanto il resto del mondo viene alla ribalta: ad esempio in occasione dei vertici annuali della Banca Mondiale e del Fmi — proprio a Washington — quando i leader dei due organismi, Jim Yong Kim e Christine Lagarde, prospettano disastrose conseguenze, il tutto liquidato in poche righe. O quando lo shutdown e il muro contro muro sull’innalzamento del tetto del debito fanno cancellare al presidente Obama la visita in Asia, disertando il vertice Apec di Bali e permettendo al presidente Xi Jinping di affermare la leadership cinese nella regione («l’Asia-Pacifico non può prosperare senza la Cina »).
Per un assaggio più diretto delle notizie dal mondo basta scorrere col telecomando. Trovo Al Jazeera, la Cctv cinese e la russa Rt.
I reporter spesso parlano in perfetto accento americano e a volte si tratta di giornalisti professionisti provenienti dalle reti americane in ridimensionamento, assunti per dare credibilità a questi canali: il responsabile dell’ufficio di Washington della Cctv ad esempio è Jim Spellman, ex Cnn.
Da queste emittenti il calo di livello di Washington emerge più netto. Il sito web della Rt, la televisione russa finanziata dallo Stato, cita un editoriale dell’agenzia di stampa cinese Xinhuache, alla luce della crisi, sostiene l’opportunità di «porre diverse basi a sostegno di un mondo deamericanizzato ».
Ovviamente queste reti rappresentano Stati non democratici e non i loro popoli. E vi chiederete: ma chi diavolo guarda la Cctvo la Rt?
E chi le prende sul serio? In Europa e in Nord America la risposta è ancora “non molti” e “non tanto”. Ma in Africa, America Latina e parte dell’Asia, queste reti fornite di ampie risorse economiche sguadagnano influenza.
Le percezioni sono anche reali, non solo nel campo del soft power.
Come ripete George Soros, questo vale anche per i mercati finanziari. Da notare: gli Usa a maggio di quest’anno hanno superato il tetto del debito fissato a 16.699 mila miliardi di dollari (secondo le stime della Banca Mondiale il Pil 2012 ammonta a 15.685 mila miliardi di dollari). Da maggio, per pagare i conti e rifinanziare il debito, il governo federale usa le cosiddette “misure straordinarie”. E queste, stando al Segretario al Tesoro Jack Lew, saranno esaurite oggi (
giovedì 17 ottobre).
Qualche giorno fa ha riferito che gli interessi sui bond a breve termine erano quasi triplicati in appena sette giorni. E la scorsa settimana Fidelity, la maggiore società americana di gestione di fondi, ha venduto tutti i suoi bond Usa a breve termine. Una precauzione temporanea, si capisce. Ma se gli Stati Uniti continuano così — tra un anno, tra dieci — la fiducia dei consumatori perderà smalto.
Persino la massima espressione dell’hard power, l’intervento militare, tiene in conto il fattore percezione. Il Vietnam ha appena detto addio al suo eroe di guerra, il generale Vo Nguyen Giap, cui si attribuisce il merito di aver cacciato sia la Francia che gli Usa. In realtà l’offensiva Tet del 1968 fu un fallimento sotto il profilo militare: i Viet Cong furono respinti con enormi perdite, ma Giap fu fondamentale nel portare l’opinione pubblica americana a condannare la guerra. Analogamente non esiste una verità obiettiva riguardo ai conflitti in Afghanistan e in Iraq; ma agli occhi di gran parte del mondo la vittoria non è andata alle forze armate Usa.
Nel momento in cui scrivo pare che i cervi in lotta al Senato e alla Camera si scostino in extremis dal ciglio del burrone. Ma hanno già causato un grosso danno. Politicamente, agli occhi del mondo, la “piena fiducia e credito” nei confronti degli Usa si sono ulteriormente deteriorati.
Gli americani devono sapere cosa si pensa di loro all’estero. Chi ne è consapevole, già visita la versione americana del Guardian online. L’International New York Times ora dà spazio a contributi internazionali, benché rivolti all’élite politica, imprenditoriale e culturale mondiale. Ma chi provvede agli americani in patria, meno cosmopoliti e non elitari?
Mentre lascio gli Stati Uniti, vorrei invitare qualche miliardario americano interessato al bene comune a creare una rete tv e Internet che trasmetta a un ampio pubblico l’immagine che il mondo ha degli Usa. In Gran Bretagna per esprimere incredulità verso qualcosa che stupisce ed è ridicola, come quel che succede oggi a Washington, si esclama: “Cristoforo Colombo!”. Ecco, sarebbe un bel nome per la nuova rete.
(www. timothygartonash. com Traduzione Emilia Benghi)

La Repubblica 17.10.13

“I parlamentari 5 stelle snobbano Grillo: non venire”, di Andrea Carugati

C’era una volta il popolo dei grillini che in torpedone raggiungeva il Caro leader in un resort nelle campagne romane. Era l’inizio di aprile, qualche dissenso in seno ai Cinquestelle si era già manifestato, ma la «gita in stile scuola media» (il copyright è di un parlamentare M5S) alla fine si era conclusa con il solito Beppe sorridente che ammansiva le sue pecorelle.
Quel film però non si ripeterà. L’appuntamento alle porte della Capitale, previsto per domani, è saltato. E pensare che erano stati proprio i parlamentari, riuniti giovedì scorso, a chiedere al Capo di incontrarsi. Il motivo era semplice: due senatori avevano proposto di abolire il reato di immigrazione clandestina, e la proposta era passata con i voti di Pd e Sel. Il giorno dopo, Grillo e Casaleggio avevano sconfessato i loro eletti, spiegando che «con proposte del genere prendiamo percentuali da prefisso telefonico». Apriti cielo. La truppa si era surriscaldata, persino fedelissimi come il giovane Luigi Di Maio avevano difeso il lavoro dei colleghi. E Beppe era finito in minoranza, per la prima volta, come il Cavaliere.
L’incontro chiarificatore però è saltato. Come mai? Martedì sera tra i deputati riuniti in assemblea si erano levate molte voci per dire che no, «venerdì abbiamo altri impegni», «dobbiamo stare nei nostri collegi». Problemi. Complicazioni. Che dimostrano come il vecchio Beppe non sia più l’Oracolo da consultare trepidanti. Una volta lo avrebbero seguito ovunque. Ora, dopo 8 mesi in Parlamento, i «ragazzi» sono cresciuti. E sono sempre più insofferenti al padre-padrone. Discorso che vale anche per Casaleggio, più temuto che realmente amato dalla truppa. «C’ho un convegno nella mia città», è stato uno dei motivi più ricorrenti.
Allora è partita l’idea di fare un sondaggio interno, pare su proposta del nuovo capogruppo Alessio Villarosa «Lo volete fare o no l’incontro venerdì? E con quali modalità?». Ieri a mezzogiorno 46 deputati avevano votato per posticipare l’incontro con i due leader (contro i 44 che hanno continuato a insistere per venerdì). Una cifra che va molto oltre la pattuglia dei dissidenti “storici” e segnala un malessere profondo. E anche una contraddizione. Solo una settimana i grillini avevano sbertucciato i loro colleghi dei “partiti” per la fretta di partire da Roma il giovedì il pomeriggio. «Una repubblica dei trolley, ironizzavano. Stavolta l’hanno fatto loro. Valigie pronte di giovedì, e pazienza per Beppe.
Ma non c’era solo la data a creare problemi. La maggioranza, almeno 55 su un centinaio, non voleva l’ennesima gita fuori porta. «Vengano loro in Parlamento». Solo in 26 sentivano la fregola di tornare in un posto come Tragliata, vicino a Fiumicino, dove si erano visti in aprile, tra prati all’inglese e piscine vuote in attesa dell’estate. Stesse percentuali per l’opzione logistica: solo una ventina ha scelto il torpedone.
LA FURIA DEI CAPI
Quando i due capi hanno saputo del sondaggio, si sono infuriati. Telefoni roventi, domande senza risposta. Una rabbia che è montata al punto da cancellare l’incontro, rinviato a data da destinarsi. Spiegano fonti M5S che Grillo e Casaleggio «hanno giudicato una leggerezza fare un sondaggio, ben sapendo che sarebbe finito alla stampa». Ma forse è il contenuto di quel dossier che li ha delusi: la truppa non è più quella di una volta. La ferita del reato di clandestinità resta aperta: forse si risolverà con una consultazione dei militanti in Rete. Grillo però, dopo aver letto alcuni sondaggi, resta convinto della sua idea: «Quell’emendamento è stato un errore, ma i nostri due erano in buona fede».
Ieri Beppe ha lanciato dal blog l’ennesimo proclama bellico per cercare di ricompattare il gruppo. «Il “populista” Movimento 5 Stelle parteciperà alle elezioni europee per vincerle. Sarà una crociata. In alto i cuori». Nel post Grillo si iscrive al vasto fronte di movimenti populisti ed euroscettici e preannuncia un forte risultato di questi raggruppamenti in chiave anti-Bce. «Se i popoli europei ne hanno pieni i cosiddetti e vogliono costruire un’Europa migliore, gente come Letta deve fare le valige subito dopo le elezioni europee».
Ieri intanto i fuoriusciti, le senatrici Gambaro (espulsa), Anitori e De Pin e il deputato Adriano Zaccagnini, hanno dato vita all’embrione di un nuovo gruppo, che si chiama «Gap». Sta per «Gruppo di azione popolare», ma il riferimento nell’acronimo alle brigate partigiane è tutt’altro che casuale. «Un pezzo della base è con noi, ci hanno contattato da tutta Italia» spiega Adele Gambaro. Mentre Zaccagnini osserva: «Rapporti col movimento? Quando ci riferiamo a forze sane pensiamo anche ai parlamentari 5 stelle che in maniera professionale e competente fanno il loro lavoro. Mentre le promesse del M5S sono state disattese e vanificate in un progetto di marketing». «Quelli che fanno certe operazioni badando solo al consenso dei sondaggi sono sciacalli politici che mirano al potere», aggiunge. «Ci opponiamo al berlusconismo e alle derive post berlusconiane come il grillismo che fomentano gli istinti».
E Gambaro ricorda: «Mi hanno mandata via solo perché ho espresso la mia opinione. È una cosa molto grave che va contro la Costituzione che dicono di difendere». «Rimaniamo all’opposizione», spiegano i “gappisti”. Per ora non si annunciano nuovi arrivi dal M5S.

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Salta il summit con Grillo. Il vertice dopo lo scontro sull’immigrazione era in agenda per domani. I deputati non gradiscono tempi e modi e i leader annullano tutto, di Paola Zanca

Volevano convincerli a “sporcarsi le mani”, entrare nel palazzo e magari restarci un paio di giorni, il minimo per capire come ci si muove là dentro. Invece, la rivolta contro la gita fuori porta, ha prodotto un solo risultato: niente incontro, per la gioia di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, che di confrontarsi con i “loro” eletti non hanno avuto mai granché voglia. Tutta colpa dei deputati, che hanno voluto alzare il tiro e hanno osato discutere delle modalità con cui era stato convocato il vertice: martedì pomeriggio, con una mail, si precettavano gli eletti per venerdì, intera giornata, destinazione segreta. Un agriturismo fuori Roma, come l’ultima volta, dove trovare la serenità necessaria per rimettere in ordine le regole base del Movimento, dopo che due senatori si erano permessi di presentare un emendamento per l’abolizione del reato di immigrazione clandestina, subito scomunicati via blog. Martedì sera, in assemblea, i deputati si sono messi a discutere della mail. Infastiditi per essere stati avvertiti con meno di 72 ore di anticipo. C’è chi ha già preso appuntamenti sul territorio e non vorrebbe disdire, c’è chi è in partenza per gli Stati Uniti, chi ricorda che il prossimo weekend si vota in Trentino Alto Adige e bisogna battere palmo a palmo tutta la Regione. E poi c’è un diffuso malcontento per la scelta della scampagnata. Sanno che lì finirà tutto a tarallucci e vino, che non è il posto adatto per spiegare le dinamiche di aula e commissioni, qualcuno è perfino perplesso: “Perché dobbiamo tirar fuori dei soldi quando qui è pieno di sale gratis? ” (la gita di Tragliata costò 20 euro a testa, ndr). E ancora la località segreta, il viaggio in pullman come deportati, l’inseguimento dei giornalisti.
NO, COSÌ NO. Una proposta sul tavolo è quella di vedersi in settimana, di sera. Altri pensano a un albergo in città. Ma tutti sono concordi: il confronto deve essere lungo, bisogna avere tempo per discutere e dobbiamo essere tutti presenti. Alla fine si decide di aprire un doodle, un calendario on line per capire chi è libero venerdì, chi è d’accordo con la gita, chi vuole muoversi con un mezzo proprio. Vince la linea di chi vuole rimanere a Roma e di chi chiede a Grillo e Casaleggio di rimandare l’appuntamento a data da destinarsi. L’Huffington Post pubblica i risultati del sondaggio: 46 per il rinvio, 44 no. E solo in 26 accettano la scampagnata e il viaggio “bendato” in autobus. Tempo un paio d’ore e su WhatsApp arriva il messaggio definitivo: “A causa delle enormi difficoltà organizzative, l’incontro è annullato”. Raccontano che a Milano e a Genova i malumori siano stati presi con un certo fastidio: “Sono loro che volevano incontrarci, se hanno da fare, pazienza”. Ma tutto sommato, al di là dell’irritazione per la rivolta contro la gita, pare che Grillo fosse addirittura sollevato per essersi evitato la sfacchinata.
LA NOTIZIA esplode e manda in tilt le stanze dei Cinque Stelle a Montecitorio e a Palazzo Madama. Alessio Villa-rosa, capogruppo M5S alla Camera, sbotta davanti alle agenzie: “C’è una legge di Stabilità tremenda – dice – e i giornali scriveranno di noi per il mancato incontro. Sai che ti dico? Mi viene voglia di gettare la scrivania dalla finestra”. I senatori, che da tempo chiedono un confronto con i due leader, continuano a sperare che l’appuntamento venga rifissato a breve. Dice Maurizio Buccarella, protagonista della querelle sulla clandestinità: “Sono stato sempre favorevole a un incontro con Beppe Grillo. È un bene che venga informato di quello che facciamo in Parlamento”. Andrea Cioffi, cofirmatario dell’emendamento incriminato scuote la testa: “Vinceremo”. Ma ormai sono quasi tutti convinti: chissà quando li rivedremo.

Il Fatto quotidiano 17.10.13

“Seppellirlo sì ricordando tutto”, di Barbara Spinelli

Tutto sta a non dimenticare chi è stato, a seppellirlo nel silenzio, a fuggire le cerimonie vistose; ma seppellirlo si deve. È quanto si può dire su Erich Priebke, l’ufficiale delle SS che sotto gli ordini di Kappler, capo della Gestapo a Roma, si rese colpevole dei 335 morti delle Fosse Ardeatine. Tutto sta a non prendere il suo colore, a non somigliargli: a fare l’impossibile – mescolare pietà e orrore – perché l’impossibile e il difficile sono sorte dell’uomo che pensa, conosce se stesso, non segue l’istinto. I vocabolari che usiamo sono colmi di emozione, di sdegno, anche di argomenti etico-politici, ma non hanno nulla a vedere col dilemma dei giorni scorsi: che fare, del corpo di chi fu tuo assassino? Come rispondere alla provocazione inaudita che è stata tutta la sua esistenza, visto che Priebke fino all’ultimo non s’è pentito, giungendo sino a chiamare «cucine » le camere a gas, nel testamento?
In mezzo a tanta ira meglio probabilmente non usare parole così intime, e abissali: pietà, amore. E forse aveva ragione Nietzsche quando ci riteneva capaci, sì, di amore del prossimo, «cioè di noi stessi»: non però dell’incommensurabile lontano, della radicale alterità. Forse amore e pietà sono parole troppo calde, mentre qui ci vuole qualcosa che trattenga l’istinto, che lotti contro la primordiale inclinazione naturale, che sia più asciutta e più imperiosa perfino del senso di giustizia. Meglio la parola Legge. Che non necessariamente coincide con il giusto, o placa il dolore delle vittime.
Seppellire il nemico – come salvare il naufrago, o soccorrere la vedova e l’orfano: l’imperativo nasce da una cultura plurimillenaria, che oltrepassa l’ordine giuridico. Non a caso Antigone dà a quest’imperativo il nome di «legge non scritta », impartita dagli Dèi prescindendo dalle leggi della pòlis. Rispettare il corpo non più padrone di sé: dai tempi di Sofocle, prima che apparisse Cristo, è norma inviolabile. Il corpo stesso è pura incandescenza: non inumato esala miasma, contagio. Ricordiamo che nòmos, legge, è in origine la porzione di terra distribuita e assegnata. Compresa la porzione della tua tomba.
Tumulare il nemico non è amnesia, né amnistia. Il solo sospettarlo ci rende infinitamente sospetti: vuol dire che tumulare e scordare tendono a congiungersi, sono nelle nostre corde: anche questo è orrore. La memoria dei misfatti sopravvive alla morte: sinistro è dubitarne. Oggi Roma celebra il 70° anniversario della deportazione degli ebrei dal ghetto, e non commemoreremo meglio se avremo vietato a Priebke la sua porzione di terra. Se l’avremo consegnato ai lefebvriani della Confraternita San Pio X di Albano Laziale, che l’useranno politicamente. Se il sindaco di Albano avrà resistito al passaggio della salma in città, e il carro funebre sarà stato assaltato. Nulla è cancellato di quel che Priebke fece, e mai rinnegò. È normale (dunque
norma condivisa) che la città di Roma tremi, e fatichi a seppellire chi disseminò morti ignorando ogni legge morale. Ma è norma anche dire a se stessi: «tra noi non così », la tomba gli spetta proprio perché lui la negò.
Colpisce il decreto severo del vicariato, che regge la Diocesi romana: nessun funerale in chiese o cimiteri; solo preghiere in casa del defunto. È previsto dal rito delle esequie, è nel diritto canonico, e gli italiani si sentono capiti. Ma non è scelta risolutiva, perché riguarda il funerale, non il seppellimento. I lefebvriani ne hanno profittato. Perché non è all’altezza – vertiginosa, labirintica – della domanda di Antigone: che si fa del corpo nemico? E cos’è questa cosa che non parla più e tuttavia dice: il corpo? È adeguato alla legge non scritta, non restituirlo alla terra? La casistica cattolica è conforme agli atti di Gesù?
Né possiamo sorvolare lo scabroso, nascosto nelle pieghe dei decreti vicariali: lo sconcertante diniego opposto a altre sepolture, su cui varrà la pena meditare. Nel 2006, la stessa diocesi negò i funerali a Welby, reo di eutanasia e suicidio. Fu sorda alla domanda della moglie, credente e praticante. Il rifiuto dei funerali di Priebke è forse difendibile, ma se non s’accompagna a un ravvedimento su Welby tutto si confonde e pericola. In qualche modo i due dinieghi producono un grumo atroce, accomunano. La Chiesa non potrà uscirne se non con una conversione, separando Welby da Priebke. Che si faccia ammenda e la sua morte sia dopo sette anni onorata. Che siano sconfessate le parole di Ruini, allora vicario di Roma: la Chiesa poteva concedere il rito religioso, purché si potesse dire che erano mancati nel ribelle «piena avvertenza e deliberato consenso». Lo ha rammentato Adriano Prosperi domenica su Repubblica: «Welby fino all’ultimo e con piena lucidità rifiutò di riconoscersi in quella religione che gli imponeva di vivere a forza, attaccato a una macchina». Il vicariato apparve a tanti, cattolici e non, «gelidamente crudele». Tanto più la scelta oggi, mischiata com’è col caso Welby.
C’è chi ha chiesto, per non sperdere il dolore inflitto da Priebke, che il corpo venisse cremato d’imperio e le ceneri gettate non in una fossa, ma «in una fogna». Questo è prendere il colore dei morti,
mimetizzarsi col male. Questo è dare tutto il potere alle Erinni, che lavano il sangue col sangue: solo di giusta vendetta e cruenza è fatto il loro mondo. Perché ancora non regnano gli Dèi che prescrivono leggi più forti del diritto del sangue, e le Erinni ancora non sono tramutate. Son tramutate non allontanando il ricordo dell’ira, ma mettendole al centro della Città, nell’Areopago, a futura memoria, e chiamandole non più Vendicatrici ma Benevole, Eumenidi.
Per questo i vocabolari vanno usati con timore e pudore: tanto bollente è la traccia lasciata dalle Furie. Forse le parole più misurate sono state dette da chi ha proposto di seppellire Priebke fuori dalle mura di Roma. Oppure da quel veterano inglese, Harry Shindler: che «il boia Priebke venga seppellito nel cimitero tedesco di Pomezia. Sarà in compagnia dei suoi pari, visto che in quel cimitero ci sono soldati tedeschi che presero parte a parecchie stragi in Italia, come quella di Marzabotto. Sarà in buona compagnia».
Ricordo personalmente quel cimitero. Nei primi ‘60, gli allievi della scuola tedesca a Roma erano condotti regolarmente alla necropoli. Ancora non era cominciata la
politica della memoriatedesca.
Ne ho ricordo perché frequentavo quella scuola. In due, ci rifiutavamo di andare e s’accendevano discussioni. Non mi offendeva che i compagni ci andassero, ma
comeci
andavano: senza pensarci, dato che «era nel programma». Penso che lì il corpo di Priebke avrebbe il suo posto. Avrebbe il suo posto anche in Germania, forse: nella città natale di Henningsdorf. Su Wikipedia, Priebke è annoverato tra «i figli e le figlie della città». Sarebbe appropriato e decente che Henningsdorf si dicesse pronta a accogliere la salma, prima o poi. Senza attendere che l’Italia lo chieda. Quale che sia la soluzione, una cosa pare chiara: la crudeltà con cui Priebke infierì non giustifica che noi s’infierisca sulle sue spoglie. Non è nemmeno la legge del taglione, perché occhio per occhio ha un significato preciso e non c’è modo di pareggiare i suoi misfatti. Né è questione di perdonare. Solo gli uccisi potrebbero.
Al tempo stesso non possiamo dimenticare chi siamo, oggi. La nostra storia recente non edifica. Il corpo di Saddam Hussein mostrato in TV quando fu estratto dal buco dov’era nascosto fu un abominio. Così quello di Bin Laden gettato in mare e rimosso. E Gheddafi linciato sotto gli occhi plaudenti dell’occidente. Fermiamoci un momento, prima di esibire certezze morali. Restare umani non è cosa facile. Perché nell’umano abita con tutta naturalezza il disumano delle Erinni, e perché Priebke, come nel racconto di Borges, è «simbolo di una detestata zona» della nostra anima.

“L’orfanotrofio del mare”, di Alessandra Ziniti

«Amud, Amud, vieni». Sta seduto per terra a gambe incrociate Amud (ma si chiamerà veramente così?) mentre una dolce signora che potrebbe essere sua nonna gli tende la mano in una cucina pervasa dal buon profumo del pranzo. Ma le nocche della manina di Amud sono strette attorno alla macchinetta rossa che gli hanno regalato appena ha messo piede a terra e i suoi occhi, neri e profondi come non dovrebbero mai essere quelli di un bambino così piccolo, guardano fissi un punto nel vuoto, davanti a lui. Chissà cosa “guarda” Amud o forse chissà quali sconvolgenti immagini “vede” questo bimbo siriano fuggito con la sua famiglia dalle bombe nel suo paese e sopravvissuto all’ultimo terribile naufragio nel Canale di Sicilia. Lo ha salvato quella incredibile catena umana di profughi che l’11 ottobre, tra Malta e Lampedusa, è riuscita a rimanere a galla affidando poi nelle mani dei soccorritori quanti più bimbi possibile. Erano tanti, troppi a bordo di quel barcone prima preso a colpi di mitra dalle motovedette libiche e poi capovoltosi nel tentativo di attirare l’attenzione di un aereo maltese che lo sorvolava. In sei, tutti piccolissimi, sono rimasti vivi, ma soli. Almeno per il momento.
L’orfanotrofio del mare è una candida villetta a due piani all’ingresso di Menfi, nella Valle del Belice. Un bel prato verde, due palme, un patio con tutti i giochi che entusiasmano i bambini, scivoli, casette di plastica, giostrine, una grande tv con i cartoni animati. Ma niente sembra riuscire, anche solo per qualche minuto, a restituire alla loro infanzia questi bambini che non sembrano più tali. Bimbi senza più mamma e papà, senza famiglia, senza amore e persino senza nome. Perché nessuno sa da dove vengono, con chi erano, come si chiamano e quanti anni hanno. I più piccoli, come Salvatore (lo hanno chiamato così dal nome del suo “salvatore”) che non ha neanche un anno, ovviamente non parlano, ma gli altri (dai due anni e mezzo ai sette anni) sarebbero in grado di dire questo (e probabilmente molto altro) se solo ad aiutare gli operatori dell’istituto Walden di Menfi ci fosse un mediatore culturale. «Per ora l’unica cosa che abbiamo capito — raccontano — è che per dire no dicono “laa”. Poi comunicano a gesti e ogni tanto ripetono qualche parola che gli diciamo: cane e biscotti. E poi invocano la mamma. Quando piangono o durante la notte, gridano: “Mam, maam…”».
Di notti ne sono passate già cinque da quando sono finiti nel mare nero e profondo che ha inghiottito i loro genitori ma ieri è stata la prima in cui hanno riposato un po’. «Le prime notti dovevano avere incubi continui — racconta Michele, il responsabile della comunità — non riuscivano a dormire, piangevano continuamente, avevano sussulti. Li abbiamo lasciati tutti insieme, i tre fratellini e gli altri tre bambini, abbiamo capito che si sentivano più sicuri». Parlano tra di loro Yara, Joseph, Amud e Karim, i quattro più grandi. Quando li hanno portati alla casa di accoglienza per minori, i poliziotti della questura di Agrigento li hanno indicati con questi nomi, chissà forse riferiti dagli altri profughi siriani che sulla nave della Marina militare avevano potuto scambiare qualche parola con loro. Ma se li chiami non si girano neanche. E però tendono continuamente le manine. Alle ragazze della casa che si prendono cura di loro, ma anche a chi, come noi, è andato a trovarli. Tendono la manina per camminare insieme, per condurti da una parte o dall’altra. Lo fanno con quegli occhi così tristi e impauriti che è davvero difficile reggere il loro sguardo e provare a scaldarli con un sorriso. Perché tanto al sorriso non rispondono. Proprio non ci riescono.
Cercano il contatto fisico continuamente. Persino Kitty, diciotto mesi, che trova pace solo in braccio alle ragazze che la cullano giorno e notte, con il visino appoggiato sul seno. «Appena proviamo a metterla giù piange in modo straziante». L’hanno chiamata così per quella collanina con il ciondolino di Hello Kitty che porta al collo. Un particolare che potrebbe salvarle la vita una seconda volta. Perché Kitty forse i genitori ce li ha ancora. Potrebbe essere lei la “Maram” di 17 mesi che da cinque giorni a Malta una giovane mamma cerca disperatamente. Aisha, 25 anni, libanese sposata con un siriano, ne è sicura: «Mia figlia deve essere viva. Quando mi hanno tirato su da quella zattera, Maram era in braccio a me e stava bene. Me l’ha tolta dalle braccia uno dei soccorritori. Aiutatemi a trovarla». Al centro di accoglienza de La Valletta Maram non c’è. Ma nella confusione dei soccorsi potrebbe essere finita nelle mani di uno dei marinai della nave Libra e da lì sbarcata a Porto Empedocle. Se fosse così, quella collanina di Hello Kitty potrebbe essere il filo per ricongiungerla ai suoi genitori.
Karim, sette anni, il più grande dei bimbi dell’orfanotrofio del mare è l’unico che parla. Alla dipendente di una cantina vinicola di Menfi di origine siriana dice: «Mio padre era su un’altra barca. Verrà a prendermi». Disegna la bandiera siriana e scrive un numero. Potrebbe essere quello di un telefono? Chissà?
Ricongiungimenti difficili, ostacolati dalla lingua, dalla distanza e dalla burocrazia ma ai qualilavoranoleforzedell’ordine e il personale dell’Unhcr e di diverse Ong. Perché adesso Kitty, Salvatore, Yara, Joseph, Amud e Karim sono sotto la giurisdizione del tribunale dei minori e qualsiasi loro movimento deve passare da lì. Per loro come per tutti gli altri minori non accompagnati che ogni giorno sbarcano sulle coste siciliane. Un numero esorbitante: 3319 solo dall’inizio dell’anno ad oggi, tre volte di più rispetto allo scorso anno. Per lo più si tratta di adolescenti, tra gli 11 e i 17 anni, ragazzini che finiscono per scomparire nel nulla. Due su tre, dopo qualche settimana in comunità escono e non tornano più. È successo ancora ieri a Caltagirone, dove sono scappati in dieci dei superstiti del naufragio di Lampedusa. Salgono su un treno con destinazione ignota o, peggio ancora, finiscono nelle mani di organizzazioni criminali che li contattano e che talvolta chiedono persino riscatti alle famiglie rimaste nei paesi di provenienza. E nessuno qui li cerca più. Un problema in meno per lo Stato che non ha più i soldi per pagare le convenzioni con le case famiglia. Gli affidi e le adozioni dei più piccoli (che in questi giorni in tanti chiedono) difficilmente riescono ad andare in porto. I 25 bambini che ormai da diverse settimane sono nella casa di accoglienza di Piana degli Albanesi, ad esempio, aspettano ancora la nomina del tutore. Senza quello è come se non esistessero, non possono andare neanche a scuola. Troppe pastoie burocratiche trasformano questi bambini in piccoli fantasmi di cui presto nessuno si ricorderà più.

La Repubblica 17.10.13

“Le coperture finanziarie sono a rischio più difficile passare l’esame a Bruxelles”, di Federico Fubini

Il Ministro dell’Economia si era presentato a Palazzo Chigi con la sua proposta più importante in cartella: meno spese per quattro miliardi nella sanità, in modo da finanziare il taglio delle imposte sul lavoro e le imprese nei prossimi anni. Invece le obiezioni di alcuni degli altri ministri, a partire da quello alla Salute Beatrice Lorenzin, hanno prevalso in pochi minuti. A Consiglio in corso, a poche ore dalla scadenza di mezzanotte entro cui andava spedito a Bruxelles il testo, al governo mancavano ancora le risorse per le sue iniziative di cartello del 2014.
La fragilità di tante delle misure poi approvate è dunque facile da capire, ma questo non le renderà più accettabili all’esame che è già partito in Europa. Degli 8,6 miliardi di
euro alla voce «risorse», più della metà restano vaghi: sono entrate non ripetibili a fronte di oneri di bilancio permanenti, oppure hanno un impatto così incerto che neanche il governo oggi è in grado di valutare quanto frutteranno. Se nulla cambia nei prossimi giorni, difficile che difetti del genere sfuggano alla lente della Commissione e all’Eurogruppo dei ministri finanziari. Il rischio che Bruxelles chieda al governo di correggere alla manovra non è affatto scongiurato.
Il problema non sono solo i tagli di spesa che, fino a nuove informazioni, restano in buona parte da precisare. Sul bilancio dello Stato vanno trovati 2,5 miliardi di minori uscite sulle quali per ora si sa poco; ancora meno chiaro è come le Regioni contribuiranno con un altro miliardo di tagli, a maggior ragione dal momento che la loro voce di spesa principale, la sanità, non dev’essere toccata.
Ma è soprattutto il secondo punto della manovra alla voce «risorse» a sollevare dubbi. Si parla di 3,2 miliardi derivati da «dismissioni, rivalutazione cespiti e partecipazioni, trattamento perdite». Che significa? In primo luogo il governo annuncia, dopo aver già compiuto una scelta simile nella manovrina d’autunno, un altro mezzo miliardo di finanziamento attraverso la vendita di beni demaniali. È come fare la spesa vendendo un mobile di casa, invece di usare quelle entrate
straordinarie per ripagare vecchi debiti. Eurostat, l’agenzia statistica Ue, di solito vieta di ridurre il fabbisogno annuale con operazioni del genere. Nel caso degli immobili, è vero, si possono fare eccezioni se è provato (come?) che il ricavo della vendita non alimenta spese correnti. Ma per Bruxelles queste non sono comunque operazioni che incidano in modo sostanziale su un bilancio. Il cosiddetto «deficit strutturale » così non cala. Con un problema in più: nella manovrina d’autunno, quei beni sono passati dallo Stato alla Cassa depositi e prestiti in cui lo Stato ha una quota dell’80% e una maggioranza di membri in consiglio d’amministrazione. È stata un’operazione fra parti correlate, non una cessione sul mercato. Formalmente Cdp è fuori dal bilancio pubblico, però non è affatto chiaro che quel trasferimento di immobili sia avvenuto a prezzi che un compratore indipendente avrebbe accettato. Ripetere quel tipo di operazione nel 2014 non farebbe che moltiplicare i dubbi già diffusi in Europa sulla direzione che l’Italia sta prendendo.
Ci sono poi altri 2,2 miliardi che in teoria – entreranno nelle casse dello Stato con la «revisione del trattamento delle perdite di banche, assicurazioni e altri intermediari». In sostanza il governo offre più deduzioni fiscali alle banche che subiscono perdite quando i clienti non rimborsano loro i prestiti. È una scelta ragionevole per aiutare gli istituti a disfarsi delle sofferenze. Ma ciò dovrebbe fruttare allo Stato oltre due miliardi in più l’anno prossimo. Possibile? Il calcolo deriva dal fatto che le banche nel 2014 potranno portare a deduzione solo un quinto delle perdite su credito, poi il resto nei cinque anni successivi. Ma i calcoli di Gianluca Codagnone e Fabrizio Bernanrdi, due analisti di Fidentiis, suggeriscono che il governo ne deriverà introiti in più nel 2014 solo se le banche porteranno a detrazione perdite ben al di sotto dell’1,5% dei crediti erogati. Con il rapido aumento in corso delle sofferenze bancarie, è una speranza eroica. Vari grossi istituti viaggiano già sopra l’1,5%. In sostanza il governo basa importanti stime di entrate su un fattore sul quale non ha controllo (lo hanno le banche) e, di nuovo, cercando comunque di spostare sull’anno prossimo risorse che poi verranno meno in quelli successivi.
Le banche aspettano anche che le loro quote nella Banca d’Italia siano rivalutate al termine delle stime attualmente in corso. Quell’operazione può generare circa un miliardo di entrate fiscali in più per le plusvalenze finanziarie degli istituti azionisti: i soldi servirebbero per il pagamento dei debiti commerciali dello Stato alle imprese fornitrici. La Banca centrale europea vuol vedere la manovra e, per ora, non sembra contestare questa parte. Difficile comunque che una revisione contabile sul valore di Bankitalia compia il miracolo di far quadrare i conti dello Stato. In realtà il Tesoro ci pensa neppure. A meno che, prima o poi, qualcuno non sia tentato davvero di ripianare i conti rivalutando ai prezzi di oggi l’oro custodito da generazioni nei caveau di Via Nazionale (e della Fed di New York per conto dell’Italia). Quello sì che sarebbe raschiare il fondo del barile.

La Repubblica 17.10.13