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“Aiuto, stanno finendo i soldi anche per i premi Nobel”, di Anais Ginori

Quando scrisse il suo testamento nel 1895, un anno prima di morire a Sanremo, Alfred Nobel si raccomandò: «Investimenti sicuri e senza rischio». Un secolo dopo, il tesoretto lasciato dal ricco chimico svedese è ancora nelle casseforti della fondazione di Stoccolma. Si tratta di 31 miliardi di corone dell’epoca, l’equivalente di 1,7 miliardi di corone attuali, quasi 194 milioni di euro. In tutti questi decenni, i ricavi finanziari del patrimonio di Nobel sono serviti a finanziare il lavoro di 829 laureati, personalità che si sono “distinte”, secondo il testamento, nella fisica, la chimica,
la letteratura, la medicina, l’economia e la promozione della pace.
Eppure la crisi bussa anche alla porta dei Nobel. A lanciare l’allarme è Lars Heikensten, ex governatore della banca centrale svedese che dal 2011 è alla guida dell’omonima fondazione. La gloriosa istituzione non è ancora in bancarotta, tutt’altro, però comincia a preoccuparsi di come salvare il suo patrimonio in un’epoca in cui le Borse crollano, i fondi di investimento prendono rischi sconsiderati, i titoli di Stato
non sono più una garanzia, la speculazione immobiliare galoppa.
L’oculata gestione finanziaria della fortuna di Alfred Nobel, proprio come lui aveva chiesto nelle sue ultime volontà, è riuscita a passare indenne attraverso guerre e carestie del Novecento. Il chimico svedese divenne ricco inventando la dinamite e, forse per farsi perdonare, decise di premiare la genialità umana in forme meno bellicose. Anche se non sono mancate polemiche in passato su alcuni laureati, il nome di Nobel continua a essere associato al massimo riconoscimento in varie discipline umanistiche e scientifiche.
Ma il terremoto dei subprime, che dal 2008 ha mandato in crisi il sistema finanziario occidentale, è arrivato anche nella benestante Stoccolma. La fondazione ha dovuto tagliare del 20% il valore dei premi versati ai vincitori. L’assegno che sarà consegnato ai laureati
il prossimo 10 dicembre è sceso a 900mila euro. Anche il celebre banchetto organizzato a Stoccolma per 1.300 ospiti sarà all’insegna del risparmio. Le spese per la cerimonia, a cui partecipa la famiglia reale svedese, devono essere ridotte di un quinto.
È il momento dell’austerity. Ma i risparmi potrebbero non bastare per mantenere integro il tesoro di Nobel. La fondazione, che per decenni è stata autonoma finanziariamente, comincia a pensare a una campagna di raccolta fondi. Lo ha confermato Heikensten all’agenzia Bloomberg. «Per adesso — spiega il direttore — la fondazione non pensa a finanziamenti privati, ma è probabile che dovremo studiare l’ipotesi nei prossimi anni». Una piccola rivoluzione per un’istituzione fiera della sua indipendenza, garanzia di neutralità nella scelta dei laureati. «Qualsiasi donazione dovrà prima essere esaminata attentamente», aggiunge Heikensten.
Per la prima volta nella sua Storia, la fondazione non ha certezze sul suo futuro. «Nel mediolungo periodo sarà difficile risparmiare di più e mantenere i costi al livello attuale» continua Heikensten che pensa anche di aumentare lo sfruttamento commerciale del marchio. A Stoccol-
ma è già in costruzione una museo più grande di quello attuale, sull’isola Blasieholmen: aprirà nel 2018 ed è stato finanziato in gran parte da donatori privati. Finora i ricavi finanziari sono sempre stati sufficienti per mandare avanti l’attività dei Nobel, anche grazie anche all’esenzione fiscale concessa dal governo nel 1946. Il 94% del patrimonio della fondazione è ancora basato sulla donazione originale fatta da Nobel. Il 51% è stato investito in azioni, il 16% in polizze assicurative a rendimento fisso e il 33% in altre forme di investimento. Con l’attuale crisi, però, i dividendi finanziari diminuiscono e c’è il rischio di dover intaccare il bottino originale. Per evitare che ciò accada, la fondazione potrebbe rivolgersi a investitori istituzionali, charities, grandi mecenati. Non è neppure esclusa una campagna di crownfunding, facendo un appello online per microdonazioni di privati cittadini, felici sostenere i valori rappresentati dalla prestigiosa onorificenza. Una gigantesca colletta per salvare l’onore dei Nobel: magari l’idea sarebbe piaciuta al vecchio chimico svedese.

La Repubblica 18.10.13

“L’Unità e la speranza”, di Claudio Sardo

La crisi sociale semina sfiducia, talvolta disperazione, corrode il senso di appartenenza alla comunità, eppure centinaia di migliaia di donne, di uomini, di giovani continuano a offrire il loro impegno gratuito per aiutare chi ha bisogno. La scuola, la nostra principale risorsa per il futuro, è sfiancata dalle scarse risorse e da una trop- po lunga disattenzione, ma tantissimi insegnanti, in ogni angolo d’Italia, continuano a fare il loro dovere, a lavorare oltre l’orario contrattuale, promuovendo conoscenze e senso civico. L’illegalità e la criminalità occupano spazi inaccettabili del potere, dell’economia, del territorio, ma ci sono persone, associazioni, istituzioni che le combattono con coraggio, forti dei valori che sono alla base della nostra Carta costituzionale. E si potrebbe continuare elencando i conflitti aperti tra le paure diffuse e le speranze incomprimibili, tra le sopraffazioni e la voglia di combatterle: i lavoratori che lottano perché non venga dilapidato il patrimonio produttivo, gli imprenditori che sfidano i conti drammatici della crisi tenendo aperte le loro aziende e innovando, le donne che si battono non solo per difendere la propria soggettività ma perché la società e la cultura ne siano arricchite…

Viviamo in un Paese in bilico. Tra il declino e la possibile rinascita. Ma la lunga transizione, che ancora continua, reca purtroppo i segni del fallimento della seconda Repubblica e dell’impotenza della politica assai più che di queste dinamiche sociali.

Compito della sinistra è riaprire una battaglia visibile, non camuffata, sul tema dell’uguaglianza, sulla dignità della persona, sullo sviluppo sostenibile, su una nuova, più solida e moderna idea di pubblico. Perché non è vero che il mercato è capace di regolare da sé le risorse, come dimostra la drammatica crisi nella quale siamo sprofondati. L’ideologia liberista e antipolitica che domina ormai da un trentennio è una delle ragioni prime del declino, oltre che delle diseguaglianze crescenti, e la sinistra è stata tiepida nel contrastarla. Ha orientato il proprio riformismo per attenuarne le conseguenze sociali, anziché per costruire un’alternativa. E questo resta il tema di fondo del cambia- mento: immaginare che nuovi leader carismatici possano da soli surrogare il deficit politico accumulato, sarebbe un’ulteriore sottomissione all’ideologia che ha causato il disastro.

Il governo Letta è dentro la difficile transizione e rappresenta un’opportunità che, grazie al Capo dello Stato, è offerta al nostro Paese. Non è il governo che volevamo, anzi è il frutto anche dei nostri errori, ma ha il compito di costruire le condizioni politiche, economiche, istituzionali del cambiamento futuro. È il governo stesso un terreno di battaglia politica, a cui una sinistra nazionale ed europea non può sottrarsi. Non esistono tregue, né pacificazioni. In agenda c’è una ripresa da agganciare, una politica di equità da attuare, le riforme da realizzare per salvare la Costituzione e non certo per cambiarne i principi, un semestre di presidenza italiana dell’Ue da utilizzare per cambiare rotta nelle politiche economiche. La sfida parte dalle modifiche necessarie a questa legge di Stabilità. E ovviamente dal rispetto del principio di legalità: Berlusconi e i suoi tenteranno ancora di dare la spallata al governo. Useranno le tasse come ariete, ma il loro disegno è andare subito alle urne per contrappor- re la legittimazione elettorale a una sentenza definitiva di condanna. Useranno, in parallelo a Grillo, il presidente Napolitano come bersaglio per tentare di destabilizzare le istituzioni. Questo disegno va sconfitto. Non bisogna dargli sponde. Una sinistra intelligente deve continuare a seguire la strada più difficile: dare battaglia e avere a cuore le sorti del Paese, a cominciare dai più deboli.

La battaglia politica è una leva di r composizione sociale, è costruzione di una speranza condivisa. È stata l’antipolitica liberista a produrre invece conflitti sordi e irrisolti, frammentazione e individualismo. La sinistra della solidarietà e dell’uguaglianza deve ritrovare il futuro.

Non può arrendersi alla dittatura del presente. Il piccolo cabotaggio genera corruzione, distacco, perdita di credibilità. L’impresa del cambiamento a volte pare disperata, ma è il salto a cui siamo chiamati. Un mondo nuovo è cominciato. E dobbiamo entrare nel mondo nuovo con una carica di speranza, che è insieme ideale e concreta. Spes contra spem ripeteva un politico sognatore come Giorgio La Pira. E lo stesso Antonio Gramsci ci ha lasciato pagine memorabili sul nesso inscindibile tra il socialismo e la speranza della città futura. Quella del nostro tempo è anche una crisi dell’uomo e del suo destino. La politica non può ridursi ad amministrazione dell’esistente. Neppure ad una buona amministrazione. Per questo la cultura democratica avrà sempre più bisogno, da un lato di ricevere linfa dalle sue radici costituzionali, dall’altro di aprirsi al confronto con le nuove culture, nate dalle esperienze civiche, dai movimenti ambientalisti, dall’elaborazione delle donne. La cultura democratica è anche il terreno dell’impegno comune di credenti e non credenti: nuove frontiere si stanno aprendo, e forse non è lontano il giorno in cui i credenti riconosceranno anche in chi non crede il volto del loro Dio e i non credenti riconosceranno che la fede è per chi crede una fonte di conoscenza.

Questo è il mio saluto da direttore de l’Unità. Sono stati due anni e mezzo intensissimi, di grande impegno, di grande difficoltà, di grande bellezza. È stato per me un onore guidare un giornale così carico di storia, di valori, di professionalità, di passione civile. Sono riconoscente a chi mi ha dato questa opportunità. Ringrazio con affetto fraterno i dipendenti de l’Unità, i giornalisti e i collaboratori, senza i quali non sarebbe stato possibile nulla di ciò che abbiamo fatto. Vorrei nominarli tutti, uno a uno, perché tutti mi hanno dato qualcosa di importante che mai dimenticherò. Mi permetto di citare, per tutti, Pietro Spataro, che ha svolto funzioni vicarie di direzione, e che per spirito critico e passione politica ben rappresenta l’energia e la qualità della redazione. Quando ho assunto la direzione, c’era ancora il governo Berlusconi e la reputazione dell’Italia stava precipitando oltre la soglia della sicurezza nazionale. Abbiamo raccontato l’emergenza, i conflitti istituzionali, i progetti di cambiamento, gli scontri politici, gli errori drammatici anche della sinistra. Abbiamo raccontato la società, i suoi umori, la sfiducia crescente, andando però a cercare anche i segni di riscatto. Siamo andati controcorrente. Abbiamo polemizzato con la visione autoritaria di Grillo, con l’antipolitica di Berlusconi, con i filosofi della seconda Repubblica. Abbiamo difeso e sostenuto l’autonomia politica e culturale della sinistra, oggi aggredita su molti fronti. Ma l’impegno de l’Unità continua, anche perché queste ragioni si fanno ogni giorno più forti.

Il cambio nella compagine sociale che edita il giornale, con un nuovo socio di maggioranza, ha portato anche al cambio di direzione. A Luca Landò, vicedirettore dal 2001, di cui ho avuto modo di apprezzare professionalità e impegno, vanno i miei più sinceri auguri. Luca e l’editore mi hanno chiesto di continuare a lavorare a l’Unità in un ruolo diverso e ho accettato. Gli auguri insomma li rivolgo a tutti noi, a l’Unità e ai suoi appassionati lettori. La società italiana, la sinistra, la cultura democratica hanno bisogno de l’Unità che l’anno prossimo festeggerà i suoi primi 90 anni.

L’Unità 18.10.13

“Brunetta, missione compiuta Rai colpita e affondata”, di Curzio Maltese

Missione compiuta, soldato Brunetta. Con l’attacco a freddo sullo stipendio di Fazio, utile anche a non rispondere a una questione seria (Alitalia), Renato Brunetta è riuscito a bloccare i contratti Rai con Maurizio Crozza e Roberto Benigni. Vale a dire, il meglio che la televisione italiana riesce a esprimere fra tanta spazzatura.
AMediaset possono festeggiare. In questi giorni si firmano i contratti pubblicitari e l’assenza di due campioni di ascolti come Benigni e Crozza dai palinsesti della concorrenza è una bella notizia per le tv di Berlusconi. Una delle poche. Le reti Mediaset se la passano piuttosto male e continuano a collezionare flop di ascolti, nonostante lo strenuo sforzo di abbassare il livello dell’offerta, ultimo esempio Radio Belva.
S’intende che i soldi di Fazio sono tanti e si può, anzi si deve discutere gli ingaggi calcistici della tv pubblica e una strana politica di appalti. Nel nostro piccolo noi lo facciamo dalla fine degli anni Ottanta. Al tempo, per dire, Brunetta era consigliere economico dei governi Craxi, i peggiori dissipatori di denaro pubblico della storia, e Beppe Grillo si vantava di prendere dalla Rai 350 milioni di lire per una singola ospitata al festival di Sanremo. L’equivalente di 393 mila euro di oggi, per un giorno. Forse anche i grillini più ortodossi sono in grado di confrontarlo con il milione 800 mila euro all’anno di Fazio. All’epoca i Brunetta e i Grillo erano i primi a dare del moralista scemo a chiunque osasse mettere in dubbio certi compensi. Ora hanno scavalcato a sinistra e pazienza, ma dietro questi attacchi si legge un’ipocrisia e una malafede sorprendenti perfino per gli elastici parametri etici della politica all’italiana.
A Brunetta, con tutta evidenza, non importa nulla dello spreco di soldi pubblici e almeno in questo è coerente con la propria storia. Quello che interessava all’ex ministro era ottenere per il partito-azienda il doppio obiettivo di eliminare dalla scena due nemici politici, così vengono considerati Crozza e Benigni, e soprattutto di impoverire la concorrenza a Mediaset. Se si vuole davvero moralizzare i conti della Rai, prima che di Fazio, Benigni e Crozza, campioni di ascolti, bisogna occuparsi delle centinaia di milioni buttati da viale Mazzini per assumere incapaci raccomandati dai partiti, per primo quello di Brunetta, oltre ai servi, a fidanzate e fidanzati, parenti, agli amici degli amici. È giusto scandalizzarsi se un conduttore guadagna troppo, per quanto arricchisca l’azienda pubblica. Ma prima bisognerebbe chiedersi perché abbiamo buttato soldi pubblici per assumere con contratti da favola personaggi come l’ex direttore del Tg1, Augusto Minzolini, che ha portato il telegiornale ai minimi di ascolti, procurato alla Rai una multa record di 350 mila euro per violazione del pluralismo ed è stato infine premiato, per servigi resi (non agli spettatori), con la nomina a senatore nelle liste berlusconiane, dove continua a prendere 13 o 14 mila euro al mese dalle nostre tasse. Questi sono i veri scandali. Lo scandalo è la lottizzazione che calpesta da decenni ogni merito in Rai, come in tutte le altre aziende pubbliche portate allo sfascio dalla partitocrazia, dalla Telecom all’Alitalia. Ed è sbalorditivo che sia proprio un politico di primo piano, su piazza da un quarto di secolo, a fare la morale agli altri, quando dovrebbe anzitutto fare autocritica come editore, illegittimo
ma de facto.
Quanto a Beppe Grillo, siamo alle comiche. D’accordo che in Italia la coerenza non è la prima cosa e il Paese vive di memoria corta. D’accordo che quando c’è da dare una mano a Berlusconi, nei fatti, il “Che” Beppe non si tira mai indietro, Ma il pioniere dei mega compensi Rai che definisce il contratto di Fazio «un insulto alla condizione del Paese e ai lavoratori Rai», perdonateci, non si può sentire. È come ascoltare Balotelli che lamenta la scarsa serietà dei calciatori, Rocco Siffredi che tesse l’elogio della monogamia. E adesso che l’hai capito, che fai Beppe? Ci restituisci i miliardi di lire, le Ferrari, le ville, le barche comprate con cachet che erano un insulto ai poveri lavoratori?
Il giorno in cui la politica di destra, di sinistra, di centro e quella né di destra né di sinistra vorranno seriamente occuparsi del servizio pubblico, non sarà mai troppo tardi, come diceva il maestro Manzi. Non è difficile, Basta cominciare a togliere le mani dei partiti dall’azienda di viale Mazzini, affidarla a una fondazione indipendente, come nei paesi civili, e abolire la commissione di vigilanza parlamentare, inconcepibile in qualsiasi vera democrazia. La stessa commissione che i grillini invece hanno implorato di presiedere, dopo aver chiesto e ottenuto i voti dell’orrido connubio Pd-Pdl. Qualcosa ci dice che Brunetta e Grillo non faranno nulla di tutto questo. Ma si può essere sicuri che fra una ventina d’anni saranno sempre lì a farci la morale.

La Repubblica 18.10.13

“Evoluzione, si cambia discendiamo tutti dalla stessa specie”, di Marco Cattaneo

Prima un albero, poi un cespuglio e adesso un ramoscello striminzito. Potrebbe essere questa l’ultima versione della metafora che descrive il cammino dell’evoluzione umana. Come riferisce un articolo su Science, infatti, David Lordkipanidze e i suoi colleghi che studiano i preziosi fossili umani di Dmanisi, in Georgia, risalenti a un milione e 800.000 anni fa, hanno avanzato una proposta che stravolgerebbe tutto lo schema della nostra evoluzione, almeno negli ultimi tre milioni di anni.
Secondo l’idea del cespuglio avanzata da Stephen Jay Gould, il modello più accreditato dell’evoluzione umana vuole che molte specie siano convissute, lungo i 5-7 milioni di anni in cui ci siamo separati dalla linea evolutiva degli scimpanzé. In particolare, a partire da circa tre milioni di anni fa sarebbero stati presenti, più o meno contemporaneamente, tre nostri parenti, Homo habilis, H. rudolfensis e H. ergaster, vissuti tutti in Africa. A cui poco dopo, per i tempi dell’evoluzione, si sarebbe aggiunto Homo erectus. Erano state le notevoli differenze morfologiche dei fossili più antichi, scoperti in luoghi distanti e attribuiti a epoche diverse, a spingere gli antropologi ad attribuirle a specie differenti.
Lì in mezzo, tra i tre antenati più vecchi e H. erectus, si era collocato Homo georgicus, l’uomo di Dmanisi, dove Lordkipanidze e colleghi raccolgono reperti da più di vent’anni, cercando di ricostruire la storia di quella sorprendente popolazione umana, la più antica fuori dall’Africa, che abitava tra le montagne del Caucaso. La fortunata caccia al tesoro dei georgiani ha permesso di mettere insieme una collezione di cimeli senza uguali. Ci sono i crani di almeno cinque individui, diversi per sesso e per età ma decisamente contemporanei: un maschio anziano e privo di dentatura, due maschi maturi, una giovane donna e un adolescente di sesso ignoto.
Ed è l’ultimo cranio studiato, Skull 5, ad aver messo la pulce nell’orecchio agli studiosi georgiani e ai loro colleghi di Harvard, dell’Università di Tel Aviv e dell’Istituto di antropologia di Zurigo che firmano l’articolo di Science.
A differenza degli altri quattro, Skull 5 – il più completo cranio così antico del genere Homo mai scoperto – presenta caratteristiche primitive. Ha una scatola cranica piccola, il volto allungato, la mascella superiore quasi scimmiesca, grandi denti. Tutti elementi che rimandano alle antiche specie africane. Gli altri crani, invece, mostravano caratteristiche che richiamavano quelle del più moderno Homo erectus, asiatico.
Così, il gruppo di Lordkipanidze ha usato la TAC e modelli 3D al computer per confrontare i suoi fossili. E ne ha concluso che, per quanto quelle ossa appaiano molto diverse, le loro differenze non sono superiori a quante se ne troverebbero confrontando cinque esseri umani moderni, o cinque scimpanzé. Tanto basta a confermare che i cinque individui di Dmanisi appartengano alla stessa specie, come faceva pensare anche il fatto che siano stati scoperti nello stesso luogo e nello stesso strato, e dunque che fossero contemporanei.
Questo risultato riapriva la domanda: dato che presentano caratteristiche antiche e moderne al tempo stesso, a quale specie vanno attribuiti gli umani di Dmanisi? Per risolvere l’enigma gli studiosi hanno eseguito la stessa analisi statistica sui dati relativi a Homo erectus, H. rudolfensis e H. ergaster, per arrivare a una conclusione inquietante: le
variazioni di quei fossili – non molto differenti da quelle dei “cinque di Dmanisi ” – non indicano che appartenessero a specie diverse. Anzi, la loro variabilità è compatibile con l’appartenenza a una stessa specie. Se questa ipotesi fosse accolta con favore, quest’unica specie prenderebbe il nome di Homo erectus, il primo a essere scoperto, nell’isola di Giava, nel lontano 1891. Mentre quello che oggi è chiamato H. ergaster ne sarebbe al massimo una sottospecie, H. erectus ergaster. E ancora più complicato sarebbe il destino dei fossili georgiani, la cui popolazione diventerebbe H. erectus ergaster georgicus.
Per il momento l’articolo di Science ha fatto scoppiare una bomba nel piccolo universo degli antropologi, come riconosce Philip Rightmire, uno degli autori dello studio. Da Ian Tattersall, dell’American Museum of Natural History di New York, a Ron Clarke, dell’Università del Witwatersrand a Johannesburg, sono piovute le critiche.
«I fossili di Dmanisi – spiega Giorgio Manzi, della «Sapienza» Università di Roma, il cui nuovo libro Il grande racconto dell’evoluzione umana sarà in libreria a giorni – portano con sé eredità del passato e caratteri di forme che si sarebbero evolute nel futuro. Quel sito è una specie di “ombelico del mondo” del Pleistocene. E la loro eccezionale variabilità rappresenta una specie di instabilità morfologica». Ma non significa che rivoluzioni la storia della nostra evoluzione.
Purtroppo il dibattito non potrà beneficiare dell’unico strumento che risolverebbe la questione una volta per tutte, l’analisi del Dna. «Per il momento – dice Gianfranco Biondi, dell’Università dell’Aquila – non siamo in grado di estrarre il Dna dalle ossa come è stato fatto per Homo sapiens e i Neanderthal. Non abbiamo la tecnologia per andare oltre 150.000 anni fa». In altre parole, dobbiamo aspettare. A meno che altre scoperte non tornino a infiammare il dibattito tra gli antropologi.

La Repubblica 18.10.13

“I nostalgici della frustata del Cav”, di Giampaolo Galli

La legge di Stabilità approvata ieri dal Consiglio dei ministri delinea un orientamento abbastanza chiaro della politica economica per i prossimi tre anni. Il cuore della manovra è rappresentato da riduzioni graduali di spesa pubblica, in modo da consentire un alleggerimento della pressione fiscale su imprese e lavoro.
L’obiettivo coincide nella direzione, se non nelle quantità, con le richieste che erano state formulate dalle parti sociali nel «Patto di Genova» dello scorso settembre, nonché con le raccomandazioni dell’Unione europea e delle altre organizzazioni internazionali.
Come negli altri Paesi della cosiddetta periferia europea, si cerca di recuperare la competitività perduta negli ultimi anni attraverso una svalutazione ottenuta per via fiscale. Questa è la direzione giusta da percorrere e c’è da augurarsi che nella discussione che farà il Parlamento circa il perimetro della nuova Service tax, anche sulla prima casa, si tenga conto che l’esigenza primaria dell’economia italiana è di ridurre il cuneo fiscale sul lavoro.
La questione di cui si discute è l’entità della manovra. Secondo molti, essa è in- sufficiente ad affrontare i problemi cruciali dell’economia italiana. In queste ulti- me ore è stato detto che questa non è una finanziaria di svolta, come invece sarebbe stato necessario; che è una finanziaria democristiana, volta a non scontentare nessuno e quindi inadatta ad accontenta- re il Paese; che è la finanziaria delle larghe intese e in quanto tale incapace di operare delle scelte ben definite.
Occorre riconoscere che la legge di stabilità delude le aspettative che si erano generate nella società italiana e che in qualche misura erano state alimentate dallo stesso governo. La questione però è se fossero in qualche modo eccessive le aspettative o se siano insufficienti le misure che sono state assunte. La mia valutazione è che fossero sproporzionate le aspettative, e i motivi sono stati spiegati più e più volte dal ministro Saccomanni. Negli ultimi anni la spesa pubblica è stata notevolmente ridotta e la programmazione per il 2013 e il 2014 è già assai stringente; gli spazi per ulteriori riduzioni ci so- no, ma richiedono tempo e sono nell’ordine di alcuni miliardi di euro l’anno, non certo nell’ordine delle decine di miliardi. Il ministro Saccomanni è quanto di più lontano si possa immaginare da un maggiorente della Democrazia Cristiana, con un proprio elettorato da soddisfare. I con- tributi alla scrittura di questa finanziaria sono venuti da tutte le parti politiche, anche da quel Pdl che si erge a sentinella anti tasse e che nelle pubbliche dichiarazioni sostiene che su una spesa da 800 miliardi non vi è nulla di più facile che fare tagli per 80 miliardi. Eppure il fatto evidente è che dal Pdl e dai suoi esperti economici non è venuta una sola idea in più. Tutto ciò che era possibile e pratica- bile in termini di riduzione delle spese è incorporato in questa manovra.
In teoria, si potrebbe concludere che, al di là delle pubbliche dichiarazioni, il Pdl sia più interessato a difendere le lobby della spesa che a ridurre le tasse. E che lo stesso valga per Pd e Scelta Civica.
Se così fosse bisognerebbe prendersela con i partiti che sono stati votati dagli italiani e non tanto con il governo delle larghe intese. Una spiegazione molto più sensata è che ha ragione Saccomanni e che i tagli di spesa devono essere gradua- li. In ogni caso non si capisce perché puntare il dito contro le larghe intese. Quale che sia la spiegazione – le lobby o i fatti di Saccomanni – è evidente che se oggi ci fosse un governo monocolore, di centro-sinistra o di centro-destra, Imu a parte, sul bilancio pubblico non si farebbero scelte molto diverse da quelle che sta facendo il governo Letta. Peraltro è da anni che si dice che i governi non sanno tagliare la spesa, che ci sono enormi sprechi che non vengono aggrediti e che l’esito delle politiche è il solo aumento della tassazione. Sembra quasi che il problema sia che i posti di comando sono sempre occupati dalle persone sbagliate, mentre quelli che sanno cosa fare sono sempre costretti a stare in panchina a commentare.
È giusto tenere sotto pressione i governi nazionale e locali, perché tengano sotto controllo la spesa. Senza questa pressione rischieremmo di essere sommersi dalla voracità della macchina pubblica. Ma le aspettative devono essere commisurate a ciò che è concretamente realizzabile. Altrimenti si finisce per fare come Berlusconi che divorava i suoi stessi governi: invocava la famosa frustata al cavallo dell’economia, come oggi si invoca la finanziaria della provvidenza. La frustata non arrivava mai, perché non poteva arrivare, e la conclusione era che bisognava castigare un qualche nemico: Casini, Fini, Tremonti, Merkel, i magistrati, i giornalisti, la Costituzione ecc. In questo modo si sono messe in circolazione quantità mortali di veleno. Una classe dirigente de- ve saper fare di meglio. È scoraggiante che anche a sinistra ci siano tanti nostalgici della frustata di Berlusconi, quella che non arrivò mai. E che in tanti abbiano individuato i nuovi capri espiatori nel Ministro dell’Economia e nel binomio Letta-Alfano. È ora che ciascuno si assuma la propria quota di responsabilità nelle scelte collettive.

L’Unità 17.10.13

«Così i social impact bond svuotano (davvero) le carceri», di Federica Fantozzi

«Il mio nome è Bond. Social Impact Bond». Si presenta con un promo accatti- vante che fa il verso a 007 uno degli strumenti finanziari più innovativi degli ultimi anni. Il Sib è un’obbligazione di risultato della finanza sociale: garantisce ai privati investitori un buon tasso di rendimento a medio termine se è stato raggiunto un certo risultato di interesse pubblico. Come, ad esempio, reinserire i detenuti e svuotare le carceri in modo strutturale.

Nato nel mondo anglo-sassone, il Sib presenta diversi vantaggi: sposta il rischio finanziario iniziale sui privati sgravando le esangui casse dello Stato e degli enti locali; fornisce servizi utili se non in- dispensabili alle comunità; offre una motivazione a persone che, per diversi motivi, vivono ai margini.

Ne parliamo con Janette Powell, coordinatrice delle attività di Social Finance, la società di consulenza che ha dato vita nel 2010 al progetto pilota nel carcere inglese di Peterborough. Illustrato al convegno di Uman Foundation, il progetto ha suscitato l’interesse del Guardasigilli Cancellieri. Funziona così: se nel 2014 il tasso di recidiva di 3mila detenuti scenderà almeno del 7,5% i 17 investitori che hanno raccolto un capitale di 5 milioni di sterline incasseranno per 8 anni un rendimento annuo del 13% pagato dal Tesoro con una parte dei proventi della lotteria nazionale.
Siete stati i pionieri e ora il modello si sta diffondendo. Quali sono le ragioni del successo?
«È un approccio radicale che dimostra la possibilità di trovare una strada nuova e più efficace per ridurre il crimine, i costi relativi e la necessità di prigioni. È una vittoria per la società. Ma anche per chi nella vita ha sbagliato».
Chi può partecipare al piano di Sib?
«I nostri clienti – noi li chiamiamo così – devono avere condanne inferiori a un anno. Quei 3mila sono il 70-90% della platea titolata a Peterborough. Ma molti mentono pur di iscriversi. Scoprirli è facile, significa però che il progetto ha una reputazione positiva dentro il carcere. È un buon indicatore».

Quali sono i reati più comuni ammessi?

«Taccheggio nei negozi, comportamenti antisociali come disturbo della quiete pubblica, alcol e droga. La violenza solo in caso di risse al pub o abuso domestico, che però richiede trattamenti specifici. In comune c’è il fatto che sono crimini commessi molte decine di volte, anche centinaia. E la pena detentiva non ha risolto nulla».

Lei crede che il reinserimento sia, invece, risolutivo?
«Guardi, ho 40 anni e ne ho trascorsi 20 nel terzo settore. All’inizio pensavo che andare in prigione fosse una punizione e che, una volta usciti, si facesse di tutto per non tornarci. Molti invece fuori non hanno nulla: famiglia, proprietà, status. Per loro la cella diventa un modo di vita, persino un desiderio. Un ambiente familiare e riparato, più sicuro della strada. Così ho cambiato prospettiva».

Qual’è oggi il suo approccio al problema del crimine di derivazione sociale?
«E’ facile dire che ognuno sceglie la propria strada. Io vedo che se si dà speranza a queste persone loro sono prontissimi a coglierla. Ci si aggrappano. Vogliono una vita normale, come tutti».

Voi cosa fate per dargliela? Qual è il vostro compito?
«Dobbiamo inventare un “pacchetto di sostegno” personalizzato. Ogni cliente è diverso e ha motivazioni private. Serve flessibilità».

In concreto?

«Il caso di Paul è abbastanza tipico. Ha 30 anni, scolarizzazione bassa, la sua matematica è al livello di un bambino di 5 anni. Ha 51 precedenti penali. Non è molto, abbiamo clienti con 250, ma lui è ancora giovane sebbene già noto alla polizia. La prima attività, quando era ancora in prigione, è stata un corso per essere padre: ha un figlio piccolo che all’epoca non vedeva mai. Poi gli abbiamo insegnato a compilare correttamente i moduli per la previdenza sociale: se hai i sussidi non rubi».

Il punto cruciale del reinserimento, però resta il lavoro. Che sbocchi ci sono? «Sosteniamo i costi per la formazione e le certificazioni da operaio: una procedura cara. Altri diventano chef, barman, giardinieri, decoratori di interni».

Chi sono i finanziatori?

«Trust ed enti di beneficenza, ma anche ricchi privati. Nei prossimi anni però credo che il mercato si aprirà ai piccoli investitori come per le normali obbligazioni dello Stato».

Il ministro della Giustizia Cancellieri, dopo la vostra tavola rotonda, ha detto che vorrebbe andare nella direzione dei social bonds. Avete contatti con l’Italia? «Abbiamo manifestazioni di interesse. E non vediamo l’ora di esplorare queste opportunità. In questo momento di ristrettezze è essenziale spendere bene, e con i Sib paghi solo se l’iniziativa ha successo. Nel mondo sta suscitando molta curiosità. L’Italia deve solo decidere da che settore cominciare: crimine, salute, minori, homeless».

L’Unità 17.10.13

“La scelta della Rai. Teatro e Scienza?”, di Luca Dal Fra

Sarà l’ossessione dell’audience a tarpare le ali a Rai Teatro? Il nascente canale della televisione pubblica dedicato allo spettacolo dal vivo rischia un palinsesto dove la vocazione di rete tematica è ibridata con le oramai trite pulsioni generaliste. Il tutto avviene mentre la Rai attraversa un momento cruciale, alle prese con un ristrutturazione profonda, dove concezioni diverse del ruolo della televisione si fronteggiano. Ecco che allora «l’Unità», dopo aver fatto propria un’idea di Franco Scaglia rilanciandola in estate con una campagna stampa che aveva posto al centro dell’attenzione Rai teatro, ora rilancia proponendo Rai scienza, un altro canale tematico che nel nostro paese ancora non esiste. «Sarebbe di grandissima utilità spiega il professore Giovanni Bignami, uno dei nostri maggiori astrofisici da decenni impegnato nella divulgazione e comunicazione scientifica attraverso la televisione -, per mostrare ogni giorno come la scienza sia parte della cultura».
Ma andiamo con ordine: sull’onda della campagna de «l’Unità», il 19 settembre ufficialmente nasce Rai teatro, un canale tematico dedicato allo spettacolo dal vivo. In pri- mis teatro, di parola e musicale opera, musical, danza, ma anche concerti, e un occhio ben aperto sull’arte contemporanea che spinge verso le arti sceniche, con la performance o l’installazione. Sulle orme di Rai cinema che produce film, anche Rai teatro dovrebbe coprodurre, acquistando i diritti per la riproduzione televisiva. Senza dimenticare la sfida sui linguaggi televisivi, per reinventare un modo di portare il palcoscenico dentro il piccolo schermo, cosa tutt’altro che scontata. Per la Rai sarebbe un’impennata d’orgoglio, per ritrovare la sua missione di servizio pubblico e non di brado animale da audience.
Voci insistenti raccontano un diverso retroscena: dai potenti uffici della Rai preposti al palinsesto arriverebbero preoccupazioni sugli ascolti, o meglio sulla eventualità che si rivelino bassi. Si spingerebbe verso una programmazione chimera essere mitico con parti del corpo di diversi animali: alla originale vocazione tematica di Rai teatro sarebbero mischiate le vecchie e un po’ opache pulsioni generaliste tipiche di una televisione del passato. I timori sull’audience potrebbero apparire in parte giustificati, all’insegna di quel realismo che nel recente passato ha spinto la Rai a creare una serie di canali digitali un po’ blend. Ma più che a un malinteso realismo, occorre far appello a un sano senso della realtà, visto che proprio questi canali ibridi non hanno poi raggiunto gli ascolti sperati. Snaturare un progetto dalla forte vocazione innovativa come Rai teatro in nome di una audience assai dubbia, è privo di senso.
Dalla Rai per ora bocche cucite: occorre tenere presente che la televisione pubblica italiana sta attraversando un momento critico, con l’intera scuderia dei canali digitali, (i vari movie, gold, sport 1 e sport 2, Rai 4) da ridisegnare in profondità. In particolare ballano Rai sport 1 e 2, davvero un eccesso di zelo dedicare due canali alle attività sportive e ora il secondo rischia di trasmettere solo il sabato e la domenica. Ma un canale muto 5 giorni su 7 ha un senso veruno? Sarebbe invece l’occasione per creare finalmente un canale tematico dedicato alla scienza.
Accademico dei Lincei, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, insignito con numerose onorificenze internazionali per le sue ricerche e scoperte, Bignami è uno scienziato che non ha paura di sporcarsi le mani con la televisione, sulle orme dell’alta divulgazione scientifica: «Di un canale dedicato alla scienza spiega c’è un gran bisogno nel nostro paese, e in questo la BBC insegna, ma anche altri paesi come la Francia o la Germania. Dunque una bellissima idea, anche perché la Rai può fare molto meglio di National Geographic, Sky e così via». Oggi non deve poi sfuggire come proprio questi paesi, dove la cultura e dunque anche la scienza sono incentivati, la crisi economica morde di meno: «L’innovazione viene direttamente dalla scienza insiste Bignami -, come i CCD, quei chip con cui tutti oggi fanno fotografie dal cellulare e che nascono per le ricerche astronomiche. Proprio in momenti come questo si ha più bisogno della scienza». Che taglio dare a un canale scientifico? «Il compito della televisione pubblica è di far crescere gli italiani, come ha detto la presidente della Rai Anna Maria Tarantola con cui sono pienamente d’accordo. Le reti commerciali, con cui ho anche collaborato, fanno ottimi prodotti, ma non sfuggono a una logica d’abbonamento. La Rai ha capacità produttive eccellenti, come ho potuto constatare realizzando una serie di 8 puntate di Il mistero delle sette sfere, che prende le mosse dal mio ultimo libro con lo stesso titolo. Semmai il problema è dove trasmetterlo, perché questo ciclo andrà su Rai scuola, ma è rivolto a un pubblico non solo di studenti». Dunque l’esigenza di un canale scientifico è reale: «Per raccontare la scienza in maniera rigorosa e soprattutto divertente», conclude lo scienziato.
Per ora di certo e di nuovo ci sarebbe solo Rai teatro, che sarà presentata al ministro per i Beni e le Attività Culturali Massimo Bray, il 30 ottobre. Ma prima di quella data è decisiva la riunione di oggi con il CdA, dove il direttore di Rai teatro Pasquale D’Alessandro presenterà e metterà a fuoco il progetto di palinsesto.

l’Unità 17.10.13