Circolo Passpartout di Bologna organizzato dai Giovani Democratici e da
Federazione degli studenti
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“Pubblico impiego, i conti non tornano”, di Massimo Franchi
Il blocco contrattuale lo avevano già messo in conto, come accade ormai dal lontanissimo 2009. Da cinque anni gli stipendi dei 2,8 milioni di dipendenti pubblici (ben 390mila in meno negli ultimi 10 anni) non aumentano. Nel 2014 però la contrattazione, almeno sulla parte normativa (e non economica), come promesso dal ministro D’Alia, doveva ripartire e, come previsto dalla legge, scatterebbe la cosiddetta «indennità di vacanza contrattuale». Ora la legge di Stabilità dovrebbe mettere mano anche a questa piccola consolazione che permetterebbe agli statali di trovarsi in busta paga una parte (30 per cento dopo tre mesi, 50 per cento dopo sei mesi) del tasso di inflazione programmata che comunque eroderà i loro salari reali. Il governo ha deciso di inserire un tetto a questa indennità, facendo risparmiare 440 milioni nel solo 2014. Ad incidere sulla busta paga poi arriverà anche il taglio degli straordinari del personale delle amministrazioni statali per una quota del 10 per cento che cala al 5 per cento per i comparti sicurezza e difesa (militari, polizia e vigili del fuoco). Ma la norma che mandava più in bestia i sindacati, quella che riguardava la cancellazione del divieto della reformatio in peius dei trattamenti economici, sarebbe stata stralciata. Una legge del 1957 tutelava i dipendenti pubblici che vengono trasferiti: mantengono la stessa retribuzione. Il rischio riguardava i dipendenti pubblici spostati («E succederà a moltissimi con la spending review», ricorda Giovanni Faverin della Cisl Fp) verso un’amministrazione che prevedevano uno stipendio più basso, ma senza modifica, il loro salario rimarrà inalterato.
STRETTA SUL TFR Anche per quanto riguarda il trattamento di fine rapporto arriva un ulteriore stretta. Fino a quest’anno i dipendenti pubblici con Tfr superiore a 90 mila euro se la vedono corrispondere in due tranche che partono dopo sei mesi dal ritiro; ora il limite scenderebbe a soli 50mila euro. Chi esce anticipatamente (prepensionamenti) dovrà invece attendere 20 mesi. L’insieme delle misure dovrebbe portare a risparmi di 1,5 miliardi dal prossimo anno fino al 2018. «Sono misure inaccettabili – attacca Rossana Dettori, segretario della Fp Cgil – per milioni di lavoratori che da cinque anni si stanno impoverendo. Ancora più inaccettabile è il taglio dell’indennità di vacanza contrattuale, visto che fin dai tempi di Brunetta è bloccata anche la contrattazione integrativa con addirittura molte amministrazioni che chiedono indietro i soldi ai lavoratori per le parti già elargite in busta paga negli anni scorsi». «La legge di stabilità è l’ennesima truffa ai danni dei lavoratori», le fa eco Giovanni Torluccio della Uil Flp. L’ultimo capitolo riguarda un taglio alle percentuali di turn over del personale. E mette quindi in relazione la legge di stabilità con il decreto sui precari che prevedeva una stabilizzazione con il 50 per cento dei posti a concorso per turn over riservato ai precari con contratti a tempo determinato che abbiano lavorato 3 anni negli ultimi cinque. Se per il 2014 si conferma quota 20 per cento, nel 2015 si scende dal 50 al 40%. Nel 2016 era previsto il ritorno al 100%, quota che invece si riavrà solo nel 2018 con tappe intermedie al 60% nel 2016 e dell’80 per cento nel 2017. Assieme al «no» agli emendamenti proposti dai sindacati durante la conversione del decreto (che ora andrà alla Camera), la misura porta i sindacati a rilanciare la mobilitazione («con manifestazione nazionale a inizio novembre») a difesa dei 126.179 precari censiti dal Conto annuale a fine 2011. Per questo i sindacati chiedono di adottare un piano di assunzioni con progressivi meccanismi di stabilizzazione, la proroga dei contratti per i tutti i precari in scadenza e di superare la precarietà riconducendo i rapporti a termine e atipici esclusivamente a esigenze eccezionali.
L’Unità 16.10.13
“Compirebbe settant’anni oggi. La vita mai iniziata del bimbo senza nome”, di Gian Antonio Stella
Compirebbe settant’anni oggi, il «bambino senza nome». Era il più piccolo degli ebrei romani rastrellati nella retata del 16 ottobre del 1943. E morì senza neppure essere registrato. Che senso aveva, nell’ottica degli assassini nazisti, registrare un essere insignificante?
Sua mamma si chiamava Marcella Perugia, aveva 23 anni, era sposata con Cesare Di Veroli, che quel giorno maledetto scampò fortuitamente alla «grande razzia» e ne avrebbe portato il peso per tutta la vita. La ragazza, raccontano ne «Il futuro spezzato: i nazisti contro i bambini» Lidia Beccaria Rofi e Bruno Maida, avvertì le prime doglie la sera del 15 ottobre, poche ore prima della retata al ghetto. Era un venerdì.
«Arrestata e rinchiusa con gli altri deportati al Collegio militare di via della Lungara, fra il Tevere e i piedi del Gianicolo, i tedeschi consentono a convocare un medico italiano che, appena giunge, afferma che il parto si presenta difficile e bisogna ricoverare la giovane sposa in ospedale. Il permesso viene negato e nella notte tra sabato 16 e domenica 17, Marcella Perugia in Di Veroli, distesa su un giaciglio in un angolo del cortile, isolata alla vista degli altri prigionieri, dà alla luce un bimbo: il piccolo, considerato “nemico del Reich”, si trova immediatamente in stato di arresto. Accanto alla giovane madre ci sono gli altri suoi due figli, Giuditta di sei anni e Pacifico di cinque».
Saranno caricati insieme sul treno blindato che il 18 ottobre partirà dalla stazione Tiburtina per Auschwitz. Dove Marcella, Giuditta, Pacifico e il «bimbo senza nome» saranno uccisi il 23 ottobre. Insieme a gran parte dei bimbi razziati quel 16 ottobre di pioggia.
Al rastrellamento assistette inorridita, tra gli altri, Fulvia Ripa di Meana. Che avrebbe descritto in «Roma clandestina» i piccoli prigionieri sui camion caricati a Fontanella Borghese: «Ho letto nei loro occhi dilatati dal terrore, nei loro visetti pallidi di pena, nelle loro manine che si aggrappavano spasmodiche alla fiancata del camion, la paura folle che li invadeva, il terrore di quello che avevano visto e udito, l’ansia atroce dei loro cuoricini per quello che ancora li attendeva. Non piangevano neanche più quei bambini, lo spavento li aveva resi muti e aveva bruciato nei loro occhi le lacrime infantili».
Neanche uno di quei bimbi, su 288, tornò. Nell’Ossario digitale messo online da Liliana Picciotto c’è tra le foto quella di Fiorella Anticoli che aveva due anni e due fiocchi bianchi sui riccioli. Raccontano Lidia Beccaria Rofi e Bruno Maida: «Ad Auschwitz solo Fiorella si salva, passando la “selezione”. Un anno dopo, nel novembre 1944, viene evacuata da questo campo e trasferita a Bergen-Belsen. Sarà l’unica bambina ebrea italiana a sopravvivere a 18 mesi nei campi di sterminio. Alla liberazione di Belsen, il 26 aprile 1945, un soldato alleato scatta una fotografia di Fiorella in mezzo a un gruppo di ex deportati, e questa immagine fa il giro del mondo dei giornali: a Roma anche il padre, Marco Anticoli, la vede e comincia a sperare. Purtroppo Fiorella, sfinita dai patimenti e dalla denutrizione, non riesce ad abbracciarlo e spira il 31 maggio 1945». E c’è ancora qualcuno che ha il coraggio di scrivere sui muri «onore al camerata Priebke»…
Il Corriere della Sera 16.10.13
“Per salvare la Costituzione”, di Marco Olivetti
«Al procedere delle riforme io ho legato il mio impegno all’atto di una non ricercata rielezione a presidente. Impegno che porterò avanti finché sarò in grado di reggerlo e a quel fine». Queste parole – pronunciate ieri dal presidente della Repubblica – hanno ricordato la necessità che siano realizzate, fra l’altro, le riforme «politiche e istituzionali da tempo riconosciute necessarie», le quali includono la riforma elettorale e la revisione della seconda parte della Costituzione. Esse, ovviamente, sollevano un interrogativo: può il «tutore della Costituzione» pronunciarsi in favore delle riforme costituzionali?
A questa domanda è possibile rispondere non solo ricordando che la stessa Costituzione prevede la possibilità della sua riforma e che i Padri costituenti non aspiravano certo a produrre un te- sto immodificabile e sottratto al decorso del tempo. Ma occorre soprattutto muovere da una distinzione di fondo fra la Costituzione cui Giorgio Napolitano ha giurato fedeltà e di cui è il garante e le singole disposizioni costituzionali che la compongono.
Certo, ciascuna di queste è valida ed efficace sino a quando non venga modificata, ma il presidente non ha ovvia- mente prestato giuramento di fedeltà a ciascun meccanismo previsto dalla Costituzione del 1947 nel senso di impegnarsi a difenderlo da qualsiasi revisione. La Costituzione cui Napolitano ha prestato giuramento è l’insieme delle scelte fondamentali compiute nel 1947, le quali – come ha sostenuto Valerio Onida – hanno collocato l’Italia nell’alveo della tradizione costituzionale occidentale e conservano piena validità anche oggi. Esse non riguardano solo la prima parte della Costituzione (che talora si tende superficialmente a ritenere immodificabile, magari pensando che della seconda si possa invece disporre a piacimento), ma coinvolgono la scelta per una democrazia rappresentativa di tipo europeo, al tempo stesso funzionale e limitata. È proprio l’esigenza di garantire la funzionalità della Costituzione che ne impone oggi la riforma.
Per spiegare come conservatorismo e riformismo in materia costituzionale debbano andare assieme, si può forse ricorrere a una breve periodizzazione della storia costituzionale post-bellica. Dal 1948 all’inizio degli anni 90 la Costituzione è stata la base della Repubblica dei partiti che l’aveva prodotta: certo, dalla fine degli anni 70 erano iniziati i primi dibattiti sulle riforme, ma, a parte i progetti socialisti di una «grande ri- forma» e le velleità delle forze tradizionalmente anticostituzionali, il consenso sulla Costituzione rimaneva solido. La riforma era ipotizzata come qualcosa che doveva avvenire dentro lo spirito della legge fondamentale, come fisiolgicamente accade negli Stati contemporanei.
Tutto ciò è radicalmente cambiato dopo la crisi della Repubblica dei partiti. Il punto di partenza di questa seconda stagione – di vera e propria messa in discussione della Costituzione, non di singole disposizioni di essa – è stata la dichiarazione con cui, all’indomani della vittoria elettorale del 1994, Berlusconi, Fini e Bossi si schierarono in favore di una Seconda Repubblica, caratteriz- zata dal binomio fra presidenzialismo e federalismo. Si è così aperta una battaglia sull’essenza stessa della Costituzione del 1947, che andava ben al di là del- la distinzione fra prima e seconda parte. È allora iniziata la lotta a difesa della Costituzione inaugurata da Giuseppe Dossetti, che condusse su questo tema la sua ultima battaglia politica. Questa stagione ha attraversato gli anni 90 e buona parte del decennio seguente ed è culminata nella riforma approvata in solitudine dal centrodestra nel 2005. Ma tale progetto – che aveva il significato di una nuova Costituzione dei vincitori, che avrebbe rovesciato il senso della decisione costituente del 1947 – venne sconfitto nel referendum costituzionale del 25 e 26 giugno 2006.
Da allora, anche se ciò non è parso subito chiaro, si è aperta una nuova fase, che ha riportato il dibattito sulle riforme all’interno della Costituzione. Non è un caso che il centrodestra non abbia più tentato una riforma unilaterale e che si siano delineati, negli scorsi anni, vari tentativi di aggiornamento della Costituzione, concordati dai due principali schieramenti politici: il più importante di essi è stato la bozza Violante della XV legislatura, nella quale si è delineato il minimo comune denomi- natore delle esigenze di aggiornamento (in materia di bicameralismo, forma di governo, sistema delle autonomie) su cui vi è un consenso relativamente ampio fra gli studiosi e – almeno a parole – nella classe politica.
Il pericoloso stallo istituzionale con cui si è aperta l’attuale legislatura ha ricordato ancora una volta che esiste una questione costituzionale aperta. Ma essa si colloca oltre la stagione che vedeva contrapposti conservatori e in- novatori radicali. Oggi essere conservatori dal punto di vista costituzionale significa essere favorevoli ad un incisivo programma di riforme che restituisca- no funzionalità alla Carta del 1947, anche intervenendo sulla legislazione ad essa immediatamente connessa (come il sistema elettorale). È per questo che il ruolo del custode della Costituzione è cambiato: abbiamo oggi un presidente eletto anche in relazione a un programma di riforme costituzionali e un governo che ha ottenuto su questo tema la fiducia parlamentare. Perché solo in quel modo è possibile «salvare la Costituzione», cioè perseguire l’obiettivo su cui si svolsero la battaglia di Dossetti e il referendum costituzionale del 2006.
L’Unità 16.10.13
Errani: “Ci hanno ascoltato. Quelle sforbiciate erano insostenibili”, di Francesca Schianchi
«Sono state accolte le nostre motivazioni, è stato capito quanto sono fondate». Non ci saranno i temuti 2,6 miliardi di tagli alla sanità di cui si era vociferato: il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, risponde al telefono contento dalla buona notizia, che «ci consente di sperare per il futuro».
Se l`aspettava, presidente?
«Diciamo che erano giorni che ci lavoravo… Il fatto è che si parte da due elementi oggettivi. Il primo è che l`Italia, come dice l`Ocse, con una alta o medio-alta qualità del sistema sanitario, è quella che spende meno, è agli ultimi posti dei Paesi Ocse come spesa».
Il secondo elemento oggettivo?
«Come certificano la Corte dei conti e la Ragioneria dello Stato, in questi ultimi armi la sanità è stata il comparto che ha ridotto il tendenziale in maniera più significativa: oltre trenta miliardi. Abbiamo spiegato che non ci sono le condizioni per ulteriori tagli».
E il governo vi ha dato ascolto…
«Certo, questo risultato è frutto di un lavoro positivo di ascolto».
Ora si tratta di lavorare al Patto per la salute: quali sono i tempi?
«Il tavolo è già aperto. E` un lavoro impegnativo e complesso, ma ci arriveremo presto. Dobbiamo lavorare per garantire appropriatezza del servizio e riorganizzazione della spesa, avendo chiaro che stiamo parlando di un diritto fondamentale dei cittadini e di un comparto che dà lavoro e fa economia. Dobbiamo passare da un`idea ragionieristica a un`idea qualitativa della sanità».
Questo va spiegato a regioni che finora non hanno brillato nella gestione della sanità…
«Questo vale per tutti. La spesa sanitaria non può essere assistenziale, ma bisogna anche uscire da luoghi comuni e generalizzazioni astratte».
Quanto pensa che potrete tagliare con una riorganizzazione della spesa?
«Uno dei nostri grandi problemi ancora da affrontare è il tema degli investimenti, perché la sanità è ricerca e innovazione. Se vogliamo costruire un sistema sanitario che non rimanga indietro, dobbiamo investire. E` giusto chiudere gli ospedali con pochi posti letto e poche specialità, ma allora bisogna mettere servizi sul territorio. E` un processo che va costruito: in alcune realtà ci si arriverà in molti anni, in altre in meno, ma questa è la proiezione».
Si parla comunque di tagli alle regioni…
«Valuteremo e lavoreremo per trovare le soluzioni. Ma il dato importante ora è che non ci siano tagli alla sanità».
La Stampa 16.10.13
“Chi insegna agli insegnanti”, di Massimo Razzi
Solo uno studente italiano su tre (32%) sa che esistono dei programmi di studio all’estero ai quali si può partecipare individualmente e solo il 53% delle scuole italiane aderisce a un progetto internazionale. La percentuale di scuole coinvolte è decisamente più alta negli altri Paesi europei: 97% Germania, 89% Spagna, 88% Polonia, 81% Francia, 79% Svezia. E la conoscenza dei programmi da parte degli studenti è più radicata in Germania (59%), Svezia (57%), Spagna (54%) e Francia (42%).
È il quadro (piuttosto preoccupante) che emerge dal rapporto elaborato dall’Osservatorio nazionale dell’internazionalizzazione delle scuole e la mobilità studentesca della Fondazione Intercultura e promosso dalla Fondazione Telecom. In sintesi, per il quinto anno consecutivo, le due fondazioni hanno tastato il polso al mondo della scuola per verificare se e come, nell’istituzione scolastica italiana, il concetto di internazionalizzazione prende piede. Se, cioè, insegnanti, studenti e scuole dedicano sufficiente tempo e interesse alla promozione e realizzazione di programmi di mobilità individuale.
Per avere un metro di paragone, Intercultura e Telecom hanno affidato a Ipsos il compito di analizzare la situazione in altri cinque Paesi europei diversi tra loro per dimensioni, popolazione, livelli economici e culturali. Ipsos ha lavorato su un campione di 2.275 studenti dei cinque Paesi di cui sopra e il risultato è stato messo a confronto
con quanto è stato raccolto nel 2012 intervistando, sullo stesso tema, circa ottocento studenti italiani. Il rapporto è stato presentato la settimana scorsa a Torino.
Il quadro abbastanza negativo, va detto, è mitigato da un dato positivo a favore dell’Italia: quel 53% di scuole italiane che aderiscono ai progetti riesce, di norma, a coinvolgere una percentuale più elevata di studenti: il 72% (come la Francia), un po’ meno della Germania (84%), ma meglio di Spagna (66%) e Polonia e Svezia (56%). Complessivamente, si ha la sensazione che, come spesso accade, un fenomeno lasciato all’iniziativa individuale di insegnanti e presidi “illuminati” può raggiungere punte d’eccellenza. Ad esempio, mentre l’Italia è piuttosto indietro per quanto riguarda gli scambi e la mobilità di classe, i partenariati e gli stage di lavoro all’estero, le cose vanno molto meglio per quanto riguarda l’attivazione dei Clil (Content and Language Integrated Learning, cioè lo studio di una materia scolastica in una lingua straniera), gli stage di studio all’estero e, soprattutto, per il numero di progetti attivati in ciascuna scuola. Insomma, se le scuole italiane che si muovono nel campo dell’internazionalizzazione sono relativamente poche (solo il 53%, si diceva), quelle che lo fanno ottengono risultati più brillanti, avanzati e diffusi. C’è da chiedersi, in un quadro in cui si finisce spesso per “fuggire” all’estero alla ricerca del lavoro, come mai, nella scuola italiana si registrano ancora questi ritardi in materia di internazionalizzazione. Un punto di vista interessante è quello di Roberto Ruffino, segretario generale della Fondazione Intercultura che quest’anno ha ricevuto circa 6.400 domande di studenti italiani che vogliono fare un’esperienza all’estero (crescita del 50%) e ne manderà in giro per il mondo 1.780 (solo 28% negli Usa e un’ottantina in Cina): «A poco a poco, le cose migliorano. Ma il problema è a monte, nella formazione stessa degli insegnanti. Per insegnare nelle scuole italiane non viene richiesta un’esperienza internazionale, non si dice al futuro formatore che dovrà avere un punto di vista non limitato all’esperienza italiana».
Ruffino, in mezzo secolo di battaglie per il superamento dei “confini mentali” di intere generazioni,
ha visto passare, nei programmi di Intercultura, migliaia e migliaia di giovani che hanno trascorso un anno della loro formazione studentesca all’estero. Sa bene che quell’esperienza (nel passato, quando poteva essere dura e difficile, ma anche oggi, ai tempi di internet) può essere determinante nella struttura di una personalità, nell’apertura di una mente, nella formazione di una coscienza aperta: «Per questo insisto. Se un formatore non è mai stato all’estero a formare se stesso, difficilmente sarà capace di comunicare ai suoi studenti l’importanza, la difficoltà, il valore di quella esperienza. Poi, è ovvio, ci sono magnifici presidi e docenti pieni di buona volontà che sanno promuovere l’internazionalizzazione, ma l’esperienza all’estero dovrebbe essere parte integrante e normale della formazione di un insegnante. E non solo di quelli di lingue… E tutti gli insegnanti dovrebbero conoscere bene almeno un’altra lingua…». Insomma, il ritardo italiano, secondo Ruffino è principalmente in una formazione “non internazionale” degli insegnanti: «Perché trascorrere un periodo di tirocinio in una scuola straniera, non solo a vedere come s’insegna all’estero, ma anche a provare sulla propria pelle le difficoltà e lo smarrimento determinate dalla scarsa conoscenza di una lingua e di un ambiente, è di certo qualcosa che va ben al di là del corso universitario. È qualcosa che ci tocca all’interno, che fa crescere anche il migliore degli insegnanti e lo colloca in una posizione del tutto nuova anche rispetto agli “smarrimenti” che incontrerà nei suoi alunni».
Va detto, comunque, tornando alla ricerca, che gli insegnanti italiani, soprattutto quelli di lingue, sono tendenzialmente aperti e impegnati nel promuovere e informare sulle possibilità per gli studenti di fare esperienze all’estero. Ma è anche chiaro che nei Paesi dove l’internazionalizzazione ha superato la fase sperimentale e volontaria per diventare normalità, sono anche gli insegnanti delle altre materie a darsi da fare per far capire ai giovani l’importanza di quel tipo di esperienza. C’è da augurarsi, dunque, un prossimo futuro in cui siano anche i docenti di italiano e di greco, di matematica e di scienze a spingere i nostri ragazzi oltre i confini fisici e mentali della nostra scuola e del nostro Paese.
La Repubblica 16.10.13
“Sopravvissuto all’inferno Alberto Mieli aveva solo 17 anni nel 1943”, di Stefania Miccolis
Alberto Mieli aveva diciassette anni nel 1943 e viveva con la famiglia nelle case popolari della Garbatella Ricorda che quel 16 ottobre vennero avvisati e scapparono a nascondersi in una casa dietro il Ministero di Grazia e giustizia. «Ci avvisarono che stavano facendo rastrellamenti al ghetto. Credevamo prendessero solo gli uomini per mandarli a lavorare, invece purtroppo presero bambini, donne incinta, vecchi e malati; 1200 persone. In giro per la città c’erano dei delatori, per tremila lire vendevano la vita di un uomo. Ma non posso dire ci fosse antisemitismo a Roma, tanto è vero che dei miei familiari sono stato preso solo io. I miei fratelli, eravamo in otto, sono stati accolti ciascuno da una famiglia della Garbatella, ci fu una grande solidarietà, vennero trattati come figli».
«Del 16 ottobre c’è poco da raccontare si commuove Alberto Mieli, ricordando quel giorno ed ha anche un tremolio mentre parla fecero trovare i camion fuori dalla piazza dove oggi c’è la scritta che ricorda il rastrellamento, e caricarono le persone». Non bastarono quei cinquanta chili d’oro che i tedeschi vollero dalla comunità ebraica (e molti cattolici parteciparono a questa raccolta) con l’assicurazione che gli ebrei non sarebbero stati toccati. «Io fui preso a novembre, per una banalità». Racconta quel giorno in cui suonò l’allarme e si nascose in un ricovero antiaereo, in un sottoscala: «per fare l’uomo, detti dieci lire a due partigiani. In cambio ricevetti due francobolli ai quali non detti nessuna importanza, e li misi nel taschino della giacca». Dopo tre giorni nello stesso sottoscala entrarono tre della Gestapo e quattro della Xa Mas; messo al muro e perquisito gli trovarono i francobolli: «Ebbi la presenza di spirito di dirgli che li avevo trovati per terra davanti a un negozio in via Arenula».
In prigione al Regina Coeli fu messo nel sesto braccio:«Il braccio era sotto controllo diretto della Gestapo e della SS. Ero insieme ai prigionieri politici; non saprei dire i loro nomi e poi adesso non li riconoscerei perché stanno disgraziatamente tutti dentro le fosse Ardeatine. Tutto il sesto braccio finì completamente alle fosse Ardeatine e poiché non raggiunsero il numero, presero anche cinquantasei ebrei» (Alla domanda su Priebke, risponde controvoglia: «Lui non solo dette l’ordine, ma fece parte dell’uccisione diretta; ma è una cosa vergognosa tutta l’importanza che televisioni e giornali hanno dato a costui. Che importanza vuole dare a un uomo che ha vissuto cento anni senza pentirsi?»).
Dopo essere stato torturato per quei francobolli -lo portarono al campo di Fossoli vicino a Carpi, quindi ad Auschwitz. «Nessuna mente umana può immaginare che cosa facessero ad Auschwitz. Uccidevano per la malvagità di uccidere. Era una cosa indescrivibile. Non avevano nessun rispetto per la vita umana. I bambini di due tre mesi, presi per i piedini, lividi di freddo, li facevano dondolare e poi con violenza li lanciavano in aria e gli sparavano come se fossero stati dei volatili. Una malvagità incredibile. Prendevano ragazze, appena adolescenti, le portavano nelle baracche adibite a bordelli».
Mostra il numero marchiato sul braccio a Birkenau: «Eri un numero, non un essere umano. Mi salvai perché mi mandarono a lavorare nelle fabbriche di guerra a Sosnowiec, c’era un poco più di mangiare ed ho avuto la fortuna di lavorare con civili. Ricorda la marcia dei 620 km per arrivare al confine della Cecoslovacchia, nel mese di febbraio, notte e giorno. «Avevamo perso la cognizione del tempo. Eravamo lerci, non ci facevano lavare e la notte dormivamo in mezzo alla fanghiglia delle bestie. Ci rinchiusero poi per sei giorni nei vagoni piombati, senza acqua e senza cibo. Molti morivano e i corpi venivano messi lungo le pareti dei vagoni. Di notte li usavamo come cuscini; a volte ti voltavi e ti trovavi col viso del morto davanti». Mentre piange, Alberto Mieli spera che nessuno veda più ciò che i suoi occhi furono costretti a vedere. «Papa Wojtyla mi chiese un giorno: figliolo come hai fatto a salvarti da quell’inferno? Io gli dissi: Santità a questa domanda non so risponderle».
Non sa rispondere. Ha le mani che tremano e gli occhi lucidi Alberto quando se ne va.
L’Unità 16.10.13