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Quarantennale del Museo al Deportato di Carpi

Il 14 ottobre 1973 inaugura a Carpi il Museo Monumento al Deportato politico e razziale nei campi di sterminio nazisti. Alla presenza dell’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone, delle più alte cariche dello Stato, del mondo artistico e culturale, dei rappresentanti dei paesi europei e di una moltitudine di oltre 40.000 persone, apre uno dei più importanti musei in memoria della deportazione.
Uno spazio ideato e progettato da uno dei più prestigiosi studi di architettura italiani, il BBPR, in collaborazione con Renato Guttuso, con la partecipazione di alcuni tra i più importanti personaggi della cultura italiana tra cui Lica e Albe Steiner e Primo Levi. Un luogo che diventa paradigma, modello di comunicazione per un dramma che il mondo è stato costretto ad affrontare.

Nel 2013 la Fondazione Ex Campo Fossoli intende celebrare questo importante anniversario attraverso la promozione di una serie di iniziative che mirano a sottolineare il valore di questo monumento di rilievo internazionale, frequentato ogni anno da oltre 30.000 visitatori.

Purtroppo il sisma del 2012 ha evidenziato la necessità di alcuni interventi di restauro all’interno degli spazi museali e i lavori, attualmente in corso, impediscono di presentarsi in tempo per l’anniversario. Questo imprevisto non ha però scoraggiato la Fondazione Fossoli che anzi, potendo riconsegnare alla cittadinanza lo spazio interamente ristrutturato e consolidato, ha solo posticipato l’appuntamento, identificando nella prossimo 8 dicembre 2013 la data di inaugurazione. Una data non casuale ma una data che riesce, in un’estrema sintesi ideale, a ricollegare la nascita del museo a quella grande Manifestazione nazionale per la celebrazione della Resistenza nei Campi di concentramento, tenutasi a Carpi tra l’8 e il 9 dicembre del 1955, in chiusura delle commemorazioni per il decennale della Liberazione. E’ infatti proprio in quella occasione che viene organizzata la prima Mostra nazionale dei lager nazisti, allestita nel cortile del Castello dei Pio. La mostra raccoglieva documenti e fotografie che per la prima volta documentavano la vita, e soprattutto la morte, nei campi nazisti. Sollecitata dalla presenza a Fossoli del principale campo di smistamento e transito italiano, partenza per oltre 5.000 italiani diretti verso i lager nazisti, la mostra segnò una presa di coscienza collettiva e da Carpi partì per raggiungere decine di città italiane, segnando una tappa fondamentale nella costruzione della memoria nazionale ed europea. La manifestazione lasciò ben presto spazio ad un ampio confronto e ad attente riflessioni che tracciarono la genesi di quello che in breve divenne il progetto per il Museo al Deportato.

Il quarantennale conferma l’importanza del Museo Monumento al Deportato all’interno del patrimonio artistico e culturale italiano, confermato dalla partecipazione del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. L’8 dicembre infatti Massimo Bray, il Sindaco di Carpi, il Presidente della Fondazione Fossoli e tutti gli enti e persone che contribuirono alla realizzazione del Museo, presenteranno gli spazi restaurati e ne ripercorreranno la storia.

Questa celebrazione sarà per la Fondazione il primo appuntamento di un biennio particolarmente importante, che ricalca il biennio 1943-45, periodo dell’occupazione nazista, della fascista Repubblica Sociale Italiana, dell’inasprimento della persecuzione politica e razziale e dell’inizio delle deportazioni dall’Italia – nel 1944 inizieranno infatti le deportazioni dal campo di Fossoli.
Passando per il 27 gennaio, (Giornata della memoria) sarà il 12 luglio 2014 la successiva importante tappa di questo viaggio nel ricordo e nell’analisi storica, che celebrerà congiuntamente il settantesimo anniversario dell’uccisione di Leopoldo Gasparotto (22 giugno 1944) e della strage dei 67 Martiri di Fossoli, permettendo di approfondire gli aspetti di uno dei massacri nazifascisti perpetrati nella nostra regione. Con il 2015 si attendono invece le manifestazioni per l’altro settantesimo, quello della Liberazione.

Per informazioni:
Fondazione Ex Campo Fossoli
t. +39 059 688272
Segreteria organizzativa: Simona Santini
mob. +39 339 2260711
s.santini78@gmail.com

“Ma lo streaming ora serve davvero”, di Paolo Beltramin

Ma lo streaming ora serve davvero Scrive Beppe Grillo che l’abolizione del reato di clandestinità, proposta da «due portavoce senatori», non s’ha da fare perché non era «nel programma votato da 8 milioni e mezzo di elettori». Poi aggiunge una «precisazione sul metodo M5S»: si scopre che un «portavoce senatore» ha sì il diritto di proporre nuove leggi, ma queste al massimo verranno inserite nel programma «che sarà sottoposto agli elettori nella successiva consultazione elettorale» (attualmente prevista nel 2018). Nel frattempo, vale il programma presentato nella campagna 2013, quella in cui Grillo e i suoi, girando per l’Italia, promettevano di trasmettere in streaming ogni assemblea, dal Parlamento ai consigli comunali, perché la politica va fatta davanti ai cittadini, non alle loro spalle. Finora, il buon proposito è stato seguito dai 5 Stelle in modo ondivago: in diretta video il (non) dialogo di Crimi e Lombardi con Bersani e Letta; a porte chiuse molte battaglie interne su nomine, espulsioni e note spese. Adesso Grillo ha fatto sapere che la prossima settimana scenderà a Roma per confrontarsi con i parlamentari del Movimento. I sondaggisti concordano che la linea del capo sull’immigrazione è molto popolare tra gli elettori. Eppure alcuni dei portavoce non la condividono; e forse, davanti alle foto arrivate da Lampedusa, i sondaggi non li hanno neanche guardati. Pare che il capo abbia già deciso: anche questo dibattito sarà a porte chiuse. Se è così, è un errore. Su un tema così delicato, dove il valore della democrazia si intreccia con quello della vita umana, gli elettori hanno davvero il diritto di ascoltare la voce dei loro portavoce.

Il Corriere della Sera 13.12.13

“L’alfabeto perduto dell’Italia: una educazione per gli adulti”, di Benedetto Vertecchi

Trascorso oltre un quarto di secolo da quando Allan Bloom, in un libro che suscitò un enorme scalpore, affermò che era in atto un’enorme regressione nel possesso di competenze alfabetiche, la cui conseguenza era che decine di milioni di americani, malgrado avessero fruito mediamente di nove anni di educazione scolastica, era incapace di comprendere un semplice messaggio scritto. Per porre fine alle polemiche seguite alla pubblicazione del libro, importanti organizzazioni di ricerca, degli Usa e del Canada, decisero di rilevare i dati direttamente su un campione della popolazione: il risultato fu che il quadro era ancora peggiore di quello che Bloom aveva ipotizzato.
L’allarme derivante da quelle prime rilevazioni fu tale che l’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) decise di proseguire nella misurazione delle competenze alfabetiche degli adulti in età compresa tra i 16 e i 65 anni. Quell’iniziativa ebbe in- dubbiamente il merito di diffondere la consapevolezza circa i fenomeni involutivi che stavano interessando la cultura delle popolazioni, ma anche il limite di collegare troppo strettamente il possesso di competenze alfabetiche allo sviluppo dei sistemi economici. In altre parole, si dava spazio a interpretazioni utilitaristiche del possesso di una strumentazione culturale di base (quella che un tempo si faceva consistere nel leggere, scrivere e far di conto). La maggiore enfasi era posta sulla rispondenza della cultura degli adulti alle esigenze dello sviluppo economico. Eppure, già dai dati delle prime rilevazioni Ocse emergeva una indicazione di grande importanza: il fenomeno regressivo era molto meno grave nei Paesi in cui l’alfabetizzazione aveva risposto a esigenze di carattere immateriale. In particolare, i valori più bassi si osservavano nei Paesi di tradizione luterana, nei quali la diffusione delle capacità alfabetiche era stata spinta dalla necessità di porre i cristiani in condizione di leggere la Bibbia. Il fenomeno era molto più grave dove l’alfabetizzazione si era collegata a processi di trasformazione economica. Si sarebbe dovuto comprendere che la qualità del profilo culturale è determinante, prima ancora che per assecondare esigenze produttive, per partecipare consapevolmente alla vita sociale, per esercitare i diritti politici e fruire delle opportunità culturali.
In altre parole, si è interpretata la regressione illetterata secondo una logica di breve periodo, mentre sarebbe stato necessario riflettere sugli effetti nel seguito della vita. Molti Paesi hanno cercato di contrastare la regressione alfabetica creando strutture per l’osservazione del fenomeno e per il suo contrasto. L’offerta educativa rivolta agli adulti è cresciuta rapidamente, con effetti certamente positivi, ma sui quali ha continuato a pesare negativamente la categoria dell’utilità dei repertori culturali, per i quali è da apprezzare ciò che può essere utilizzato a fini produttivi. Non ci vuol molto per capire che gran parte di quel repertorio di conoscenze che si riassume nel richiamo alla cultura non è valutabile in termini di utilità. Tutti sanno che carmina non dant panem (le poesie non danno da vivere), ma tutti dovreb- bero capire che la lingua, la letteratura, l’arte, la musica, il pensiero sono necessari per dare significato all’autonomia, in senso morale e civile, degli individui.

In Italia, malgrado i risultati delle rilevazioni che si sono succedute apparissero come bollettini di Caporetto, non c’è stato alcun apprezzabile tentativo di modificare la politica culturale, avviando iniziative dalle quali si potesse attendere una diversa evoluzione nel possesso delle competenze alfabetiche. Anzi, non c’è stata al- cuna politica culturale, perché si è avviata una stagione di decisioni solo dettate da criteri di razionalizzazione ancorati a logiche di breve momento. Si è fatto anche di peggio, facendo passare per politica culturale l’orecchiamento di slogan consumistici che hanno avuto co- me unico effetto quello di deprimere ulteriormente le opportunità, se non di crescita, almeno di conservazione dei livelli di competenza acquisiti negli anni dell’educazione scolastica.

Ora sono stati pubblicati i risultati dell’ultima rilevazione Ocse. Di fronte al disastro (siamo in fondo alla graduatoria dei Paesi industrializzati per ciò che riguarda la capacità di comprensione della lettura) si è avviata una corsa a stracciarsi le vesti, che durerà qualche giorno. Poi, in assenza di un programma politico, potremo continuare a giocare con i balocchi tecnologici e a far finta di essere anglofoni.

L’Unità 13.10.13

“Emergenza alfabetica”, di Maurizio Tiriticco

La recente pubblicazione del rapporto OCSE PIAAC, realizzato in Italia dall’ISFOL circa i livelli di alfabetizzazione della popolazione del nostro Paese – gli adulti tra i 16 e i 65 anni, tra cui anche i laureati – mi ha veramente preoccupato. Occupiamo soltanto il 23esimo posto!!! E menomale che la ricerca ha riguardato solo 26 Paesi e non tutti i 34 che fanno parte dell’Ocse! Altrimenti, dove ci saremmo collocati? E’ anche vero che nel nostro Paese, in fatto di scuola, non si investe come si dovrebbe. Ci troviamo al penultimo posto (31esimo su 32 paesi) per la spesa destinata all’istruzione con il 9% del totale degli investimenti pubblici, contro una media Ocse del 13%. L’allarme è alto! Ed per questo che ieri ho scritto una preoccupata lettera a Tullio De Mauro che trascrivo:

“Caro Tullio! A volte ho paura di vedere nero perché i vecchi sono sempre laudatores temporis acti, ma non è così! Proprio in coincidenza con la Giornata mondiale dell’insegnante l’Ocse pubblica quei dati disastrosi relativi alla nostra montante incompetenza alfabetica. Ho ascoltato le tue sconsolate dichiarazioni al GR24 e allora ho pensato che non sono io, vecchio, a vedere nero, ma sono veramente i tempi di oggi quelli infausti! Ricordo gi anni Sessanta e Settanta, la tua Storia del ’63, le grandi battaglie per una nuova scuola dell’obbligo inclusiva e produttiva, la lezzzione di Don Milani e poi quelle 150 ore che videro migliaia di operai tornare sui banchi per riprendersi il tempo perduto! E che sapevano quanto valesse la cultura! Tu operavi sul fronte della ricerca, io su quello della alfabetizzazione degli adulti, e non solo, l’Mcc, l’Mce, l’Unla, i centri culturali in Calabria e la scuola di tutti i giorni. E l’Italia cresceva e i nostri cittadini imparavano! E c’era pure una buona Tv e il maestro Manzi! Ma poi??? Con questo nuovo Millennio, atteso e per certi versi temuto… il millenarismo è sempre in agguato… Che cosa è successo? Gli “analfabeti” – ma forse le virgolette sono di troppo – sono in pauroso aumento! Non si vendono libri e molte librerie stanno chiudendo! La Carrozza i suoi cavalli tenta di farli trottare, ma… ce la farà??? Ce la faremo a uscire da questo tunnel? Dobbiamo investire di più sulla cultura e sul nostro SISTEMA EDUCATIVO DI ISTRUZIONE! Chiamiamola EMERGENZA ALFABETICA! Dammi/dacci lumi! Ricominciamo da zero! Purtroppo non da tre! Un abbraccio forte forte! Maurizio”.

Dal rapporto emerge anche che i nostri laureati non sono all’altezza di tanti altri laureati Ocse in fatto di saper leggere e scrivere! E i diplomati si trovano al di sotto dei giovani Ocse che hanno superato l’obbligo di istruzione. Viene da chiederci: che ha fatto la nostra scuola negli ultimi anni? E che cosa sta facendo adesso? Il problema è politico! Occorre operare delle scelte e anche presto! Sia il Ministro Carrozza che il Presidente Letta sono pienamente consapevoli che occorre partire subito e guardare anche lontano! Sappiamo tutti che una inversione di rotta che destini ex abrupto miliardi sul capitolo dell’istruzione è oggi impossibile! I numeri sono quelli che sono! Il tutto e subito è solo uno slogan, e di slogan non abbiamo affatto bisogno!

Occorre dare, però, dei segnali, e dei segnali che contino! Un solo esempio! E’ opportuno insistere con le prove Invalsi? Il corpo della nostra scuola è malato! Lo sappiamo e lo sapevamo anche prima che fossero pubblicati i risultati dell’Ocse! E anche prima che le prove Invalsi cominciassero ad “abbattersi” sulle scuole senza nessun annuncio, fatto salvo quell’articolo 3 della legge 53/03. E senza alcuna informazione/formazione delle istituzioni scolastiche e degli insegnanti sul perché, sul quando e sul come della operazione, dei suoi contenuti, delle sue modalità, delle sue finalità. Non sarebbe più opportuno tentare di sanare l’abisso che corre tra una rilevazione “alta” – ammesso che lo sia – in materia di valutazione e le concrete annose e ripetitive procedure valutative che si adottano nelle nostre istituzioni scolastiche? Dove ancora ci si gingilla non solo con una valutazione decimale fatta di più, di meno, di meno meno, alla quale le scuole stesse sembrano non credere fino in fondo, quando decidono di non usare i primi tre o quattro voti (anche con delibere collegiali contra legem) e di andare molto cauti con i voti alti! Dove ancora si adotta scorrettamente lo stesso criterio del voto decimale sia come esito della misurazione di una prestazione che come valutazione complessiva del progresso/crescita di un alunno!

Quei milioni spesi per affliggere le scuole e per provocare maldestre operazioni di cheating non potremmo spenderli per rilanciare una seria “cultura della valutazione”, quella che avevamo imboccata tanti anni fa e poi abbandonata dopo le infauste “gride”… morattiane? La cancellazione del concetto e della pratica del curricolo e l’adozione dei piani di studio personalizzati hanno interrotto un percorso virtuoso e hanno cominciato a gettare nello sconforto e nello sbaraglio scuole e insegnanti! Solo la politica del cacciavite di Fiorini ha cercato di porre qualche rimedio! E poi sono venuti i tagli della Gelmimi e la bonomia di Profumo… Insomma, difficoltà su difficoltà! E in tale precaria situazione come si può pretendere di continuare a spendere milioni per sapere “come sta” il nostro Sistema Educativo di Istruzione? Lo sappiamo come sta! E’ inutile continuare a chiamare dottori, quando abbiamo bisogno di medicine! E subito!

E la migliore medicina è quella di… insegnare a valutare! Sic! Che implica anche insegnare a insegnare in modo diverso! Nella scuola militante eccezioni ce ne sono e lo so! Ma la pratica della terna lezione/interrogazione/voto è ancora largamente diffusa! Ed è inutile scrivere sui documenti del riordino dei cicli che bisogna adottare una “didattica laboratoriale”! Se non si comincia a incrinare, e veramente, quella pratica che ha origini lontane: la legge Casati… e la riforma Gentile… mai messe in seria discussione! La cattedra, la classe d’età e la campanella sono i pilastri della scuola di sempre, di eri, di oggi… e anche di domani? Mah! Però esiste la Finlandia… ma è così lontana…

Quell’articolo 16 del dl 104/13, con opportuni accorgimenti in sede attuativa (si veda il previsto dm di cui al comma 2), può segnare un primo avvio. E un fermo delle prove Invalsi può essere un secondo segnale. Per non dire anche del contratto di lavoro che dopo anni si dovrebbe cominciare a discutere! In vista anche di una Conferenza della scuola che ho invocata in un altro mio scritto! Un governo può durare anche e soprattutto per quello che fa, non per un occulto disegno del destino! Se si guadagnano le medaglie sul campo, la strada di una meritevole durata è imboccata!

Dobbiamo avere fiducia?

da http://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=16651

“L’Ospedale, che bellezza!”, di Luca Molinari

Appartengo a una generazione che è stata pericolosamente educata all’happy end. Mi si dirà che non sono i tempi giusti per un atteggiamento di questo tipo, ma oggi credo sia significativo guardare a questa bella storia d’architettura da questo punto di vista.
Poche settimane fa l’Aga Khan Award for Architecture, una sorta di corrispettivo del Pritzker Price per il mondo islamico, ma con una cadenza triennale e una forte prospettiva sociale concentrata sull’opera piuttosto che sull’architetto, ha indicato le cinque opere meritevoli del prestigioso premio. Tra queste c’è il Centro di Cardiochirurgia Salam di Emergency a Khartoum disegnato dallo studio veneziano Tamassociati. Questa è l’ultima di una lunga serie di belle notizie che hanno accompagnato l’opera e che comincia con l’inaugurazione nel 2007 del l’incredibile, piccolo, edificio sorto al l’estrema periferia della capitale sudanese tra il deserto e il Nilo Bianco, e diventato il più importante centro di cardiochirurgia di tutta l’Africa Equatoriale, con un bacino d’utenza di almeno 300 milioni di abitanti.
In questi anni l’ospedale ha accolto e curato, gratuitamente, pazienti da 23 Paesi africani, con un passaggio annuale di 60mila persone, diventando un modello sanitario e progettuale sostenibile per tutto il continente.
Il cantiere è diventato un vero laboratorio costruttivo in cui formare maestranze locali e dove sperimentare l’uso di macchinari e materiali a basso contenuto tecnologico e ad alta intelligenza ambientale. L’approccio dei Tamassociati è stato esattamente il contrario di quello che abitualmente adottano le grandi agenzie internazionali quando intervengono nei Paesi in via di sviluppo con l’importazione di tecniche costruttive obsolete e di tecnologie che resistono pochissimo al clima e alla mancanza di manutenzione.
I progettisti veneziani, invece, che da anni lavorano insieme a Emergency e hanno realizzato opere nella Repubblica Centrafricana, Sudan, Darfur e Sierra Leone, applicano un approccio morbido e pragmatico, basato sul buon senso, sull’ascolto dei luoghi e l’indagine delle tecnologie tradizionali, sul confronto con le tante aziende di artigiani evoluti che popolano il nostro Nord-Est per la costruzione di macchinari elementari e che non richiedano particolari cure.
La richiesta di base di Emergency, infatti, è sempre la stessa e suona come una paradossale provocazione: realizzare un ospedale in cui ognuno di noi potrebbe immaginare di far curare la persona più cara senza correre il minimo rischio, e poco importa se ciò deve avvenire a due passi da un conflitto in corso o nel cuore della regione più povera e disperata.
La magnifica ossessione di Gino Strada si è spesso incrociata con l’azione dei Tamassociati, sempre attenti, da quando lo studio nasce nel 1996, a definire con coerenza percorsi segnati da una forte sostenibilità etica e sociale. Ma è soprattutto nella serie di piccoli ospedali e centri d’assistenza in Africa che questa filosofia di lavoro ha prodotto le opere più convincenti.
Il centro di cardiochirurgia di Khartoum appare come il risultato più emblematico. L’intervento può essere diviso in due parti distinte, realizzate in due momenti: l’ospedale vero e proprio e gli alloggi per i chirurghi residenti temporanei.
Ogni elemento è immaginato per accogliere e offrire il massimo benessere a chi giunge, spesso disperato, da alcuni dei territori più depressi del nostro pianeta. Immaginiamo un lungo, basso edificio rosso avvolto dalla luce accecante e polverosa del deserto. Avvicinandoci, scopriamo il verde che lo circonda, un portico di metallo e bambù intrecciato che avvolge il corpo di fabbrica principale composto come un ferro di cavallo che protegge una grande corte. Entrando, la luce si fa tenue e siamo colpiti da un clima ben temperato in contrasto con i 50 gradi che bruciano l’aria lì fuori. È l’effetto della doppia conchiglia che avvolge l’edificio e consente al l’aria di entrare gradualmente e di essere progressivamente purificata, mentre l’aria condizionata è generata da mille metri quadri di pannelli montati sulla copertura.
La vegetazione, l’ombra ben organizzata e piccoli specchi d’acqua rendono l’atmosfera gradevole dando un’anima a un luogo costruito per ospitare persone di cultura e religioni molto diverse tra loro, che è diventato infatti simbolo di un rifugio di pace e tolleranza in questa parte del mondo.
Lo stesso principio è stato seguito dai progettisti per la realizzazione delle residenze temporanee per i chirurghi. L’idea nasce dai tanti container utilizzati per il trasporto dei materiali e abbandonati sulle rive del Nilo. Novanta di questi vengono recuperati a comporre un complesso capace di ospitare 150 persone.
Il problema climatico è risolto grazie a una doppia pelle di metallo e di bambù che consente all’aria di correre liberamente; ogni alloggio ha servizi riservati e una piccola veranda che guarda verso il fiume. I grandi pergolati e il verde diffuso trasformano questo luogo in un vero centro comunitario in cui è piacevole stare e condividere esperienze così difficili e intense.
Tutto il complesso appare così ben costruito che gli anni ormai già trascorsi non solo non hanno creato problemi, ma hanno dato risultati straordinari per i tanti pazienti curati e per i tanti che continueranno a venire. Il premio internazionale attribuito dall’Aga Kahn al progetto si aggiunge ad altri riconoscimenti ricevuti in questi anni e va a rafforzare un’idea alternativa di architettura italiana che, evidentemente, è sempre più apprezzata nel mondo.
E poi, come ha scritto Erri De Luca visitandolo, nel Centro Salam «semplicemente succede la vita». Quale miglior complimento per un’opera di architettura?

Il Sole 24 Ore 13.10.13

“La memoria non si cancella”, di Vittorio Emiliani

I grandi maestri latini ci hanno insegnato a «non infierire sui morti» e noi non lo faremo neppure su Erich Priebke spentosi centenario nel suo letto senz’ombra di pentimento per il ruolo criminale avuto nel massacro delle Fosse Ardeatine. Nemmeno un sussulto critico sugli orrori del nazismo. La morale laica e quella cristiana ci dettano il rispetto per ogni persona umana. Anche per quelle che, come Priebke, si sono comportate con una ferocia che ha rari riscontri nella storia, partecipando in modo diretto a radunare centinaia di ostaggi e a sopprimerli barbaramente.

Il rispetto umano, certo. Ma non pietà, perché, come dice la canzone partigiana scritta dal comandante «Nuto» (Nuto Revelli): «Tedeschi e fascisti, fuori d’Italia! / Gridiamo a tutta forza. Pietà l’è morta!». Non pietà, né funerali pubblici (giusto il no dello stesso Vicariato) che possano consentire anche la minima manifestazione apologetica nella Roma della eroica resistenza di Porta San Paolo, della razzia del ghetto (e il 16 ottobre è qui), delle tante deportazioni senza ritorno, del carcere di via Tasso, nella Roma che non vuole, che non deve dimenticare le lotte di popolo contro la dittatura nazista e quella fascista sua complice dopo la costituzione sciagurata della Repubblica Sociale Italiana. Trasformiamo invece la scomparsa del sanguinario ufficiale delle Ss in un momento di ricordo diffuso, consapevole di ciò che ha rappresentato di nobile per l’Italia il biennio 1943-45, il riscatto, anzitutto morale, dalla guerra fascista, la gestazione della democrazia, della Repubblica, di una Costituzione fra le più solide e antiveggenti del mondo. Nel 1985, si pose un «caso» Walter Reder, il boia della strage di Marzabotto. Lo si voleva libero perché gravemente malato. Il dibattito fu molto acceso. Riccardo Lombardi, antifascista fra i più rigorosi, mi disse: «Se è malato, tanto vale liberarlo. Se non si è pentito sin qui, non si pentirà mai». In realtà Reder aveva chiesto perdono anni prima ai superstiti. Ebbene, quando fu libero, affermò che nulla aveva da rimproverarsi e che la richiesta di perdono era stata una iniziativa del suo avvocato. Non diversamente dal «suo» generale Albert Kesselring, comandante in capo delle truppe tedesche in Italia, il quale, liberato per le solite gravi ragioni di salute, sostenne con protervia che gli italiani avrebbero dovuto «fargli un monumento» per il comportamento tenuto. Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione, gli rispose con un’ode famosa ora murata sul Municipio di Cuneo data alle fiamme dai nazifascisti: quel monumento l’avrai, camerata Kesselring, «col silenzio dei torturati / più duro d’ogni macigno / soltanto con la roccia di questo patto / giurato fra uomini liberi (…) morti e vivi collo stesso impegno / popolo serrato intorno al monumento / che si chiama / ora e sempre / Resistenza». Quella era la stoffa morale dei criminali nazisti. Questa la tempra dell’antifascismo, dei costituenti, di quanti ricostruirono l’Italia dalle macerie e ai quali ci siamo rifatti in questi anni e in queste ore nelle quali ci auguriamo che stia finendo un ventennio vergognoso per il nostro Paese. Simboleggiato da un uomo che meno di un anno fa ha ancora affermato (salvo smentirsi poco dopo) che «Mussolini aveva fatto anche cose buone». Il contrario di ciò che dobbiamo dire oggi, domani, sempre. Come Priebke, del tutto involontariamente, ci ha insegnato.

L’Unità 13.10.13

“Migranti, la svolta di Letta: missione militare umanitaria”, di Ninni Andriolo

L’Italia non attende l’Europa. Pretende che l’Unione faccia la propria parte per bloccare la strage continua che insanguina il Mediterraneo ma intanto anticipa i tempi. «Da lunedì metteremo in campo una missione militare-umanitaria» annuncia Enrico Letta ospite assieme a Martin Schulz della edizione veneziana de La Repubblica delle idee. Navi e aerei italiani quindi, e per «rendere il nostro mare più sicuro possibile nella parte in cui in questi giorni è diventato una tomba». Almeno sulla carta la filosofia dell’intervento che illustra il presidente del Consiglio è opposta alla politica dei respingimenti che animò i governi Pdl-Lega. L’obiettivo della missione è quello di «soccorrere, aiutare, evitare nuove tragedie», non certo – spiegano dal governo – «quello di utilizzare la forza contro centinaia di disperati che fuggono dal- la guerra e dalla miseria».
Serviranno «molti soldi» per «mettere in campo tre volte le navi che ci sono adesso e le unità aeree», ammette il premier. Ma l’Italia affronterà subito l’emergenza senza – per questo – rinunciare a battere i pugni per ricordare a Bruxelles che le sue frontiere meridionali coincidono con quelle europee e che il problema degli immigrati non può essere scaricato solo sul nostro Paese, tanto meno a Lampedusa. E per chiedere nell’isola «anche la presenza di coordinamento e di gestione dell’emergenza da parte di un nucleo di inviati del governo che fiancheggi le autorità locali» è intervenuto ieri il Capo dello Stato Giorgio Napolitano dopo aver chiamato al telefono il sindaco, Giusi Nicolini. Per il Quirinale bisogna risolvere con «la massima urgenza» il problema «della destinazione delle bare che si sono accumulate nell’isola e del rapporto con le famiglie che giungono dai luoghi di provenienza delle vittime per identificare e riconoscere i loro cari».
La richiesta di Roma, e assieme di Parigi, è che il prossimo vertice Ue del 24 e 25 ottobre metta all’ordine del giorno il tema dell’immigrazione. Letta ha avanzato la richiesta al presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy. Tra le priorità quella che riguarda il potenzialmento di Frontex, l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere degli Stati dell’Unione. Per il premier italiano deve avere «i piedi nel Mediterraneo». Un non senso, infatti, che la sua sede sia ancora a Varsavia come quando si poneva il problema «dell’allargamento a Est». I flussi migratori verso l’Europa si sviluppano oggi soprattutto dall’Africa e via mare.
LA BOSSI-FINI
L’Italia non si limita a chiedere un’energica iniziativa dell’Europa, quindi, Letta ritiene infatti che il nostro Paese potrà avere voce in capitolo maggiore se darà l’esempio e avvierà da subito la «missione militare-umanitaria». L’annuncio di ieri del premier non ha solo ricadute internazionali. La filosofia d’intervento che espone – a partire dall’ottica di solidarietà e non di respingimento che ispira l’utilizzo di navi e aerei italiani – modifica l’approccio dei governi di centrodestra. E il Presidente del Consiglio, che guida una grande coalizione della quale fa parte anche il Pdl, è particolarmente attento a mettere in evidenza la nuova direzione di marcia intrapresa dal suo governo. Ma ad attutire anche ogni motivo di polemica con Angelino Alfano. E se il vice premier aveva ribadito ieri che la richiesta di abolire la Bossi-Fini è «demagogica» perché non si risolvono così i problemi «dei morti in mare», Letta spiega, al contrario – «da politi- co» e da cittadino – che quelle norme vanno cancellate. Questo mentre il ministro Kyenge, ospite a Che tempo che fa, spiega che per superare la Bossi-Fini si «potrebbe trovare una maggioranza diversa rispetto a quella che sostiene il governo». Parole che provocano la levata di scudi del Pdl. Gasparri, Schifani, Bondi, Biancofiore ecc. non perdono l’occasione per chiedere conto al ministro – e indirettamente a Letta – delle ricadute delle parole del ministro.
DIVERSA FILOSOFIA
Dietro alcune dichiarazioni, quelle dei falchi berlusconiani in particolare, sbuca tra l’altro l’obiettivo di approfittare della Bossi-Fini per mettere in imbarazzo Alfano. Da Venezia, tuttavia, Letta cerca di prevenire tensioni. La sua posizione sulla Bossi-Fini è diversa da quella del segretario Pdl, ma approfittando della presenza del presidente tedesco del Parlamento europeo, il socialdemocratico Schulz, ricorda che in Germania l’Spd e Angela Merkel hanno idee diverse su molti temi ma metteranno in piedi una grande coalizione.
Quanto all’Italia poi, malgrado le diverse posizioni dei suoi componenti, l’esecutivo ha individuato una rotta unitaria anche sull’immigrazione. Lo dimostra – secondo Letta- anche la presenza al governo del ministro Kyenge che sta modificando l’approccio «culturale» del Paese attorno al dramma dei clandestini. Il premier si sforza di dimostrare un’inversione di tendenza. Una diversa «filosofia», così la definisce, anche per ciò che riguarda i pattugliamenti militari, «umanitari», nel Mediterraneo. «Priorità al diritto d’asilo», innanzitutto. E «tanto per essere chiari rispetto a chi fa le campagne elettorali su questo tema» Letta ricorda ciò che sancisce «l’articolo 10 della Costituzione».