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“Per vincere serve un partito”, di Claudio Sardo

Il congresso del Pd è cominciato. Deve dare all’Italia un progetto di cambiamento e legittimare una nuova classe dirigente. Si tratta di una responsabilità nazionale, non inferiore a quella che il Pd ha assunto mettendosi alla guida del governo di «necessità». Senza questa prospettiva, senza visione del futuro, l’orizzonte stesso del governo si accorcerebbe. Le larghe intese sono la febbre, non certo la normalità del sistema democratico. Oggi servono per porre le basi – istituzionali e sociali – del cambiamento di domani: in un sistema al collasso non possiamo permetterci che anche le prossime elezioni siano nulle.
L’obiettivo di vincere le elezioni – obiettivo da porre fin d’ora – è dunque un proposito sano. Che di per sé non si contrappone alla battaglia necessaria nel governo Letta affinché si raggiungano risultati in termini di ripresa economica, di equità sociale, di riforme elettorali e istituzionali. E proporsi di vincere le elezioni per il Pd – che non le ha mai vinte, ed è erede di un centrosinistra che nell’ultimo ventennio non ha mai vinto davvero neppure quando ha conquistato Palazzo Chigi – vuol dire anche analizzare criticamente le ragioni degli insuccessi passati. Non si può fare un congresso saltando questo difficile esame critico.

Ma l’obiettivo della vittoria elettorale non può neanche limitare il confronto soltanto alla leadership, alla sua forza mediatica e alla capacità di consenso a breve. Vincere non è un verbo che riguarda esclusivamente le elezioni e il governo del dopo. Vin- cere è una questione che riguarda anche il partito. Si può pensare a un cambiamento del Paese tenendo il partito – cioè quel pezzo di società civile che è disposta a organizzare la domanda politica, e a mediarla, e ad ampliarla – nel magazzino delle cose inutili? Si può pensare a un governo di cambiamento senza un partito – come ha scritto Fabrizio Barca – che sappia portare le risorse civiche e le conoscenze diffuse ad una responsabilità pubblica? Si può pensare ad un risveglio della fiducia se i cittadini continueranno ad essere esclusi da una partecipazione attiva, e usati solo come platee plaudenti oppure come rancorosi fustigatori del web?

Non ci sarà vera vittoria se il cambiamento non riguarderà l’idea stessa di partito. Non ci sarà vera vittoria se tutto l’impegno sarà concentrato nei comitati e nella comunicazione elettorale. Questo è un insegnamento che dovrebbe essere ormai patrimonio comune, dopo il drammatico fallimento di Berlusconi.

Il dilemma non è tra partito pesante e partito leggero. Non che il tema non sia interessante, ma le strutture organizzative di- pendono molto dai cicli storici, dalle risorse disponibili, dalle potenzialità e dalle sofferenze della società concreta. Il punto cruciale oggi è il ruolo del partito, il suo senso nel progetto di innovazione che la sinistra propone all’Italia (e all’Europa). Il partito – al di là della densità delle proprie strutture – è funzione essenziale della società che elabora la politica. Non è il derivato di istituzioni in crisi, né lo strumento per occupare la società, o soffocare le altre autonomie. È il corpo intermedio più complesso, che porta fino in Parlamento gli interessi sociali in conflitto e che organizza la rappresentanza.

Il partito deve restare un luogo autonomo dalle istituzioni e dal governo stesso. Questo è un tema che il congresso del Pd deve affrontare anche perché è un tema controverso, finora discusso con superficialità. Non basta trovare un compromesso sul fatto che il segretario può essere il candidato premier, ma può anche non esserlo. O sul fatto che il segretario è candidato, ma può avere un altro competitore interno. Sono queste ovvietà, che sarebbe persino utile tenere fuori dallo statuto. Meno ovvio è dire che il partito non è funzione esclusiva del governo o dell’opposizione al governo.

Il partito deve essere capace di parlare del futuro, di aprire un confronto su un do- mani che vada oltre le scarse risorse del pre- sente. Senza l’autonomia del partito, il programma del governo sarebbe limitato inesorabilmente agli interventi parziali e alle sempre insufficienti disponibilità di bilancio. E non basta la comunicazione o la demagogia a colmare lo scarto tra le domande dei cittadini e le tristi contingenze. Senza la capacità di un partito di allargare i propri orizzonti oltre l’oggi della politica, si rischia di consegnare il futuro al radicalismo anti-sistema. È ciò che avviene già oggi: ed è una delle ragioni degli insuccessi della sinistra.

L’Italia per salvarsi ha bisogno di un Pd all’altezza del proprio compito. E il compito del Pd non è quello di appiattirsi sul governo in carica, né su quello auspicabile di domani. La sinistra deve tornare a progettare il futuro insieme ai giovani, a chi non fa parte dal suo blocco sociale di riferimento, a chi pone istanze e valori più radicali, facendo in modo che questo cantiere aperto non sia vissuto come antagonista al buon governo possibile. Sia chiaro, la concretezza dell’azione politica è condizione del buon governo. La mediazione politica, la capacità di compromesso sono virtù. Ma se il governo possibile è costretto in binari strettissimi di compatibilità, la sinistra non può permettersi una divaricazione tra i valori più forti da un lato e le politiche dei piccoli passi dall’altro. Così la sinistra viene lacerata e ridotta all’impotenza. Senza partiti che funzionano c’è l’impotenza. O il Pd riesce a spezzare la tenaglia o sarà schiacciato.

L’Unità 13.10.13

“I veri nemici della Carta”, di Carlo Galli

La Costituzione è ora al centro della politica. Torna a unire e torna a dividere. Non è una cattiva notizia, di per sé: almeno, si parla di cose serie e non di escort. Del progetto di una vita civile improntata alla democrazia, e non di ridicole e tracotanti pretese di immunità dalla legge. Tuttavia, si deve stare attenti a definire i fronti polemici, le linee d’amicizia e d’inimicizia: ci sono molti modi di difendere e di attaccare la Costituzione, che vanno distinti con accuratezza. C’è il modo della destra, di sostanziale estraneità – storica, politica, valoriale – rispetto alla Carta; il modo di chi ignora che cosa significhi «fondata sul lavoro», di chi critica come «bolscevica» l’indicazione della responsabilità sociale dell’impresa, di chi teorizza la disuguaglianza, di chi detesta la Resistenza. È un modo che conosciamo, purtroppo, da vent’anni; e contro di esso molti che oggi paiono divisi hanno a suo tempo combattuto uniti.

C’è poi il modo del movimento di Beppe Grillo; un finto amore per la Costituzione – della quale in realtà non si condivide l’impianto di fondo, ovvero la centralità della democrazia rappresentativa – che serve, strumentalmente, a fare dell’anti-politica qualunquistica, ad accusare «loro» di stuprare la Costituzione, difesa però dai valorosi scudieri della innocente pulzella. E deve invece essere chiaro che chi per difendere la Costituzione attacca e delegittima il Parlamento e i partiti in realtà la oltraggia.

C’è poi l’amore vero per la Costituzione, quello di chi ne vuole salvare lettera e spirito, e non per conservatorismo feticistico-accademico ma per realizzarla nelle sue molte potenzialità ancora inespresse. Non v’è dubbio che fra questi amanti della Costituzione vi siano gli organizzatori della manifestazione di ieri. Il cui limite – che va menzionato, insieme all’apprezzamento per la loro passione civile e per il loro tentativo, in verità non sempre riuscito, di non dare toni antipolitici e antipartitici alla loro posizione – è di rivolgere tutta la loro energia polemica verso altri amici della Costituzione. Verso chi, come il Pd, l’ama di un amore parimenti intenso; verso chi, proprio sapendo, come loro, che la vera rivoluzione, in questo Paese, sarebbe applicarla e realizzarla, è anche preoccupato che essa sia travolta dalla crisi economica e sociale devastante che stiamo attraversando, che resti sepolta sotto le macerie del sistema politico sempre più fragile, che venga del tutto cancellata dalle forze antisistema che la crisi ha scatenato e dalle altre che potrebbero scatenarsi. È per questa preoccupazione – che è ansia per la sussistenza del quadro democratico nel nostro Paese – che le forze di governo, guidate dal Pd, hanno intrapreso la via di una riforma moderata e ponderata della Costituzione, volta a semplificare il processo legislativo e a rafforzare l’incisività dell’azione dell’esecutivo; nell’intento di conferire nuova energia e nuova credibilità al sistema istituzionale, e per questa via a tutto il sistema politico.

Nessuno stupro, dunque, ma un atto d’amore per salvare e realizzare il nostro patrimonio di civiltà democratica che si esprime nella Carta. Nessuno stravolgimento dei suoi principi, e neppure nessuna concessione alle tendenze autoritarie e decisionistiche della destra. E nessun grimaldello nella reinterpretazione, parziale, all’art. 138; né, infine, alcun plebiscitarismo nei referendum finali.

Centralità della Costituzione e centralità della politica democratica stanno insieme, condivise dalle due parti di una barricata che quindi non ha ragione di essere: dissidi marginali non possono infatti diventare solchi incolmabili, a meno che l’obiettivo degli amici della Costituzione non sia tanto difendere questa quanto piuttosto attaccare il Pd, abbassando così la Carta a un pretesto. Ma nessuno può davvero crederlo.

L’Unità 13.10.13

“Germania, il silenzio dei forti”, di Gian Enrico Rusconi

La Germania non ha ancora un nuovo governo, a tre settimane dalle elezioni. Ma i tedeschi non sembrano preoccuparsi. I partiti potenzialmente coalizzabili con la Cdu della Mer-kel – socialdemocratici e verdi – continuano a incontrarsi e a confrontarsi. «Roba da Prima Repubblica» – direbbe qualche commentatore credendosi spiritoso. Ma non è affatto così. E’ il ritmo di chi sa che a Berlino è comunque garantita la continuità politica interna e l’influenza, anzi l’assertività della Germania verso l’esterno. Anche e soprattutto verso l’Europa, guardata ormai con circospezione. Continuità all’interno e assertività nei confronti dell’Europa è ciò che sta a cuore ai tedeschi. Per questo hanno scelto Angela Merkel, qualunque governo formi.

A fronte di questa Germania c’è un’Italia politica frenetica e infelice, con un governo volonteroso ma sostanzialmente impotente per poter fare scelte incisive. Solo una disinvolta incompetenza e una cattiva conoscenza della realtà politica può presentare le nostre «larghe intese» come una versione italica della grande coalizione tedesca. Manca l’ingrediente principale: una cultura politica solidale sulle grandi cose da fare in nome dell’interesse comune, al di là delle legittime differenze e competizioni di parte. Facile dirlo e predicarlo (lo fa tutti i giorni Enrico Letta), ma da noi ci vorrebbe nulla di meno che una rivoluzione morale.

Il confronto tra Italia e Germania oggi è un gioco crudele, ma istruttivo. Dobbiamo partire dal presupposto che ci troviamo davanti a due esperienze di democrazia.

Una funzionante, l’altra malfunzionante – ma sempre democrazie. Con crescenti tratti che si usa chiamare post-democratici, fatti di spinte populiste, partiti elettoralistici con seri problemi di leadership, invadenza del sistema mediatico. Ma anche su questo c’è differenza tra Italia e Germania: noi siamo paradossalmente più avanzati in «postdemocrazia». E’ stato il berlusconismo a inglobare in sé i caratteri postdemocratici, cucinati in salsa italiana, compresi i suoi cattivi odori. Quello tedesco invece è un sistema rimasto sostanzialmente tradizionale.

Userò due immagini forti. Quella tedesca è una fortezza democratica tenuta insieme da un solido sistema istituzionale, complesso nelle sue articolazioni (cancellierato, rappresentanza parlamentare e regionale, sistema elettorale che consente la coesistenza di «partiti popolari» tradizionali con nuove forze politiche mobili). Su tutto vigila la Costituzione rigorosamente interpretata e monitorata dalla Corte federale, che è il bastione portante della fortezza democratica. Beninteso: questo non significa affatto che in Germania ci sia il migliore dei possibili sistemi politici o sia esente da critiche anche severe. Ma a suo confronto la democrazia italiana appare un condominio di rissose fazioni, di istituzioni farraginose prive di autorevolezza e di antagonismi tra gruppi sociali sempre più schiacciati lungo linee di quella che un tempo si chiamava società di classe. In compenso c’ è un potenziale di mobilitazione raro da trovare in Germania

Ma una manifestazione come quella a Roma a favore della Costituzione sarebbe difficilmente concepibile in Germania. Non perché la Costituzione tedesca non sia il punto di riferimento centrale del sistema sociale e politico. Al contrario. Non perché non richieda aggiornamenti o «sapienti rinnovamenti» (Giorgio Napolitano). In Germania infatti sono frequenti e incisivi gli emendamenti. Ma il tutto avviene tramite normali procedimenti istituzionali. Questo naturalmente non esclude disapprovazioni più o meno diffuse di sentenze costituzionali.Ma, a mia conoscenza, non si sono mai verificate mobilitazioni di massa pro o contro articoli costituzionali o a proposito di minacce che investono la Carta come tale.

Oggi i due sistemi, tedesco e italiano, si trovano davanti agli stessi nemici, chiamati anti-europeismo (o anti-euro) e populismo. Ma anche qui, dietro le stesse etichette, ci sono contenuti diversi. Non ha senso mettere sullo stesso piano l’umore antieuropeista del M5S con il nuovo raggruppamento tedesco «Alternativa per la Germania». Il primo esprime la velleitaria umoralità di una protesta cavalcata da incompetenti, la seconda contiene in nuce un progetto operativo alternativo di de-costruzione europea, pericolosissimo proprio perché seriamente pensato.

La cancelliera Merkel ha vinto le elezioni anche perché ha proposto una gradita «narrazione» del successo del suo governo e della Germania nel ventennio precedente. Sì, anche nel caso tedesco si può parlare di «ventennio», sviluppatosi in senso inverso al nostro (a proposito: è singolare che nelle commemorazioni di questi giorni , «il ventennio» italiano sia ipnotizzato dai fatti e misfatti berlusconiani, lasciando in ombra i fallimenti del centro-sinistra che sono parte importante e responsabile del ventennio cronologicamente inteso…) .

La «narrazione» merkeliana del ventennio tedesco parte dalle sfide di Maastricht e dall’impegno della Germania per la ricostruzione delle aree orientali ex comuniste. Anni duri e impegnativi, condivisi con il comune progetto europeo, resi progressivamente più difficili dall’accresciuta competizione internazionale che fa scoprire improvvisamente la pesantezza e la relativa arretratezza del sistema tedesco («il malato d’Europa» secondo una delle tipiche perentorie definizioni dell’Economist). Ma poi – prosegue la «narrazione» – ecco il coraggioso governo di Gerhard Schroeder che introduce le riforme (Agenda 2010) che consentono alla Germania di riprendersi efficacemente, mentre il resto d’Europa rimane impantanato nelle sue debolezze strutturali. Poi esplode la terribile crisi del 2008 cui reagisce la Grande Coalizione guidata da Angela Merkel e dal suo valente ministro socialdemocratico Peer Steinbrueck. Questa linea prosegue poi con la politica del rigore nel successivo governo Merkel, con i liberali, tenendo testa agli inefficienti partner europei. E’ la stagione della Germania «egemone riluttante» (altra definizione dell’Economist) che prosegue tutt’oggi.

Questa narrazione, gradita ai tedeschi, è fatta di mezze verità. Cancella totalmente il fatto che la Germania ha tratto legittimamente e meritatamente vantaggi dalla costruzione delle regole post-Maastricht, soprattutto di quelle attinenti gli aspetti finanziari ed economici, ma in maniera sproporzionata rispetto agli altri membri dell’Unione. Quelle regole infatti con il passare degli anni e l’esplosione della crisi si sono rivelate insufficienti e inadeguate di fronte alla intensità e alla qualità dei problemi che hanno incontrato altri paesi meno solidi. Ma la politica delle riforme e del rigore imposta dalla Germania ha spesso usato, nella narrazione popolare, la tesi che i paesi (meridionali) sono renitenti (se non peggio) a fare quelle che vengono chiamate «le riforme» tout court, anche se incidono pesantemente e contraddittoriamente sul livello di vita dei cittadini.

Nessuno vuol togliere ai tedeschi quanto hanno meritatamente ottenuto. Ci si aspetta però in nome dell’Europa che si rendano conto che la mutata la congiuntura storica richiede da loro – in forza del loro peso oggettivo – una nuova forma di corresponsabilità comunitaria.

La partita è aperta. E’ sbagliato pensare che debba essere giocata come se fosse una partita Germania contro Europa. Anche se c’è qualcosa di vero in questa formula. Ed è un peccato che l’Italia non abbia la forza di fare la sua parte (come sembrò possibile per un momento nella breve avventura di Mario Monti). Il discorso ritorna alla estraneazione tra le classi politiche tedesca e italiana così lontane ormai per cultura politica, per stile comunicativo, per competenza. Ma se guardiamo alla cronaca quotidiana, le speranze che questa tendenza possa invertirsi, sono poche.

La Stampa 13.10.13

“L’orrore e la tomba”, di Adriano Prosperi

La chiesa si rifiuta di celebrare i suoi funerali, l’Argentina respinge la salma, Roma gli nega la sepoltura. Priebke è morto e nessuno lo vuole. Il suo corpo, quel corpo di vecchio che lui nelle uscite con la badante si studiava di mantenere eretto come si conveniva a un ufficiale delle SS, ora è composto nella bara.
Ma in quella morte non c’è nessuna pace. La sorte di quel cadavere rischia di diventare un incubo. Dove sarà sepolto? Questa era stata la prima domanda che ci si era posti. E la risposta era stata: in Argentina, dove aveva vissuto per mezzo secolo indisturbato. Era un desiderio più che una risposta, dettato dal senso della speciale sacralità del suolo italiano e romano dove riposano le vittime delle Fosse Ardeatine. E invece no, l’Argentina non lo vuole. Così è cominciata una storia che promette di essere una strana ma importante cartina di tornasole di abitudini antiche e di problemi nuovi. Qui sono presenti e in conflitto l’opinione pubblica, le regole civili e le norme ecclesiastiche. L’esecrazione per l’uomo che ha ucciso i martiri delle Ardeatine ma poi ha negato di averlo fatto, ha mentito sulla Shoah sapendo di mentire e ha continuato lui vivo a infangare la memoria delle sue vittime, è un sentimento talmente forte che solo la vecchiezza estrema dell’antico uccisore di inermi ha potuto stemperarla: con la sua morte è rimasto a tutti solo il desiderio di dimenticarlo al più presto.
In Italia si seppellisce quasi sempre con rituale religioso. Pochi lo rifiutano. E la Chiesa non nega praticamente mai le esequie ecclesiastiche: non sono più i tempi in cui le ceneri degli eretici mandati al rogo erano disperse nell’acqua del Tevere o i protestanti e gli ebrei venivano sepolti furtivamente a notte lungo il Muro Torto. Per gli italiani i funerali in chiesa fanno parte di un loro speciale cristianesimo diventato abitudine e normalità anche per molti non credenti. Tanto è vero che non esistono da noi luoghi deputati per un rito laico dell’ultimo saluto. Anzi, come ha detto l’avvocato di Priebke Paolo Giachini, quelli religiosi sono un diritto di tutti.
Ma il Vicariato ha detto no e la decisione nella diocesi che ha per vescovo l’argentino Bergoglio diventato Papa Francesco deve essere stata attentamente meditata e non presa a caso. Cerchiamo di affidarci al codice di diritto canonico per capire meglio. Qui si elencano molte categorie a cui deve essere negata la sepoltura ecclesiastica: eretici, apostati, scomunicati e altro ancora, persone che fino all’ultimo, consapevolmente, senza pentirsi, abbiano negato e combattuto la dottrina della Chiesa e si siano esplicitamente a lei dichiarati avversi. Ma c’è un caso recente che tutti hanno in mente e che forse ci può aiutare a capire come funzionino queste regole: quello di Giorgio Welby. La sua ferma e consapevole rinuncia alle cure e l’espressa volontà di far staccare la macchina che lo aiutava a respirare lo rese agli occhi del Vicariato di Roma ribelle lucido e consapevole alla dottrina della Chiesa contro il suicidio e l’eutanasia e dunque indegno di funerali religiosi. Fu per molti un dramma, una lacerazione delle coscienze: ma come, la Chiesa non perdona? Toccò al cardinal Ruini allora vicario della città di Roma spiegare che la Chiesa poteva concedere il rito religioso anche ai ribelli alla dottrina ortodossa (in quel caso ai suicidi) purché si potesse accampare il dubbio che fossero mancati in loro « piena avvertenza e deliberato consenso». Ecco il punto: Welby fino all’ultimo e con piena lucidità rifiutò di riconoscersi in quella religione che gli imponeva di vivere a forza, attaccato a una macchina. La sua scelta espresse le convinzioni di molti e fu comunque oggetto di grande e diffuso rispetto; quella del vicariato invece apparve gelidamente crudele.
Ma Priebke? Su di lui a differenza che nel caso di Welby, la condanna del vicariato va d’accordo col giudizio unanime dell’opinione pubblica. Priebke fino all’ultimo ha rifiutato di pentirsi di ciò che aveva fatto e ha mantenuto ferme con «piena avvertenza e deliberato consenso» le convinzioni che lo avevano portato alla strage delle Fosse Ardeatine. Ecco il punto fondamentale: oggi una diocesi di Roma non più governata dal vicario cardinal Ruini ma dal vescovo Bergoglio – papa Francesco, ha voluto dare il segno che ci sono peccati così gravi da imporre il rifiuto dello spazio sacro per il rito funebre. Si dovrà dunque riscrivere a partire da questo segno il patto italiano di convivenza e sovrapposizione tra abitudini sociali e riti religiosi cristiani. E comunque il senso del peccato imperdonabile che è per l’opinione pubblica la rivendicazione impenitente della strage delle Fosse Ardeatine coincide, a quanto pare, con la sentenza del vicariato cattolico di Roma.
Resta la necessità di una sepoltura di quel corpo: la più rapida e discreta possibile, ma pur sempre una sepoltura. Su questo si deve essere chiari. Non è degno di una società civile infierire sui corpi dei morti: e se l’Italia è stata così civile da offrire al criminale Priebke un processo secondo le regole e una pena attenuata e quasi cancellata in ragione della sua età, non sarà certo il caso di fare passi indietro su questo percorso. Del morto Priebke vorremmo non dover parlare più se non in sede di analisi storica, per conoscere meglio i meccanismi che hanno fatto di uomini comuni come lui la banda di assassini di cui è stato membro e per ragionare sulla storia che abbiamo alle spalle – per far sì che non si ripeta più. Ma non c’è dubbio che un corpo umano debba essere sepolto. Non solo perché questo è ciò che dalla preistoria in poi ha distinto la nostra specie dalle altre specie animali. Anche perché sarà la sepoltura, che ci auguriamo nella notte e nell’ombra, a chiudere alle nostre spalle la storia di una vita di vile ed efferata ferocia e ad allontanare da noi per sempre quella vivente provocazione che era la passeggiata dell’uomo nella città da lui insanguinata.

La Repubblica 13.10.13

“I disperati che bussano alle porte dell’Europa”, di Eugenio Scalfari

Se si volesse raccontare in dettaglio ciò che è avvenuto in Italia e in Europa, bisognerebbe scrivere un libro. Segnalerò quindi i fatti principali cercando di darne un’interpretazione in linguaggio “Twitter”. Sono stati i seguenti.
1. Il tema dell’immigrazione con altri cinquanta morti l’altro ieri e la vergognosa situazione dei centri di accoglienza, ormai sotto gli occhi di tutti, facendo vivere gli immigrati in condizioni addirittura peggiori dei carcerati.
2. Grillo e Casaleggio stanno considerando l’ipotesi di chiedere l’impeachment (cioè il deferimento alla Corte costituzionale) di Giorgio Napolitano, reo di avere chiesto al Parlamento lo sfoltimento delle carceri votando vari provvedimenti per alleggerire la popolazione carceraria ed anche tra di essi l’indulto e l’amnistia.
3. Il presidente francese Hollande in un’intervista a “Nouvel Observateur” da noi pubblicata venerdì, ha sollecitato una nuova politica europea e un’Europa che punti non solo ad una crescita robusta e duratura e al lavoro per le giovani generazioni, ma anche una comune politica estera, una comune difesa e una comune gestione dell’immigrazione. Si tratta d’un capovolgimento radicale della storia di Francia e dell’Europa. Finora la Francia si distingueva per il suo nazionalismo. Hollande lo attacca giudicandolo ormai del tutto fuori tempo e indicando come obiettivo un’Europa federale, senza la quale i singoli paesi del continente diventerebbero politicamente ed economicamente irrilevanti.
Le prossime elezioni europee invieranno a Strasburgo purtroppo una robusta pattuglia di euroscettici che hanno in animo di chiedere l’uscita dall’euro e il ritorno alle monete locali.
4. Le polemiche e la confusione all’interno del Pdl sono in aumento con ripercussioni negative sul governo Letta.
5. Le recenti emissioni dei nostri titoli di Stato avvenute ieri per l’ammontare di alcuni miliardi di euro hanno realizzato una forte domanda e un marcato ribasso dei rendimenti sia per le scadenze a cinque e a quindici anni sia per i Bot a sei mesi. Le Borse sono da varie settimane al rialzo e lo “spread” sta toccando i suoi minimi storici. Questo andamento dei mercati dipende in parte dalla congiuntura europea ed in parte da quella americana.
Alcuni di questi fatti sono positivi, altri negativi. Essenziale è l’essere consapevoli di quanto sta accadendo e di comportarsi di conseguenza.
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Comincerò da Grillo e dagli attacchi (che non provengono da lui soltanto) contro il Presidente della Repubblica. L’impeachment è previsto per il reato di tradimento o complotto contro la Costituzione. Lo si presenta in Parlamento e se è accolto con voto positivo viene trasmesso alla Corte che si trasforma in Corte di giustizia e giudica il Capo dello Stato sospendendolo dai suoi poteri e trasferendoli al presidente del Senato in attesa della sentenza.
Nel caso specifico Giorgio Napolitano ha inviato un messaggio alle Camere che rientra nei suoi poteri costituzionali, segnalando l’indecenza dell’affollamento carcerario, ricordando che la Corte di Strasburgo sta da tempo esaminando il problema ed emetterà la sua sentenza nei prossimi mesi, e proponendo alcune misure urgenti: depenalizzazioni di reati minori, maggiore uso dell’arresto domiciliare e di altre pene alternative, eventuale indulto e amnistia per reati minori, riforme della giustizia penale e civile per affrettare l’esito dei processi.
Chiedere l’impeachment per il contenuto di un messaggio alle Camere è una motivazione che finora non era mai stata usata e che supera i limiti dell’assurdo. Chi la usa dimostra l’ignoranza dell’architettura costituzionale e perfino del semplice buonsenso. Il fatto che sia stato votato da un quarto degli elettori il personaggio che si propone di inoltrare la richiesta di impeachment è un segnale grave; nella storia d’Italia ne abbiamo viste anche di peggio ma nell’Italia repubblicana il livello di questa seduzione alla più vacua e pericolosa demagogia non era mai arrivato a questo punto.
Mi domando fino a quando i parlamentari delle 5Stelle possano accettare d’essere i burattini nella mano d’un burattinaio che vuole perpetuare la galera senza alcuna clemenza e vuole anche mantenere a tutti i costi la legge Bossi-Fini, aggravata dai regolamenti attuativi dell’allora ministro dell’Interno, Maroni, sul reato di clandestinità. Grillo non è più un comico ma una persona affetta da quel disturbo mentale che antepone il suo potere dispotico ad ogni altra considerazione. Purtroppo non è il solo.
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L’immigrazione è un fenomeno al tempo stesso facile da capire e molto difficile da governare. Chi è senza lavoro nel proprio paese, emigra. Gli italiani per circa un secolo sono stati un popolo di emigranti in Europa, nelle America del Nord e del Sud, in Australia. Ma per affrontare il rischio della morte la povertà e la mancanza di lavoro non bastano, ci vuole qualche cosa di peggio; ci vuole la schiavitù, la ferocia su deboli, le torture e la morte.
Quelli che dalla costa della Libia e da altre del Medio Oriente affollano barconi che somigliano a zattere a stento galleggianti, fuggono dalla morte certa e sfidano quella probabile. Quindi occorre ampliare il diritto d’asilo e fare accordi con i paesi di provenienza affinché il respingimento non faccia ritornare gli immigrati a quella schiavitù e quell’inferno per sfuggire ai quali avevano affrontato rischi quasi mortali.
Questo deve fare l’Italia e questo deve assolutamente fare l’Europa. Il reato di clandestinità è inaccettabile e va cancellato, come l’altro ieri ha ricordato sulle nostre pagine Gianluigi Pellegrino. Regolare i flussi di accesso è un problema che può essere gestito, incriminare gli immigrati e chi li aiuta in mare aperto è una situazione che va totalmente abolita.
Nel frattempo i centri d’accoglienza non possono esser lasciati nella condizione di lazzaretti. Vanno aperti in tutta Europa e quelli esistenti in Italia debbono comunque essere ristrutturati in modi completamente diversi dagli attuali. Ci sono anche fabbricati demaniali da utilizzare, alberghi da affittare, prefabbricati da preparare. Il governo ha il dovere di intervenire in Italia e in Europa con tutta la forza di cui dispone. Forse non è una politica popolare e Grillo e la Lega infatti si sono schierati contro. Ma queste loro posizioni sono semmai la controprova di quanto sia necessaria ed urgente la giusta
gestione della politica di accoglienza.
C’è anche chi coinvolge su questo terreno Giorgio Napolitano. È diventato un vezzo, non solo dei populisti ma anche di persone in apparenza preparate e responsabili nella forma ma in realtà faziose nella sostanza. Un vezzo inaccettabile quando le motivazioni sono vaghe o inesistenti del tutto e servono solo a costruire movimentini e partitini richiesti dalla vanità e dal bisogno si apparire sui media compiacenti.
Anche di questo è bene essere consapevoli.
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Un tema di notevole anzi notevolissima importanza è la legge elettorale. Un altro è la riforma del finanziamento dei partiti. Sono entrambi argomenti di attinenza del Parlamento ma, specie nel secondo, il governo ha un suo disegno di legge da difendere e, se necessario, da trasformare in decreto.
Ebbene, questa necessità c’è e da tempo la segnaliamo. Si trattava di fissare la soglia dei finanziamenti privati. Pare che l’accordo tra i due partiti di governo sia stato raggiunto, ma se così non fosse, il presidente del Consiglio presenti il decreto alle Camere e chi è contrario lo manifesti. Non si può più oltre attendere mentre i grillini chiamano tutti gli altri con la parola ladri. Ce ne sono dovunque, di ladri, e perfino Grillo è stato processato e condannato. Quando si urla “ladri tutti” si fa un segnalato favore a quanti lo sono sul serio. La demagogia è questo; non semplifica ma falsifica e bisogna averlo ben presente.
Il tema della legge elettorale è altrettanto importante e urgente. L’accordo che si profila è quello d’una proporzionale con piccoli collegi e un ipotetico premio di maggioranza per chi raggiunge il 40 per cento dei voti. L’altra ipotesi è quella proposta da Violante che prevede un impianto proporzionale al primo turno e un ballottaggio tra i primi due arrivati al secondo. A me pare che questo sia il migliore connubio che tiene insieme la rappresentanza di tutte le forze politiche che superino una ragionevole soglia, ma mantenendo quel tanto di bipolarismo che rende più stabile la governabilità.
I tre partiti maggiori avrebbero convenienza a convergere su questo progetto. E in particolare l’avrebbe il Movimento 5 Stelle che può aspirare ad entrare nel ballottaggio mentre è oggettivamente sfavorito dalla proporzionale basata sui collegi. L’urgenza è comunque evidente poiché il governo non è affatto al riparo da rischi improvvisi, con un Grillo sempre più scatenato e un Berlusconi ben lontano
Il “Foglio” da alcuni giorni dedica molto spazio a Papa Francesco, facendo intervenire sulle sue pagine teologi o presunti tali che analizzano le novità “scandalose” del nuovo Pontefice e le resistenze che possono dividere la Chiesa fino all’ipotesi di uno scisma.
Il Papa, secondo il “Foglio” e i suoi collaboratori, starebbe frantumando l’unità della Chiesa, la sua dottrina, la sua tradizione, col solo intento di accreditarsi nell’opinione di chi crede in una vaga e fragile trascendenza e di chi non crede affatto.
Non ho la sensazione che questa vera e propria campagna di stampa abbia molta presa, ma comunque merita d’essere segnalata perché inconsueta. Finora i Papi e la Chiesa venivano attaccati dalle correnti dell’anticlericalismo, cioè da parte di una sinistra estrema, oppure della massoneria. Non era invece mai accaduto che un giornale che vuole essere l’espressione intelligente e colta della destra, o meglio del berlusconismo, si cimentasse con una teologia da strapazzo su un tema molto complesso come la politica religiosa di cambiamento voluta da Papa Francesco e in corso di attuazione.
Poiché la mia conversazione con il Papa è il testo che fornisce ai tradizionalisti del “Foglio” il grosso degli argomenti, non sarò certo io – laico e non credente – a intervenire in polemica con loro. Mi limito soltanto a segnalare una situazione di palese e obiettiva evidenza: la Chiesa dei credenti ha immenso bisogno di rinnovarsi e di superare il fossato che la contrappone alla cultura moderna e la isola soprattutto nei paesi dell’Occidente dove finora aveva il suo maggior radicamento religioso e culturale. Papa Francesco adempie al compito che Papa Giovanni aveva affidato al Vaticano II e il Concilio aveva trasmesso ai suoi successori.
Il dialogo tra una Chiesa aperta al cambiamento e il pensiero laico è nei fatti sul piano teologico, filosofico, culturale, sociale. Ciascuna delle parti cerca punti di incontro mantenendo quelli di scontro e di diversità. L’obiettivo comune ed esplicitamente dichiarato è quello di contenere l’egoismo crescente rilanciando l’amore per gli altri e la visione del bene comune.
Ci sono due punti nella predicazione di Gesù che stanno alla base di questo dialogo e lo fondano sulla necessaria sintonia, senza la quale ogni dialogo sarebbe impossibile: «Ama il prossimo come te stesso » e «Date a Cesare quel che è di Cesare». Per i credenti vale anche la seconda parte: «Date a Dio quel che è di Dio». Per i non credenti ciò che non è di Cesare va riservato all’individuo e alla sua coscienza che risponde a se stessa e si riconosce nel trinomio di libertà, eguaglianza, fraternità.
Chi ha valori diversi da questo non possiede la sintonia necessaria per dialogare né con la religione né con una opinione laica, liberale, democratica.
Per quanto mi riguarda è tutto. Il cambiamento è auspicabile nella fase di passaggio d’epoca che stiamo vivendo.

La Repubblica 13.10.13

“Femminicidio, c’è la legge. Vita dura per gli stalker”, di Franca Stella

Il disegno di legge a tutela delle vittime di maltrattamenti e violenza domestica è diventato legge. Il Senato ha approvato il testo definitivo con 143 i sì, 3 voti contrari e nessun astenuto. Il ddl sul femminicidio non punta solo sulla repressione, ma prevede anche risorse per finanziare un piano d’azione antiviolenza, una rete di case-rifugio e l’estensione del gratuito patrocinio. Il permesso di soggiorno potrà essere poi rilasciato anche alle donne straniere che subiscono violenza. Ecco i punti principali del testo.
Relazione affettiva. È il nuovo parametro su cui tarare aggravanti e misure di prevenzione. Rilevante sotto il profilo penale è da ora in poi la relazione tra due persone a prescindere da convivenza o vincolo matrimoniale (attuale o pregresso).
Nuove aggravanti. Il codice si arricchisce di una nuova aggravante comune applicabile al maltrattamento in famiglia e a tutti i reati di violenza fisica commessi in danno o in presenza di minorenni o in danno di donne incinte. Quanto all’aggravante allo stalking commesso dal coniuge, viene meno la condizione che vi sia separazione legale o divorzio. Aggravanti specifiche, inoltre, sono previste nel caso di violenza sessuale contro donne in gravidanza o commessa dal coniuge (anche separato o divorziato) o da chi sia o sia stato legato da relazione affettiva.
Querela a «doppio binario». Il dilemma revocabilità-irrevocabilità della querela nel reato di stalking è sciolto fissando una soglia di rischio: se si è in presenza di gravi minacce ripetute, ad esempio con armi, la querela diventa irrevocabile. Resta revocabile invece negli altri casi, ma la remissione può essere fatta solo in sede processuale davanti all’autorità giudiziaria, e ciò al fine di garantire (non certo di comprimere) la libera determinazione e consapevolezza della vittima.
Ammonimento. Il questore in presenza di percosse o lesioni (considerati «reati sentinella») può ammonire il responsabile aggiungendo anche la sospensione della patente da parte del prefetto. Si estende cioè alla violenza domestica una misura preventiva già prevista per lo stalking. Non sono ammesse segnalazioni anonime, ma è garantita la segretezza delle generalità del segnalante. L’ammonito deve essere informato dal questore sui centri di recupero e servizi sociali disponibili sul territorio.
Arresto obbligatorio. In caso di flagranza, l’arresto sarà obbligatorio anche nei reati di maltrattamenti in famiglia e stalking. Allontanamento urgente da casa. Al di fuori dell’arresto obbligatorio, la polizia giudiziaria se autorizzata dal pm e se ricorre la flagranza di gravi reati (tra cui lesioni gravi, minaccia aggravata e violenze) può applicare la misura dell’allontanamento con urgenza dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
Braccialetto elettronico e intercettazioni. Chi è allontanato dalla casa familiare potrà essere controllato attraverso il braccialetto elettronico o altri strumenti elettronici. Nel caso di atti persecutori, inoltre, sarà possibile ricorrere alle intercettazioni telefoniche.
Obblighi di informazione. A tutela della persona offesa scatta in sede processuale una serie di obblighi di comunicazione in linea con la direttiva europea sulla protezione delle vittime di reato. La persona offesa, ad esempio, dovrà essere informata della facoltà di nomina di un difensore e di tutto ciò che attiene alla applicazione o modifica di misure cautelari o coercitive nei confronti dell’imputato in reati di violenza alla persona.
Case-rifugio. Finanziamenti in arrivo anche per i centri antiviolenza e le case-rifugio. Nel 2013 10 milioni di euro, 7 nel 2014 e altri 10 all’anno a partire dal 2015.
Soddisfatto il presidente del Consiglio Letta: «È un giorno davvero importante». Mentre per il telefono rosa è solo un «primo passo».

l’Unità 12.10.13

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“Un decreto per cominciare”, di Valeria Fedeli, Anna Finocchiaro

A GIUGNO ABBIAMO RATIFICATO LA CONVENZIONE DI ISTANBUL E IERI ABBIAMO APPROVATO LA CONVERSIONE IN LEGGE DI UN DECRETO CHE SARÀ UTILE PER CONTRASTARE IL FENOMENO DELLA VIOLENZA DI GENERE. Inutile negare che lo strumento del decreto legge e l’inserimento della normativa che riguarda la violenza contro le donne nel pacchetto sicurezza hanno fatto inizialmente percepire l’adozione delle misure più come risposta all’allarme sociale che come costruzione di una politica di prevenzione e contrasto del fenomeno strutturale e a lungo termine. Sarebbe stato meglio, si è detto, procedere con un progetto di legge che tenesse subito conto degli aspetti culturali e sociali della violenza contro le donne, perché è un fenomeno da contrastare proprio agendo prima di tutto sulle cause economiche, sociali e culturali.
Il decreto legge però, incide su una materia molto delicata, che deve tenere conto della normativa internazionale, in particolare della direttiva 2012/29/UE, relativa alle norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, e della Convenzione di Istanbul. In questa prospettiva, dunque, il Governo ha mantenuto l’impegno di un primo livello di attuazione della Convenzione e lo ha fatto con rapidità, cogliendo l’urgenza che deriva dalla nuova e maggiore consapevolezza del fenomeno della violenza di genere e dalla drammatica realtà che la cronaca ci consegna ormai quasi tutti i giorni.
In considerazione di questa urgenza, e dei tempi stretti di conversione del decreto, tempi che scadono il 14 ottobre, abbiamo scelto al Senato di approvare il testo arrivato dalla Camera senza ulteriori modifiche e rinunciando anche ad intervenire in Aula durante la discussione. Siamo consapevoli che il decreto è imperfetto ed è solo un primo passo e sappiamo che è necessario e decisivo poi agire su tanti altri fattori: culturali, economici, del lavoro, educativi, relativi sia al superamento delle discriminazioni, sia agli stereotipi e linguaggi di cui la violenza si alimenta.
Ma da questo decreto dovremo ripartire per attuare compiutamente la convenzione di Istanbul.
Dovremo, inoltre, in questo senso, continuare il lavoro di ascolto e condivisione con le associazioni, i centri antiviolenza e tutti i soggetti istituzionali che si occupano di violenza e prevenzione. È un lavoro che già ha permesso di modificare positivamente il decreto nella discussione fatta alla Camera : sul piano dei finanziamenti, sul potenziamento delle forme di assistenza, sul coinvolgimento degli enti locali e delle Regioni al fine di rendere omogenei gli interventi su tutto il territorio. E questo lavoro si è svolto attraverso la collaborazione tra deputate e deputati, ma anche attraverso una interlocuzione con quel ricco mondo che opera in questo campo fuori il Parlamento.
Approvato il decreto, l’obiettivo prioritario resta ora quello della soluzione dei conflitti nei rapporti uomo-donna attraverso il coinvolgimento della scuola, dei media, dei servizi territoriali, oltre che quello della previsione di azioni di recupero dei soggetti maltrattanti. Un obiettivo, quest’ultimo, che è stato condiviso da tutti nella discussione del decreto, permettendo di circoscrivere i limiti che erano emersi e di assumere una diffusa responsabilità per una pianificazione integrata e reticolare degli interventi da condividere tra istituzioni pubbliche, enti, presidi sanitari, associazioni, forze dell’ordine, operatori e operatrici sull’unico terreno davvero efficace, quello della formazione e della prevenzione.
Il confronto, l’ascolto, ma anche l’assunzione di responsabilità da parte del Parlamento, ci fa quindi dire che oggi è un altro buon giorno per le donne del nostro Paese e che abbiamo messo un ulteriore importante tassello per l’attuazione della Convenzione di Istanbul.
Abbiamo fatto un altro piccolo passo per eliminare tutti gli ostacoli che impediscono alle donne di non subire più violenze e discriminazioni e di godere dei diritti fondamentali alla vita, al rispetto della propria libertà e autonomia, all’integrità psicofisica, alla libertà di scelta, all’accesso alla giustizia, anche penale. Per adempiere all’obbligo istituzionale e morale di non considerare le donne vittime di violenza soggetti «deboli», ma soggetti «vulnerabilizzati» dalla violenza subita: le donne sono forti e dalla loro forza e libertà dipende un pezzo decisivo del futuro di tutti.
Per poter vivere in un paese civile, un paese davvero per donne e per uomini e, quindi, migliore per tutti.

L’Unità 12.10.13

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Femminicidio, arriva l’ultimo sì “Oggi le donne non sono più sole”, di MARIA ELENA VINCENZI

Nuove aggravanti, braccialetti elettronici, patrocinio gratuito alle vittime, tutele speciali, irrevocabilità della denuncia e fondi per un piano d’azione straordinario. Con 143 voti a favore, tre contrari e nessun astenuto, il decreto legge sul femminicidio è legge. Il Senato, anche se con qualche malumore, ha deciso di convertire la norma che prevede una stretta sulla violenza contro le donne. Il premier Enrico Letta parla di «giornata davvero importante». Esulta anche il vicepremier e ministro dell’Interno Alfano: «Da oggi le vittime della violenza non sono più sole».
Tre le aggravanti previste: quando la violenza è commessa ai danni del coniuge (anche se divorziato o separato) o del partner (anche se non convivente); quando la vittima è una donna incinta; quando il reato viene consumato in presenza di minori. Ancora, la nuova legge prevede l’allontanamento urgente dalla casa familiare, con il divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla persona offesa, per chi viene colto in flagranza. Giro di vite anche sullo stalking: via libera a intercettazioni telefoniche e irrevocabilità della querela nei casi di minacce
gravi e reiterate. Per di più, i persecutori allontanati da casa potranno essere controllati grazie al braccialetto elettronico.
Repressione e tutela. La legge guarda anche alle vittime che potranno contare sul patrocinio gratuito e su una rete di case-rifugio. Alle donne straniere maltrattate verrà rilasciato un permesso
di soggiorno speciale. Le segnalazioni non potranno essere anonime ma i dati delle donne saranno coperti almeno nella prima fase del procedimento per evitare ritorsioni. Disposto anche un piano d’azione straordinario che prevede, per il 2013, un incremento di 10 milioni di euro del fondo per le politiche delle Pari
Opportunità.
Alla fine la lotta alla violenza sulle donne è diventata legge. La giornata non era partita nel migliore dei modi: i senatori erano indispettiti per il fatto che i deputati hanno inviato a palazzo Madama il dl a ridosso delle scadenza e, quindi, senza la possibilità di modificare in alcun modo il testo.
Testo che, peraltro, contiene solo 5 articoli su 11 sul femminicidio. «Siamo davanti all’alternativa se convertire un testo che ci è arrivato il 9 ottobre e scade il 14 malgrado ci siano degli errori o lasciarlo decadere – ha detto il presidente della commissione Giustizia Francesco Nitto Palma (Pdl) – La prossima settimana provvederemo ad inserire delle modifiche nel testo che stiamo esaminando sulla stessa materia in commissione. Qui siamo davanti al primo intervento di legislazione in materia penale fatto con un decreto legge». Mentre la presidente della commissione Affari Costituzionali, Anna Finocchiaro (Pd) ha criticato «presenza di norme disomogenee in violazione dei principi della Costituzione. È l’ultima volta che accettiamo qualcosa del genere». Un’incongruenza che ha spinto la Lega e Sel a non partecipare al voto.

La Repubblica 12.10.13