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“Moderni samurai”, di Pietro Greco

Lo possiamo leggere in due modi “Il bagnino e i samurai”, il libro che Daniela Minerva e Silvio Monfardini hanno appena pubblicato per l’Editore Codice. Entrambi pregnanti. Entrambi istruttivi. Il primo è quello della storia, triste e appassionata, dell’ennesima occasione perduta. Di un paese, l’Italia, che avrebbe potuto essere leader nel settore, strategico da ogni punto di vista, dell’industria dei farmaci antitumorali e che non ha saputo (voluto) esserlo. Ma lo possiamo anche leggere come un rapporto sulla duplice anomalia italiana: quella di una parte rilevante (di una parte prevalente) della classe industriale e politica che, incredibile a dirsi nell’«era della conoscenza», non crede nella ricerca scientifica e, invece, di un manipolo – sempre più piccolo, ma sempre più determinato – di moderni samurai, i ricercatori, che malgrado tutto tangono agganciato il vagone dell’Italia al treno dell’innovazione e, dunque, al futuro.

La storia riguarda la nascita dell’oncologia medica in Italia e nel mondo. Per dirla in maniera piuttosto rozza, l’oncologia medica è quella branca della medicina che cerca di curare il cancro avvalendosi di farmaci. Fu inaugurata di fatto, negli anni ’60 del secolo scorso, da Gianni Bonadonna e dai suoi samurai presso l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, dove fu individuato e sperimenta- to uno dei primi farmaci antitumorali al mondo: l’adriamicina. La ricerca fu portata avanti con successo grazie a una stretta collaborazione tra il gruppo di Bonadonna e un’industria, la Farmitalia.

Fu allora che l’Italia ebbe l’occasione di entrare da protagonista nel mondo di «Big Pharma», il mondo delle grandi aziende farmacologiche del mondo. Il lavoro di Bonadonna era, infatti, del tutto pionieristico. E aveva un solo analogo, negli Stati Uniti. Oggi l’industria mondiale dei farmaci fattura oltre mille miliardi di dollari e una parte rilevantissima del mercato riguarda i farmaci antitumorali, che si sono rilevati un valido strumento nel contrasto al cancro, perché spesso consentono sia di allungare la vita degli ammalati, sia di migliorarne la qualità.

Purtroppo quell’industria, Farmitalia, fu venduta da quello che Minerva e Monfardini chiamano il bagnino, al secolo Carlo Sama, amministratore delegato di Montedison, a una società svedese all’inizio degli anni ’90. I duemila miliardi di lire ricavati servirono a coprire i debiti maturati dal grande gruppo industriale a causa di una gestione dissennata, che tanta parte ebbe in quel rapporto malsano con la politica noto come Tangentopoli.

La storia di Bonadonna e di Farmitalia non è originale. Ricalca, con una singolare analogia, quella della Divisione elettronica della Olivetti che, negli stessi anni ’60, aveva messo a punto il primo calcolatore a transistor del mondo e, subito dopo, il primo personal computer. La Divisione elettronica dell’Olivetti, diretta da Mario Tchou, dette all’Italia la possibilità di svolgere un ruolo da leader nel nascente mercato dell’informatica, proprio come Bonadonna e Farmitalia dettero all’Italia la possibilità di svolgere un ruolo da leader nel nascente mercato dei farmaci anti- tumorali. Ironia della sorte, la Divisione elettronica dell’Olivetti fu dichiarata un «cancro da estirpare» da Vittorio Valletta e svenduta a una società americana, proprio come Farmitalia fu svenduta alla società svedese.

L’insieme di queste storie ci dicono dell’incapacità della classe dirigente italiana, economica e politica, di cogliere i segni della modernità. Di comprendere che nell’era della conoscenza solo un modello di sviluppo industria- le fondato sulla scienza può assicurare al paese un futuro sostenibile.

La storia di Daniela Minerva e Silvio Monfardini denuncia, con parole forti ed efficaci, questa incapacità. È un’analisi che ha la forza di una proposta: per uscire dalla spirale di declino l’Italia ha una e una sola possibilità: rifondare il modello industriale, cambiare specializzazione produttiva, puntare su beni e servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunto.

Ma il libro può essere letto anche con un altro paio di occhiali. Quello della comparazione tra due anomalie italiane, di segno opposto.

Da un lato la classe dirigente economica e politica che, salvo eccezioni, da mezzo secolo almeno non comprende la modernità e rifiuta di entrare nell’era della conoscenza. È un’anomalia che non ha pari in Europa e nel mondo. E infatti l’Italia, negli ultimi venti anni, è dopo Haiti il paese che ha visto la sua economia crescere di meno al mondo.

Dall’altra la comunità scientifica italiana, piccola ma brava. Che, come facevano Gianni Bonadonna e i suoi samurai, si relaziona e si confronta ogni giorno con il resto del mondo ed è capace di offrire con buona continuità occasioni per innovare. Si tratta di un’autentica anomalia: nessun’altra comunità scientifica al mondo ottiene così tanto essendo tratta- ta così male. Malgrado tutto, ancora oggi – è questo il messaggio di Minerva e Monfardini – la comunità scientifica italiana tiene agganciato il paese al treno della modernità. Approfittiamone, finché siamo in tempo.

L’Unità 14.10.13

“Vincoli più leggeri ai Comuni virtuosi”, di Marco Galluzzo

Di solito Enrico Letta non corregge i quotidiani. Le imprecisioni, o le ipotesi sbagliate, vengono tollerate. Ieri pomeriggio no: poco dopo le cinque, il presidente del Consiglio ha ceduto ad un attimo di scoramento e postato questo tweet. Un messaggio rivolto ai media, ma anche a tutti coloro che in queste ore, anche dentro il governo, lasciano trapelare ipotesi e indiscrezioni (evidentemente anche scorrette) sulle bozze della legge di Stabilità che il governo dovrebbe adottare domani.
Ieri il premier è stato quasi interamente al lavoro sulla preparazione del provvedimento. Ha avuto contatti con il ministro dell’Economia Saccomanni e con altri membri dell’esecutivo: quella di domani è nella mente del capo del governo una manovra che dovrà servire a stimolare la crescita interna, agganciare la ripresa già in atto nel resto della Ue, stabilizzare infine la maggioranza, ed eventualmente rilanciarla, intorno ad obiettivi condivisi.
Nelle prossime ore Letta tornerà a sentire anche sindacati e imprese, per arrivare ad un punto di equilibrio che coinvolga non solo la maggioranza parlamentare. Le ultime indiscrezioni sul provvedimento (se corrette) accontenterebbero i sindacati nel definire maggiore il taglio del cuneo fiscale per i lavoratori, piuttosto che per le imprese, ma al contempo l’entità complessiva dell’intervento, spalmato su tre anni, non dovrebbe essere lontano da quei 10 miliardi chiesti a gran voce da Confindustria.
Si fa sempre più insistente infine la possibilità di un intervento corposo, intorno ai 2 miliardi di euro, sul patto di stabilità interno: un allentamento dei vincoli di bilancio per gli enti locali, che da due anni lamentano di non potere spendere nemmeno soldi che hanno in cassa, finalizzato alle spese per investimenti produttivi, ovviamente tenuti fermi i vincoli di bilancio che derivano dal patto di stabilità europeo. Le tipologia di spese per investimenti che verranno «liberate» sono in queste ore oggetto di confronto con Saccomanni e la Ragioneria generale dello Stato.
Oltre al lavoro sulle misure economiche, ieri Letta ha anche sentito i vertici delle nostre forze armate, il ministro della Difesa, Mario Mauro. Oggi pomeriggio infatti, a Palazzo Chigi, si terrà un vertice per definire i dettagli della missione militare umanitaria nel Mediterraneo, annunciata due giorni fa. Alla riunione parteciperanno i ministri degli Esteri, della Difesa e degli Interni.
Ieri l’agenzia Standard & Poor’s ha promosso la fiducia ottenuta due settimane fa dal governo, ma ha avvertito che in Italia «molto resta da fare» in termini di riforme e rilancio dell’economia. Il giudizio è stato espresso dal responsabile per i rating sovrani di Europa e Medio Oriente dell’agenzia di classificazione, Moritz Kraemer, in occasione di un seminario svoltosi a margine dei lavori del Fondo monetario internazionale a Washington. «Il fatto che il governo sia rimasto al suo posto», ha osservato l’economista, «è apprezzabile, ma da solo non risolve i problemi del Paese», per il quale «restano rischi al ribasso», nonostante la situazione «si stia un pò stabilizzando».
Domani mattina Letta sarà ad Ancona, dove presiederà un vertice intergovernativo con la Serbia. Nel pomeriggio, in Cdm, ci sarà il rush finale sulla legge di Stabilità. Mercoledì invece il premier arriverà a Washington, dove il giorno dopo vedrà il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama e parlerà a una platea selezionata della Brookings Institution.

Il Corriere della Sera 14.10.13

“Piccoli bulli crescono in tempi di crisi”, di Carlo Buttaroni

Benvenuti nel mondo dei giovani senza identità, dove le storie di vita s’incrociano, dove innocenza e violenza si mescolano senza soluzione, dove il disagio è negli sguardi anche di chi ha l’aria sfrontata e l’atteggiamento da «bullo». Benvenuti nel mondo dei giovani oltre i limiti, bambini diventati adolescenti sulle note del Grandefratello, con i sogni presi in prestito da una pubblicità che trasforma la vita in un videogame e i sentimenti condensati sul display di un cellulare. Giovani cresciuti sotto il segno della globalizzazione, della comunicazione mobile, di internet e delle classi multietniche. Lo abbiamo immaginato come un mondo di speranze, lo abbiamo scoperto carico di incognite. Benvenuti nel mondo dove vittime e carnefici si nutrono dello stesso disagio, condividono le stesse paure e le stesse insicurezze. E insieme percorrono il miglio verde che separa la vita dalla sua dissolvenza. L’ultimo tratto di strada di una generazione sulla quale nessuno ha investito nulla. Non i politici, alla ricerca di consensi e voti; non i media, perché ci sono copie da vendere e obiettivi di audience da raggiungere; non gli uomini di economia e di azienda perché ci sono obiettivi di mercato da conservare; non gli intellettuali, troppo distratti dai primi tre. Benvenuti in un mondo nel quale ogni istante equivale all’altro, dove vivere il presente con la massima intensità consente di seppellire l’angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che si perde di vista il senso della vita. Un’angoscia che si traduce nell’incapacità di elaborare un pensiero che consenta di uscire dal suo effetto collaterale più evidente: vivere la vita in uno stato di costante precarietà. Benvenuti nel mondo dei giovani alla deriva, ospiti di un mondo che non offre certezze, se non condizioni di vita peggiori dei loro padri. E che non avranno in dote nemmeno la democrazia che abbiamo conosciuto, figlia dei grandi movimenti e delle grandi sfide del 900, ma una post-democrazia dove una finanza senza regole distrugge quote di ricchezza reale e spazi di democrazia sostanziale. Benvenuti nel mondo dei giovani indifesi di fronte ai conflitti e agli inevitabili negoziati della vita. All’inizio li guida il desiderio di vivere svincolati da qualsiasi condizionamento. Poi emerge il bisogno di scoprirsi entità autonome e pensanti. Infine, la scoperta che la vita non può essere che un compromesso tra desideri e necessità. Vivono gli affanni di una precarizzazione che avvolge tutti i campi della vita, che li spinge ad appiattirsi in un eterno presente, dove ogni istante equivale all’altro e alimenta il timore che ogni progetto possa trasformarsi in un insuccesso, tanto più doloroso quanto più inizialmente coinvolgente. Inciampano fra detriti di sogni troppo precocemente infranti, rassegnati a un deficit di speranza che li porta per usare le parole di Sartre a scegliere tra non essere nulla o fingere quello che si è. L’insoddisfazione diventa ansia e altre volte paura, e li spinge a cercare nuovi esasperati riferimenti che permettano di esorcizzare la realtà che vivono come estranea e distante. Continuamente sollecitati a diventare predatori dell’ambiente che vivono, ma che gli è pericolosamente ostile, tendono a rompere gli argini, a spingersi verso un «oltre» che spesso significa esplorare nuovi territori e nuove forme di relazione che permettano loro di trovare un surrogato d’identità. Un’esistenza che non ha nulla da offrire se non l’illusione dell’apparire e la pubblicizzazione dell’intimità, che nettamente differiscono dal «cielo stellato» e dalla «legge morale» connesse alla consapevolezza di andare citando Paul Valéry «senza dei verso la divinità». Giovani in apnea per i quali la trasgressione è un limite continuamente da superare, il cui esito si deposita in un bagaglio di esperienze intorno alle quali tende a disporsi un’esistenza frammentata, dove il pensiero e l’azione non sono l’uno conseguenza dell’altro ma elementi sconnessi e scoordinati. Un’esistenza che esprime una socialità imperfetta e provvisoria. Anche se non sempre ne sono coscienti, i giovani stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che segnano la loro età, ma perché un ospite inquietante penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti. Un sentimento che sembra gettarli in un’impotenza assoluta di fronte al futuro. Per questo solo il presente ha senso. Un perdita che si traduce nell’incapacità di elaborare un pensiero che consenta di uscire dal suo effetto collaterale più evidente: vivere la vita in uno stato di costante incertezza. Le modificazioni psichiche che intervengono con il deterioramento delle relazioni sono vistose e per nulla equivoche. L’aggressività distruttiva che avvolge una quota consistente di giovani è una patologia psichica, ma anche sociale. Si alimenta dell’insicurezza, di frustrazioni precoci ed eccessive, di gravi limitazioni allo sviluppo. Un disagio che prende le mosse da una società che ha profondamente rinegoziato il proprio ruolo con il principale obiettivo di tenere basso il livello del conflitto interno, proponendo regole molto pratiche e molto vaghe, cessando quasi completamente di trasmettere i valori della storia e del sacro, di definire il giusto e l’ingiusto, ma solo l’opportuno o l’inopportuno. Una società che educa costantemente a una «socialità amorale», spogliata di ogni competenza relazionale e di quell’educazione alle emozioni che dovrebbe accompagnare l’adolescente alla vita adulta. Il venir meno di molti aspetti conflittuali nel rapporto tra adulti e adolescenti, più che un indice di coesione e vicinanza generazionale, è il riflesso di una società che evita il confronto, che non dispone più di un alfabeto emotivo da trasmettere, che predilige l’omologazione e l’impersonalizzazione. Una società che educai giovani a quel progressivo estraniamento dalla vita altrui che gli impedisce di riconoscere il prossimo, di comprendere le sue emozioni, le sue gioie e le sue sofferenze. Benvenuti nel mondo dei giovani che si nutrono dell’anima di altri giovani. Pensavamo fosse la generazione che aveva tutto, salvo scoprire che quel «tutto» ha avuto un prezzo molto elevato: la grande solitudine di un «io in fieri» e l’incapacità di saper ascoltare la vita che avanza, di guardarla negli occhi e di chiamarla per nome.

L’Unità 14.10.13

“Quei cinquecento euro in più guadagnati da chi si laurea e va via”, di Alessandra Dal Monte

Mille e trecento euro netti al mese a quattro anni dalla laurea. È lo stipendio medio dei «figli della crisi», i giovani italiani che hanno finito gli studi universitari (triennali) nel 2007 e che si sono immessi nel mondo del lavoro in concomitanza con l’inizio della recessione economica mondiale. La maggior parte di questi ragazzi ha trovato un posto, una piccola parte no — e si va ad aggiungere a quel milione di giovani tra i 16 e i 24 anni che oggi in Italia non sta né studiando né lavorando —, ma in generale i laureati italiani hanno pagato lo scotto della crisi più dei coetanei di altri Paesi.
Lo dimostra l’elaborazione degli ultimi dati Istat sull’inserimento professionale dei laureati (relativi al 2011) curata da Carlo Barone, docente di Sociologia all’Università di Trento. Il risultato è che, a quattro anni dal titolo, chi è andato all’estero prende quasi 1.800 euro netti al mese (1.783, per l’esattezza), mentre chi è rimasto in Italia ne guadagna 1.300. Certo, con dei distinguo di area geografica e disciplina: nel Nord Italia lo stipendio medio è di 1.374 euro al mese, al Centro di 1.306, nel Sud e nelle isole scende a 1.218. Le lauree sanitarie sono quelle più redditizie al Nord e al Centro, mentre al Sud rende di più l’ingegneria informatica .
Gli studi meno remunerativi al Nord sono quelli di Educazione, formazione e psicologia, mentre al Centro e al Sud si guadagna meno con le lauree in Lettere, Arte, Lingue, Storia e Filosofia. «Nel complesso la forbice di guadagno tra i diversi corsi di laurea triennali è abbastanza compressa: si aggira tra i 300 euro netti al mese. Una maggiore differenza si rileva con i titoli specialistici — spiega il professore —. E non è nemmeno vero che le lauree umanistiche e quelle scientifiche producono divari di stipendio così grandi: a eccezione di Ingegneria e Medicina, al Nord un veterinario prende 27 euro in più al mese di un laureato in Lettere».
Ma al di là delle variazioni tra discipline, restano due fatti: c’è ancora un enorme divario di genere, le ragazze prendono in tutti i settori meno dei ragazzi. «Un retaggio inspiegabile e che deve essere subito superato», dicono in coro recruiter e analisti. E gli stipendi italiani sono bassi. «Colpa dei pochi posti qualificati che offre il nostro mercato del lavoro: sono rimasti uguali a 30 anni fa, ma i laureati nel frattempo sono aumentati. E anche se c’è stato un calo degli iscritti negli atenei negli ultimi tre-quattro anni, comunque i ragazzi con un titolo universitario sono più dei posti a disposizione per loro. Soprattutto in certi ambiti, come quello umanistico o sociale. A causa di questo squilibrio i laureati si trovano a fare gli impiegati o gli educatori nelle cooperative, lavori che quindici anni fa si ottenevano con il diploma».
Il problema, insomma, va ben oltre la crisi. «È strutturale: bisogna creare più posti di lavoro per laureati, investendo in ricerca e nel settore della cultura — continua Barone —. Non è possibile che nel Paese più ricco di arte al mondo un laureato in Conservazione dei beni culturali non trovi lavoro o venga pagato una miseria». «Poi non ci si stupisca se i nostri laureati emigrano», rincara la dose Alessandro Rosina, docente di Demografia e statistica sociale all’Università Cattolica di Milano, che oggi parteciperà a «Quale Italia?», il convegno organizzato dalle associazioni People in Touch e Cultura&Solidarietà per presentare questi e altri dati sul mercato del lavoro in Italia. «Gli stipendi così bassi a diversi anni dalla laurea non si spiegano solo con la crisi. Il problema è la mentalità sbagliata dell’Italia, che non valorizza il capitale umano: invece di investire sui giovani, sulle loro idee e sulle loro capacità, il nostro sistema produttivo preferisce mantenere basso il costo del lavoro, pagando poco le persone e trattandole come manodopera usa e getta».
La conseguenza, secondo il professore, non è solo la fuga dei cervelli: «Così il Paese non riprenderà a crescere. È un cane che si morde la coda: l’Italia non valorizza i giovani perch é non cresce, ma se non cresce è anche perché non punta sulle nuove leve. Bisogna interrompere il circolo vizioso che trasforma i giovani da risorse a un costo sociale». Già, perch é un ragazzo che guadagna poco o che non lavora pesa sulla famiglia e sulla collettività. Che fare? «È necessario investire in politiche attive per il lavoro, cioè servizi di formazione continua e di ricollocazione, per mantenere sempre attivi i giovani sul mercato».
A insistere sul valore del capitale umano sono anche gli esperti di recruiting come Nicolò Boggian, cacciatore di teste: «La differenza la fanno le persone, bisogna investire su di loro. I Paesi che vanno meglio puntano su giovani e donne, l’Italia deve allinearsi» .

Il Corriere della Sera 14.10.13

“Apprendimento permanente e competenze dei cittadini”, di Fabrizio Dacrema

La prima indagine Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) dell’Ocse sulle competenze dei cittadini di 24 paesi in età compresa tra 16 e 65 anni conferma il grave deficit formativo italiano. Lo studio ha misurato le competenze linguistiche e matematiche della popolazione adulta e ha messo in evidenza per l’Italia una pesante situazione di analfabetismo funzionale, cioè l’incapacità di utilizzare le abilità di lettura, scrittura e calcolo in modo adeguato per lavorare e vivere nella società contemporanea. L’Italia, infatti, si colloca all’ultimo posto nelle competenze linguistiche e al penultimo in quelle matematiche. I risultati non dovrebbero stupire: il 45% degli italiani tra 25 e 64 anni arriva al massimo alla licenza media contro una media OCSE del 27%, mentre i laureati tra 55 e 64 anni sono il 10% contro il 22% OCSE e quelli tra 25 e 34 anni sono il 20% contro il 37% OCSE. Inoltre gli adulti che accedono alla formazione sono solo il 6% e l’obiettivo europeo di averne almeno il 15% entro il 2020 appare molto lontano. Stupisce quindi lo stupore del Ministro Giovannini, già Presidente dell’Istat, di fronte a questi pessimi risultati italiani, stupisce anche che il Ministro si limiti a denunciare i rischi di inoccupabilità dell’ampia fascia della popolazione con competenze insufficienti. Sarebbe ovviamente più opportuno che il Ministro si impegnasse a prendere provvedimenti adeguati, a partire dalla rapida attuazione delle legge 92/2012 sulla costruzione del sistema nazionale per l’apprendimento permanente. L’iniziativa a proposito del Ministero del Lavoro brilla invece per inerzia. Peggio ancora ha fatto Andrea Ichino in un articolo con cui attribuisce la responsabilità dei risultati negativi interamente al malfunzionamento della scuola nella quale, secondo il professore, non si dovrebbe investire di più perché si spende già troppo, arrivando perfino a rimproverare il governo per i timidi 400 milioni racimolati per finanziare il decreto scuola. Al di là dei dati riportati nell’articolo sulla spesa italiana per l’istruzione, tutti comunque al di sotto di sotto della media OCSE, compresi quelli relativi alla spesa per alunno (per i quali, per altro, non si ricorda l’influenza di specificità italiane come gli insegnanti di sostegno ai disabili, la struttura geomorfologica del territorio, …), Ichino non tiene conto che l’indagine riguarda le competenze della popolazione adulta che sono acquisite anche e soprattutto in contesti non formali e informali e che deperiscono nel corso del tempo se non sono continuamente esercitate e aggiornate. Questo spiega, ad esempio, perché, come rileva l’indagine, i laureati italiani hanno livelli di competenza pari ai diplomati di altri paesi sviluppati: nel corso della vita attiva hanno meno opportunità di mantenere le competenze acquisite con la formazione iniziale e di acquisirne nuove. Per comprendere la situazione disastrosa in cui versa il Paese, allora, non è sufficiente prendere in considerazione i limiti della formazione iniziale (dispersione scolastica e universitaria, livelli di apprendimento spesso al di sotto delle medie internazionali). Occorre individuare anche l’altra ragione del basso livello di competenza italiano: il numero ridotto di adulti (6% nella fascia di età 25-64anni) che partecipano alle attività di formazione, a partire dai posti di lavoro. Secondo l’ultimo rapporto ISFOL sulla formazione continua le imprese che nel 2011 hanno effettuato, internamente o esternamente, corsi di formazione sono il 35%, circa la metà della media europea e la situazione era la stessa anche prima della crisi. Complessivamente il sistema produttivo italiano è povero di conoscenza, investe poco in ricerca, fa poca formazione, assume pochi lavoratori qualificati e ha una struttura occupazionale arretrata, composta ancora dal 36% di basse qualifiche e solo dal 17% di alte qualifiche contro una media europea rispettivamente del 22% e del 29%. Non serve quindi “accusare” i cittadini di non essere occupabili e nemmeno ha senso ridurre il problema all’insufficiente efficacia di scuola e università, occorre invece intervenire per invertire la spirale negativa che sta facendo declinare il paese, fatta, per un verso, da un sistema produttivo poco innovativo che domanda e forma poche competenze, e per l’altro, da uno skill gap della popolazione attiva che frena lo sviluppo della produttività e dell’innovazione. Il Piano del Lavoro della CGIL indica un percorso per uscire da questo circolo vizioso, rivendica una politica economica basata sulla valorizzazione della qualità del lavoro e il superamento dei ritardi nell’innovazione connessa a investimenti e riforme finalizzati a innalzare i livelli di istruzione dei cittadini e a realizzare, finalmente anche nel nostro Paese, il diritto all’apprendimento permanente. Se sono urgenti immediati sgravi fiscali diretti ai lavoratori e ai pensionati per riattivare la domanda e contrastare la recessione, è altrettanto necessario che gli interventi a favore delle imprese non siano generiche riduzioni del cuneo fiscale ma incentivi agli investimenti, all’innovazione, all’assunzione di giovani qualificati. Se il recente decreto scuola ha individuato corrette priorità di intervento per avviare la ricostruzione inclusiva dei sistemi della conoscenza, i circa 400 milioni stanziati sono davvero una cifra inadeguata e che rende ancora più evidente il bisogno di una redistribuzione che trasferisca risorse dalle rendite agli investimenti nella conoscenza. Infine, in modo davvero sorprendente, quasi nessun commento all’indagine ha indicato lo strumento più immediato per fronteggiare la pesante situazione di analfabetismo funzionale: potenziare gli interventi di formazione degli adulti attraverso la costruzione di un sistema nazionale dell’apprendimento permanente. La legge 92/2012 e la normativa applicativa già approvata permettono di cogliere oggi questa opportunità, ma il governo sta perdendo tempo. La CGIL da tempo (vedi legge di iniziativa popolare sul diritto all’apprendimento permanente) ha messo al centro della propria iniziativa questo tema e ora, insieme alle altre organizzazioni sindacali, ha chiesto l’apertura immediata di un tavolo di confronto. Occorre sperimentare da subito, insieme ai progetti assistiti dei nuovi Centri per l’istruzione degli adulti, la rete territoriale dei servizi per l’apprendimento permanente al fine di utilizzare da subito, in modo integrato e programmato, le risorse, a volte anche significative, provenienti dai finanziamenti statali, regionali europei e dai Fondi Interprofessionali. Si tratta di cominciare a spendere meglio le risorse, oggi disperse in mille rivoli spesso improduttivi, per rispondere alle ampie e urgenti esigenze poste dalla crisi (aggiornamenti, riconversioni, sostegno alle transizioni lavorative,…) e dalla situazione sociale (NEET, analfabetismo funzionale, immigrati, invecchiamento attivo,…). Allo stesso modo è già oggi possibile (le norme sono già tutte approvate) dare un impulso decisivo alla costruzione di un sistema nazionale pubblico di certificazione delle competenze che garantisca ai cittadini e ai lavoratori il riconoscimento delle competenze comunque acquisite, anche attraverso le esperienze di lavoro e di vita. Alcune regioni hanno già meritoriamente iniziato ma la spendibilita’ delle competenze da loro validate è riferita solo al territorio regionale. Manca ancora un quadro unitario nazionale di riferimento (repertorio nazionale delle qualificazioni), i ministeri competenti (lavoro e istruzione) e la conferenza delle regioni, in presenza di una crisi così drammatica, dovrebbero lavorare spediti, invece si procede a rilento. Non mancano, purtroppo, resistenze da parte delle organizzazioni di rappresentanza dei datori di lavoro, timorose degli effetti, anche retributivi, di valorizzazione del lavoro derivanti dalla certificazione delle competenze. Una resistenza miope, non presente nei paesi europei e nelle imprese che crescono e sono competitive puntando sull’innovazione e la qualità del lavoro. Sviluppo e riconoscimento delle competenze delle persone che lavorano rappresentano, infatti, nell’economia della conoscenza un interesse comune di imprenditori e lavoratori e uno dei principali fattori per un nuovo modello di sviluppo.

da scuolaoggi.org

“Diritto all’asilo e alla sicurezza”, di Tito Boeri

Almeno 6.772 persone, quasi 2 al giorno, sono morte negli ultimi 10 anni nell’attraversamento del Canale di Sicilia, in cerca di asilo. È una stima per difetto perché di molti barconi e persone inghiottite dal mare non si è mai avuto notizia. Il presidente del Consiglio Letta ha annunciato, da oggi, un impegno straordinario del nostro Paese con missioni navali ed aerei per rendere il Mediterraneo il mare più sicuro
possibile. Speriamo che serva almeno a contenere questa macabra contabilità. Qualche ragione per dubitarne purtroppo c’è. Molti affondamenti sono coincisi proprio con l’avvistamento di una nave o di un aereo, per via della concitazione a bordo di imbarcazioni sovraffollate. Già prima del naufragio dell’Isola dei Conigli erano state salvate, secondo i siti specializzati, circa 2.200 persone: quindi i pattugliamenti c’erano già e non hanno evitato quelle stragi. Il fatto è che il monitoraggio, per quanto accurato, non riesce a identificare piccole imbarcazioni alla deriva, specie in condizioni meteorologiche avverse. Infine, anche se il piano funzionasse davvero, rendendo il mare un po’ più sicuro c’è sempre il rischio di spingere più persone a mettersi in mare su imbarcazioni di fortuna con il risultato, alla fine, di aumentare il numero dei morti anziché ridurlo.
Bisogna quindi fare di più se vogliamo che il sentimento di vergogna per queste morti si trasformi in energia positiva. Molto spetta all’Europa, ma non deve essere un alibi perché abbiamo parecchio lavoro da fare anche da noi.
Cominciamo dall’Europa. Nelle ultime settimane, grazie anche alle pressioni del governo italiano, ci sono stati segnali di una maggiore attenzione che in passato. Bene approfittarne. Date le proporzioni del conflitto in Siria e il numero di potenziali richiedenti asilo (si parla di 2 milioni), ci sono gli estremi per richiedere un regime di protezione temporanea per gestire la crisi. Questo significa spartire l’onere di fornire asilo fra i paesi membri, alleggerendo quelli di frontiera. È un principio giusto perché è opportuno condividere non solo l’onere di protezione delle frontiere (e a tal fine bisognerebbe rifinanziare Frontex e coprire anche le missioni italiane di questi giorni), ma anche quello di accoglienza. Prendendo queste decisioni a livello europeo, è possibile sottrarle alla demagogia di politici locali che vogliano cavalcare i sentimenti anti-immigrati latenti nell’elettorato. Degno di nota il fatto che i paesi che hanno ristretto maggiormente le politiche d’asilo negli ultimi anni sono proprio quelli cui non si applicano le direttive comunitarie sull’asilo, come il Regno Unito, mentre in Norvegia il partito uscito vincente dal voto sta
stringendo un accordo con l’ultradestra xenofoba attorno al restringimento delle politiche d’asilo. Per gestire la protezione temporanea bisognerebbe creare un fondo di solidarietà a livello europeo, sapendo che la concessione dell’asilo ha costi non indifferenti (si stima il costo dei 26 mila richiedenti asilo in Italia nel caso dell’emergenza Nordafrica in circa un miliardo e 400 milioni nel giro di due anni).
Ma anche il cosiddetto burden sharing (condivisione degli oneri dell’asilo) non risolve il problema delle morti nel Mediterraneo perché interviene solo ex post, una volta che queste persone sono arrivate in qualcuno dei paesi dell’Unione, con tutti i rischi che questo viaggio della speranza comporta. Né sembra possibile organizzare esodi di massa dai paesi in conflitto, dato il numero potenzialmente incontrollato delle persone che ne potrebbero trarre vantaggio e la stessa indeterminatezza circa i paesi in conflitto (molti dei disperati arrivati a Lampedusa provenivano dall’Eritrea, non dalla Siria). Serve, invece, dare la possibilità di formulare domanda di asilo ancora prima di mettersi in viaggio verso l’Unione. Questo permetterebbe a molti di viaggiare in condizioni più sicure: oggi il viaggio in aereo viene reso impossibile non tanto dai costi (i sopravvissuti raccontano di 1.500 o 2.000 euro pagati per salire sulle navi delle morte, molto di più di quanto costerebbe un regolare biglietto d’aereo), ma dal fatto che le compagnie aree si rifiutano di accogliere a bordo chi non ha un visto per paura di incorrere in sanzioni e oneri di rimpatrio. Inutile sottolineare che, anche in questo caso, è molto probabile che ci sia un numero altissimo di domande d’asilo. Bisognerebbe perciò porre dei limiti alle domande che possono essere accolte e stabilire dei meccanismi di selezione, ad esempio in base alla gravità del conflitto, alla presenza di bambini o anziani fra i richiedenti, eccetera… Questo comporta un cambiamento non piccolo della normativa comunitaria che oggi attribuisce un diritto soggettivo all’asilo da parte di chiunque metta piede sul territorio dell’Unione fuggendo da una zona di guerra. È una normativa che era stata creata per gestire i piccoli numeri dei rifugiati politici, non i milioni di persone che hanno la sfortuna di vivere in aree in conflitto. Bene prenderne atto e porvi rimedio prima che venga del tutto annullato il diritto d’asilo per via delle reazioni dell’opinione pubblica, come avvenuto in Germania con la cancellazione di norme costituzionali dopo l’arrivo di 500 mila rifugiati bosniaci. Fondamentale anche che l’Unione aiuti i paesi ai confini delle aree in conflitto, come la Giordania, in cambio della loro cooperazione nella gestione dell’emergenza profughi.
Mentre l’Europa deve costruire le sue politiche d’asilo e dotarsi di un fondo di solidarietà per gestirle, noi dobbiamo rimettere mano alle nostre politiche dell’immigrazione economica, che portano anch’esse una responsabilità non indifferente nel cimitero Mediterraneo perché molte vite umane troncate sono di persone che non fuggivano dalla guerra ma dalla miseria. In questi giorni si parla molto di abolire la Bossi-Fini e soprattutto il reato di immigrazione clandestina. Sono scelte condivisibili, ma irrilevanti nel gestire l’emergenza umanitaria. Il reato di immigrazione clandestina non è in realtà quasi mai applicato. Ha il solo effetto, imponendo sanzioni inesigibili, di appesantire il lavoro dei nostri Tribunali. Sacrosanto toglierlo dal nostro ordinamento, ma sapendo che è un problema che ha a che fare più con la riforma della giustizia che con la riforma delle politiche dell’immigrazione. Quanto alla Bossi-Fini, credo di essere stato uno dei primi a denunciarne l’inadeguatezza e la demagogia. Ma ciò che va cambiato nelle nostre leggi di immigrazione per evitare nuove stragi in mare, ha a che vedere con norme che erano già nelle leggi antecedenti, a partire dalla Turco-Napolitano. Si tratta dell’ipocrisia secondo cui è possibile trovare un lavoro agli immigrati quando sono ancora nel paese di origine. Come se avessimo centri dell’impiego che funzionano nell’Africa sub-sahariana, quando non riusciamo a far funzionare neanche quelli di molte regioni italiane. Questa ipocrisia impone agli immigrati di arrivare illegalmente da noi, con mezzi di fortuna e ricorrendo a scafisti senza scrupoli. Bisognerebbe, invece, permettere un numero di ingressi realistico, che tenga conto delle esigenze non solo delle imprese ma anche delle famiglie italiane, e permettere alle persone che vogliono lavorare in Italia di arrivare da noi con visti temporanei, finalizzati alla ricerca di un posto di lavoro.

La Repubblica 14.02.13

Il corpo del boia che non trova sepoltura”, di Benedetta Tobagi

Secondo i regolamenti, Priebke dovrebbe essere sepolto a Roma, punto. Stando a una deliberazione comunale del 1979, infatti, nei cimiteri capitolini “hanno diritto di seppellimento le salme di persone morte nell’ambito territoriale del Comune, qualunque ne fosse stata in vita la residenza”. E tuttavia, credo siano in molti a provare un’istintiva adesione alla presa di posizione del sindaco e alla richiesta della comunità ebraica romana, che la sua tomba sia per lo meno fuori dalla città.
V’è una ragione profonda, per questo, un sentimento che tocca corde abbastanza antiche da poter far prendere in considerazione una possibile deroga al regolamento amministrativo senza sdegno, né scandalo, né timore di regressioni a pericolose passioni arcaiche.
Mi pare necessario sottolineare, in primo luogo, che in gioco non c’è qualche scandalosa tentazione di scempio del cadavere, né alcuno ha invocato di applicare una qualche legge del taglione per cui alla salma di Priebke dovrebbe essere riservato lo stesso destino che per sua responsabilità ebbero i 335 assassinati alle Fosse Ardeatine, abbandonati sotto le volte crollate della cava, “sotterrati, non sepolti”, come scrisse lo storico Alessandro Portelli nel bellissimo saggio di storia orale L’ordine è già stato eseguito. Cioè privati dell’identità e nascosti per cancellare traccia del delitto, come già decine e decine di migliaia di altre vittime scaricate in fosse comuni in tanti altri luoghi d’Europa, forma estrema di deumanizzazione dei corpi e sfregio al bisogno dei sopravvissuti di avere una salma da piangere e affidare alla terra come passaggio indispensabile nell’elaborazione del lutto (ai sopravvissuti fu invece inflitta la sofferenza aggiuntiva di dover disseppellire l’ammasso di cadaveri e lottare per avere la possibilità di riconoscerli). Niente di tutto questo: come l’ufficiale nazista ha avuto un regolare processo, con tutte le garanzie, così non gli si vuole negare il diritto a una sepoltura. In discussione è però il luogo ove essa si troverà. La questione è spinosa: l’Argentina, ad esempio, dove Priebke visse nascosto per anni, ha dichiarato di non volersene far carico. Se la querelle si protrarrà troppo a lungo, oltre ai risvolti grotteschi ne risulterebbe paradossalmente ingigantita la figura del carnefice.
Roma, luogo dell’eccidio, è uno spazio simbolico carico di memorie, che sono emotivamente sovraccariche – a causa della violenza inaudita dell’eccidio, della presenza di molti famigliari delle vittime delle Ardeatine e di altre violenze perpetrate dai nazisti, di una comunità ebraica che s’appresta a commemorare le deportazioni nei campi di sterminio – e ancora profondamente divise, come attestano tra l’altro le scritte filonaziste comparse all’indomani della morte di Priebke. “A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti” scrisse Foscolo nei Sepolcri, ma le tombe, purtroppo, catalizzano passioni civili e politiche non solo positive. Fino all’ultima intervista nota, Priebke non ha mostrato pentimento, anzi, ha propalato addirittura tesi negazioniste: questo lo rende una sorta di polo magnetico da cui continua a promanare, come una forma di radioattività, il richiamo malefico di un’ideologia di morte mai rinnegata. Il pensiero delle code di nostalgici in visita al mausoleo di Mussolini a Predappio legittima la preoccupazione che la tomba possa diventare luogo di convegno per nostalgici del nazifascismo. Il rischio che questo accada c’è dovunque, ma può essere depotenziato se la sepoltura non si trova in un luogo particolarmente significativo, noto, frequentato o riconoscibile.
L’irriducibile fedeltà di Priebke al proprio passato lo pone in conflitto con i valori fondanti della società in cui viviamo, ma soprattutto rappresenta la negazione della più elementare forma di riconoscimento dovuta sia alla memoria delle vittime che ai sopravvissuti. Il riconoscimento del male compiuto e dell’umanità violata della vittima sta alla base di ogni forma autentica di pentimento, religioso o meno. Non a caso, esso è passaggio centrale nei percorsi di mediazione penale, in ogni esperienza di pubbliche commissioni per la verità e la riconciliazione. Il rispetto della dignità dell’uomo, di ogni uomo, è ciò che rende diversi da chi, come i nazisti, l’ha negata, distrutta e umiliata con parole e azioni, per cui: sia Priebke sepolto dignitosamente come spetta a ogni essere umano. Anche in Italia, se la madrepatria tedesca rifiutasse di accoglierne le spoglie. Tuttavia, non dimentichiamo quanto la separatezza sia connaturata al senso di sacralità; la stessa parola “tempio” deriva da temenos, “recinto”: uno spazio che dev’essere preservato dalla contaminazione e dalla profanazione. Per questo turba pensare che nel temenos dell’Urbe, dove riposano le vittime delle Fosse Ardeatine, “martiri” nel linguaggio della religione civile italiana, entri anche un carnefice fedele al proprio passato. Garantire alle vittime una qualche forma di separatezza, che la sepoltura non sia proprio a Roma, all’interno dello stesso spazio simbolico, è una forma di sensibilità. Un piccolo segno che non si può né si vuole cancellare lo sfregio del mancato riconoscimento – delle vittime e della verità storica – che s’aggiunge all’orrore della strage.

La Repubblica 14.10.13