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“La rivolta dei senatori 5 Stelle. E Grillo finisce in minoranza”, di Claudia Fusani

Un leader politico delegittimato. E un guru commerciale che comincia a essere sospettato di eccesso di cinismo. Qua e là il dubbio che Grillo e Casaleggio, in costante tensione elettorale, annusino l’aria e abbiano capito che stavolta i voti i Cinquestelle li possono raccattare più a destra che a sinistra. Dove l’iniziativa di abrogare il reato di immigrazione clandestina risulta indigeribile. Nonostante le cronache di tragedie quotidiane. È quello che rimane nelle riflessioni dei cittadini-parlamentari pentastellati il giorno dopo la sconfessione pubblica, via blog, di Grillo e Casaleggio dei senatori Cinquestelle che hanno avuto l’idea di cancellare il reato di immigrazione clandestina trovando l’appoggio politico di Pd, Scelta civica e Socialisti.
Giovedì sera l’assemblea parlamentare dei grillini è stata più veloce del previsto, prima delle 23 tutti a casa, tre ore scarse. Nessuno strappo interno e totale sostegno all’emendamento di Andrea Cioffi e Maurizio Buccarella. Semmai il giorno dopo emergono «stupore» per un leader politico «che esterna senza sapere come hanno lavorato le sue truppe». E «posizioni diverse», per non dire «ideali opposti» rispetto al Grillo pensiero. Per evitare dannose piazzate, l’assemblea non ha votato e ha rinviato a un incontro con Grillo e Casaleggio che avverrà «entro la prossima settimana» (è probabile venerdì) e nella solita «località segreta» perché i panni sporchi vanno lavati in casa e in un orario che non danneggi l’attività parlamentare. Ma l’incontro di cui sopra rischia di arrivare troppo tardi. Non tanto perché il provvedimento che cancella il reato di immigrazione clandestina possa diventare legge prima di venerdì. Bensì perché la cronaca incalza, il canale di Sicilia consegna cadaveri e barconi di disperati. E i Cinquestelle non possono permettersi di indugiare su un provvedimento come questo per le bizze e/o i ripensamenti del Capo.
Insomma, stavolta Grillo sembra averla fatta grossa. E la sua ossessione di stare «contro» e «fuori da tutto» (voto contrario anche ieri mattina sulla legge contro il femminicidio) rischia di diventare insostenibile per i parlamentari. Soprattutto per i senatori, la squadra che ha perso più pezzi in questi sette mesi di legislatura (cinque su 53, tre di loro Anitori, De Pin, Gambaro, da ieri hanno dato vita a una nuova componente nel gruppo misto, il Gap, gruppo azione popolare). Andrea Cioffi è tra i più integralisti tra i grillini. Eppure non ha avuto dubbi nello smentire pubblicamente il suo leader. «Sono sereno perché l’emendamento è stato condiviso da tutti i senatori», ha detto mostrando il verbale della riunione a palazzo Madama. S’aggira una domanda. Più che pertinente: «Come mai Grillo non ne sapeva nulla visto che un suo uomo fidatissimo come Claudio Messora è responsabile comunicazione proprio qui al Senato?».
TUTTI DISSIDENTI
Cioffi e Buccarella non mollano il punto. Non hanno cioè alcuna intenzione di ripensarci. Così i loro colleghi senatori sembrano delle stessa idea. «Prima di essere un parlamentare sono un attivista e quindi una persona. Voto secondo le indicazioni dei cittadini ma penso in proprio, secondo coscienza», scrive su Facebook il senatore Francesco Campanella. Che continua: «È criminale respingere donne e uomini che cercano di fuggire da fame, guerra, malattie. Non cercate di mettere poveri contro poveri. Chi impoverisce i nostri cittadini non sono i migranti ma i billionairs che si stanno arricchendo anche adesso mentre i nostri giovani emigrano». Ancora più chiara la senatrice Elisa Bulgarelli, che boccia l’assemblea dell’altra sera come «un’occasione sprecata», il momento per affrancarsi dal Capo. Avanti con l’emendamento e appoggio ai colleghi, ma, dice, «avrei preferito una discussione più aperta per arrivare a una decisione a fine riunione. Invece ci siamo limitati ad avallare la scelta di aspettare il confronto promesso con Beppe Grillo, troppo poco».
Quello che ha fatto infuriare i senatori grillini è stato il contenuto e il tono dei due post di Grillo. «Sicuramente promette decisa Bulgarelli chiederò spiegazioni su una frase del post che non condivido: quella sulle percentuali di voto da prefisso telefonico. Il Movimento 5 Stelle non è mai andato a caccia del consenso elettorale fine a se stesso. Mai. Lo aveva ribadito lo stesso Grillo la scorsa primavera, quando i sondaggi ci davano in calo». Contestare il capo è esercizio di democrazia. Finora nei Cinquestelle ogni divergenza è stata punita. Con l’espulsione e la messa al bando. Questa volta sembra un po’ difficile. Si ribella anche un altro purista di Grillo, il senatore Mario Giarrusso. «Il post di Grillo è inesatto dice perché dice che i senatori non sapevano quando invece tutti noi sapevamo. Il fatto è che nessuna persona intelligente può pensare che una multa di 3-4 mila euro, fatta a una persona nullatenente costituisca un deterrente a non venire in Italia». Un Capo quindi, non solo poco informato ma anche ideologico. Perché? E per conto di chi?
Critica persino un fedelissimo come Alessandro Di Battista: «Quello di Grillo è stato un post eccessivamente di pancia». E si ribella il senatore Luis Orellana, un tempo in predicato per diventare capogruppo: «Inopportune posizioni autoritarie fanno perdere autorevolezza. Peccato». Un tweet che ha il sapore del rimpianto.

L’Unità 12.10.13

“Grillo, Casaleggio e la malapolitica”, di Curzio Maltese

Per una volta a Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio possiamo dire soltanto grazie. Con il loro post, ormai giustamente famoso, sul reato di clandestinità i fondatori del movimento 5 stelle hanno infatti disvelato i meccanismi della disastrosa Seconda Repubblica e della mala politica italiana molto meglio che in centinaia di comizi. Trattandosi di persone geniali, sono bastate loro due righe.

Se avessimo proposto l’abolizione del reato di clandestinità durante le elezioni, avremmo preso percentuali da prefisso telefonico». La traduzione del Casaleggio pensiero è meravigliosamente semplice e suona così. «Noi non crediamo in nulla, non abbiamo principi, non siamo né di destra né di sinistra, come del resto abbiamo sempre detto, e non vogliamo cambiare nulla. Diciamo soltanto quello che la gente vuol sentirsi dire in quel preciso momento, per ottenere voti e consenso e poterci di conseguenza fare gli affari nostri, acquistare potere e piazzare chi vogliamo in Parlamento e ovunque. Col tempo faremo eleggere i figli in regione e le fidanzate alla Camera o alla Rai. Come prima di noi hanno fatto Bossi, Berlusconi e Di Pietro. E noi che siamo, più fessi? Il programma non c’entra niente. Sull’immigrazione (e su molto altro) non c’è neppure una parola. S’intende che se e quando la gente cambierà idea, lo faremo anche noi, secondo convenienza. L’abbiamo appena fatto sull’indulto, che invocavamo due anni fa, e sulla legge elettorale. Quando sei sempre d’accordo con la maggioranza, nessuno in questo paese ti rimprovererà mai di essere incoerente. Neppure se voti con Berlusconi e con la Lega, come abbiamo rimproverato di aver fatto al Pd e continueremo, si capisce, a rimproverargli nei secoli dei secoli. Tanto l’Italia è in rovina e non saremo certo noi a risolverne i problemi. L’unica è risolvere i nostri. Chi non è d’accordo può accomodarsi alla porta, perché se “uno vale uno” è pur sempre vero che due, Grillo e Casaleggio, valgono più di tutti voi che non eravate e non sarete nessuno. Concedere libertà alla servitù è stato fatale ai nostri maestri Bossi e Berlusconi. Tranquilli, non ripeteremo l’errore. Non per nulla abbiamo fatto depositare il marchio del partito dagli avvocati. Viva la costituzione!» .
Grazie Beppe e Gianroberto, grazie ancora e, se volete, potete aggiungere altri grazie più nel vostro stile. Era ora che qualcuno spiegasse agli italiani i meccanismi che ci hanno condotto in un ventennio a un passo dal baratro, guidati da una classe dirigente, si fa per dire, formata da capipopolo tanto popolari quanto cinici, cialtroni, reazionari e ignoranti. Grillo e Casaleggio sono soltanto gli ultimi della lunga serie. Proprio per questo, qualche speranza esiste. In fondo se si sono ribellati al padrone i leghisti e ora perfino i cortigiani di Berlusconi, forse possono farcela anche i parlamentari grillini. Magari non Crimi, ma quelli intelligenti sì. Senza contare il luminoso esempio del Pd, che continua a far fuori un leader all’anno e ora sta volando nei sondaggi con un citofono al posto del segretario. I capi che hanno sempre ragione non hanno mai portato fortuna all’Italia. Per finire, non è il caso comunque che Grillo e Casaleggio inseriscano la pena di morte nel prossimo programma elettorale. Per i clandestini in fuga dalle guerre esiste già. In Usa negli ultimi trent’anni sono morti meno assassini di quanti innocenti siano morti questa settimana nel canale di Sicilia.

La Repubblica 12.10.13

“L’ultimo oltraggio di Priebke”, di Mario Calabresi

Le ultime parole lasciate da Erich Priebke sono l’ultimo oltraggio alle sue vittime. Provocano rabbia e sgomento e il fastidio terribile di essere state pensate per colpire senza doverne più pagare un prezzo, senza esserne responsabili.

L’istinto in questi casi porta a pensare che siamo stati troppo generosi con lui, che in altri Paesi l’ergastolo l’avrebbe scontato in una cella fino all’ultimo dei suoi giorni e che se lo sarebbe meritato. Ma per non farmi contagiare dalla stessa natura di cui era fatto Priebke – l’odio – ho provato a cercare una lezione e un senso a tutto questo. La prima è che la giustizia, seppure tardi, è arrivata e quest’uomo ha avuto una doppia condanna: essere scoperto e strappato, ormai ottantenne e quando era da tempo sicuro di averla fatta franca, al rifugio di oblio che si era costruito dopo la fuga e vedersi riconosciuto colpevole da un tribunale militare italiano.

La seconda lezione è che il male assoluto è esistito e Priebke ne è stato fino a ieri, e ancor oggi con le sue ultime parole, un testimone vivente. Il male è stato nelle persecuzioni naziste, nei campi di concentramento, in un’ideologia di sterminio, nella logica delle rappresaglie e delle decimazioni e nella totale mancanza di umanità e di capacità di ripensamenti.

La storia di Priebke, che ci auguriamo si chiuda qui con un silenzio e un oblio totali, senza camere ardenti, funerali e riti di sepoltura nostalgici, ci stimola a dare il meglio. A non dimenticare, ad impegnarci per tenere viva la memoria, per trasmettere a chi è giovane e a chi deve ancora nascere gli anticorpi di fronte ai negazionismi e alle ideologie di morte.

La Stampa 12.10.13

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Morto Priebke, negò l’Olocausto fino alla fine. Il boia delle Fosse Ardeatine è deceduto a Roma all’età di 100 anni. Il suo testamento: «Le camere a gas non c’erano, solo cucine. Le prove furono inventate dagli americani». L’Anpi: «Assassino mai pentito», di Gigi Marcucci

«Io ho conosciuto personalmente i lager. L’ultima volta sono stato a Mauthausen nel maggio del 1944 a interrogare il figlio di Badoglio, Mario, per ordine di Himmler. Ho girato quel campo in lungo e in largo per due giorni. C’erano immense cucine in funzione per gli internati e all’interno anche un bordello per le loro esigenze. Niente camere a gas». Nazista fino all’ultima intervista, e probabilmente fino all’ultimo dei suoi respiri. Convinto, nonostante documenti e qualche milione di testimonianze, che la verità e Dio militassero sullo stesso versante della barricata che nel lontano 1933 lo aveva visto schierarsi con Hitler e, pochi anni dopo, indossare la divisa delle Ss. Erich Priebke, l’uomo agli ordini di Herbert Kappler che coordinò personalmente il massacro delle 335 vittime delle Fosse Ardeatine, è morto ieri a mezzogiorno nella sua abitazione romana, dopo aver doppiato la boa dei 100 anni. Immediato e laconico il commento del centro direttore del centro Wiesenthal, Efraim Zuroff: «L’età avanzata raggiunta da Priebke ci ricorda quanto sia importante perseguire i criminali nazisti ancora in vita. Molti di essi godono anche avanti negli anni di una salute robusta, per questo è giusto condurli davanti ad un tribunale».
«Per gli strani appuntamenti che la storia combina sottolinea Emanuele Fiano la morte di Priebke cade a poche ore dal settantesimo anniversario della deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma», ricorda Emanuele Fiano. «Furono i colleghi di Priebke a strappare al ghetto 1023 ebrei romani per deportarli ad Auschwitz ricorda . Solo 16 di loro sopravvissero».
Lo “svizzero” rifugiatosi per molti anni in Argentina, a Bariloche, grazie alla complicità di alcuni sacerdoti in contatto con Odessa, la rete che permise a molti criminali nazisti di sottrarsi a processi e punizioni, è morto nel suo salotto. Consunzione dovuta all’età, hanno attestato i medici. «È stato trovato sul divano», dice il suo avvocato Paolo Giachini. «Io l’avevo sentito in mattinata. La sua morte non sembrava così imminente, ma in due o tre giorni ha avuto un crollo, quasi improvviso. Si è spento di vecchiaia ed è stato lucido fino alla fine», dice il legale, che parla di «dignità» del suo assistito, «nonostante la persecuzione subita». Persecuzione che evidentemente non ha impedito all’ex capitano delle Ss di affermare, in una sorta di videotestamento, che l’Olocausto è il prodotto di «una sottocultura storica appositamente creata e divulgata da televisione e cinematografia», che «si sono manipolate le coscienze lavorando sulle emozioni», che «le nuove generazioni, a cominciare dalla scuola, sono state sottoposte al lavaggio del cervello, ossessionate con storie macabre per assoggettarne la libertà di giudizio». Se il perseguitato «avesse mostrato segni di pentimento, avrebbe ottenuto le attenuanti generiche. Me lo disse il gup del tribunale militare», ha rivelato ieri l’avvocato Paola Severino, che, all’epoca del processo per il massacro delle Fosse Ardeatine, rappresentava come legale di parte civile l’Unione delle Comunità Ebraiche. «Nelle fasi successive del processo spiega l’ex ministro della Giustizia si è poi potuta constatare questa volontà di Priebke di non pentirsi». «Non potrò mai dimenticare conclude Paola Severino la voce di quei familiari ancora rotta dal pianto quando parlavano delle torture cui erano stati sottoposti i loro parenti in via Tasso o di come le Ss li avevano caricati sui camion per portarli alle Fosse Ardeatine».
Priebke era nato a Hennigsdorf il 29 luglio 1913. Al partito nazionalsocialista aderì quando aveva 20 anni.Finita la guerra fuggì da un campo di prigionia vicino a Rimini e si rifugiò in Argentina. Fu estradato in Italia nel 1995 e al termine di un lungo processo. Nel 1998, fu condannato all’ergastolo, ma vista l’età avanzata aveva già 85 anni fu mandato ai domiciliari. Nel 2009 ha ottenuto il permesso di lasciare la sua casa «per fare la spesa, andare a messa, in farmacia» e affrontare «indispensabili esigenze di vita».
Recentemente abitava in una strada tra via Boccea e via Aurelia. «Aveva il ghiaccio negli occhi dice Lucia che abita nel palazzo di fronte a quello in cui è morto Priebke quando andava a passeggio era altero. Quando lo incontravo provavo disagio e fastidio».
Forse quello sguardo gelido l’avevano incrociato molti prigionieri dei fascisti repubblichni quando Priebke lavorò a Brescia, come ufficiale di collegamento con Guardia nazionale repubblicana.
Fu lì che diede un forte impulso alle perquisizioni e alle azioni di rastrellamento, allo scopo di individuare le cellule cittadine di supporto ai partigiani che presidiavano le montagne bresciane. Centinaia di arrestati, appartenenti alla resistenza o semplici sospetti, furono catturati e rinchiusi nella prigione di Canton Mombello, per poi essere condotti nel quartier generale delle Ss, dove Priebke svolgeva, spesso personalmente, gli interrogatori. Una palazzina in stile liberty , lontana da orecchie e sguardi indiscreti.

L’Unità 12.10.13

“Firme e programmi. Via la corsa a quattro”, di Maria Zegarelli

Adesso i giochi sono formalmente aperti in casa Pd e i quattro candidati alla segreteria da oggi sono ufficialmente in campagna elettorale. Il primo a depositare le firme (1.998 quelle raccolte, 1.500-2.000 quelle previste) è stato Gianni Cuperlo, alle 13, seguito da Pippo Civati (1.881), Gianni Pittella, che è andato di persona al Nazareno (3000) e Matteo Renzi (1.984, oltre 10mila quelle raccolte). Oggi il sindaco debutta a Bari (evento in diretta live stra- ming dalle ore 16 sul sito www.matteo- renzi.it), pedana a forma di freccia, larga 4 metri e alta 40 centimetri, piazzata in mezzo al pubblico, stile sobrio, niente foto o filmati, ma soltanto lui e il suo discorso, un’ora circa, tra le bandiere del Pd per illustrare quella che sarà la sua piattaforma programmatica (il documento depositato ieri è frutto del contributo dei veltroniani). Otto le parole che lo accompagneranno lungo il viaggio verso le primarie dell’8 dicem- bre: cambiare, futuro, coraggio, la strada, gli italiani, vincere, bravi, semplicità. Ogni parola e il suo contrario (la- mentarsi, conservazione, paura, il palazzo, il Cavaliere, perdere bene, raccomandati, burocrazia) «l’Italia che cambia verso» – slogan della campagna – e che si lascia alle spalle il Cavaliere per scegliere gli italiani, il Pd che vuole vincere e non perdere bene. Alcuni punti sopra tutti gli altri: legge elettorale, modello sindaco d’Italia, con doppio turno e rafforzamento dei poteri del premier; il ruolo del Mezzogiorno, «che da soggetto trainato diventa soggetto trainante», spiegano dal suo staff, parte del programma ispirato dal professor Carlo Borgomeo; Università, saperi e merito; riforme istituzionali e strutturali e una grande campagna di tessera- mento «per cambiare insieme il partito»; e l’abolizione della Bossi-Fini. E ieri a raccolta firme conclusa nell’elenco dei tantissimi parlamentari che sostengono il sindaco comparivano anche un nutrito gruppo di lettiani, oltre ai più noti Francesco Sanna, Francesco Boccia, Gianni Del Moro, Lorenzo Basso ed Enrico Borghi.

Ma a Renzi, che ha annunciato di volersi ricandidare come sindaco ancora ieri è tornato a rivolgersi, via twitter, il segretario del Pd Guglielmo Epifani: «Non nascondo le mie perplessità sulla possibilità di sommare i ruoli di segretario del Pd e di sindaco di Firenze, perché guidare il più grande partito italiano non è assolutamente semplice. Credo tocchi a lui riflettere bene su questa scelta e mi auguro che più in là possa ripensarci». Da Milano, il segretario, che ha rivendicato con «orgoglio» di «aver risollevato il Pd e di aver fatto il massimo possibile», ha aggiunto: «Da domani partirà questa contesa democratica che sarà fondata su programmi e merito. E abbiamo l’orgoglio tutti assieme, di rappresentare un partito in cui la contendibilità del ruolo di segretario è assicurata a tutti».

Gianni Cuperlo ieri ha depositato il documento «È tempo di crederci », con il quale ha presentato la sua candidatura, in attesa della stesura finale della mozione vera e propria. Un nuovo ruolo di una nuova Europa, eguaglianza, persone al centro della politica, inclusione. «Non c’è una strada sola – scrive nel suo documento – per ridare speranza a chi l’ha persa. A noi progressisti e alla sinistra in Europa tocca tracciare la via migliore che è quella del coraggio riformatore e dell’equità. Lo si fa superando l’illusione che un mercato e una moneta possano reggere senza una soli- da autorità politica».

Scrive Civati: «Un partito che non teme il futuro: è “al futuro” ed è al futuro, non al passato, che si affida». Un partito, prosegue nel suo documento, «aperto, capace di ascoltare quanto si muove nella società e muove i suoi elettori, dentro e fuori la politica, capace infine di superare i dibattiti identitari, ormai vuoti, per dotarsi di strumenti organizzativi, partecipativi e quindi politici capaci di dare un nuovo senso alla militanza e alla partecipazione».

Pittella fonda la sua mozione su tre capisaldi: Europa, Sud e partito federale. «Un partito europeo ed europeista che punta a cambiare le politiche di austerità, impegnato sull’obiettivo degli Stati uniti d’Europa e saldamente ancorato al Partito Socialista Europeo», spiega, aggiungendo che c’è la necessità di una «visione unitaria» del Paese «con un ruolo forte del Sud» e delle «personalità, utili a tutta l’Italia, che sa esprimere». Il suo slogan: «Il futuro che vale».

Cambiamento, futuro, Europa, lavoro: parole che si ritrovano in tutti i documenti.

l’Unità 12.10.13

“Nobel, cosa cambia se vince una sigla”, di Gianni Riotta

Il primo premio Nobel per la Pace venne assegnato, senza troppe cerimonie, nel 1901, dopo un incontro del Parlamento norvegese durato pochi minuti. I premiati, Jean Henry Dunant e Frederic Passy non erano presenti, niente discorsi, strette di mano di prammatica e via. Ma il mito era nato, preservato fino a noi con la vittoria di ieri per l’Opac, Organizzazione internazionale per la proibizione delle armi chimiche. Allora vinsero due uomini, lo svizzero Dunant, padre della Croce Rossa e della Convenzione di Ginevra, il francese Passy, fondatore di una Società per la Pace, antenata delle Nazioni Unite. Ieri ha vinto un ufficio. Cambia molto?

Sì, cambia molto. Perché l’Opac, fondata nel 1997 e diretta dall’ambasciatore turco Ahmet Üzümcü (lo avevate mai sentito fino a ieri?), è in realtà un minuscolo ufficio, con 41 delegati internazionali e uno staff modesto (nessuno rispondeva al telefono alla giuria del Nobel, «eravamo in riunione» ha risposto un imbarazzato impiegato). Non sono i premiati a condurre le ispezioni sul campo a caccia di armi chimiche proibite, non saranno loro a setacciare i campi della morte siriani trovando le prove dei crimini di guerra del regime di Assad in Siria. Per le ispezioni l’Opac si affida a tecnici professionisti, reclutati di solito dalle multinazionali della chimica o tra ex militari.

Dunant e Passy vinsero in persona, non con le sigle che avevano lanciato. Si accenderanno ora ammirate le coscienze dei ragazzi, come quando i premi andarono a Martin Luther King, Nelson Mandela, Madre Teresa, Aung San Suu Kyi, Albert Schweitzer, Tutu, Walesa, Sacharov? Si accenderanno irate le polemiche degli adulti come quando il premio per la Pace laureò Henry Kissinger, Arafat, Rabin, Peres, Sadat, Begin, De Klerk, venendo rifiutato dal leader vietnamita Le Duc To? No. L’anno scorso vinse l’Unione europea, difficile che tanti si siano scaldati, prima aveva vinto Barack Obama che di pace ha molto parlato, colpendo poi con i droni in Pakistan più di Bush. E i premi andati a organizzazioni pur benemerite, il Friends Service Council dei Quaccheri nel 1947, l’International Labour Organization del 1969, gli International Physicians for the Prevention of Nuclear War 1985, le Pugwash Conferences on Science and World Affairs 1995, che traccia lasciano se non il bollino nel sito web?

Il Nobel per la Pace è, come tutti gli altri, un premio politico. Grandi scrittori come Borges, Simenon, Celine, Joyce, Fitzgerald, Ionesco, non hanno vinto perché le loro idee o lo stile personale non si confacevano all’idea di «letterato» cara alla giuria. Dal gelido punto di vista storico è difficile non vedere come Nixon e Mao, aprendo le relazioni tra Usa e Cina, abbiano dato pace al XX secolo, ma i giurati non avrebbero mai premiato il Presidente che bombardava la Cambogia prima del Watergate e il dittatore che ha fatto strage di contadini cinesi con la carestia. Arafat, De Klerk, Kissinger e Begin sì.

Che fare allora quando manca un vero profeta disarmato, come il pacifista tedesco Carl von Ossietzky, che nel 1936 ottenne il Nobel detenuto nelle carceri naziste, dove morirà due anni dopo, e Hitler si infuriò per la scelta al punto da proibire ai tedeschi di accettare nuovi premi? Meglio andare sui burocrati, Kofi Annan, el Baradei, perfino Sean Mac Bride, autore di un incongruo rapporto per nazionalizzare il giornalismo.

Nel 2013, in verità, una profetessa disarmata c’era, la sedicenne pakistana Malala Yousafzai, condannata a morte e ferita dai talebani perché crede al diritto – sancito dall’Onu – di ogni bambina a scuola ed educazione. È stata una settimana formidabile per le donne, l’economista Yellen a dirigere la Banca Centrale Usa, la Alice Munro Nobel per la letteratura, Malala poteva completare il «triplete» femminile. Ma il presidente del comitato Nobel, il compassato Thorbjørn Jagland, pur chiarendo «che certo, anche un bambino può vincere», ha deciso altrimenti.

Chi difende il Nobel dirà che la Siria, con 115.000 morti e l’uso dei gas, è emergenza: vero, ma lo era già un anno fa, quando vinse l’Europa, non proprio sollecita nell’occuparsi della mattanza di Damasco. E possiamo dire almeno che il premio ai gentiluomini dell’Opac è, come quello assegnato a Obama, un po’ prematuro, visto che stanno appena iniziando ad appaltare le ispezioni in Siria e i risultati sono, per ora, esili.

In realtà a decidere contro il Nobel a Malala è stata un’occhiuta e abile campagna internazionale che ha unito terzomondisti occidentali a nazionalisti e fondamentalisti pakistani. In Pakistan si dice spesso «Malala o Salala?”», ricordando il villaggio al confine con l’Afghanistan dove le truppe Nato hanno ucciso 25 soldati pakistani. L’editorialista pakistano Huma Yusuf ha addirittura spiegato, in un fondo sul New York Times ripreso dal Financial Times, perché gli intellettuali del suo paese considerano «ipocrita» il Nobel a Malala: tanti l’accusano di avere «finto l’attentato per diventare famosa», altri di essere (poteva mancare?) «agente della Cia».

La campagna contro Malala, a tratti violenta, a tratti untuosa e snob, ha vinto. Il Nobel scandinavo non deve suscitare polemiche ineleganti, tanto meno se mascherate da «difesa del Terzo Mondo». No: il premio Nobel per la pace deve essere celebrato online, in elzeviri sussiegosi e un po’ tromboni, e poi festeggiato in decine di party, tra un bicchiere di Chardonnay gelato e una fettina di brie.

Congratulazioni dunque all’ufficio dell’Opac e buon lavoro, – rimboccatevi le maniche! – da avviare in Siria. Vedremo il loro bilancio nel 2014, quando impareremo la nuova sigla sconosciuta rinvenuta dal Nobel. Quanto a Malala che aspetti, studi se può senza farsi ammazzare (in questi giorni i Tehreek-e-Taliban pakistani hanno confermato la sua condanna a morte) e, finiti i compiti, porti le prove di non essere spia della Cia.

La Stampa 12.10.13

“Radiografia dell’euro-entusiasta”, di Ilvo Diamanti

L’Italia è stata, per molto tempo, lo Stato più europeista d’Europa. In particolare, negli anni della costruzione unitaria. Quando l’Europa era un progetto in corso d’opera. D’altronde, in occasione del referendum consultivo del 1989, l’88 % dei votanti approvò la proposta di attribuire un mandato costituente al Parlamento europeo.

Dopo l’introduzione dell’euro, nel 2002, l’entusiasmo si raffreddò sensibilmente. Eppure, “nonostante tutto”, gli italiani mantennero il loro sostegno all’Europa. In misura più elevata rispetto agli altri Paesi (Fondazione Nord Est, 2004). Appunto: “nonostante tutto”. Un atteggiamento alimentato dalla sfiducia nei confronti delle istituzioni nazionali e, anzitutto, verso lo Stato. Il cui livello di credibilità, peraltro, è sceso assai più di quello nell’Europa.
Tuttavia, la stagione dell’euroentusiasmo,
in Italia, è finita da
tempo. Anche in confronto con gli altri Paesi. Nell’ultimo rapporto di Eurobarometro, condotto nella primavera del 2013, infatti, nella graduatoria costruita in base al senso di appartenenza europea, gli italiani si collocano al 23esimo posto, sui 27 dell’Unione allargata. Mentre, in quanto a ottimismo sul futuro della Ue, sono posizionati un po’ più in alto. Cioè: al 21esimo. È la conferma di un declino che dura, appunto, da tempo, ma ha conosciuto un’accelerazione sensibile negli ultimi anni. Oggi l’attaccamento all’Europa si è attestato al 34 per cento: 20 punti in meno rispetto a dieci anni fa, ma 15 rispetto al 2010. Anche nel resto d’Europa si è assistito a una sensibile perdita di fiducia nella Ue, in questa fase. Ma in Italia ciò è avvenuto in misura maggiore. E oggi l’euroentusiasmo si è tradotto in eurodelusione. In modo analogo, peraltro, ad altri Paesi dell’area mediterranea: la Spagna, la Grecia, Cipro. Ma anche il Portogallo. I contesti maggiormente colpiti dalla crisi economica. Dove, per questo, il governo dell’Unione ha imposto interventi sull’economia e tagli sulla spesa pubblica particolarmente pesanti. L’Europa, così, ha perduto la sua immagine di “patria comune”. È, invece, apparsa, a molti, un controllore rigido e un poco oppressivo.
Sul quale trasferire le frustrazioni prodotte dall’impatto della crisi, a livello sociale e personale.
Per questi motivi, l’atteggiamento verso l’euro è divenuto sempre più negativo. Solo il 12 per cento degli italiani (intervistati da Demos per la Repubblica delle Idee) ritiene, infatti, che la moneta unica abbia prodotto “vantaggi”. Circa 10 punti meno del 2001. Parallelamente, nello stesso periodo, è calata — dal 53 per cento al 47 — la componente di coloro che ritenevano l’euro “necessario”. Nonostante le complicazioni. “Nonostante tutto”. È, dunque, comprensibile che l’euro-delusione venga espressa, in modo evidente, dalle componenti sociali più vulnerabili. Gli operai, le casalinghe, i disoccupati. Ma anche i lavoratori autonomi. Soprattutto nel Centro Sud.
Tuttavia, il disincanto non giunge al punto di rottura. L’eurodelusione non si traduce in euroscetticismo.
Meno di un italiano su quattro, infatti, pensa che converrebbe uscire dalla Ue. All’opposto: oltre il 44 per cento ritiene che sarebbe peggio. Ancor più netta e larga è l’opposizione all’ipotesi di uscire dall’euro. Il dissenso, molto probabilmente, è alimentato dal dibattito sull’argomento, che appare particolarmente acceso. Visto che Beppe Grillo, da tempo, ha annunciato l’intenzione di promuovere un referendum con questo obiettivo. Mentre la Lega non ha mai fatto mistero della propria contrarietà nei confronti dell’Euro e dell’Europa. Il proposito di uscire dall’unione monetaria e di tornare alla lira però è condiviso da meno di un terzo degli italiani. Non pochi, in effetti. Ma, comunque, una minoranza ben lontana dalla componente di quanti rifiutano questa prospettiva: quasi il 70 per cento.
È significativo il “segno politico” dell’euro-scetticismo. Il ritorno alla lira è auspicato soprattutto dagli elettori del centrodestra e,
ancor più, da quelli del M5S. D’altronde, non solo Grillo e Bossi, ma anche Berlusconi, ha espresso riserve nei confronti dell’euro. Minacciando perfino di uscirne (come ha rivelato Lorenzo Bini Smaghi, ex componente della Bce). Per quanto alta (superiore al 40 per cento), la quota di euro-scettici appare minoritaria anche a destra e nel M5S. Mentre è decisamente ridotta nella base elettorale del centro e del centrosinistra. Oltre che, sul piano territoriale, nel Nordest, dove sono, tradizionalmente, forti e radicati il centrodestra e la Lega. Dove, di recente, il M5S ha ottenuto risultati molto elevati sfruttando la crisi leghista. Si tratta di un orientamento, per questo, significativo di come la prudenza prevalga sull’insoddisfazione. Soprattutto dove il legame con i “mercati” europei — e non solo — è stretto. L’Europa e lo stesso euro, nel Nordest come altrove, suscitano crescente diffidenza. Ma non al punto da spingere alla defezione. Perché “andarsene” appare, comunque, rischioso. Pi ù che restare. In fondo, noi italiani siamo abituati a convivere con le istituzioni, con la politica e i politici che non stimiamo. Così si preferisce restare. D’altronde, sono in pochi ad avere dubbi: fra dieci anni l’Italia sarà ancora nell’Unione Europea e l’euro ci sarà ancora. E allora, perché inseguire vie tortuose e insidiose? Meglio rassegnarsi. Parafrasando Edmondo Berselli: l’Europa (e perfino l’euro) “nonostante tutto”.

La Repubblica 12.10.13

“Il Nobel familiare di Alice Munro”, di Elisabetta Ray

Per molto tempo il New Yorker, la prestigiosa rivista americana, rispedì ad Alice Munro i racconti che lei inviava accompagnati da gentili appunti di rifiuto. Uno in particolare diceva: «La scrittura è molto bella, ma la tematica eccessivamente familiare». Alice però non si scoraggiò: quando aveva cominciato a scrivere, poco più che ventenne negli anni Cinquanta, con una casa, un marito e delle bambine nate o nascenti cui badare (e in seguito anche il lavoro alla libreria aperta a Victoria con il coniuge), aveva imparato a coltivare silenziosamente la sua vocazione, nei ritagli di tempo, senza parlarne troppo in pubblico e soprattutto senza aspettarsi molto dal mondo editoriale. Nella sua prima raccolta di racconti, “La danza delle ombre felici”, uscita quando non era più così giovane, a trentasette anni, nel 1968, la sua tematica familiare era ben salda e non ci rinunciò neanche nei racconti che scrisse in seguito, un’altra dozzina di sillogi, due delle quali uscite dopo una sua prima dichiarazione, nel 2006, di non voler più scrivere. Non era abituata a scoraggiarsi, cresciuta in una fattoria della regione canadese dell’Ontario con un padre, Robert Laidlaw, che avrebbe voluto essere scrittore e che invece allevava senza troppo fortuna visoni, e con una madre che sognava per sé un futuro di cultura e raffinatezza e invece doveva giorno dopo giorno fare i conti con le ristrettezze economiche e le fatiche della vita di campagna. Né rinunciò alla sua vocazione quando si trasferì con il primo marito Jim Munro dall’altra parte del Canada, a Vancouver, dopo aver lasciato gli studi universitari. Ma soprattutto non si scoraggiò quando editori e agenti letterari di cui si fidava le dissero che per avere successo e farsi amare dal pubblico doveva smettere di scrivere racconti e mettere in piedi un romanzo. Lei ci provò e ci riprovò, ne pubblicò anche una specie, “Lives of Girls and Women”, (in realtà anch’esso collage di racconti), ma poi decise che mai avrebbe rimunciato alla forma della short-story, perché quella non era soltanto la sua misura ma anche la cifra interiore con cui afferrava il mondo. Come uno di quei mistici medievali che vedevano lo spazio del cosmo tutto intero riflesso nel piccolo fuoco di uno specchio concavo.

Ma l’interesse di Munro per la vita familiare non ha niente a che vedere con un culto della famiglia stessa o dei ricordi. Ognuno dei suoi racconti è situato in un territorio che, se spesso coincide con quello del lago Huron nell’Ontario della sua infanzia, è anche una contrada leggendaria e un’eterna frontiera, in cui gli esseri umani lottano con l’ambiente mostrando la loro inadeguatezza e la loro fragilità. Nell’Ontario Munro ci è tornata a vivere – negli anni Settanta, con il secondo marito – e a camminare cinque chilometri al giorno fino a quando è stata abbastanza in forze per farlo, come a verificare la consistenza geologica, terrestre delle sue storie. Che sono spesso storie al femminile, sorelle con sorelle, amiche, rivali, ma soprattutto madri con figlie. Nelle trame di questa scrittrice – che Cynthia Ozick ha definito un Cechov canadese e che invece si è formata, per sua stessa ammissione, amando la narrativa di altre grandi scrittrici come Eudora Welty o Carson McCullers o Flannery O’Connor – c’è sempre qualcosa che viene improvvisamente a turbare l’ordine banale della vita quotidiana, manifestandone il rovescio tragico. E quasi sempre, nella miniaturizzata tragedia in scena nelle sue short-story, campeggiano figure di madri, protagoniste di una interminabile storia arcaica che tornano a trovare le figlie dall’aldilà, le maltrattano nell’aldiqua e le salvano in sogno come nel celebre e bellissimo “Il sogno di mia madre”. Come se le vicende umane procedessero non di padre in figlio, ma soprattutto di madre in figlia.
«Sentivo che le donne potevano scrivere di cose particolari, di ciò che è marginale», ha detto in una intervista alla “Paris Review” del 1994. Solo che nei suoi racconti ciò che è marginale smette di essere tale e ciò che è comune improvvisamente si rivela straordinario, come nella “Danza delle ombre felici”, in cui una bambina mentalmente handicappata, durante un modesto e misero intrattenimento di una vecchia insegnante in un afoso pomeriggio paesano, si siede al pianoforte e trasporta gli astanti ammutoliti e turbati nel mondo leggendario di Orfeo e Euridice e dei loro disperati viaggi di morte e resurrezione. In questo racconto come in tanti altri la storia è raccontata da un io, una voce che parla confidenzialmente così che noi non possiamo evitare di ascoltarla. Ma quella prima persona narrativa non è né segno di autobiografia né puro espediente discorsivo: quell’io è il luogo in cui la regola si trasforma in eccezione. E anche la più semplice delle vicende della everyday life diventa Storia, perché per Alice Munro la Storia non sono gli avvenimenti registrati dalle cronache e poi dalla storiografia ma ciò che s’incarna nelle creature umane e nelle loro avventure e disavventure, i sogni, le passioni, i malintesi, i fallimenti le gioie e le invisibili – agli occhi del mondo – rare vittorie. Per questo con la sua «tematica eccessivamente familiare», come le scrisse quell’anonimo redattore del “New Yorker” mezzo secolo fa, è diventata una scrittrice ovunque popolare e degna ora di Nobel: perché in quel familiare così personale marginale e particolare ognuno trova qualcosa di se stesso.

Il SOle 24 Ore 12.10.13