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Il Dl contro il femminicidio è legge

“L’approvazione oggi in Senato del dl contro il femminicidio è un fatto positivo per le donne, perché abbiamo messo un altro tassello, dopo la ratifica della Convenzione di Istanbul”. E’ il commento a caldo della vicepresidente del Senato, Valeria Fedeli, all’approvazione da parte dell’Aula di Palazzo Madama del decreto legge contro il femminicidio.
Il Dl, che con il voto di oggi diventa legge dello Stato, ha ricevuto il via libera con 143 sì, 3 no e nessun astenuto.

“Si tratta di un primo passo di un percorso che deve assolutamente continuare – ha aggiunto Fedeli – nella consapevolezza della sua complessità: la lotta alla violenza di genere va affrontata da un punto di vista culturale, economico, sociale. Tutto ciò nella consapevolezza che servono serie azioni di prevenzione strutturali, di lungo termine. Anche per questo è stato fondamentale ampliare, attraverso il lavoro parlamentare, la parte del dl sul piano d’azione contro la violenza sessuale e di genere, ascoltando davvero e coinvolgendo le associazioni di donne, i centri antiviolenza, i diversi soggetti che da anni operano per il contrasto alla violenza contro le donne. Sono primi passi. Al Senato, procederemo celermente alle altre attuazioni legislative coerenti e conseguenti ai ddl già presentati. Sempre avendo come punto di riferimento le donne, la loro libertà e la loro autodeterminazione”.

Per la senatrice democratica Francesca Puglisi “questo decreto è un concreto passo avanti per il contrasto al femminicidio e mette a disposizione nuove risorse per varare con i centri anti violenza un nuovo piano di azione”, mentre la senatrice Rosa Maria Di Giorgi ha sottolineato che si tratta “dell’’inizio di un cammino verso una legge completa, che affronti il tema della cultura del rispetto verso le donne, della prevenzione, e quindi dell’educazione alla differenza di genere”.

“Si registra ancora una volta – ha fatto notare la parlamentare democratica – l’intollerabile atteggiamento dei 5 Stelle che hanno cercato di bloccare il decreto in aula, come se la violenza contro le donne e il dramma del femminicidio non li riguardassero”.

A proposito dei contenuti della legge, la senatrice Pd Emilia De Biasi ha evidenziato “l’importanza di aver predisposto in linee generali un piano anti violenza, un intervento cioè di sistema, non esclusivamente penale o sociale, ma una strada compiuta, capace di intervenire sui diversi aspetti del problema”.

Inoltre, la senatrice democratica ha sottolineato “l’innovazione rappresentata dall’intervento terapeutico sui maltrattanti. Vi sono protocolli di cura sperimentati da avanguardie volenterose, che lavorano nelle carceri italiane: si tratta di persone di altissima professionalità che hanno scelto di occuparsi della riabilitazione oltre le demagogie della castrazione chimica, poiché sappiamo che il problema sta nella testa dei maltrattanti”.

www.partitodemocratico.it

“La sub-cultura reazionaria”, di Claudio Sardo

Beppe Grillo è un reazionario. Non lo scopriamo oggi. La sua contrarietà alla cittadinanza per i figli di immigrati nati in Italia è la stessa della destra più becera. I toni con i quali cavalca le paure contro i rom, contro Schengen, contro i «cento, mille Kabobo» che vivono nel nostro Paese, sono quelli dei leghisti. E il suo silenzio dopo gli insulti razzisti alla ministra Kyenge è una vergogna a cui persino la destra e la Lega hanno cercato di sottrarsi.

Eppure ieri mattina, quando abbiamo letto del «no» – espresso insieme al suo compare Gianroberto Casaleggio – all’abolizione del reato di clandestinità proposta da due senatori del M5S, siamo rimasti offesi e indignati. Non ci aspettavamo la volgarità della giustificazione politica: a noi non conviene sostenere i principi di civiltà perché sono impopolari. Ancora: i parlamentari Cinque stelle non devono pensare in proprio, devono seguire l’istinto del popolo, il suo umore. Sono delegati, non uomini liberi. E non devono diventarlo, altrimenti il partito di Grillo rischierebbe di ridursi a percentuali da «prefisso telefonico». Il mix tra la sub-cultura razzista e questa idea autoritaria della democrazia è spaventoso. Viene da chiedere, a chi ha usato Grillo come sponda, se questo è un alleato credibile nella difesa dei principi della Costituzione. Grillo quei principi li disprezza. Non solo perché delimita i diritti fondamentali ai cittadini, negandoli alle «persone». Ma anche perché esprime una concezione della rappresentanza e delle istituzioni, che fa a cazzotti con le idee democratiche sedimentate nel tempo e concretizzate nel nostro Paese al prezzo della vita di molti italiani. Si può difendere la Costituzione insieme a Grillo e a Casaleggio? No, bisogna difendere la Costituzione da costoro (e forse è il caso di fare in questa legislatura un’opera di manutenzione del sistema parlamentare, per evitare che nella prossima la deriva presidenzialistica possa avere il sopravvento).

La giornata di ieri però ci ha dato un segno di speranza. Tra i parlamentari Cinquestelle e tra i fans di Grillo la reazione ci è parsa più forte che nel passato. Perché sostenuta da una ragione morale, oltre che politica. Anche questa è, in una certa misura, una conferma. Quel movimento, quegli elettori esprimono domande e sentimenti che Grillo e Casaleggio non possono rappresentare da soli. Quella spinta contiene posizioni critiche e istanze innovative, con cui bisogna confrontarsi. Speriamo che i presentatori dell’emendamento non si facciano intimidire. Speriamo che un numero consistente del gruppo M5S al Senato si ribelli a Grillo sul reato di clandestinità, e poi sulla Bossi-Fini. Le nostre leggi sull’immigrazione vanno cambiate. Anche se c’è tanta paura in questa società morsa dalla crisi, dobbiamo dotarci di leggi serie, equilibrate, degne della nostra Costituzione personalista. Il Parlamento, espressione della sovranità popolare, deve spingere anche il governo a fare ciò che il governo da solo non è capace di fare.

L’Unità 11.10.13

“La dittatura del senso comune”, di Elisabetta Gualmini

Non c’è proprio niente di nuovo nella scomunica a firma doppia di Grillo e Casaleggio ai due (ingenui) cittadini-senatori Buccarella e Cioffi, autori dell’emendamento che abolisce il reato di clandestinità. È almeno dal 2006, quando il Movimento non aveva ancora messo piede nei palazzi della politica, che Grillo non si discosta di una virgola dalla stessa posizione su immigrazione e dintorni.

Anzi, in passato ha lanciato bordate ben più pesanti, sempre in bilico tra sentimenti di ostilità verso gli immigrati e argomenti qualunquisti, evocando ogni volta la guerra tra poveri, che si genererebbe con politiche migratorie inclusive, tra «schiavi stranieri» e «schiavi italiani», poveri di là e disperati di qua, e finendo per difendere – va da sé – gli sciagurati di casa nostra.

Nel 2006 mentre sparava contro il ministro Ferrero diceva: «Non è vero che gli italiani non vogliono più fare “certi lavori”. Ragazzi e ragazze accetterebbero di corsa quei “certi lavori”, ma in condizioni di sicurezza e con uno stipendio dignitoso. I flussi migratori vanno gestiti all’origine. Non (bisogna) importare schiavi e instabilità sociale». Un anno dopo, mentre se la prendeva con gli ingressi selvaggi dei rom in Italia, aggiungeva: «Ricevo ogni giorno centinaia di lettere sui rom. È un vulcano, una bomba a tempo. Va disinnescata. Si poteva fare un serio controllo degli ingressi. Ma non è stato fatto nulla. Chi paga per questa insicurezza sono i piùdeboli, gli anziani, chi vive nelle periferie, nelle case popolari». Dopo gli incidenti di Rosarno, Grillo ci torna sopra: «Cosa ci fanno più di diecimila immigrati irregolari nelle campagne calabresi? Pagate gli italiani il giusto e ci sarebbe la fila di calabresi disoccupati per prendere il loro posto. Gli immigrati sono uno strumento di distrazione di massa usato dai partiti. La Lega e il Pdl vivono dell’uomo nero. Il Pdmenoelle del buonismo a spese delle fasce più deboli della popolazione che vivono a diretto contatto con gli emigrati e si disputano le risorse.» Un messaggio che culmina nella primavera scorsa nel post a tinte chiaramente razziste «Kabobo d’Italia» in cui gli immigrati sono considerati tutti uguali (e cioè tutti delinquenti).

Grillo è un abile leader politico. Immerso fino al collo nel ruolo. C’è rimasto ben poco di comico in lui. Coglie perfettamente gli umori più diffusi tra gli italiani (la diffidenza più o meno ostentata nei confronti degli stranieri, presente un po’ dappertutto e non solo a destra). E lo dice senza giri di parole. Parla come pensa. Senza parole «sintetiche o di plastica». E’ terrigno, ancestrale e sanguigno quando si tratta di immigrati. Altro che l’esoterismo smaterializzato dei post e delle web-conversazioni.

Sfrutta fino in fondo la retorica populista, dosando con sapienza i suoi tre ingredienti principali. L’appello al popolo-sovrano, quello puro e incontaminato contrapposto a élite politiche colpevoli di disattenderne la volontà. Il popolo-classe, fatto di lavoratori instancabili e onesti, che a capo chino fanno il loro dovere, soggiogati da parassiti (politici, governanti, manager della finanza) che vivono sulle loro spalle. E il popolo-nazione, che si riconosce in un «noi» dai confini ben precisi rispetto a «loro». Gli autoctoni contro gli stranieri. I nativi contro gli alieni. «Una volta i confini della Patria erano sacri» scriveva Beppe qualche anno fa, ma «i politici li hanno sconsacrati».

Il richiamo appassionato al popolo-nazione travalica destra e sinistra. È trasversale e potentissimo. E ha consentito a Grillo di raggiungere il 25% dei consensi. Così come Marine Le Pen in Francia, il politico-guru fa leva sui sentimenti di insicurezza dei cittadini, con un approccio pragmatico e semplificato (non riusciamo a mangiare noi figurarsi loro), non troppo «diabolico» e più di «senso comune». Comprensibile da tutti, dall’uomo della strada e dal colletto bianco, dal pensionato e dal precario, dalla casalinga e dal professionista. Più che tirare a destra i senatori caduti a sinistra, il disegno di Grillo è sempre lo stesso: fare breccia in un elettorato vasto e trasversale, giovane e vecchio, ancora indignato e stizzito per una crisi che non lascia scampo. Un elettorato che, esattamente come il Berlusconi dei primordi, Grillo non pretende di educare ma solo di assecondare, così com’è.

La Stampa 11.10.13

“Il cinismo a cinque stelle”, di Concita De Gregorio

È la legge del mare. È la legge di Dio. È la legge degli uomini da prima che ogni legge sia mai stata scritta. Salvare un uomo in mare. Non c’è nemmeno da spiegarlo, mancano le parole. Provate solo ad immaginare che succeda a voi. Siete in barca, vedete qualcuno che sta annegando e che vi chiede aiuto. Un ragazzo, una donna che annega a pochi metri da voi. Sareste capaci di lasciarlo morire sotto i vostri occhi? Gli chiedereste – di qualunque religione, partito politico, di qualunque razza voi siate – da dove viene e a fare che cosa o gli gettereste prima un salvagente? Vi buttereste voi stessi, quasi certamente. Non è una regola, è istinto. È ineludibile afflato di umanità. È quel che distingue gli essere umani dalle bestie, e non sempre ché spesso la lezione arriva dagli animali. Ecco. Si fa moltissima fatica a dare un giudizio politico della censura di Beppe Grillo e dell’ideologo Casaleggio ai parlamentari cinque stelle che al Senato hanno proposto e poi votato un emendamento che dice questo: chi trova una persona in mezzo al mare può soccorrerla senza rischiare di commettere reato.
«Non li lasceremo più morire. Più sicurezza e umanità», hanno scritto Maurizio Buccarella e Andrea Cioffi, i senatori cinque stelle poi sconfessati con durezza dal Capo. Si fa fatica a dare un giudizio politico su chi pensa ai suoi elettori – al suo consenso attuale ed eventuale – prima che ai morti. «Se avessimo proposto di abolire il reato di clandestinità avremmo ottenuto dei risultati elettorali da prefisso telefonico », si legge nella risoluzione pomeridiana del blog sovrano, la voce del Padrone. Non ci sarebbe convenuto, non ci conviene.
Quindi ora scusate se ai cinici sembrerà demagogia ma provate a pensare ai trecento morti in fondo al mare di Lampedusa, al morto «numero 11, maschio, forse anni 3», che se fosse stato vivo sarebbe stato clandestino anche lui, e perseguibile chi avesse salvato quel bambino di tre anni dal mare. Provate a dire se vi sembra degna di un essere umano una legge che sanziona chi soccorre un bimbo in mare, chiunque quel bambino sia perché questo e solo questo è: un bambino. Provate adesso a dare un giudizio politico a due leader politici che pretendono di rinnovare la politica e il Paese e intanto dicono questo: soccorrere uomini e donne in mare «è un invito ai clandestini di Africa e Medio Oriente ad imbarcarsi, ma qui un italiano su otto non ha i soldi per mangiare ». Quindi non vengano, o se vengono affoghino. Servirà da lezione agli altri.
La Lega ha applaudito Grillo con osceno entusiasmo. Il Pdl, in una sua buona parte, si è accodato. L’emendamento è passato coi voti di altri Pdl, di Scelta civica di Sel e del Pd, oltre che dei quattro senatori cinque stelle in commissione. Niente affatto pentiti, questi ultimi. Immediata assemblea del gruppo, questa volta stranamente non in streaming. Giornalisti e militanti fuori dai piedi. Il tema immigrati non era nel programma, è l’argomento del fedelissimi al capo: gli eletti devono attenersi al mandato e non prendere iniziative personali. Ma, domandiamoci, ci sarà una ragione se non c’era una parola, neanche una, sul tema dell’immigrazione e delle leggi sui clandestini nel programma di Grillo, molto netto invece nel proporre – per esempio
– un referendum sull’uscita dall’euro.
Poco a poco si delinea un profilo politico che pure era chiaro, ma che ha confuso una buona parte dell’elettorato di sinistra attratto dai temi sacrosanti del rinnovamento e dello strapotere corrotto della casta. Questa roba con un’Italia migliore non c’entra. È un calcolo, una strategia di marketing elettorale di ambigua origine e di sempre più nitido approdo. Ma di nuovo: dare un giudizio politico, in un caso come questo, è troppo onore. «Non li lasceremo più morire», non è una posizione politica, è la declinazione di un essere umano. Chi preferisce che anneghino faccia i conti con se stesso e certo poi, se crede, anche col suo elettorato.

La Repubblica 11.10.13

“L’onda Le Pen che spaventa l’Europa”, di Cesare Martinetti

Da undici anni, nel lessico politico francese, la parola «choc» viene associata alla data del 21 aprile, giorno in cui l’impresentabile uomo nero Jean-Marie Le Pen, ruppe il tabù delle presidenziali, umiliando il socialista Jospin e guadagnando il ballottaggio contro il gollista Chirac. Correva l’anno 2002. L’82 per cento dei francesi disse poi no a Monsieur Le Pen, ma intanto quello choc è ora diventato un vento costante che colloca il Front National al primo posto tra i partiti di Francia con il 24 per cento e spazza l’Europa non in forma di fantasma ma di realtà. Piccoli e grandi «front» si sono aperti ovunque e promettono sfracelli per le prossime elezioni del Parlamento europeo.

In Austria, tanto per dire l’ultimo paese Ue in cui si è votato, l’ultradestra di Heinz-Christian Strache, l’erede di Haider alla guida del Fpoe, si può serenamente definire l’unico vincitore delle elezioni con il 21,4. Socialdemocratici e Popolari restano alla guida del paese confermati in Grande Coalizione, ma entrambi ne escono con le ossa rotte. Avranno contro in Parlamento anche un nuovo partito anti-euro. Piccoli Le Pen crescono, in Olanda, in Norvegia, in Gran Bretagna persino, dove la ministra dell’Interno Theresa May ha promesso di cancellare la legge sui diritti umani che armonizza il Regno Unito alla legislazione europea. La motivazione è che queste norme – ha detto May – ci impediscono «di cacciare gli immigrati criminali». In Grecia la crisi ha prodotto Alba Dorata che non si vergogna di definirsi nazista.

Tutti questi partiti e partitini hanno naturalmente sullo sfondo un’origine e un’ispirazione che contiene antisemitismo, xenofobia, islamofobia, ultranazionalismo etc. La miscela che compone quella «lepenizzazione» degli spiriti, come si diceva in Francia dopo lo choc, era il vero rischio derivante dall’affermazione di Le Pen. Il quale, sia chiaro, rappresentava allora rievocazione aperta e allusione sottile ai più cupi fantasmi della storia francese: il governo antisemita e collaborazionista di Vichy, il terrorismo filo coloniale dell’Oas, la difesa dei bastonatori anti immigrati delle banlieues povere. Un mix che si condensava nella battuta del vecchio duce secondo cui le camere a gas di Auschwitz non erano state che «un incidente» della storia.

Naturalmente tutto questo sopravvive, ma non basta a spiegare quel che sta succedendo. Prendiamo proprio la Francia che in questo caso è all’avanguardia. Alla guida del Front non c’è più il vecchio Le Pen con la benda nera da pirata sull’occhio, ma sua figlia, una signora bionda nata dopo la guerra e quindi anagraficamente estranea al nazismo e ai suoi alleati. Finché il discorso politico del Front era il vecchio ritornello xenofobo e razzista, era facile tracciare intorno ad esso un cordone sanitario di galateo politico democratico o, come si dice in Francia, «repubblicano». Ora che invece il discorso di Madame Le Pen è empirico e pragmatico, quasi una constatazione del malessere e della povertà diffusa, è difficile denunciare l’ideologia antidemocratica. I partiti tradizionali, socialisti e gollisti per semplificare, sinistra e destra «repubblicane» si ostinano nel vecchio schema rivelando così l’incapacità di adattare l’azione politica alle disillusioni dell’elettorato sui cui gioca il Front. Il partito, per usare un’altra espressione francese, si è ormai «banalizzato», è diventato come gli altri, ha rotto il tabù, il cordone sanitario non ha più ragion d’essere. E Madame Le Pen ci va a nozze. Quando l’inviato de La Stampa che la seguiva in campagna elettorale le ha chiesto perché andava a fare il «porta a porta» nei quartieri popolari all’ora di pranzo, la signora ha risposto: «Perché sono sicura di trovare i miei elettori: casalinghe, pensionati, disoccupati».

Ciò che rende europeo, trasmissibile e contagioso lo choc del Front è un mix composto di: sfiducia e ostilità verso l’entità Ue in tutte le sue declinazioni, dall’euro ai grandi progetti transnazionali, alle regole, alle aperture. È un sentimento antiglobalizzazione di ripiegamento economico, ma anche politico ed etico. Un orizzonte che si stringe, la difesa del confine, la rinuncia alla prospettiva che rivela qualcosa di più profondo che non è soltanto una legittima reazione alla crisi. È una reazione che colpisce sinistre e destre di governo, tutti i soggetti della politica tradizionale. Un sentimento che in Italia hanno espresso in parte prima la Lega ora i Cinque Stelle. Un mix che unisce destra e sinistra e che si condensa nell’ideologia No Tav (non nell’opposizione locale all’opera, comprensibile) che costituisce da noi il punto più simbolico di tutto questo: il grande progetto visto soltanto come un gorgo di spreco, mafia, corruzione, affarismo. E che si esprime con paradossale autolesionismo esultando ad ogni notizia di ritardo ed esitazione francese nel finanziamento dell’opera quando invece dovrebbe preoccupare la marginalizzazione dell’Italia.

In Germania, il partito antieuro ha preso da destra e sinistra arrivando al 4,7 per cento pur in un paese di benessere diffuso e quasi di piena occupazione. E la signora Merkel ha vinto anche perché ha saputo convincere gli elettori di aver messo gli interessi dei tedeschi davanti all’Europa. Sembra questa l’unica ricetta contro scetticismi e qualunquismi: la buona politica, affidabile, trasparente ed efficace.

La Stampa 10.10.13

“Femminicidio, primo sì. Ora corsa al Senato”, di Natalia Lombardo

Per il rotto della cuffia, a pochi giorni dalla scadenza per la conversione in legge (il 14 ottobre), il decreto sul «femminicidio» è stato approvato alla Camera e ora dovrà correre al Senato senza essere modificato, altrimenti decadrà. A favore 343 sì dai banchi della maggioranza, Pd, Pdl, Sc, 20 gli astenuti (Lega), mentre Sel non ha partecipato al voto per protesta, perché, ha spiegato in aula Tutti Di Salvo, «il decreto contiene anche norme «a favore della militarizzazione della Val di Susa». Non hanno partecipato al voto anche i Cinque Stelle, tutti in piedi a braccia incrociate per contestare il decreto «omnibus»: in effetti contiene misure «per la sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, la protezione civile e il commissariamento delle Province».
Soddisfatte invece le deputate democratiche: «Senza enfatizzare, è un «ottimo e importante provvedimento» che dà una prima risposta all’attuazione della Convenzione di Istanbul, secondo Donatella Ferranti, Pd: «Le donne ora potranno contare su una tutela più attenta e incisiva contro ogni violenza di genere» e il testo è, secondo la relatrice (insieme a Francesco Paolo Sisto, Pdl), «decisamente migliorato» rispetto a quello originario. Un passo avanti importante sotto il profilo giuridico e politico», commenta Fabrizia Giuliani, Pd, perché «la violenza domestica esce definitivamente dal silenzio della sfera privata, troppo a lungo tollerata o sottovalutata e viene riconosciuta in tutta la sua gravità».
Cosa prevede il dl: nuove aggravanti per chi commette violenze. Tutele per le vittime di violenza anche domestica e maltrattamenti, con un Piano di azione antiviolenza (diventato «ordinario» dopo una battaglia delle democratiche, quindi continuativo e non «straordinario») per la prevenzione e la tutela. Stanziati 10 milioni di euro per azioni di prevenzione, educazione e formazione, tra queste una rete di case-rifugio (previsti altri 7 milioni nel 2014 e altri 10 all’anno a partire dal 2015); estensione del gratuito patrocinio, per le donne straniere che subiscono violenza (o mutilazioni genitali), il permesso di soggiorno potrà essere rilasciato, mentre l’aggressore sarà espulso.
Una aggravante sulla pena riguarda il maltrattamento in famiglia e i reati di violenza fisica commessi in presenza di minori o su donne incinte. pene più gravi per violenza (o stalking) commessi dal coniuge (anche separato o divorziato) o da chi sia o sia stato legato da relazione affettiva. Uno degli argomenti più controversi, criticato da associazioni femministe, è stato quello della «irrevocabilità» della querela per stalking, ma è stata trovata la mediazione sulla «soglia del rischio»: in presenza di gravi minacce ripetute, ad esempio con armi, la querela diventa irrevocabile. Resta revocabile invece negli altri casi, ma la remissione può essere fatta solo in sede processuale davanti all’autorità giudiziaria, per garantire (e non comprimere) la libera determinazione e la consapevolezza della vittima. L’ammonimento per stalking può comportare il ritiro della patente, è previsto l’arresto in caso di fragranza anche per violenza in famiglia e stalking; previste le intercettazioni e l’allontamento urgente dalla casa familiare e il divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla vittima, la persona sarà seguita con braccialetto elettronico.

L’Unità 10.10.13

“Dieci milioni di profughi in fuga da guerre e fame”, di Umberto De Giovannangeli

È l’«esercito» dei migranti politici. Fuggono da guerre civili, conflitti tribali, pulizie etniche. Le fila di questo «esercito» crescono di giorno in giorno. Perché crescono di giorno in giorno le aree di guerra, di sofferenza. L’inferno in terra: Siria, Somalia, Eritrea, Darfur, Libia, l’Africa subsahariana…Le più autorevoli organizzazioni umanitarie concordano nell’indicare, in difetto, il bacino di questo «esercito» di potenziali asilanti: 10-15 milioni. Per avere idea di quale miliardario giro d’affari, per le organizzazioni criminali, potrebbe determinarsi attorno a questo «esercito» di esclusi, basta pensare che oggi, per salire su un boat people e partecipare alla roulette del mare, le mafie del traffico di esseri umani, fanno pagare una cifra, a persona, che varia dagli 8mila ai 12mila dollari. Questa cifra, di per sé mostruosa, di 10-15 milioni, è solo una parte del numero complessivo di rifugiati, ormai arrivato a superare i 45 milioni, stando al rapporto Onu Global Trends 2013. Quell’esercito è stato accresciuto dalla guerra civile siriana.
LE CIFRE DI UNA TRAGEDIA
L’Unione europea deve prepararsi a un «afflusso massiccio» di profughi siriani. A lanciare il monito, ieri, a nome della Commissione europea, è stato il vice presidente Michel Barnier durante in dibattito al Parlamento europeo sulla Siria. «Dobbiamo prepararci alla possibilità di un afflusso ancora più massiccio», avverte Barnier, sottolineando come il crescente arrivo dei profughi siriani registrato in diversi Stati membri «non è più una questione strettamente nazionale, ma una questione europea». «La risposta non si trova certamente nella chiusura delle nostre frontiere nazionali, nel raggomitolarsi in se stessi o in un atteggiamento da barricate, non sarebbe nell’interesse dell’Europa ha aggiunto ogni crisi di questa portata ci riguarda tutti e dovremmo essere pronti in uno spirito di maggiore solidarietà». Sono oltre due milioni i profughi registrati dall’Onu nei Paesi confinanti con la Siria, numero che dovrebbe toccare i 33,5 milioni entro la fine dell’anno. L’Alto commissario Onu per i rifugiati ha chiesto all’ Europa di accogliere 10.000 siriani.
Dalla Siria all’Eritrea. Altro bacino in crescita per l’esercito di migranti «politici». La mancanza di una politica per l’Eritrea da parte dell’Europa garantisce al regime autoritario di Isayas Afewerki, stabilmente al potere da 20 anni, la legittimazione per reprimere ulteriormente la libertà di stampa, di opinione, di riunione e di credo religioso. Ancora oggi l’Eritrea in tema di libertà di stampa è all’ultimo posto su 179 Paesi. Nel suo ultimo rapporto annuale, Amnesty International descrive l’Eritrea come un Paese dove «l’arruolamento militare nazionale è rimasto obbligatorio e spesso esteso a tempo indeterminato. È rimasto obbligatorio anche l’addestramento militare per i minori. Le reclute sono state impiegate per svolgere lavori forzati. Migliaia di prigionieri di coscienza e prigionieri politici hanno continuato ad essere detenuti arbitrariamente in condizioni spaventose. L’impiego di tortura ed altri maltrattamenti è stato un fenomeno diffuso. Non erano tollerati partiti politici d’opposizione, mezzi di informazione indipendenti od organizzazioni della società civile. Soltanto quattro religioni erano autorizzate dallo Stato; tutte le altre erano vietate e i loro seguaci sono stati sottoposti ad arresti e detenzioni». Per Amnesty, sono questi i motivi principali che inducono cittadini eritrei a continuare a fuggire in massa dal Paese, delle dimensioni di un terzo dell’Italia e con meno di cinque milioni di abitanti. Ma nemmeno lasciare l’Eritrea è semplice. Sempre Amnesty spiega che «per coloro che venivano colti nel tentativo di varcare il confine con l’Etiopia è rimasta in vigore la prassi di “sparare per uccidere”. Persone colte mentre cercavano di varcare il confine con il Sudan sono state arbitrariamente detenute e duramente percosse. Familiari di persone che erano riuscite a fuggire sono state costrette a pagare multe per non finire in carcere».
SOMALIA
La situazione è, se possibile, ancora peggiore in Somalia. Secondo un recente rapporto di Caritas Somalia, almeno 1,2 milioni sono gli sfollati interni a cui si aggiunge un milione di rifugiati che hanno trovato asilo nei Paesi limitrofi (Eritrea, Etiopia, Kenya, Uganda, Tanzania, Gibuti e Yemen). Quella in Somalia è una delle più lunghe e gravi crisi di rifugiati al mondo. Nell’ultimo decennio rileva l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati(Unhcr) solo altri tre conflitti, quelli in Afghanistan, in Iraq e ora in Siria, hanno costretto più di un milione di persone a fuggire dalle proprie case. Indicativo è la conclusione di una ricerca dell’Unhcr: a provocare le migrazioni è soprattutto l’incubo della guerra. Lo dimostra il fatto che 55 rifugiati su cento vengono da cinque Paesi coinvolti nei conflitti: Afghanistan, Somalia, Iraq, Siria, Sudan. Importanti nuovi flussi si registrano anche in uscita da Mali, Repubblica Democratica del Congo e dal Sudan verso Sud Sudan ed Etiopia dal Mali e dal Congo RDC. Durante il 2012, 7,6 milioni di persone sono state costrette alla fuga, di cui 1,1 milioni hanno cercato rifugio all’estero e 6,5 milioni sono rimaste all’interno del proprio Paese. Ogni 4,1 secondi una persona nel mondo diventa rifugiato o profugo interno.

L’Unità 10.10.13