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“Ma quanto costa mandare i prof in pensione prima?”, di Nicola Mondelli

Al ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca avrebbero finalmente deciso – riconoscendo implicitamente i notevoli limiti del mastodontico servizio informativo interno (SIDI) – di venire a capo di un mistero che da tempo è senza soluzione per parlamentari, tecnici dello stesso dicastero e dell’Inps. Un mistero che non ha permesso fino ad oggi di trasformare in legge una proposta, sostenuta dalla stragrande maggioranza dei parlamentari, finalizzata a consentire al personale della scuola, che si riconosce nel movimento «Quota 96», di accedere al trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità con i requisiti richiesti dalla previgente normativa previgente l’entrata in vigore del decreto legge 201/2011 (riforma Fornero). Per svelare il mistero, l’Istruzione ha indetto una raccolta telematica di adesioni degli eventuali interessati (nota prot. 2085 del 1° ottobre 2013), così da determinare una volta per tutte la platea. L’obiettivo è sapere quanti realmente siano i dirigenti scolastici, i docenti e il personale amministrativo, tecnico ed ausiliario che, alla data del 31 dicembre 2011, avevano maturato i requisiti della vecchia normativa. Quanti siano quelli che li hanno maturati entro il 31 agosto 2012 ed entro il 31 dicembre 2012. Quanti, tra quelli che li possiedono, sarebbero interessati a cessare dal servizio dal 1° settembre 2014. A causa della incertezza sui numeri il legislatore non è stato in grado di determinare gli oneri derivanti da un intervento normativo volto appunto a consentire l’uscita anticipara rispetto a quanto poi previsto dalla legge Fornero. In verità, una determinazione di costi è stata fatta, ma è tale da non consentire alla Ragioneria di certificare la sostenibilità finanziaria dell’operazione. Alla base della mancata certificazione, vi sono le stime dell’Inps: l’istituto guidato da Antonio Mastrapasqua ha indicato in 9 mila i docenti con i requisiti pre Fornero. Per il dicastero guidato da Maria Chiara Carrozza sarebbero molti di meno, e con il censimento on line si appresta a dimostrarlo.

I vecchi requisiti, come è stato più volte ricordato su queste pagine, sono: per accedere alla pensione di anzianità, 60 anni di età e 36 anni di anzianità contributiva o 61 anni di età e 35 di contribuzione o, indipendentemente dall’età anagrafica 40 anni di anzianità contributiva; per accedere alla pensione di vecchiaia, 65 anni per gli uomini e 61 per le donne, unitamente a non meno di 20 anni di contribuzione.

Coloro i quali siano in possesso dei requisiti anagrafici e contributivi previgenti la riforma Fornero, e volessero manifestare la volontà di cessare dal servizio, si legge nella nota ministeriale, devono presentare, entro il 15 ottobre, alla segreteria dell’istituto scolastico di servizio o, nel caso di personale collocato fuori ruolo, all’ufficio provinciale di propria competenza, una dichiarazione in forma cartacea in cui attestino di avere maturato i requisiti necessari e di volersene avvalere a decorrere dal 1° settembre 2014.

Opportunamente la nota precisa che una tale manifestazione di volontà non ha alcun valore di istanza di cessazione dal servizio, ma esclusivamente fini conoscitivi. La mancanza di una fissazione dei termini entro i quali le istituzioni scolastiche e gli uffici scolastici provinciali devono verificare l’effettivo possesso dei requisiti richiesti dagli interessati e trasmettere le dichiarazioni al SIDI non garantisce, purtroppo, il raggiungimento dello scopo in tempi brevi quali la situazione richiederebbe. Ancora una volta, pertanto, una apprezzabile iniziativa del dipartimento per l’istruzione, diretto da Luciano Chiappetta, viene lasciata nella indeterminatezza degli adempimenti ed affidata alla buona volontà di tutte le parti coinvolte. Per giovedì prossimo intanto è stato convocato dalla XI commissione della camera il Comitato ristretto. Obiettivo: verificare i profili di «Quota 96».

da ItaliaOggi 08.10.13

“Decreto scuola al giro di boa”, di Alessandra Ricciardi

Nuove assunzioni e ampliamento dell’offerta formativa, dall’ora in più di geografia all’apertura anche pomeridiana delle scuole, osservate speciali. Tra i rilievi del Servizio Bilancio e le richieste di chiarimento della V commissione della camera, è toccato al vice ministro dell’economia, Stefano Fassina, intervenire in parlamento per spiegare fin dove si spinge la copertura finanziaria delle misure proposte con il decreto scuola.

Una sorta di controrelazione tecnica al provvedimento oggetto di conversione in legge alla camera. Provvedimento che, superata la crisi di governo, oggi è al suo giro di boa: in mattinata il parere proprio della commissione bilancio presieduta da Francesco Boccia, e nel pomeriggio il termine per il deposito degli emendamenti nella commissione cultura presieduta da Giancarlo Galan. Quelli parlamentari, ma non si escludono governativi che nell’immediato dovrebbero limitarsi ad alcune correzioni poco più che formali. Intanto sempre oggi proseguono gli incontri informali tra i vertici del dicastero dell’istruzione e le altre forze politiche della maggioranza, Pdl e Scelta civica. Già avvenuto infatti quello con il Pd, che ha caldeggiato la necessità di un intervento sui docenti inidonei per affidare alla contrattazione la definizione del passaggio del personale in altri profili. Per il Pdl, invece, sembrano decisive alcune integrazioni sul fronte delle scuole paritarie, in crisi tra tagli ai finanziamenti e difficoltà delle famiglie a pagare le rette. Gli interventi richiesti riguardano Imu e Tares. Ma restano i dubbi sulle coperture finanziarie che avevano già stoppato le misure al consiglio dei ministri.

Il dicastero dell’economia ha risposto a molti rilievi, e si vedrà oggi se le risposte saranno sufficienti per il parere favorevole della commissione bilancio. Per quanto riguarda per esempio il potenziamento dell’offerta formativa, geografia e laboratori didattici, Fassina ha precisato che lo stanziamento di 9,9 milioni di euro fa parte del fondo per il funzionamento delle istituzioni scolastiche statali e che tocca al ministero guidato da Maria Chiara Carrozza fare, con decreto, il riparto tra le varie voci.In quella sede «si potrà quindi stabilire l’importo assegnato alle nuove finalità».

Il Servizio bilancio di Laura Boldrini aveva anche chiesto conto dei parametri della stima dei 3,6 milioni di euro per il 2013 e degli 11,4 per il 2014 destinati a coprire l’apertura pomeridiana degli istituti contro la dispersione scolastica, in particolare al Sud. Si tratta di un tetto massimo di spesa, ha precisato l’Economia, nel quale non rientrano le spese per il maggior impegno richiesto al personale: «Flessibilità oraria, attività aggiuntive di insegnamento e funzionali all’insegnamento, prestazioni aggiuntive del personale Ata», il tutto «è remunerato nell’ambito del fondo dell’istituzione scolastica». Il nuovo stanziamento del dl serve a pagare infatti i materiali e le prestazioni d’opera. Sarà la contrattazione integrativa, agendo sul Fis (che ammonta, rileva la relazione tecnica, a 762,47 milioni), a individuare quanto andrà per le nuove attività al personale scolastico impegnato anche il pomeriggio. E poi, dulcis in fundo, le coperture per le assunzioni di docenti e Ata sui posti vacanti e disponibili per il prossimo tirennio: il decreto rinvia a un apposito contratto il compito di garantire l’invarianza di spesa. A chi chiedeva dettagli, l’Economia risponde che toccherà all’autonomia delle parti in sede negoziale decidere cosa fare. Ricorda solo che, nella precedente tornata, sindacati e governo hanno concordato di sopprimere il primo scatto di anzianità che va dai 3 agli 8 anni di servizio.

ItaliaOggi 08.10.13

“Allarme per l’occupazione: la Cig diventa mobilità”, di Luigina Venturelli

All’inizio della crisi, quando migliaia e migliaia di aziende hanno iniziato a chiedere la cassa integrazione per i propri dipendenti, si sperava fosse solo per qualche mese, abbastanza da superare il calo degli ordini di mercato. Poi i mesi sono diventati anni, e la cig da ordinaria si è trasformata in straordinaria, causa ristrutturazione e riorganizzazione. Adesso però, ad ormai cinque anni dallo scoppio della recessione, la cassa integrazione si è fatta ormai sussidio di disoccupazione per moltissimi lavoratori.
È quanto ci dicono gli ultimi dati forniti dall’Inps sugli ammortizzatori sociali relativi a settembre 2013: gli strumenti per supportare chi perde il proprio posto si stanno pian piano esaurendo, e le politiche di ricollocamento dei dipendenti in esubero non stanno minimamente compensando i tagli occupazionali in corso.
Certo, le ore di cig complessivamente autorizzate sono state 85,2 milioni, in calo dell’1,3% rispetto allo stesse mese del 2012, ma non si tratta di una contrazione significativa. Ad essere significativa, piuttosto, è la diversa composizione delle misure di sostegno richieste: quella ordinaria è diminuita del 3,7%, con crolli dell’8% nel settore industria e del 14,7% nell’edilizia, mentre quella straordinaria, con 36 milioni di ore autorizzate a settembre 2013, ha registrato un incremento del 46,8% rispetto allo stesso mese dell’anno prece- dente. Infine, le ore di casa integrazione in deroga sono state 17,4 milioni, con un decremento del 39,5%.
Il dato più allarmante, però, è relativo agli ammortizzatori di ultima spiaggia, visto che tra l’inizio dell’anno ed agosto sono state presentate oltre un milione e 214mila domande di mobilità e disoccupazione, con un aumento del 22,3% rispetto alle 993mila del corrispondente periodo dell’anno scorso. nel corrispondente periodo del 2012.
L’ALLARME DI CGIL, CISL E UIL
Inevitabile, dunque, la reazione allarmata delle organizzazioni sindacali, che da tempo avevano previsto la situazione. «Anche quest’anno supereremo il miliardo di ore di cig richieste. La flessione registrata sottende soprattutto un progressivo passaggio verso la disoccupazione, nonchè un carattere sempre più strutturale della crisi» com- menta il segretario confederale della Cgil, Elena Lattuada. «Il tutto mentre l’ennesima flessione della cassa in deroga ci dice che sono ancora centinaia di migliaia i lavoratori di aziende in crisi che non stanno percependo alcun sostegno al reddito». Insomma, sono evidenti le urgenze a cui la politica dovrà fra fronte con la prossima legge di Sta- bilità, «a partire da un adeguato finanziamento della deroga per ciò che resta del 2013 e per tutto il prossimo anno», fino ad interventi per «sostenere e rilanciare i contratti di solidarietà, co- me strumento vitale per sostenere il reddito e redistribuire il lavoro» e, soprattutto, conclude la dirigente della Cgil, a politiche per «tentare di inverti- re il trend della crisi con» con «azioni per la redistribuzione del reddito e per alleggerire il prelievo sul lavoro e sulle pensioni».
Sugli stessi toni anche Luigi Sbarra della Cisl, che parla di «una transizione verso crisi più strutturali, o addirittura verso la disoccupazione». Per questo il governo «deve mettere il lavoro al primo posto, dando risposte ad una situazione occupazionale sempre più critca, a partire dal rifinanziamento degli ammortizzatori in deroga, ad evitare lo stillicidio nei finanziamenti che ha caratterizzato l’anno in corso». Ma soprattutto, «perché il lavoro cresca, sia durevole e di qualità c’è bisogno che riprenda l’economia del Paese lavoran- do su due direttrici: ridare fiato ai consumi e incoraggiare gli investimenti. A tal fine per la Cisl sono decisive le politi- che fiscali, le politiche industriali, l’efficienza della spesa pubblica». nel frattempo, sottolinea Sbarra, «si deve mettere finalmente mano al sistema delle politiche attive di ricollocazione».
Anche per il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy, «si conferma ciò che si temeva: il passaggio per molti lavoratori dalla cassa integrazione, spesso quella in deroga, alla vera e propria disoccupazione. Rimane assente, per oltre 1,2 milioni di persone che han- no perso il lavoro, qualsiasi azione per una loro ricollocazione». Le tre confederazioni concordano: «È necessario un salto di qualità che ridia fiato ad un’economia sempre in forte difficoltà, iniziando da un concreto sostegno fiscale al reddito di chi lavora».

L’Unità 08.10.13

L’Unità 08.10.13

“Prima di tutto il lavoro”, di Massimo D’Antoni

La settimana che abbiamo alle spalle è stata testimone di un passaggio fondamentale sul piano politico, con la rinnovata fiducia al governo Letta e un cambiamento nei rapporti di forza nel centrodestra che potrebbe preludere ad una vera e propria mutazione. Cruciali per capire se questa evoluzione positiva darà qualche frutto saranno i prossimi appuntamenti di politica economica.
A pochi giorni dalla presentazione da parte del governo della legge di stabilità, vale la pena di richiamare quali sono le principali partite aperte.
Innanzitutto quella dell’Imu. La nota di aggiornamento sui conti pubblici presentata dal governo a fine settembre ha chiarito quali sono le risorse disponibili e dovrebbe costituire un bagno di realismo per le forze che sostengono il governo. È tempo che la destra moderata, se aspira ad essere realmente tale, accetti che non saranno più possibili proposte ultimative, magari corredate da ipotesi di copertura fantasiose come quelle cui ci aveva abituato l’onorevole Brunetta.
Non è realistico pensare che ci siano le risorse per abolire la seconda rata Imu, e se tali risorse ci fossero vi sarebbero impieghi ben più urgenti per il rilancio dell’economia.
Non si è potuto evitare l’aumento dell’Iva, che incide immediatamente sul potere d’acquisto delle famiglie. L’aumento al 22% uno di quei provvedimenti a scoppio ritardato introdotti nel 2011 dal governo Berlusconi, che la coincidenza temporale con la bravata delle dimissioni di ministri e parlamentari ha impedito di rinviare ulteriormente come sarebbe stato opportuno.
Per il rilancio dell’economia il governo punta ora sulla riduzione del cuneo fiscale. Qui la discussione riguarda la misura in cui essa si tradurrà in un aumento del reddito netto (attraverso una riduzione delle detrazioni o dell’aliquota del primo scaglione Irpef) oppure in una riduzione del costo del lavoro (attraverso una riduzione dell’aliquota sulla componente lavoro dell’Irap).
Si scontrano su questo due diverse strategie, rispettivamente quella di chi invoca uno stimolo alla domanda interna e di chi considera invece prioritario operare sul lato offerta attraverso una riduzione dei costi e quindi un aumento della competitività. Il Partito democratico dovrebbe spingere per quanto possibile sulla prima leva, quella che passa per un aumento del reddito disponibile delle famiglie; questo non solo per ragioni di equità ma anche perché non è sul minore costo del lavoro, bensì sull’innovazione di prodotto e la qualità, che le nostre imprese devono poter contare per recuperare ed ampliare la loro capacità di penetrazione sui mercati internazionali.
Il 2014 porta con sé almeno altre due questioni di grande rilevanza. Innanzitutto il riordino della spesa pubblica. Non sono utili qui interventi all’ingrosso, calati dall’alto, che scaricano in modo indiscriminato sul livello inferiore (le Regioni, i Comuni, le scuole, le Asl) la difficoltà di far fronte ai bisogni dei cittadini con risorse insufficienti; occorrono invece programmi di riorganizzazione che, a partire da un’attenta ricognizione, individuino disfunzioni e sprechi in modo puntuale.
Le prime dichiarazioni del nuovo commissario alla spending review, l’economista Carlo Cottarelli, sembrano abbracciare questa filosofia e fanno sperare in un approccio serio di cui, con buona pace di chi immagina fantasiose riduzioni della spesa da realizzare in tempi brevi, si vedranno i frutti nel medio periodo.
Infine, c’è naturalmente la questione dell’Europa. Da questo punto di vista il 2014 sarà un anno cruciale: levato di mezzo l’alibi dell’imminenza delle elezioni tedesche o quello dell’affidabilità del governo italiano, le elezioni del Parlamento europeo e il semestre di presidenza italiano dovranno essere l’occasione per ripensare l’architettura dell’Unione e dell’euro e l’insieme dei rapporti reciproci tra paesi. In un articolo uscito in lingua inglese, il premier Letta ha parlato di solidarietà responsabile, immaginando un sistema che potremmo definire di assicurazione reciproca tra paesi; un primo embrione di unione fiscale.
Su questo obiettivo si misurerà il governo, forte della rinnovata fiducia dei giorni scorsi. Unione bancaria, esclusione degli investimenti dal fiscal compact, una politica monetaria e fiscale di segno più espansivo: sono obiettivi da perseguire e, forse, un po’ più a portata di mano di quanto non fossero solo pochi mesi fa.

L’Unità 08.10.13

“Quella terza età ultimo baluardo del welfare”, Chiara Saraceno

Gli attivissimi giovani-vecchi di Voghera, gli ultrasessantacinquenni che stanno bene in salute e si dividono tra attività ludico-formative e attività di sostegno sia ai famigliari che ad altri membri della comunità, sono forse gli ultimi beneficiari di un’economia in crescita e di un welfare relativamente generoso con i pensionati — almeno quelli che potevano vantare una storia lavorativa e contributiva regolare.
Sono gli ultimi ad aver potuto andare in pensione con il sistema retributivo, che garantiva il mantenimento del tenore di vita. Allo stesso tempo, sono i primi a dover fronteggiare come fenomeno diffuso e non occasionale, o eccezionale, i bisogni dei grandi anziani ed insieme le domande di aiuto — economico, di cura dei più piccoli, che provengono dalla generazione più giovane: dove più mamme sono occupate, ma il lavoro e i redditi di uomini e donne sono diventati più insicuri. Sono protagonisti esemplari di che cosa possa voler dire un “invecchiamento attivo” che non sia ristretto solo ad un prolungamento della vita lavorativa, ma anche che non si realizzi solo in attività di tempo libero, ma comprenda dimensioni diverse, inclusa quella di un civismo solidale, bene rappresentano quella che è stata definita la terza età: un’età libera dall’obbligo della prestazione, ma in cui si può ancor voler essere utili, si ha più tempo per sé e per coltivare i propri interessi (che tuttavia devono essere stati alimentati nelle età più giovani), anche perché normalmente si è ancora in buona salute.
Il grande demografo inglese Peter Laslett, nell’analizzare l’emergere della terza età come fase della vita specifica a seguito del miglioramento delle speranze di vita in buona salute, la aveva indicata come età della libertà. Una visione forse troppo ottimistica, nella misura in cui sottovalutava le conseguenze delle disuguaglianze sociali sul modo e le condizioni in cui ci si arrivava. Soprattutto, Laslett non avrebbe immaginato che, nell’arco di due generazioni circa gli anziani sarebbero passati dal ruolo di chi aveva bisogno di sostegno da parte delle generazioni più giovani a quello di chi ha la responsabilità di sostenere sia i più vecchi che i più giovani. Sono questi “giovani anziani” la vera generazione “sandwich”, quella che provvede al welfare famigliare, ma anche, nel caso di chi fa volontariato, a una parte rilevante del welfare informale di comunità, soprattutto nei confronti dei grandi anziani fragili. È un fenomeno altamente positivo, senza dubbio, che esemplifica come può realizzarsi, appunto, un welfare di comunità, animato da cittadini solidali. Esso tuttavia rimane affidato, appunto, alla disponibilità (di tempo e di voglia) di volontari. Un tempo, se non una voglia, che per altro rischia di essere fortemente ridotto dall’innalzamento dell’età alla pensione. I giovani anziani (specie anziane) che oggi si fanno carico dei bisogni dei loro genitori grandi anziani, oltre che di quelli di figli e nipoti, e che fanno volontariato, rischiano di non poter contare su una risorsa analoga quando a loro volta entreranno nella quarta età. Non perché i loro figli sono più egoisti. Piuttosto perché si sarà accentuato — a livello non solo sociale, ma delle reti parentali — lo squilibrio tra (grandi) anziani e persone più giovani. Ci saranno meno sessanta-settantenni. E questi, stante l’aumento della occupazione femminile e l’innalzamento dell’età pensionistica, saranno più spesso ancora al lavoro.
Ci avviamo verso una società sempre più anziana con strumenti che si rifanno ancora ad un’epoca caratterizzata da equilibri demografici e famigliari molto diversi. L’unica innovazione, sviluppatasi in modo del tutto informale e un po’ anarchico, è stato il ricorso alle badanti, favorito dai processi migratori. Non è tuttavia uno strumento sufficiente, alla portata di tutti, oltre che aperto a rischi di sfruttamento in entrambe le direzioni. Una società amichevole nei confronti degli anziani — soprattutto dei grandi anziani fragili — è una società che non li abbandona solo alla solidarietà privata o al mercato. Non è neppure una società fatta solo, o prevalentemente, di anziani che si trovano, e accudiscono, tra di loro. Le tante Voghere d’Italia dovrebbero, forse, fare qualche sforzo di ringiovanimento: non eliminando i vecchi, naturalmente, ma attraendo giovani e famiglie giovani. Una società multigenerazionale è più interessante per ciascuna generazione. Certo, se i giovani devono dipendere dai vecchi perché il lavoro non c’è o è precario, è molto difficile che questo ringiovanimento avvenga.

La Repubblica 08.10.13

“Un taglio alle tasse per l’occupazione”, di Tito Boeri

Un governo più stabile si avvia a varare la sua prima legge di stabilità. Ha solo questa cartuccia se vuole contribuire a far ripartire l’economia italiana nei 15 mesi che lo separano dalla fine del suo mandato. Gli spazi di manovra sono minimi. Il che impone di concentrarsi sulle priorità. Sin qui, l’unica conclamata è quella legata alla disoccupazione, soprattutto giovanile. È la priorità giusta perché questo mercato del lavoro penalizza i consumi e spreca il capitale umano di cui disponiamo. Dopo le parole e le misure cosmetiche come il bonus giovani, è tempo di passare ai fatti. Un taglio di 2 miliardi del cuneo fiscale è inutile. Solo una riduzione di almeno due punti e mezzo della pressione fiscale sul lavoro può avere effetti significativi sull’occupazione. Vale un punto di Pil. Vediamo prima perché e poi come attuarlo e finanziarlo. La priorità oggi non può che essere il lavoro. Sono circa sette milioni le persone disoccupate, sottoccupate o inattive solo perché scoraggiate dopo aver a lungo cercato un lavoro. Quasi la metà di queste ha meno di 35 anni, i lavoratori più istruiti di una forza lavoro che ha un capitale umano più basso che negli altri paesi Ocse. Ed è gravissimo il fatto che, tra quelli attivamente presenti sul mercato del lavoro, quasi solo un giovane sue due trovi un impiego. E non è certo perché i giovani sono schizzinosi: un terzo di quelli che lavorano, lo fanno per meno di 5 euro all’ora, in più del 50 per cento dei casi si tratta di lavori temporanei, spesso con orari più corti di quelli che si vorrebbe (l’80% dei giovani che lavorano part-time vorrebbe un impiego a tempo pieno). In queste condizioni, chi può, e sono in genere coloro che hanno livelli di istruzione più elevati, se ne va all’estero dove i tassi di disoccupazione giovanile arrivano a malapena alle due cifre. Affrontare questo problema non serve solo a stimolare i consumi. Serve per evitare di sprecare capitale umano, il fattore strategico per uscire dalla crisi.
Se il lavoro è davvero la priorità del governo, bene che passi dalle parole ai fatti. A fronte dei numeri appena ricordati, le 6500 domande di assunzione presentate a venerdì per il bonus giovani sono un segno di impotenza. Ci vorrà del tempo per stabilire se sono davvero assunzioni aggiuntive o fanno parte di quelle 120.000 assunzioni che si registrano in Italia mediamente ogni mese anche senza il sussidio. In ogni caso, questi bonus hanno già assorbito un decimo delle risorse messe a disposizione sulla carta da qui al 2016. In verità, hanno già esaurito i fondi perché le Regioni, come denunciato nei giorni scorsi su queste colonne, non stanno contribuendo al finanziamento della misura. Non capiamo come Letta abbia potuto vantarsi di queste misure nella sua replica al Senato. Ora si parla di ridurre il cuneo fiscale e contributivo (oggi mediamente al 46 per cento) che grava sul lavoro. Secondo il sottosegretario Dell’Aringa, l’esecutivo sarebbe intenzionato a destinare a questo intervento 2 miliardi. Significa 30 euro in più in busta paga all’anno per chi ha salari di 30.000 euro lordi e 60 euro di costi in meno per il suo datore di lavoro. Pensate che se ne accorgerebbero? Se si vuole davvero stimolare la domanda di lavoro serve un intervento più consistente, almeno due punti e mezzo in meno di prelievo. Significherebbe per un lavoratore con stipendio medio intorno ai 30mila euro trovarsi 250 euro all’anno in più in busta paga e far risparmiare 500 euro al suo datore di lavoro. Ma un intervento di questo tipo costa attorno ai 16 miliardi.
Dove trovare i soldi per un’operazione di questo tipo? La strada maestra dovrebbe essere quella di tagliare la spesa improduttiva, i famosi sprechi, ma sin qui il governo non ha fatto nulla per metterci in questa condizione. Solo a cinque mesi dal giuramento a Palazzo Chigi, si sta finalmente avviando la spending review, tra l’altro all’insegna degli stessi errori compiuti dagli esecutivi precedenti. La rassegna della spesa non può infatti essere affidata a un uomo solo, per quanto valido come Enrico Bondi o Carlo Cottarelli. Non può neanche essere delegata interamente a dei tecnici perché comporta inevitabilmente scelte di natura politica. Per capire quanto contino i tecnici in queste scelte, basti pensare al fatto che non c’è forse mai stato nella storia repubblicana un governo in cui la Banca d’Italia sia stata più influente di questo. Eppure il governo sin qui ha attivato tutti gli strumenti tipici dei governi balneari degli anni ’70 e ’80: accise sulla benzina, tasse sui giochi e sulla sigarette. Cose alquanto indigeste per chi ha studiato l’economia.
In attesa degli esiti di una spending review che richiederà almeno un anno, non rimane che la strada dei tagli selettivi (non lineari!) della spesa pubblica. Bisognerebbe partire dagli incentivi alle imprese (una torta compresa tra i 5 e i 10 miliardi perché non si sa ancora a quanto ammontino le somme impegnate dalle Regioni) e dai 7 miliardi che ogni anno spendiamo per le cosiddette politiche attive del lavoro, in realtà in corsi di formazione di assai dubbia efficacia. Poniamo che da questi due capitoli si possano ricavare 10 miliardi. Il resto dei tagli non potrebbe certo escludere i capitoli di spesa che sono cresciuti di più negli ultimi anni, pensioni e sanità, che ormai assorbono metà della spesa corrente. Qui si tratta di tagliare mentre si persegue una maggiore equità. Si possono, ad esempio, prevedere tagli alle pensioni d’oro e una riduzione dei trasferimenti alle Regioni a fronte del superamento dell’assistenza sanitaria gratuita per chi ha redditi elevati. Possibile anche ridurre le disparità territoriali nelle remunerazioni nel pubblico impiego, dove non si tiene minimamente conto delle grandi differenze presenti nel costo della vita, quindi nel potere d’acquisto dei salari, fra diversi mercati del lavoro locali. Ma non è realistico e neanche opportuno (avrebbero effetti recessivi) che tutti questi tagli intervengano subito. Se la riduzione del cuneo fiscale dovesse concentrarsi sui salari più bassi, si potrebbe negoziare con l’Europa il suo finanziamento tramite il Fondo Sociale Europeo per i primi due anni, usando il precedente della Spagna o della Repubblica Slovacca. Se, invece, si trattasse di una riduzione generalizzata dei contributi previdenziali (che li porti dall’attuale 32,7 per cento al 30 per cento) si potrebbe ottenere di finanziarla in parte in disavanzo, facendo valere il fatto che in un sistema contributivo queste riduzioni sono, a lungo andare, sostenibili.
Quale che sia la strada che si intende perseguire, l’Europa ci verrebbe incontro solo se siamo in grado di garantire fin da subito coperture strutturali per il taglio del cuneo fiscale, almeno a partire dal 2016, con provvedimenti già approvati dal Parlamento. Nel frattempo la spending review potrebbe identificare tagli agli sprechi che valgano altrettanto se non di più. Questo modo di procedere avrebbe il vantaggio di mettere il governo che opererà dopo le elezioni del 2015 nelle condizioni di scegliere se mantenere i tagli selettivi già votati e destinare le risorse così risparmiate a misure importanti come il reddito minimo (cui ha fatto riferimento il ministro Giovannini sabato su queste colonne) oppure sostituire i tagli selettivi già approvati con le misure varate nel contesto della spending review. Sarebbe anche un modo di orientare, per una volta, una campagna elettorale su scelte concrete. È chiaro che un’operazione di questo tipo è incompatibile con l’abolizione completa dell’Imu sulla prima casa. Il governo potrebbe limitarsi a ridurre le tasse sulle compravendite immobiliari, in modo da rivitalizzare il mercato delle abitazioni. Se è davvero finita l’era dei ricatti, se è finita la stagione della spesa pubblica e delle tasse che si rincorrono al rialzo iniziata 20 anni fa, è bene mostrarlo subito, sapendo che un taglio permanente e consistente del cuneo fiscale avrebbe effetti sull’occupazione ancor prima di entrare in vigore dal primo gennaio 2014.

La Repubblica 08.10.23

Viaggio nel Centro della vergogna: «Ho visto gli orrori nel Cie di Lampedusa», di di Khalid Chaouki*

«Racconteremo e non saremo creduti», così scrisse Primo Levi, testimone e vittima delle atrocità naziste, per significare l’enormità del male che aveva colpito il suo popolo; ebbene noi, davanti alla tragedia che si consuma nel nostro Mediterraneo, diventato il più grande cimitero a cielo aperto, di fronte ai racconti di questo orrore e a quello che ho potuto vedere con i miei occhi a Lampedusa, insieme ai miei colleghi parlamentari e alla Presidente della Camera Laura Boldrini, non posso stare in silenzio. Il Centro di accoglienza di Lampedusa è in condizioni disumane. E tutti oggi devono sapere il livello di degrado e inciviltà a cui siamo arrivati come Italia e come Europa. Tutti.
Appena entrato nel Centro di accoglienza di Lampedusa non credevo ai miei occhi quando Mustafa, signore siriano sulla cinquantina mi ha preso per mano e mi ha trascinato sotto un albero davanti a una brandina: «Vedi, questa è mia figlia ed è incinta al quinto mese. Abbiamo attraversato il mare, siamo scappati da Assad. Non vorrei perdesse suo figlio proprio qui a Lampedusa».
A Lampedusa si dorme per terra, su materassini di gomma sistemati tra cespugli, panchine e immondizia. Mentre cammino tra gruppi di famiglie sistemate per terra, mi fermo da un gruppo di bambini, questa volta palestinesi e anche loro fuggiti dalle bombe del regime siriano. Mi abbasso in ginocchio, mi presento in arabo e chiedo a loro dove dormono. Senza parlare uno di loro mi indica un camioncino scassato, credo una cella frigo per gelati abbandonata dentro il Centro. Non ci credo, non ci voglio credere. La mia guida siriana improvvisata insieme ad altri ragazzi, per lo più ventenni, corrono verso il camioncino, aprono le portiere laterali. Sono pieni di materassini di gomma. «Qui dormono alcune famiglie. Almeno sono al riparo dalla pioggia» aggiunge un altro.
Non faccio in tempo a riprendermi dall’angoscia che una giovane donna, Iman, occhi verdi bellissimi, chiede di parlarmi, solo. Con pudore e scusandosi per il disturbo, mi confessa a bassa voce le sue paure: «Non voglio che ci portino in Sicilia. I nostri amici che sono già lì nel centro ci hanno al telefono che li hanno picchiati. Ho tanta paura e da qui non mi sposto finché non mi assicuri che non ci picchieranno». Mi cade il mondo addosso. Sono scappati dalla violenza, hanno viaggiato per giorni e settimane sognando un rifugio sicuro. E qui da noi questa signora teme la violenza nei nostri centri. Rimango interdetto, cerco di tranquillizzarla con la promessa di indagare sulle condizioni dei centri siciliani. Lei non molla e con gli occhi lucidi mi chiede il numero di cellulare: «Almeno se mi succede qualcosa so con chi posso parlare». È terrorizzata.
TRA PUDORE E STUPORE
Siamo in un Centro che può ospitare 250 persone, ce ne sono oltre mille. Sono eritrei, somali, sudanesi. Persone fuggite alla guerra non turisti in cerca di fortuna. Ora la stragrande maggioranza è siriana. I minori sono 161 accompagnati dalla famiglia, mentre 67 sono non accompagnati. Tra di loro vi sono anche i 41 minori superstiti del naufragio di venerdì mattina, senza più la famiglia. Questo il resoconto dettagliato degli instancabili operatori di Save the Children. «Ci sono solo due medici e ci danno solo dei calmanti. Io ho problemi di cuore, lui ha fortissimi dolori alla schiena. Per mangiare facciamo una fila e aspettiamo almeno due ore», questa volta a parlare è Ahmad, un giovane che mi confida sconsolato che non avrebbe mai immaginato di trovare questa situazione in Italia, in Europa. Annuisco con la testa, lo so.
Il campo profughi Zaatari in Giordania è mille volte meglio di questa schifezza. Ci sono stato recentemente per conto dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea. Non glielo dico per pudore. Ahmad purtroppo ha ragione e si vergogna lui per me, come se comprendesse il mio imbarazzo e la mia rabbia, cambia argomento e mi accompagna in quello che chiama l’hotel cinque stelle. I padiglioni coperti, prefabbricati su due piani. Vedo subito qualche giovane eritreo, dormono sui materassini ma almeno sono al coperto. I famosi 250 posti. Le condizioni igieniche non sono il massimo, puzza dappertutto perché le finestre non si aprono, sono rotte. Ma almeno non si beccano la pioggia e il freddo durante la notte.
Scendo e riprendo il mio viaggio nella vergogna italiana tra bambini, donne e giovani sotto i cespugli e sulle panchine. Vorrei che tutti gli italiani vedessero quello che ho visto. Parlassero con queste donne annunciando loro in faccia che ora rischiano l’incriminazione per immigrazione clandestina. Noi piangiamo i morti, mentre chi si salva lo iscriviamo nel registro degli indagati. Criminale perché colpevole di non essere morto anche lui insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle. Come è successo per i sopravvissuti all’ultima tragedia di giovedì. Questa è la vergogna in cui siamo precipitati, dopo anni di indifferenza davanti ai proclami razzisti del cattivismo leghista. Ma ora basta. Voglio guardare a testa alta Iman e poterle dire con orgoglio «Benvenuta in Italia. Da oggi questo è per te un rifugio di pace e sicurezza».
È la sera di sabato 5 ottobre. Vengo risvegliato da un tuono fortissimo, a Lampedusa sta diluviando. Non riesco, nessuno di noi della delegazione riesce a prendere sonno. Il nostro pensiero è con i profughi al centro di accoglienza. Bambini, donne e uomini di corsa, nel cuore della notte, alla ricerca di un riparo di fortuna. Questa vergogna deve finire.

*Parlamentare Pd

L’Unità 07.10.13