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“L’abisso delle prigioni”, di Adriano Sofri

Per una volta, mi metterò nei panni di Giorgio Napolitano. Il quale sapeva, come me e come voi, che il suo messaggio sulle carceri gli sarebbe stato ritorto contro come un vile espediente per trarre dalle peste Silvio Berlusconi. Che ci sono esponenti politici e uomini di spettacolo che sulla rendita di insinuazioni come queste ingrassano. Che la corruzione di comportamenti e lo scandalo di sentimenti di un ventennio sfinito hanno esacerbato l’opinione. Insomma: che si stava cacciando in un guaio grosso. E allora, perché l’ha fatto? Azzardo una risposta. Se fossi Napolitano, sarei sconvolto, come me, dallo stato delle galere. Mi ricorderei di essere andato – lui, non io – il giorno di Natale del 2005, a una “marcia per l’amnistia” indetta dai radicali. Otto anni fa: Napolitano aveva appena ottant’anni, Berlusconi stava benone, era capo del governo. A quella Marcia di Natale, Napolitano disse al cronista di Radio radicale che per lui, col suo passato, non era così insolito partecipare a un corteo, sebbene fosse diventato più raro. Ma a questa, spiegò, bisognava esserci. E mi auguro che la politica affronti il problema, aggiunse, «senza lasciar prevalere pregiudiziali, o timori non ben chiari…».
Continuo a immaginare che cosa dev’essersi detto licenziando il suo messaggio. Non se la prenderà, io sono interdetto in perpetuo. Si sarà ricordato che nel giugno 2011 partecipò a un convegno promosso da Pannella e ospitato dal Senato sulle carceri. Berlusconi stava benino, era capo del governo. Lui, il presidente, disse che era una «questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile». Disse che la questione della giustizia e specialmente delle carceri era giunta «a un punto critico insostenibile, sotto il profilo della giustizia ritardata e negata, o deviata da conflitti fatali tra politica e magistratura, e sotto il profilo dei principi costituzionali e dei diritti umani negati per le persone ristrette in carcere». Citò «i più clamorosi fenomeni degenerativi – in primo luogo delle condizioni delle carceri e dei detenuti – e anche le cause di un vero e proprio imbarbarimento ». Parlò di «una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana – fino all’impulso a togliersi la vita – di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell’estremo orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibile in qualsiasi paese appena appena civile – che solo recenti coraggiose iniziative stanno finalmente mettendo in mora». (Macché: sono sempre lì, questo lo aggiungo io). Continuò: «Evidente è l’abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale… È una realtà non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita, e dalla quale non si può distogliere lo sguardo…». E concluse: «Non dovremmo tutti essere capaci di uno scatto, di una svolta, non foss’altro per istinto di sopravvivenza nazionale? Ci si rifletta seriamente, e presto, da ogni parte».
Non ci si rifletteva, da nessuna parte, o quasi. Intanto lui, Giorgio, continuava a tormentarsene, penso. Visitava galere, ascoltava invocazioni, veniva alternamente lodato e insultato da Marco Pannella, che gli ingiungeva di rivolgere un messaggio alle Camere. Napolitano è forse altrettanto impaziente di lui, ma lo dissimula meglio, e temeva che un’iniziativa così straordinaria come il messaggio presidenziale sarebbe restata in quelle circostanze lettera morta, e avrebbe fatto retrocedere piuttosto che avanzare la giusta causa e urgente. Però non perdeva occasione per ribadirla. Qualche tempo fa, all’uscita da una visita a San Vittore, a Marco Cappato che lo interpellava sull’amnistia, rispose: «Se mi fosse toccato mettere una firma lo avrei fatto non una ma dieci volte». Berlusconi stava ancora così e così.
Napolitano si sarà ricordato tutto questo. Intanto l’Europa ci condannava ripetutamente, e l’Italia, che lui supremamente rappresenta, veniva vieppiù umiliata. Avrà pensato ancora: “Mentre lasciavo il Quirinale, e avevo pronte le valigie, e mi figuravo un ozio di Capri appropriato alla mia età e ai desideri di famiglia, questo mi rimordeva sopra tutto. Quando ho disfatto le valigie, mi sono ripromesso di riprendere comunque il filo. L’ho fatto ora, prima che sia davvero troppo tardi. Tardi per le scadenze tassative cui ci obbliga l’Europa, e, più irreparabile ancora, per la nostra umanità. Il mio messaggio è là, cliccateci sopra, leggetelo, non vi accontentate di questa usurpazione giornalistica. Troverete tutto, niente di più e niente di meno di quello che penso e sento. Adesso ne ho 88, di anni. A differenza di voi giovani, posso permettermi di guardare lontano. Come volete che mi intimidisca delle speculazioni, delle insinuazioni, degli insulti? Mi dispiacciono certo le incomprensioni e le diffidenze sincere, mi auguro che vogliano misurarsi con la verità. E comunque, posso permettermi anche di dire le cose come stanno: per esempio, che chi mi accusa di voler salvare Berlusconi (che non potrebbe nemmeno San Gennaro, n. d. r.) e assicurare ‘l’impunità delle caste’, se ne frega del paese e della gente, e non sa quale tragedia sia quella delle carceri”.
Cinque anni fa, quando fu varato un indulto mutilato dell’amnistia, che avrebbe sgombrato tribunali ostruiti da un arretrato intrattabile, favorendo prescrizioni agli abbienti e sventura ai poveri cristi, restarono con pochi altri a difendere una decisione del parlamento, lui Napolitano e Romano Prodi. Allora, lo spauracchio agitato sul futuro della democrazia era Previti: Previti restò dov’era, in un comodo domicilio, e nessuno ne ha più sentito parlare. Gridavano che il processo all’Eternit sarebbe stato insabbiato: si è tenuto ed è finito come doveva. Ammonirono che i delinquenti usciti avrebbero messo a repentaglio la sicurezza degli italiani: non successe, e fra gli usciti e i beneficiari di pene alternative ci furono assai meno recidivi. Queste ultime osservazioni, e molte altre cui rinuncio, non sono del presidente, ma mie: un po’ per uno.
Considerando tutti questi precedenti, Napolitano ha confidato che non si potesse lealmente fraintenderlo. Che non si possa fraintendere il favore per la stessa amnistia, quando viene da giuristi come Carlo Federico Grosso, da ministri indipendenti come la signora Cancellieri, da direttori di carceri, da sindacati di agenti penitenziari, da magistrati e avvocati e operatori penitenziari. Ci sono 64.758 detenuti per una capienza di 47.615, ha scritto. Ci sono sgabuzzini provvisori di un metro per un metro adibiti a cella, senza finestre, senza una suppellettile, con un giornale sul quale fare i propri bisogni. È un po’ lungo il suo messaggio, lo sa, ma si abbia cura di leggerlo. Poi lui non c’entra più. È sovrano il Parlamento. Può fare quello che crede, là sono indicate molte misure diverse, e soprattutto un criterio, e più ancora un sentimento. In Parlamento ci sarà chi è favorevole all’amnistia perché spera che ne venga una via d’uscita per Berlusconi. Ci sarà chi è contrario all’amnistia perché teme che ne venga una via d’uscita per Berlusconi. Napolitano avrà fatto la tara, e si sarà augurato che ci sia chi rifletta perché è in pena per l’inferno in cui stanno i carcerati e le loro famiglie, e per il vicolo cieco in cui si trova la giustizia. (Gli altri, quelli che sono comunque contro ogni clemenza perché sono pieni di rancore e detestano il prossimo loro, non vanno considerati in una categoria a parte, perché stanno indifferentemente nella prima e nella seconda).
Ecco, penso che sia andata più o meno così. Tornato del tutto nei miei panni, ho una cosa da dichiarare, per conflitto d’interessi. Io devo gratitudine a Napolitano, perché non mi diede la grazia. Avrei vissuto il mio tempo supplementare da graziato, sarebbe stata dura.

La Repubblica 09.10.13

“I numeri della disoccupazione record”, di Marco Ventimiglia

Applicare la proprietà transitiva in campo economico può a volte risultare fuorviante. Ma il timore è che non lo sia affatto ragionando su quanto comunicato ieri dal Fondo monetario internazionale all’interno del suo World Economic Outlook. Da un lato, infatti, l’istituto di Washington ritiene che il principale rischio mondiale a breve termine consiste nella difficoltosa ripresa economica «dovuta agli aggiustamenti fiscali e ai passi indietro sul fronte delle politiche da adottare in un’area euro finanziariamente frammentata». Dall’altro lato l’Fmi individua l’Italia come la grande nazione messo peggio nel Vecchio Continente, con relative pessime performance in fatto di Pil e, soprattutto, andamento della disoccupazione. Insomma, la proprietà transitiva indica proprio il nostro Paese come uno dei maggiori punti interrogativi sulla strada che porta verso l’agognata ripresa globale. C’è poco da sorridere, anche perché l’Istat, sempre ieri, ha sfornato una serie di dati che certificano ancora una volta l’entità della crisi, con la pressione fiscale salita alle stelle ed il crollo del potere d’acquisto delle famiglie.

CIFRE DRAMMATICHE

In particolare, secondo i dati in possesso del Fondo monetario internazionale, l’economia italiana è già re- duce da una pesantissima contrazione nel 2012, con un -2,4%. Ma quest’anno non andrà granché meglio, se è vero che la stima parla di una contrazione dell’1,8%, con un modesto ritorno alla crescita nel 2014, pari allo 0,7%. Ancora peggiori, come detto, i numeri relativi al mercato del lavoro. Quest’anno il tasso di disoccupazione in Italia salirà fino al livello record del 12,5%, con una brusca impennata rispetto al già drammatico 10,7% registrato nel 2012. Ed a differenza del Pil non sono previste significative inversioni di tendenza per l’anno prossimo, con il tasso annuo dei senza lavoro stimato soltanto in leggero calo, 12,4%. Ben più attenuato il morso della crisi sull’intera Eurozona, dove il Pil è destinato a ridursi dello 0,4% nel 2013, per poi risalire dell’1% l’anno prossimo. Sempre in relazione al nostro continente, il World Economic Outlook sottolinea come «l’assenza di una vera unione bancaria porta i mercati finanziari a restare altamente vulnerabili», nonché soggetti a repentini cambiamenti di umore. Il documento cita poi gli Stati Uniti fra gli elementi di rischio con lo “shutdown” del governo federale e il nodo spinoso del tetto al debito pubblico.
Quanto all’Istat, ha comunicato ieri che la pressione fiscale nel secondo trimestre del 2013 è stata pari al 43,8%, risultando superiore di ben 1,3 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Ed ancora, nello stesso periodo le entrate totali sono cresciute, in termini tendenziali, del 2,9% e la loro incidenza sul Pil è stata del 48,3% (46,3% nel corrispondente trimestre del 2012). Le uscite totali sono invece aumenta- te dello 0,3% e la loro incidenza rispetto al Pil risulta del 49,3% (48,5% nel corrispondente trimestre dell’anno precedente).

Intanto, sempre nel secondo trimestre, il potere d’acquisto delle famiglie è diminuito dello 0,7% rispetto ai tre mesi precedenti e dell’1,3% rispetto allo stesso periodo di un anno fa. A conferma di una tendenza negativa purtroppo consolidata, l’Istat rileva inoltre che nei primi sei mesi del 2013, nei confronti del medesimo periodo del 2012, il potere d’acquisto ha registrato una flessione ancora maggiore, pari all’1,7%.

L’Unità 09.10.13

Italiani, un popolo di nuovi analfabeti “Ultimi in classifica tra i paesi sviluppati”, di Simonetta Fiori

Siamo gli ultimi. Dopo il Giappone e gli Stati Uniti, dopo l’Australia e la Germania, e anche dopo l’Estonia, Cipro, l’Irlanda e i ventitré paesi che fanno parte dell’Ocse, ossia del mondo sviluppato e democratico. L’Italia è all’ultimo posto per competenze alfabetiche e al penultimo per quelle matematiche, in sostanza per quelle facoltà ritenute essenziali per la crescita individuale, l’inclusione sociale e un corretto esercizio di cittadinanza. I primi dati dell’indagine Piaac
(Programme for the International Sessment of Adult Competencies)—
svolta tra il 2011 e il 2012 presso la popolazione tra i 16 e i 65 anni, su iniziativa dell’Ocse e realizzata in Italia dall’Isfol — confermano un primato drammatico. Soltanto una piccola parte della popolazione italiana — meno del 30 per cento — possiede quei livelli di conoscenza che sono considerati «il minimo per vivere e lavorare nel XXI secolo». Con un netto divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno. E un deficit crescente — tra il nostro e gli altri paesi — man mano che avanziamo nei livelli di istruzione. Per le università italiane, una dèbâcle.
È un quadro assai preoccupante, che lascia poco spazio a illusioni di progresso. La fascia di popolazione che segna il passo è proprio quella tra i 16 e i 29 anni, ossia le generazioni su cui si costruisce il futuro di una comunità nazionale. Mossa da ammirevole ottimismo, l’Isfol lo presenta come un fenomeno positivo: ossia la riduzione della forbice tra giovani e vecchi. Ma il miglioramento riguarda esclusivamente i “nuovi anziani”, dai 55 ai 65 anni, che grazie alla scuola dell’obbligo hanno visto crescere i livelli di alfabetizzazione, mentre le fasce più giovani non mostrano alcuna progressione, penalizzate dalle fughe da scuola e università. Il più sconfortante è il capitolo dei Neet, ossia dei giovani che non studiano né lavorano: la media delle loro competenze è agli ultimi gradini nella comparazione nazionale. Oltre che in quella internazionale, rispetto ai coetanei altrettanto sfortunati.
La nuova ricerca mostra la centralità dell’occupazione, anche ai fini delle competenze alfabetiche e matematiche acquisite. Non sono dunque ammesse speranze in un paese che vede restringersi drammaticamente il mercato. Qui però interviene l’unica novità positiva del rapporto Isfol-Piaac che riguarda le donne: anche se disoccupate, riescono a mantenere “i livelli di performances” precedentemente raggiunti. «Un
uomo privato del lavoro perde anche la propria identità», dice Gabriella Di Francesco, curatrice dell’indagine. «Le donne invece fanno più lavori insieme. E se perdono l’occupazione, continuano a impegnarsi nell’organizzazione della casa, di figli e nipoti». I neuroni, in sostanza, rimangono in esercizio.
In un paese ancora segnato dal peso sociale della famiglia — il background è tuttora la bussola che governa esiti scolastici e carriere — la riscossa femminile è il solo fattore di mobilità. La nuova
mappatura mostra una riduzione del divario tra uomini e donne sia nella
numeracy (competenza matematica) che nella literacy (la competenza alfabetica in cui addirittura avviene il sorpasso). Ma l’elemento ancora più interessante è che le donne avanzano proprio nelle fasce d’età che abbiamo visto più esposte, dai 16 ai 29 anni. «Le giovani italiane riscattano le più anziane, ancora segnate da antiche disparità», rileva Vittoria Gallina, studiosa dell’analfabetismo e consulente del rapporto. Un capitale che però rimane inutilizzato. «Uno spreco di talenti», lo definiscono i ministri Carrozza e Giovannini, che si impegnano a invertire la rotta.
L’Italia vanta un altro malinconico primato nell’alta percentuale di lavoratori sotto qualificati, mentre eccelle nel problem solving,
almeno stando all’autovalutazione delle persone consultate. Ignari e illetterati, ma con forte senso dell’improvvisazione. Forse anche nel rispondere alle domande dell’Isfol, prove svolte su carta da quasi metà del campione. Solo il 58 per cento s’è mostrato in grado di fare i test sul computer. Un risultato, anche questo, non da medaglia.

La Repubblica 09.10.13

“Così ho preso la laurea vendendo accendini”, di Paolo Griseri

È malleabile, resistente, sottile. Soprattutto, è adattabile. «Dici che è per questo che l’ho scelto? Perché il grafene somiglia a me?». Con un largo sorriso Rachid spiega la sua tesi di laurea in ingegneria civile. Titolo: «Il grafene e le sue potenzialità». Ognuno ha potenzialità insospettate. «Il grafene può adattarsi a molte situazioni: è resistente, è un foglio sottilissimo che puoi adagiare su ogni superficie. Resiste per questo, perché non si impone ma accetta la realtà». Come te? «Come me, che vendo i fazzoletti di carta per pagarmi gli studi. E stringo i denti da quattordici anni, da quando sono arrivato su una vecchia golf dal Marocco». Ora che ha in tasca la laurea triennale, gli rimane un sogno: «Abbandonare presto la vetrina, vivere d’altro». La vetrina è quella cascata di ninnoli che ricopre la sua spalla sinistra e che lui cerca di vendere ai passanti. Quanto rende la vetrina? «Se riesci a piazzare qualche foulard e non solo i fazzoletti di carta e gli accendini, puoi arrivare a 30 euro al giorno. Ma spesso non ce la fai a pagare la bolletta della luce». È questa la vita quotidiana di Rachid Khadiri Abdelmoula, 26 anni da Kourigba, Marocco. Divisa tra l’aula magna del Politecnico e i portici del centro di Torino. Rachid, ti fanno le foto? Che cosa hai combinato? ». Pomeriggio affollato nel cortile del Politecnico. Tutti conoscono la storia del marocchino che si è laureato vendendo accendini e fazzoletti, e scherzano da vecchi amici. Ma questo è il lieto fine: «All’inizio erano scioccati. Capitava per caso, sotto i portici del centro. Io li osservavo. I più non dicevano nulla. Succedeva quasi sempre così. Li vedevo arrivare da lontano. Erano i miei compagni di corso, ragazzi come me. Li avevo visti al mattino a lezione, non potevano scambiarmi per un altro. E infatti mi fissavano. Si avvicinavano, si avvicinavano. Poi, di colpo, si allontanavano frettolosi, senza dire una parola». Quanto tempo è andato avanti questo gioco? «Poco, per fortuna. Perché al mattino, nelle aule del Politecnico, qualcuno ha cominciato a chiedere: “Ma noi ci siamo visti ieri pomeriggio sotto i portici di via Po?”». Così, poco per volta, tutti hanno saputo. Ed è stato un bene: «Sì perché molti sono diventati amici veri. Se sono arrivato alla laurea triennale devo ringraziare anche loro, i tanti che mi hanno aiutato nei momenti di difficoltà. Se c’è una cosa bella dell’Italia è questa disponibilità che ho trovato in molte persone».
Happy end ma storia difficile. «Vedi qui sotto il sopracciglio? È il taglio di un pugno. Era un gruppo di ragazzi. Avranno avuto sedici anni. In via Roma, una notte. Avevo la mia mercanzia. Mi sono volati addosso. Mi insultavano. Un branco di razzisti. Mi hanno picchiato. Sarebbe andata peggio se non fossero intervenuti dei passanti. Vedi, anche qui, in fondo c’è del buono. Io ho sempre fatto così. Quando capita qualcosa di brutto devi cercare l’aspetto positivo, fare un reset e ricominciare da capo. È la regola del grafene: adattarsi per diventare più resistenti ».
Adattarsi. A Kourigba non era possibile. La famiglia di Rachid,
padre, madre e sette fratelli, viveva di agricoltura e allevamento: «Ma la terra era poca e noi eravamo tanti. I miei due fratelli più grandi sono venuti in Italia per primi. Said è andato ad Alba, in provincia di Cuneo. Per questo ha dovuto imparare un po’ di dialetto piemontese, perché nei paesi se non parli il dialetto non sei nessuno. A me non è capitato, sono arrivato direttamente in città. Già è stato difficile, il primo mese, capire l’italiano in prima media».
Agosto 1999, la vecchia Golf dei fratelli di Rachid attraversa lo stretto di Gibilterra, corre lungo le autostrade del sud della Spagna
affollate di turisti, raggiunge il golfo di Marsiglia e supera la frontiera di Ventimiglia prima di puntare su Torino. «Ogni estate i miei fratelli tornavano dall’Italia e raccontavano meraviglie. Dicevano che c’erano un sacco di possibilità di lavoro. Io ero affascinato. Un giorno ho detto a mia madre: “Qui a scuola non ci vado più. Voglio seguirli in Italia” ». E la realtà si è dimostrata all’altezza delle aspettative? «Quando siamo arrivati ad agosto non mi rendevo conto di quanto freddo possa esserci qui. Certo, i miei fratelli avevano un po’ esagerato. È umano no? Se no come spiegavano che erano andati via dal paese?».
Rachid è una delle centinaia di stranieri che frequentano uno dei politecnici più ambiti d’Italia. Arrivano da tutto il mondo ma pochi vivono di espedienti come lui. «Il conto è presto fatto. Se calcoli una media di 20 euro al giorno riesci a portare a casa 600 euro in un mese. Una parte finisce nella mia quota di affitto: vivo con i fratelli. Un’altra va in vitto, libri e bollette ». E spesso non basta: «Lo so bene. Solo qualche mese fa abbiamo rischiato che ci togliessero il gas per qualche bolletta non pagata. Ma in questi casi è sempre arrivato qualcuno che ci ha tolto dai guai. Poi io sono riuscito a ottenere due borse di studio. Questo ultimamente non capita più. I soldi mancano anche all’Università e i criteri sono diventati più rigidi ».
La crisi colpisce anche persone intraprendenti come Rachid. Li colpisce due volte. La prima con la stretta sulle borse di studio e sulle tasse universitarie. «E la seconda con il crollo delle vendite di fazzoletti e foulard. Ci sono dei giorni che trascorri ore sotto i por-
tici e non metti in tasca nemmeno dieci euro. Che ci sia la crisi non te ne accorgi solo dai soldi. Te ne accorgi dalla rabbia della gente. Da come in tanti ti mandano a quel paese quando ti avvicini. Ti urlano dietro, se la prendono con te».
Assorbire per tutto il pomeriggio il veleno che ti sputa in faccia l’Italia incazzata e tornare a casa la sera a studiare geometria e analisi 1: un vero e proprio esercizio zen. «Il primo anno al Politecnico ho davvero avuto paura di non farcela. Quei due esami erano la mia bestia nera. Mi preparavo, studiavo di notte e venivo bocciato. Ci ho messo mesi e mesi a passare analisi 1. Poi, a giugno, in una bella giornata che ricorderò sempre, sono riuscito a sbloccarmi. Quella volta, quando il professore mi ha detto che avevo superato l’esame, ho capito che se stringevo i denti avrei potuto farcela davvero ».
Perché sia davvero un lieto fine non basta la laurea triennale e per quella magistrale ci vogliono ancora due anni di studi e fazzolettini. Rachid spera che non sia così: «Per me questa è solo una tappa. Voglio immaginare che con la laurea triennale ci sia qualche studio di ingegneria che possa farmi lavorare. Sarebbe importante capire presto che cosa è davvero il mondo del lavoro in questo mestiere. Certo, non nascondo che trovare il lavoro in uno studio per me vorrebbe dire abbandonare finalmente la vetrina ». Il salto sociale che non solo lui ma tutta la famiglia ha sognato da quindici anni. «Io non sono solo. I miei fratelli e i miei cugini hanno lavorato anche per me, si sono sacrificati perché studiassi in questi anni. Senza di loro non ce l’avrei mai fatta». Rachid è il front man di un gruppo rock, l’ultimo velocista di una staffetta sociale, il rugbista che i compagni sollevano perché possa salire in cielo a catturare il pallone. Dietro di lui c’è un lavoro di gruppo, diviso tra l’Italia e il Marocco, tra i fazzoletti di carta che i fratelli vendono nel centro storico e il piccolo terreno coltivato a Kourigba dalla madre e dagli altri fratelli rimasti in patria. Tutti hanno puntato su di lui, tutti lui oggi deve ringraziare.
E dopo? Che cosa c’è nelle prossime sequenze del film sulla favola bella dell’ingegnere dei fazzoletti? Una sola certezza: «Il principale obiettivo è il lavoro. Un lavoro buono, da ingegnere, che serve per vivere e serve perché ti piace». Non sono molti i cantieri aperti a Torino in questo periodo, anche la vita dell’ingegnere civile rischia di essere grama: «Ti sbagli. Stanno costruendo due grattacieli, una stazione nuova, il passante ferroviario. E in ogni caso, se non troverò lavoro qui andrò altrove. Ho fatto tremila chilometri da casa mia per arrivare in questa città e cercare di avere un titolo di studio. Non mi sconvolge certo l’idea di spostarmi da un’altra parte se sarà necessario. Caro giornalista ricordati una cosa: il grafene non si spaventa. Resiste quattro volte più dell’acciaio».

La Repubblica 09.10.13

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“Ecco Pape, Priya e Stephen i ragazzi che ce l’hanno fatta”, di VLADIMIRO POLCHI
Pape Alassane, Priya Mary, Stephen, Tamas Laszlo. Sono tanti gli eroi dell’immigrazione. Un caleidoscopio di facce e storie che parlano di sbarchi, centri d’accoglienza, precariato e poi l’approdo: un posto di lavoro, un titolo di studio, una nuova vita. Sì, perché spesso chi lascia la casa e rischia la vita in un lungo viaggio è la “meglio gioventù” del Paese d’origine.
È la stessa parabola di Cécile Kyenge, prima ministra “nera” della Repubblica, a raccontare molto della nuova Italia multietnica: la sua storia parte da Kambove, nella provincia congolese del Katanga, passa per un periodo da precaria, un impiego da badante, la professione di medico oculista e arriva a Roma in Largo Chigi 19, sede del ministero dell’Integrazione. Ma molti altri, come lei, possono dire: «Ce l’ho fatta».
Priya Mary Angshalah Gnanaseeelan, per esempio. Priya è una bella ragazza di origine tamil e detiene un record: è stata la prima donna laureata della sua comunità in Sicilia. Il suo sogno si è realizzato il 10 novembre del 2011: una laurea a Palermo, 110 e lode, in tecniche di radiologia medica per immagini e radioterapia. Una titolo che vale doppio, visto che Priya ha sempre lavorato durante gli studi. Oggi vive a Londra, si è sposata, ha un bambino e continua a studiare. Ha scelto il ramo medico, dice, per aiutare i suoi connazionali. Priya deve ringraziare qualcuno: i suoi due fratelli che vivono in Germania: «I miei genitori hanno problemi di salute e non lavorano. Se non ci fossero stati i miei fratelli, non avrei potuto mantenermi. Questa laurea è stata sentita da tutta la comunità: il giorno della proclamazione erano tanti, parenti e amici, intorno a me».
Ci sono poi gli “invisibili”, quelli arrivati da irregolari e poi usciti alla luce del sole. Pape Alassane Fall è uno di loro. Classe 1975, si è lasciato alle spalle il Senegal ed è arrivato in Italia nel maggio del ’99, senza visto, né permesso. Per tre anni è stato irregolare: «Lavoravo come ambulante in Sardegna. Vendevo calzini e occhiali». Poi l’incontro: Pape Alassane si innamora di una ragazza sarda e la sposa. Con le nozze arrivano anche i documenti e una vita da regolare. «In Sardegna però non c’era lavoro – ricorda – e per questo sono venuto in Veneto, dove viveva mio fratello minore. Qui mi sono messo a lavorare in una fabbrica che costruiva passerelle per yacht. Ma i turni erano pesanti e il mio sogno restava quello di usare la mia laurea in informatica». Così Pape mette da parte qualche soldo, si licenzia e, nel 2007, apre la sua agenzia. Oggi lavora come grafico, ha molti clienti, vive a Mirano in provincia di Venezia e ha due bambine. «Ho avuto qualche difficoltà all’inizio – ammette – perché un senegalese che parla di tecnologia suona strano alle orecchie degli italiani. Poi le cose sono andate meglio». Sarà anche perché oggi a sentirlo parlare, Pape sembra più un veneto, che un africano.
Stephen invece è stato addirittura un bambino-soldato. A sei anni le forze governative liberiane hanno ucciso i suoi genitori. Da allora viene addestrato a impugnare le armi e a diventare un guerriero. Uccide, violenta, ruba. Nel 2009, quando in Liberia cambia il regime, riesce a fuggire: un lungo viaggio a piedi attraverso il deserto che lo porta fino in Libia. Qui si imbarca per Lampedusa. Peccato che la sua richiesta d’asilo venga bocciata dalle autorità italiane. Per Stephen non rimane che la clandestinità. Poi finalmente approda all’ambulatorio per migranti del policlinico di Palermo. Stephen ha un grave disagio psicologico, non dorme e ha flashback continui delle violenze vissute. Dopo una lunga terapia e con l’aiuto del teatro Stephen si libera del passato. A 19 anni è il protagonista di uno spettacolo in giro per i teatri di mezza Italia: lavora per la compagnia “Exstranieri” del regista palermitano Giuseppe La Licata. Si guadagna da vivere e ha ottenuto il permesso di soggiorno.
Non mancano poi rovesciamenti degli stereotipi: perché se gli stranieri tolgono lavoro, talvolta lo danno anche. Stando a una ricerca Cnel del novembre 2011, la media è alta: un assunto italiano ogni due imprese di immigrati attive. Un esempio? Tamas- Laszlo Simon, ungherese, nato a Marosvasarhely 45 anni fa, è arrivato in Italia rischiando la vita: ha attraversato a nuoto il Danubio al confine con la ex Yugoslavia nel 1985. Con l’idea di fare qualcosa di buono per il mondo dove vivranno le sue due figlie, nel 2008 fonda a Roma “Eadessopedala”: il corriere in bici ecologico. La scintilla gli è scattata quando ha letto la storia di due fratelli di Budapest, che avevano avviato un servizio di pony express in bici. E così ha pensato di poter ripetere il “miracolo” anche nella città eterna. Oggi Tamas- Laszlo ha vinto il “Money-Gram Award 2013” nella categoria innovazione, impiega 12 persone, tutte italiane (spesso laureate) e per il 2013 stima un giro di affari di circa 100mila euro. Il suo scopo? Ambizioso: fare circolare 50.000 automobili in meno quotidianamente sulle strade di Roma.

La Repubblica 09.10.13

Pensioni, Giovannini “congela” quelle sopra i 3mila euro

Confermato per il 2014 il blocco della rivalutazione delle pensioni rispetto all’inflazione per gli assegni del valore pari a 6 volte il minimo, ossia quelle di circa 3 mila euro al mese. Lo ha detto stamani il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, in audizione in commissione Lavoro della Camera, osservando che la rivalutazione sarà piena per le pensioni fino a tre volte il minimo, al 90% tra le tre e le cinque volte il minimo e al 75% tra cinque e sei volte, fino alla «sterilizzazione per importi 6 volte superiori il minimo».

Giovannini ha quindi spiegato che allo studio del governo c’è una revisione «per il 2015 e gli anni successivi» delle «indicizzazioni solo per le pensioni il cui ammontare è 6 volte il minimo» precisando che attualmente l’indicizzazione stabilita nel 2015 per le pensioni più alte è del 75%, ma che il governo starebbe prevedendo una revisione così da avere risorse da «riutilizzare all’interno sistema pensionistico in un’ottica di solidarietà».

Il ministro ha infine spiegato che non ci sono possibilità di pensare a una controriforma delle pensioni che superi il modello Fornero. «Una maggiore flessibilità seppure in cambio di penalizzazioni degli assegni, così come richiesto in alcune proposte presentate in sede parlamentare – sono state le sue parole – comporterebbe un aumento delle pensioni con un onere aggiuntivo per il sistema di diversi miliardi di euro l’anno. Controriforme non sono compatibili con i conti».

da www.unita.it

“Nobel della Fisica va al Bosone e al timido professor Higgs”, di Elena Dusi

“Sarebbe un trauma” Peter Higgs aveva sempre detto del Nobel. Oggi, a 84 anni, lo scienziato timido che ha dato il suo nome a una particella cercata per quasi 50 anni e catturata finalmente un anno fa, quel “trauma” lo sta vivendo. La Commissione di Stoccolma ha deciso di assegnare il premio per la fisica a Peter Higgs e Francois Englert per i loro studi sul bosone, ribattezzato “la particella di Dio”. L’annuncio è stato dato dall’Accademia svedese delle scienze, in ritardo di oltre un’ora rispetto al previsto. I due scienziati sono stati premiati per “la scoperta teorica di un meccanismo che contribuisce alla nostra comprensione dell’origine della massa di particelle subatomiche”.

“Il professor Higgs trascorrerà la giornata lontano da casa, in una località che non renderemo nota, e non rilascerà interviste”, ha spiegato alla vigilia Alan Walker, il suo stretto collaboratore dell’università di Edimburgo. Racconterà le sue emozioni in una conferenza stampa non prima di venerdì. Per François Englert invece l’università di Bruxelles aveva da giorni organizzato un ricevimento che doveva restare segreto, ma che ovviamente ha fallito nel suo scopo. Lo spumante era già in fresco da tempo (e la conferenza stampa convocata con discrezione) anche al Cern, il Centro europeo di ricerca nucleare di Ginevra dove il bosone di Higgs è stato effettivamente osservato. Dove cioè l’idea buttata giù da Higgs nel 1964 su un paio di pagine di parole ed equazioni è stata confermata da un mastodontico acceleratore di particelle: il Large Hadron Collider (Lhc).

IL DOSSIER

Di qualsiasi altra persona si direbbe che oggi staccherebbe il cellulare e spegnerebbe il computer. Ma lo scienziato meglio noto come un bosone di cellulari non ne possiede. “Gli è stato regalato un computer qualche anno fa – prosegue Walker – ma l’apprendimento non è stato semplice. Ora lo usa suo nipote”. Nella sua casa di Edimburgo non trova spazio nemmeno un televisore. “Il professor Higgs adora la musica classica e ha un vecchio impianto a valvole. L’arte in generale lo appassiona. Per scrivere usa ancora carta e penna. Seguire tutti i dettagli della fisica odierna per lui è diventato difficile, anche se ha più volte visitato il Cern ed è rimasto impressionato”. L’acceleratore di particelle più potente del mondo – 27 chilometri di diametro, la capacità di lanciare i protoni lungo una pista a scontro praticamente alla velocità della luce – aveva come suo primo compito quello di dimostrare nella realtà l’eventuale esistenza del bosone che Higgs aveva teorizzato grazie al suo ingegno e a una manciata di equazioni (con gli esperimenti il fisico inglese era sempre stato un disastro, e li aveva abbandonati ai tempi dell’università). Trovata l’ultima particella che ancora mancava all’appello fra i costituenti elementari della materia (l’annuncio della scoperta del bosone di Higgs è stato fatto al Cern il 4 luglio 2012), per il fisico timido che nel frattempo si era ritirato a vita privata si sono spalancate le porte del Nobel.

La scelta del fisico di Edimburgo in realtà non è stata scevra da controversie. Alla sua scoperta Peter Higgs è infatti arrivato grazie a una serie di circostanze fortuite. Il suo studio iniziale, scritto nel luglio del 1964, fu infatti respinto dall’editore di Physics Letters, che per ironia della sorte lavorava proprio al Cern, e che consigliò a Higgs con disprezzo di inviare la ricerca a Il Nuovo Cimento, una rivista italiana non specializzata. Offeso ma non scoraggiato Higgs spedì lo studio alla rivista rivale: l’americana Physical Review Letters. Il giorno in cui l’articolo di Higgs arrivò per posta, nel settembre del 1964, la rivista aveva appena pubblicato uno studio molto simile dei due scienziati belgi François Englert e Robert Brout (morto nel 2011). I due ricercatori di Bruxelles avevano battuto Higgs sul tempo nel descrivere come mai le particelle elementari sono dotate di massa. Ma Higgs aveva nel frattempo aggiunto un paragrafo finale in cui completava tutto il ragionamento teorizzando l’esistenza di una nuova particella. Era nato il bosone di Higgs.

“Poiché avevo scritto uno studio molto importante, secondo la gente avrei dovuto capire anche quel che è stato scoperto in seguito. Ma non è così. Quando si è trattato di comprendere gli studi di quelli venuti dopo di me, ho iniziato ad affondare” ha spiegato un giorno Higgs, che da allora ha lasciato il palcoscenico della fisica, svolgendo semplicemente il suo lavoro di professore all’università di Edimburgo. L’esistenza della sua particella – per la quale al momento non sono previste applicazioni pratiche – ci spiega però cosa è successo un attimo dopo il Big Bang. Quando la temperatura dell’universo si è abbassata e le particelle elementari hanno iniziato ad acquisire una massa. Anziché schizzare via alla velocità della luce, senza nessuna speranza di interagire fra loro, i mattoni fondamentali della materia hanno rallentato e per effetto della gravità hanno formato combinazioni via via più complesse. Fino a far nascere la Terra e gli esseri viventi.

A proseguire il suo lavoro, andando a scoprire cosa c’è al di là della materia a noi conosciuta, oggi ci pensano nuove generazioni di fisici e un Cern che sta rinnovando i motori del suo acceleratore, per dotarlo di un’energia doppia rispetto a quella sprigionata finora. A Lhc lavorano in circa 10mila, di cui quasi un terzo italiani, coordinati dall’Istituto Nazionale di Fisica.

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“Hanno scoperto i postini delle cellule” il Nobel per la medicina a tre biologi, di Elena Dusi

«Immaginate centinaia di migliaia di persone che viaggiano lungo centinaia di migliaia di chilometri di strade. Come troveranno la strada giusta? Dove si fermerà l’autobus per farli scendere al loro indirizzo?». Lo stesso problema si pone ai 100 mila miliardi di cellule del nostro corpo. E la risposta è valsa il premio Nobel a tre biologi che hanno capito come funziona il “sistema postale” degli esseri viventi, che permette a ogni proteina di essere recapitata al posto giusto e al momento giusto per svolgere la sua funzione.
I vincitori sono Randy Schekman, 64 anni, americano dell’università della California a Berkeley (ma anche socio dell’Accademia dei Lincei a Roma), James Rothman, 62 anni, dell’università di Yale, anch’egli statunitense. E Thomas Südhof, 58 anni, tedesco trasferitosi a Stanford per portare avanti le sue ricerche. Il premioNobel per la fisiologia e la medicina gli è stato assegnato ieri mattina a Stoccolma «per le loro scoperte sui meccanismi di regolazione del traffico delle vescicole, il principale sistema di trasporto delle nostre cellule». Gli studi del trio (che si dividerà i 910 mila euro del premio) riguardano un fenomeno molto di base, che coinvolge tutti i tessuti del nostro organismo (e degli esseri viventi in genere). Partendo da questa scoperta è stato possibile mettere a punto alcuni farmaci, ad esempio per regolare il traffico dei neurotrasmettitori all’interno del cervello. Ma il Comitato Nobel, nel presentare i vincitori, non ha tanto insistito sugli aspetti pratici della ricerca e ha riassunto il meccanismo così: «Ogni cellula è una fabbrica che produce ed esporta molecole. L’insulina per esempio è assemblata e poi rilasciata nel sangue. Lo stesso vale per dei segnali chimici chiamati neurotrasmettitori, che vengono inviati da una cellula nervosa all’altra. Queste molecole viaggiano all’interno della cellula a bordo di pacchetti chiamati “vescicole”. I tre vincitori hanno scoperto secondo quali principi questi carichi vengono consegnati al posto giusto e al momento giusto all’interno delle cellule». È un Nobel «a un campo di studi di grandissimo interesse» commenta il farmacologo Silvio Garattini, «fondamentale anche per capire il meccanismo d’azione di molti farmaci, e per scoprirne e svilupparne di nuovi».
Per penetrare l’organizzazione del “sistema postale” — ciò che fala differenza fra un’orchestra ben affiatata e il caos totale — i tre ricercatori si sono divisi i compiti. Schekman, il decano dei tre, a partire dagli anni 70 è andato a cercare su quali geni è “scritto lo spartito”. E si è accorto che mettendo a tacere questi frammenti di Dna tutte le molecole prodotte all’interno delle cellule rimanevano nelle membrane, appesantendole come un magazzino sovraccarico. Al telefono nella sua casa californiana ha risposto la moglie, che è tornata a letto a dargli la notizia del premio scuotendolo dal sonno. «Ho stretto mia moglie e continuavo a ripetere: Oh mio Dio, oh mio Dio» ha raccontato Schekman. Lo scienziato di Berkeley all’inizio dei suoi studi fu osteggiato dai colleghi per la decisione di analizzare le vescicole nelle cellule di lievito: organismi secondo alcuni troppo lontani dalla specie umana.
Rothman, invece, ha descritto passo per passo le tappe chimiche della vescicola che raccoglie il suo contenuto, lo avvicina alla membrana della cellula, poi si lega a essa e libera all’esterno la proteina da trasportare. La sua reazione — trasmessa dalla tv svedese — è stata molto diversa da quella di Schekman: «Vincere un Nobel? È eccitante, ma il momento in cui si fa la scoperta lo è di più». Il momento del suo Eureka risale al 1993: «È un’ebbrezza rara, rarissima, quando uno scienziato scopre sulla natura qualcosa di fondamentale e, soprattutto, valido universalmente ». Sudhof, infine, si è concentrato sulla “scelta di tempo” che le vescicole fanno per consegnare il loro contenuto al momento giusto, e ha dedicato il suo commento agli Stati Uniti, paese che lo ha accolto quando dalla sua Germania si è trasferito a Stanford. «In America c’è molta attenzione al significato della scienza». E il suo commento sarà condiviso dalle migliaia di colleghi (molti dei quali italiani) che dall’Europa sono partiti per andare a fare ricerca negli Stati Uniti. Nella bibliografia che accompagna le motivazioni al premio, appaiono anche gli studi di Cesare Montecucco, dell’Istituto di Neuroscienze del Cnr.

Repubblica 08.10.13