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“Sostegno, il Miur “riesuma” la riconversione per i sovrannumerari: va fatta subito”, di Alessandro Giuliano

Lo prevede la Nota n. 10402 con cui viale Trastevere invita Usr e atenei ad avviare i corsi di specializzazione, nell’anno accademico 2013/2014, con priorità rispetto alle attività formative omologhe rivolte a 6.398 docenti abilitati. Andando a scartabellare i riferimenti normativi emerge che la formazione per i docenti rimasti senza cattedra dovrebbe essere gratuita e prevedere un monte ore ridotto. Polemiche in arrivo.
Mentre le università sono sul procinto di pubblicare i bandi di concorso per selezionare i complessivi6.398 candidati alla frequenza dei percorsi formativi, riservati ai docenti abilitati, il 4 ottobre il Miur ha pubblicato la Nota n. 10402. Attraverso cui invita Usr e gli atenei coinvolti ad avviare le attività specializzanti, sempre per il sostegno e nell’anno accademico 2013/2014, da riservare al personale docente di ruolo sovrannumerario.
Il Miur sottolinea, infatti, “l’urgenza di avviare prioritariamente i corsi destinati ai docenti delle classi di concorso in esubero”. Pertanto, è evidente l’intenzione dell’amministrazione di far specializzare (e quindi collocare sui posti vacanti) prima il personale di ruolo privo di titolarità (dalle ultime rilevazioni si tratterebbe di oltre 8mila docenti, in gran parte operanti alle superiori). E solo successivamente alla stabilizzazione dei precari.
A grandi linee non vi dovrebbero essere particolari problemi, perché entrambe le procedure (e le conseguenti assegnazioni di posti) vengano completate. A tal proposito, basta ricordare che il Governo attraverso il D.M. 104, approdato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 12 settembre, ha previsto la trasformazione in tre anni di circa 27mila posti da sposare dall’organico di fatto a quello di diritto.
Ma la Nota ministeriale 10402 fa riferimento anche ad un’altra Nota, la DGPER n. 2935, risalente al 17 aprile 2012, attraverso cui il Miur ha dato attuazione al Decreto Direttoriale n. 7 del 16 aprile 2012: il Decreto che, in pratica, ha istituito e regolamentato gli stessi corsi specializzanti (previo accordo con la Conferenza nazionale dei presidi di Scienze dalla formazione). In quest’ultimo decreto, il Miur sottolineava che le specializzazioni sul sostegno sarebbero state attivate per la “piena integrazione degli alunni portatori di disabilità fisiche, psichiche e sensoriali”, solo “su base volontaria” e riservati a “docenti delle classi di concorso o tipologie in esubero, con particolare riguardo a tutte le classi di concorso interessate da restrizioni di orario prodotte della riforma in atto”. Nel decreto si specificava, inoltre, che il numero dei corsi sarebbe stato “programmato” (senza però esplicitare la quota massima di partecipanti) e che sarebbe stato lo stesso Ministero i coprire gli interi costi delle formazione dei soprannumerari. A differenza della specializzazione rivolta ai precari, per la quale si prevedono costi almeno pari a quelli affrontati dagli ammessi ai Tfa ordinari.
Solo che quei corsi (oggi tornati in auge) non solo non furono mai attivati. Ma determinarono pure una coda di polemiche, soprattutto da parte delle associazione dei disabili. Perché i “tre moduli, equivalenti ciascuno a 20 Cfu, corrispondenti a un livello base, intermedio, avanzato”, non sembravano offrire garanzie adeguate sulla formazione dei frequentanti.

La Tecnica della Scuola 07.10.13

“Italia paese del terziario arretrato più lavoro solo per colf e badanti così ci condanniamo alla decrescita”, di Roberto Mania

Siamo il Paese delle colf e delle badanti, candidato alla decrescita più che ad agganciare la ripresa. Benvenuti! Sì, è vero, l’Italia industriale declina ma resiste, siamo pur sempre la seconda economia manifatturiera dell’Europa dopo la grande Germania. Ma avanza silenzioso il nuovo operaio- massa, quello dei servizi alle famiglie, del lavoro domestico, dell’assistenza agli anziani, composto soprattutto da donne straniere. Quello del terziario arretrato in un Paese che invecchia e continua a perdere colpi rispetto al club delle economie dell’Ocse. Accade nelle province del nord postindustriale, come in quelle del sud proto-industriale, senza significative distinzioni. È la nostra metamorfosi del lavoro. È la via tutta italiana alla mini-crescita o alla stagnazione permanente. Dove le imprese hanno ormai deciso di abbassare del 15-20%, e anche più, il proprio potenziale produttivo, e dove aumenta la quota di lavoratori a bassa professionalità a scapito del lavoro intellettuale ad alta intensità di conoscenze e di innovazione. Una anomalia in Europa, che non fa vedere la luce in fondo al nostro tunnel. Perché la direzione intrapresa dai nostri partner continentali va esattamente in direzione opposta: più occupazione qualificata, meno addetti generici. Guida la Germania, anche questa volta, nonostante i milioni di mini-job da 6-700 euro al mese, che è ripartita dalla sua recessione investendo proprio sulla formazione e riqualificazione del capitale umano, sulla flessibilità nell’organizzazione interna delle imprese più che sulla flessibilità in entrata, spesso fine a se stessa, nel mercato del lavoro.
Emilio Reyneri, sociologo del lavoro alla Bicocca di Milano, e Federica Pintaldi, ricercatrice dell’Istat e docente alla Sapienza di Roma, hanno indagato sul nostro mercato del lavoro spiegando anche ai non esperti le caratteristiche dell’occupazione e della disoccupazione in Italia, ma soprattutto cercando di interpretare i segnali per comprendere cosa succederà dopo, quando in un modo o nell’altro saremo fuori da questa lunga recessione. Ed è questo l’aspetto più originale della ricerca che è stata raccolta in un volume (“Dieci domande su un mercato del lavoro in crisi”) che uscirà giovedì per i tipi del
Mulino.
Perché non è solo il Pil — per quanto fondamentale — che ci dice dove andremo a finire e come saremo oltre la recessione. Ci sono altri indicatori. Pure il mercato del lavoro, la tipologia dell’occupazione, la domanda di lavoro, gli occupati e i disoccupati, lo sono. E non sono incoraggianti per il nostro futuro. Nel tumulto della Grande Crisi non siamo stati capaci di guardare (anche in questo caso come in molti altri) oltre il contingente, abbiamo imboccato pigre scorciatoie seguendo le quali rischiamo di perdere il treno della ripresa quando passerà. Scrivono Reyneri e Pintaldi: «Contrariamente alla media dei Paesi dell’Unione europea a 15, in Italia diminuiscono gli occupati nell’istruzione e nei servizi alle imprese (dalla pubblicità al marketing, dalla consulenza tecnica a quella manageriale, dalla ricerca e sviluppo alla gestione delle risorse umane), mentre crescono in misura considerevole quelli nei servizi per le famiglie, cioè nel lavoro domestico e nell’assistenza delle persone anziane. Quindi l’Italia reagisce alla crisi aumentando non i settori ove si concentrano le potenzialità di innovazione scientifica, tecnologica e culturale, ma quello ove queste potenzialità sono minori». E i numeri — come sempre in questi casi — sono impietosi, azzerando i margini interpretativi: in Europa c’è in media un occupato nel settore dell’istruzione ogni 30 abitanti, mentre da noi (dove le spese per la scuola per anni sono state considerate solo un costo da tagliare) ce n’è uno ogni 41 abitanti. Ma dilaghiamo nei servizi alle famiglie a
conferma di un welfare state costoso ma inefficace: abbiamo un occupato ogni 84 abitanti contro una media europea di 159.
L’Italia è il Paese in cui gli investimenti pubblici e privati in ricerca e innovazione non vanno oltre, nel complesso, all’1% del Pil. Poco, pochissimo. Con scontate ricadute pure sulla composizione del nostro mercato del lavoro. Ma anche sul Pil, se si pensa — come ha dimostrato Enrico Moretti, giovane economista dell’Università di Berkeley che piace tanto a Barack Obama — che ogni singolo posto di lavoro creato nei settori innovativi ne produce a cascata almeno cinque nei settori tradizionali. Non succede in Italia, però. Perché l’Italia «è quasi l’unico Paese europeo — scrivono Reyneri e Pintaldi — in cui dal 2008 (anno in cui scoppia la crisi globale, ndr) le professioni più qualificate, cioè quelle intellettuali e tecniche, diminuiscono, mentre continuano ad aumentare le occupazioni elementari ». Tra gli intermedi scende la quota degli operai specializzati e qualificati, mentre aumenta quella delle occupazioni non manuali poco qualificate, come gli impiegati e gli addetti alle vendite e ai servizi personali. In Germania è accaduto esattamente il contrario. E così — concludono i due ricercatori — dopo la stagione, nei decenni passati, della “via bassa alla crescita”, abbiamo imboccato quella della “via bassa alla decrescita”. Pessima scelta.

La Repubblica 07.10.13

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Sgravi neo-assunti, le Regioni chiedono incontro a Letta

«Le Regioni del Centro Nord utilizzano pienamente le risorse dei fondi strutturali e il loro impiego è in linea con gli obiettivi fissati dall’Unione Europea». Vasco Errani, presidente della Conferenza delle Regioni, e la presidente dell’Umbria, Catiuscia Marini, rispondono all’allarme lanciato da Repubblica e alle dichiarazioni del ministro Carlo Trigilia sul tema dei fondi europei e sullo spreco di risorse, pari ad un miliardo, destinate alla decontribuzione delle assunzioni degli under-30: «Non esistono “sprechi”, ma il pieno utilizzo delle risorse, secondo la programmazione approvata dalla Commissione europea».
Inoltre, proseguono, «per quanto riguarda il Fondo sociale europeo, le Regioni hanno attivato numerose azioni importanti proprio in materia di politiche attive per il lavoro. E molte di tali misure comprendono
proprio incentivi per l’assunzione dei giovani e per la stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari». «La verità — concludono Errani e Marini — è che tutte le Regioni, come ben sa il ministro Trigilia,
hanno dato la loro piena disponibilità al riutilizzo di ogni risorsa residua. Per questo motivo abbiamo chiesto un incontro urgente con il presidente del Consiglio, Enrico Letta».
Una replica giunge anche dalla Toscana. Secondo l’assessore alle attività produttive Gianfranco Simoncini «non ci sono risorse inutilizzate o sprecate che potevano andare a finanziare la decontribuzione per l’assunzione di giovani. Colpisce che non si sia tenuto in considerazione quanto le Regioni hanno spiegato con chiarezza al ministro». Infine il governatore del Lazio Nicola Zingaretti spiega che «la Regione ha destinato 38 milioni di euro del Fondo sociale europeo e 20 milioni del Fondo europeo per lo sviluppo regionale per un totale di 58 milioni, all’iniziativa del governo denominata Click day.

La Repubblica 07.10.13

“La destra introvabile”, di Piero Ignazi

Il potere carismatico di Berlusconi si è infranto con la ribellione dei suoi seguaci. Un leader che si è affermato solo e soltanto grazie alla sua forza. Una forza economica, mediatica, comunicativa e quant’altro. E Berlusconi che, senza essere stato scelto da un gruppo di pari o da un organismo collettivo, non “ammette” una rivolta interna. La sua voce deve essere sempre ascoltata religiosamente: contiene un messaggio da seguire e realizzare. Non prevede deviazioni o cedimenti. Per quasi vent’anni Berlusconi ha goduto di un potere assoluto nei suoi partiti (a parte la breve parentesi della convivenza con Gianfranco Fini). Un potere che gli derivava da uno stato di grazia sancito da scelte vincenti, e per questo indiscutibili, che rinsaldavano il vincolo fondativo dei sostenitori con il capo. Questo non vuol dire che il Cavaliere si sia comportato come un autocrate nel senso pieno del termine. Non ha mai deciso in totale solitudine. Si è sempre circondato
di amici e consulenti (e talvolta di qualche politico) con i quali discutere e confrontarsi. Poi le decisioni venivano prese da lui solo e, imprimendovi il suo sigillo, se ne assumeva tutto il “carico”. Onori e oneri, quindi.
Quello stato di grazia si è volatilizzato. La rottura con Angelino Alfano e il gruppo dei ministeriali ha trascinato Berlusconi allo stesso livello di ogni altro leader politico, dentro e fuori il partito. La sua parola non è più il verbo. L’atto pubblico di sottomissione recitato in Parlamento annunciando il voto di fiducia ha umanizzato il Cavaliere e quindi annullato il suo carisma. D’ora in poi qualunque decisione egli vorrà prendere sarà naturale domandarsi cosa ne pensano Alfano e soci. In un partito normale questa situazione sarebbe rubricata come una normale, fisiologica lotta per il potere, dove vincitori e vinti possono (più o meno tranquillamente) alternarsi al comando senza alterare la natura del partito. Nel caso di una formazione carismatica come quella berlusconiana al leader non è consentito perdere uno scontro interno decisivo. Il Cavaliere ha potuto mascherare i fallimenti della sua politica grazie alle manipolazioni attivate dal suo impero mediatico e alla docilità/convinzione dei suoi seguaci, ma ora nulla può di fronte alla capitolazione su un punto così cruciale come la fiducia al governo.
Il Pdl è oggi un partito senza guida. Berlusconi non ha più l’autorità per indicare una via, i rivoltosi non hanno ancora una struttura e una configurazione politico- culturale autonoma. Il partito non rischia la dissoluzione come l’anno scorso quando capi e capetti cercavano una loro strada prefigurando un disastroso big bang. La frattura interna esplosa in questi giorni divide il partito in due componenti che riflettono strategie diverse, una accomodante e filo governativa, e una aggressiva e barricadiera, rappresentata da chi voleva occupare stazioni e aeroporti contro la decadenza di Berlusconi (proprio per essere in sintonia con l’opinione pubblica moderata!). Il distacco delle colombe evidenzia una divaricazione di linea strategica, oltre che una sensibilità più istituzionale, ma non è ancora innervata da una cultura politica, da valori e prospettive, da progetti e orizzonti, distanti dal mondo berlusconiano e dalla sua guardia pretoriana. Queste ore, con i voti sulla decadenza di Berlusconi dal Senato, non facilitano il distacco dei filo-governativi dall’imprinting del vecchio leader. La mozione degli affetti inevitabilmente pesa. Ma la scelta di Angelino avrà un esito fecondo per il sistema politico italiano solo se avrà la forza, anche intellettuale, di distanziarsi dalla lunga notte del populismo berlusconiano.

La Repubblica 07.10.13

“Kebrat, la ragazza dai ricci neri”, di Massimo Gramellini

Pubblichiamo il testo della ’Buonanotte’ data domenica sera da Massimo Gramellini ai telespettatori di “Che tempo che fa” su RaiTre.
Questa sera vi racconterò la storia di Kebrat, una ragazza di 24 anni con i capelli ricci, di un nero che tende al rosso.
Giovedì mattina, credendola senza vita, l’hanno adagiata sulla banchina del porto di Lampedusa accanto ai cadaveri, avvolta come un pacco regalo in un foglio di alluminio dorato da cui spuntavano solo le braccia unte di nafta. Aveva la pancia talmente gonfia di acqua e gasolio che, oltre che morta, sembrava incinta.

Poi all’improvviso Kebrat ha aperto gli occhi e dopo una corsa in elicottero è approdata in un ospedale di Palermo. Tutta tremante, con un filo di voce dietro la mascherina dell’ossigeno, ha raccontato a un’infermiera la sua avventura.

Kebrat è scappata dall’Eritrea con un gruppo di amici. È scappata da un dittatore sanguinario che spedisce i dissidenti a lavorare in miniera come schiavi e ha trasformato l’antica colonia italiana in un carcere dove le guardie di frontiera sono autorizzate a sparare addosso ai fuggiaschi. Eppure Kebrat ce l’ha fatta. Ha attraversato il deserto del Sudan, prima a piedi e poi su un camion, e dopo due mesi inenarrabili ha raggiunto il porto libico di Misurata. Ha guardato il mare e la bagnarola che stava per salpare, senza neanche sapere dove l’avrebbero portata. L’importante era andare via. Ha consegnato i risparmi familiari di una vita allo scafista tunisino che si faceva chiamare The Doctor. E prima di partire ha indossato il vestito della festa.

Durante il viaggio non ha mangiato nulla. Ha bevuto acqua di mare perché c’era il sole e aveva tanta sete. Ogni tanto ha pregato Dio con gli altri profughi in tutte le religioni possibili.

Alle tre di notte di giovedì il mare era grosso, e appena in lontananza è apparsa la terra a Kebrat è scappato da ridere. I suoi brothers, come i profughi eritrei si chiamano tra loro, sventolavano le magliette in segno di giubilo.

Ma a mezzo miglio dalla costa il motore si è rotto. Kebrat non ha avuto paura: vedeva le luci dell’isola e delle altre barche. Un peschereccio si è avvicinato, poi è andato via. La ragazza ha urlato, ma quelli non sentivano o non volevano sentire. (Kebrat non sa che in Italia chi aiuta un profugo rischia l’avviso di garanzia per favoreggiamento. E non sa nemmeno che il Frontex, l’organismo europeo di pattugliamento che ci costa 87 milioni l’anno, è talmente sofisticato da non vedere un barcone di legno a mezzo miglio dalla costa).

È stato allora che qualcuno, per attirare l’attenzione, ha dato fuoco a una coperta. Hanno provato a spegnere le fiamme con altre coperte e con l’acqua di mare, ma è stato inutile. Così è arrivata la paura, tutti gridavano, si stringevano, si spostavano dall’altra parte del barcone, che ha cominciato a ondeggiare. Quando ha visto un suo amico ridotto a torcia umana, Kebrat ha trovato il coraggio di gettarsi nell’acqua gelida.

Ha visto donne che cercavano di tenere a galla i loro bambini, le ha viste affondare nel buio. Sembrava che salutassero, finché le braccia andavano giù.

Poi non ha visto più niente. Con in bocca il sapore del gasolio e del sale, riusciva solo a sentire le urla: come di gabbiani, ma erano persone. Ha nuotato, prendendo a schiaffi l’acqua per ore. Quando era allo stremo, a malincuore si è tolta l’abito inzuppato, pensando che il suo peso l’avrebbe portata a fondo. A quel punto è svenuta.

Ora è qui, nell’ospedale di Palermo, in prognosi riservata per lesioni gravi ai polmoni. Del vestito della festa le è rimasta solo la parte superiore del reggiseno, sulle cui coppe aveva scritto i numeri di telefono dei familiari.

Ma l’infermiera che ha ascoltato la sua storia non sopporta che Kebrat rimanga nuda. Raggiunge il suo armadietto, afferra una maglia bianca, la taglia e la adagia sopra di lei. “Prendila tu, a me non serve”.

Stasera andrò a letto chiedendomi come fa il mio Paese a ritenere giusta una legge che considera Kebrat una criminale, colpevole del reato di immigrazione clandestina, punibile con l’espulsione immediata e la multa fino a 5mila euro.

Buonanotte.

La Stampa 07.10.13

“Il grande buio oltre il Cavaliere”, di Ilvo Diamanti

«Si è chiuso un ventennio», ha sostenuto, ieri, Enrico Letta. Affermazione impegnativa e un po’ rischiosa. Perché Berlusconi, in questi vent’anni, è stato dato per finito altre volte. Almeno quattro, se i miei conti sono esatti. Salvo risollevarsi e “mordere ancora”, come ha rammentato Eugenio Scalfari, nell’editoriale di ieri. Meglio dire che si è chiusa una “settimana decisiva”, nella biografia del Pdl-Forza Italia. Segnata, questa volta, non dalla ribellione di un leader, ma dal dissenso aperto di una componente molto ampia, in Parlamento. FINO a ieri, fedele a Berlusconi. Così il centrodestra appare diviso. Senza un partito né un leader di riferimento. Mentre il Centrosinistra è in crescita, unito intorno al Pd. Il governo, peraltro, esce rafforzato e il premier, Enrico Letta, legittimato.
È il quadro che emerge dal sondaggio dell’Atlante Politico di
Repubblica, condotto da Demos nei giorni scorsi. Le stime di voto, al proposito, offrono indicazioni chiare. Il Pd sale oltre il 32%, 4 punti più del mese scorso. Mentre il Pdl scivola al 20%: 6 punti meno di un mese fa. Una caduta pesante, che favorisce il sorpasso del M5S. Stabile, intorno al 21%, diventa, dunque, il secondo partito (nei sondaggi, almeno). La maggioranza degli elettori (intervistati) ritiene, d’altronde, che la crisi di governo abbia rafforzato l’esecutivo e, parallelamente, indebolito (in misura molto più ampia) il Pdl-FI e, ancor più, Berlusconi.
Non a caso, la fiducia nel governo
è cresciuta, nell’ultimo mese. Insieme alla convinzione circa la sua durata. Solo poche settimane fa, il 41% degli elettori pensava che non sarebbe durato più di sei mesi e solo il 26% gli attribuiva più di un anno di vita. Oggi le proporzioni si sono invertite. Meno di un elettore su tre scommette sulla crisi di governo nei prossimi sei mesi. Oltre il 40%, invece, crede che durerà molto più a lungo. Almeno un anno e forse più.
Non so se questi elementi siano sufficienti a recitare il
de profundis di Berlusconi e del berlusconismo. Sicuramente sottolineano l’avvio di una fase di turbolenza, che investe, anzitutto, il centrodestra. Ma non solo. La fine del ventennio annunciata da Letta, nell’intervista a Maria Latella su Sky, riguarda, infatti, anche il Centrosinistra. La cui identità politica è stata segnata dall’antiberlusconismo. Mentre dal berlusconismo ha ricavato alcuni elementi fondativi. In particolare, la personalizzazione e il ricorso alla comunicazione mediale.
Naturalmente, tensioni e cambiamenti, nel centrodestra, mostrano un’intensità maggiore. Anzitutto, sul piano della leadership. Silvio Berlusconi, infatti, è all’ultimo posto nella graduatoria dei leader politici italiani. Gli riconosce fiducia meno del 18% degli elettori. Dieci punti in meno rispetto allo scorso maggio. Il punto più basso da quando l’Atlante Politico di Demos conduce i suoi sondaggi. Angelino Alfano, il delfino che ha guidato l’ammutinamento contro il Capo, ottiene un consenso doppio: il 36%. Quasi 10 punti più di un anno fa. Se, fra gli elettori di Fi, Berlusconi è ancora il più apprezzato, nel centrodestra, Alfano prevale, di poco. Il centrodestra, dunque,
non ha più “un” solo Capo. Il leader storico, il fondatore: non è più capace di imporre le proprie scelte. Ma, per ora, non c’è un altro Capo in grado di “uccidere” il padre (metaforicamente) e di prenderne il posto (di fatto). Tuttavia, il problema di questo centrodestra è
che deriva e dipende dal partito personale di Berlusconi. Senza un riferimento “personale” preciso e riconosciuto, non può avere identità né continuità.
Nel Centrosinistra si assiste a un processo simmetrico. Nella graduatoria dei leader, infatti, Enrico Letta è primo (57%). Davanti a Matteo Renzi (53%). Destinato a diventare segretario del Pd. Alle prossime primarie, fra due mesi, non ha avversari. Tuttavia, la fiducia nel premier è legata al ruolo di governo. Mentre Renzi è, sempre di più, leader di partito e, dunque, una figura di “parte”.
D’altronde, in caso di elezioni, Renzi resterebbe il candidato preferito dal 43% degli elettori di centrosinistra (e dal 45% da quelli del Pd). Anche se un terzo sceglierebbe Letta. Tuttavia, per ora, le elezioni non sono all’orizzonte. E le primarie sanciranno, presto, la scelta di Renzi, come segretario. Il problema si porrà più avanti. Nel corso del tempo. Il tempo… È questo, semmai, il problema che potrebbe appannare l’appeal di Renzi. Ma anche l’immagine di Letta, al governo.
D’altronde, il Pd è, da sempre, un partito “impersonale”.
E ne ha pagato il prezzo, anche di recente. Alle ultime elezioni.
Per questo alla fine del ventennio di Berlusconi non è chiaro cosa avverrà. Dopo. Per ora, assistiamo alla perdita dei riferimenti politici e personali. Non c’è, infatti, un soggetto politico capace di “polarizzare” l’opinione pubblica. Di aggregare e di dividere. Non a caso, tutti i leader hanno perso fiducia “personale” negli ultimi mesi. Compresi i più apprezzati – Renzi e lo stesso Letta. Mentre il M5S, lungi dal declinare, ha mantenuto un grado di consensi molto ampio, nei sondaggi. E alle elezioni politiche dello scorso febbraio ha dimostrato di poter superare, nel voto, le stime demoscopiche. Perché il M5S interpreta bene questo passaggio di fine epoca. Senza certezze, senza bussole e senza mappe. Senza tempo. Senza quando, né dove.

La Repubblica 07.10.13

“Atenei, Venezia e Genova premiano i prof più bravi”, di Corrado Zunino

Le valutazioni degli studenti iniziano a pesare sui destini dell’università italiana. Dallo scorso 30 gennaio la contestata Anvur, l’Agenzia che giudica e fa finanziare i singoli atenei, ha introdotto l’autovalutazione obbligatoria. Questa ha già prodotto, oltre a un fiume di parole messe a registro, tre atti pesanti. Innanzitutto la Ca’ Foscari di Venezia, sempre un passo avanti. Con la prossima inaugurazione dell’anno accademico, il 20 ottobre al Teatro Malibran, il rettore Carlo Carraro premierà i tre migliori studenti per corso di laurea e soprattutto i tre docenti più graditi agli studenti (su cinquecento in tutte le facoltà, ricercatori compresi). Sarà un assegno, il premio: 4 mila euro per ogni professore, una mensilità in più. Sul punteggio finale, cinque parametri, sono stati decisivi: la chiarezza delle spiegazioni, la capacità dei professori di stimolare attenzione sulla disciplina, la loro disponibilità. Si consegnerà poi, nel cortile a fianco del Canal Grande, un quarto premio (8 mila euro) per i progetti di innovazione e trasversalità della didattica. Il rinnovamento dell’insegnamento.
Il secondo fatto da raccontare, e che mostra la crescita di attenzione del mondo accademico verso lo studente, arriva dalla vicina Università di Padova. A due professori esterni, il dipartimento di Scienze economiche e aziendali non ha rinnovato il contratto. Sui questionari crocettati online dagli studenti, e a Padova sono obbligatori dal 2005, i due docenti a tempo determinato sono stati definiti “ritardatari, poco disponibli, spesso introvabili”. Colloqui svolti al bar, nessuna indicazione sui criteri di assegnazione dei voti: bocciati, pochi giorni fa, dal basso. Il giudizio negativo degli universitari ha spaccato il Consiglio di dipartimento: undici erano per l’interruzione del rapporto, dieci in difesa dei prof lacunosi. Niente contratto. «La nostra è un’epoca grillina», si è difeso uno degli esclusi, «le minoranze strillano e ottengono».
Poi c’è Genova, ed è il terzo esempio. Il rettore Giacomo Deferrari, classe 1940, ha deciso di fare sue le possibilità della legge Gelmini e ha agganciato gli scatti d’anzianità ai meriti. Un terzo dell’aumento dello scatto nella busta paga dei docenti ora è legato alla loro produzione scientifica, un terzo alle capacità organizzative e un terzo alla didattica. Per quest’ultima voce, i report degli studenti sono diventati determinanti.
All’Università di Roma Tre gli universitari si sono espressi su 1.461 insegnamenti (su un totale di 2.101) dimostrando di aver voglia di valutare i docenti in cattedra. Il rettorato ha fatto quindi partire rilevazioni a campione, sul modello della customer satisfaction
industriale. Alla Bicocca di Milano da quest’anno si richiede la valutazione anche agli iscritti non frequentanti e si stimano in centomila le prossime risposte al questionario.
Ecco, il questionario online dalla scorsa stagione è obbligatorio (e anonimo): se non lo compila, lo studente non può iscriversi all’esame. Molti professori non gradiscono la novità. Un docente di storia della Statale di Milano racconta: «Per fermare la valutazione dal basso molti colleghi anziani invocano la privacy, vogliono difendere il loro
diritto di poter fare una cattiva lezione». A Bergamo insegnanti come Valeria Ugazio, docente di psicologia clinica, hanno scelto invece di far valutare ogni loro singola lezione.
«Chi frequenta un’università pubblica paga ed è giusto che pretenda qualità, i questionari sono uno strumento utile per ottenerla», dice Pierdomenico Perata, rettore della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, diretta fino a cinque mesi fa dal ministro Carrozza. Alla Sant’Anna la valutazione dal basso prevede l’intervento — una volta l’anno — di un gruppo di docenti stranieri: per raccogliere le impressioni degli studenti, vanno anche a cena con loro.

La Repubblica 07.10.13

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“Nessuna tirannia dal basso: così cresce la qualità”, di C.Z.

Rettore Deferrari, è vero che all’Università di Genova volete legare gli scatti di anzianità di ordinari e associati ai report dei vostri studenti?
«Dal dicembre 2010 c’è la legge Gelmini: gli scatti devono essere premiali. Ogni ateneo ha l’autonomia per decidere come applicarla, noi abbiamo scelto di collegare l’aumento a tre voci: l’attività scientifica dell’insegnante, le sue capacità manageriali e la qualità della didattica ».
Qui interviene il giudizio dello studente.
«Sì, uno dei parametri previsti è il parere degli allievi. E, certo, quest’anno diversi insegnanti non prenderanno alcuno scatto ».
Teme la tirannia dello studente, come denunciano i colleghi?
«Nessuna tirannia. Il giudizio di un allievo è solo una parte del
giudizio generale su un insegnante. Se può essere vero che uno studente non ha ancora tutte le competenze per valutare la profondità e la raffinatezza di una lezione, è anche vero che sa dire con esattezza se un professore a lezione c’è o non c’è, se segue il programma, se fa dieci lezioni su un argomento solo perché è il suo campo di battaglia. I docenti bravi e seri, anche quelli più conservatori, stiano tranquilli».
Pesa o no, all’Università di Genova, il giudizio dal basso?
«Sì, utilizziamo le autovalutazioni per il reclutamento e per le promozioni. È difficile che un docente passi a un livello superiore di fronte a un giudizio negativo di un numero consistente di universitari».
La valutazione degli studenti serve all’università italiana?
«Migliora i corsi di laurea. La novità è che prima i professori mettevano i questionari nei cassetti, ora non possono più farlo».

La Repubblica 07.10.13

“Il grande buio oltre il Cavaliere”, di Ilvo Diamanti

«Si è chiuso un ventennio», ha sostenuto, ieri, Enrico Letta. Affermazione impegnativa e un po’ rischiosa. Perché Berlusconi, in questi vent’anni, è stato dato per finito altre volte. Almeno quattro, se i miei conti sono esatti. Salvo risollevarsi e “mordere ancora”, come ha rammentato Eugenio Scalfari, nell’editoriale di ieri. Meglio dire che si è chiusa una “settimana decisiva”, nella biografia del Pdl-Forza Italia. Segnata, questa volta, non dalla ribellione di un leader, ma dal dissenso aperto di una componente molto ampia, in Parlamento. Fino a ieri, fedele a Berlusconi. Così il centrodestra appare diviso. Senza un partito né un leader di riferimento. Mentre il Centrosinistra è in crescita, unito intorno al Pd. Il governo, peraltro, esce rafforzato e il premier, Enrico Letta, legittimato.
È il quadro che emerge dal sondaggio dell’Atlante Politico di
Repubblica, condotto da Demos nei giorni scorsi. Le stime di voto, al proposito, offrono indicazioni chiare. Il Pd sale oltre il 32%, 4 punti più del mese scorso. Mentre il Pdl scivola al 20%: 6 punti meno di un mese fa. Una caduta pesante, che favorisce il sorpasso del M5S. Stabile, intorno al 21%, diventa, dunque, il secondo partito (nei sondaggi, almeno). La maggioranza degli elettori (intervistati) ritiene, d’altronde, che la crisi di governo abbia rafforzato l’esecutivo e, parallelamente, indebolito (in misura molto più ampia) il Pdl-FI e, ancor più, Berlusconi.
Non a caso, la fiducia nel governo è cresciuta, nell’ultimo mese. Insieme alla convinzione circa la sua durata. Solo poche settimane fa, il 41% degli elettori pensava che non sarebbe durato più di sei mesi e solo il 26% gli attribuiva più di un anno di vita. Oggi le proporzioni si sono invertite. Meno di un elettore su tre scommette sulla crisi di governo nei prossimi sei mesi. Oltre il 40%, invece, crede che durerà molto più a lungo. Almeno un anno e forse più.
Non so se questi elementi siano sufficienti a recitare il de profundis
di Berlusconi e del berlusconismo. Sicuramente sottolineano l’avvio di una fase di turbolenza, che investe, anzitutto, il centrodestra. Ma non solo. La fine del ventennio annunciata da Letta, nell’intervista a Maria Latella su Sky, riguarda, infatti, anche il Centrosinistra. La cui identità politica è stata segnata dall’antiberlusconismo. Mentre dal berlusconismo ha ricavato alcuni elementi fondativi. In particolare, la personalizzazione e il ricorso alla comunicazione mediale.
Naturalmente, tensioni e cambiamenti, nel centrodestra, mostrano un’intensità maggiore. Anzitutto, sul piano della leadership. Silvio Berlusconi, infatti, è all’ultimo posto nella graduatoria dei leader politici italiani. Gli riconosce fiducia meno del 18% degli elettori. Dieci punti in meno rispetto allo scorso maggio. Il punto più basso da quando l’Atlante Politico di Demos conduce i suoi sondaggi. Angelino Alfano, il delfino che ha guidato l’ammutinamento contro il Capo, ottiene un consenso doppio: il 36%. Quasi 10 punti più di un anno fa. Se, fra gli elettori di Fi, Berlusconi è ancora il più apprezzato, nel centrodestra, Alfano prevale, di poco. Il centrodestra, dunque,
non ha più “un” solo Capo. Il leader storico, il fondatore: non è più capace di imporre le proprie scelte. Ma, per ora, non c’è un altro Capo in grado di “uccidere” il padre (metaforicamente) e di prenderne il posto (di fatto). Tuttavia, il problema di questo centrodestra è
che deriva e dipende dal partito personale di Berlusconi. Senza un riferimento “personale” preciso e riconosciuto, non può avere identità né continuità.
Nel Centrosinistra si assiste a un processo simmetrico. Nella graduatoria dei leader, infatti, Enrico Letta è primo (57%). Davanti a Matteo Renzi (53%). Destinato a diventare segretario del Pd. Alle prossime primarie, fra due mesi, non ha avversari. Tuttavia, la fiducia nel premier è legata al ruolo di governo. Mentre Renzi è, sempre di più, leader di partito e, dunque, una figura di “parte”.
D’altronde, in caso di elezioni, Renzi resterebbe il candidato preferito dal 43% degli elettori di centrosinistra (e dal 45% da quelli del Pd). Anche se un terzo sceglierebbe Letta. Tuttavia, per ora, le elezioni non sono all’orizzonte. E le primarie sanciranno, presto, la scelta di Renzi, come segretario. Il problema si porrà più avanti. Nel corso del tempo. Il tempo… È questo, semmai, il problema che potrebbe appannare l’appeal di Renzi. Ma anche l’immagine di Letta, al governo.
D’altronde, il Pd è, da sempre, un partito “impersonale”.
E ne ha pagato il prezzo, anche di recente. Alle ultime elezioni.
Per questo alla fine del ventennio di Berlusconi non è chiaro cosa avverrà. Dopo. Per ora, assistiamo alla perdita dei riferimenti politici e personali. Non c’è, infatti, un soggetto politico capace di “polarizzare” l’opinione pubblica. Di aggregare e di dividere. Non a caso, tutti i leader hanno perso fiducia “personale” negli ultimi mesi. Compresi i più apprezzati – Renzi e lo stesso Letta. Mentre il M5S, lungi dal declinare, ha mantenuto un grado di consensi molto ampio, nei sondaggi. E alle elezioni politiche dello scorso febbraio ha dimostrato di poter superare, nel voto, le stime demoscopiche. Perché il M5S interpreta bene questo passaggio di fine epoca. Senza certezze, senza bussole e senza mappe. Senza tempo. Senza quando, né dove.

La Repubblica 07.10.13

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“LA DESTRA INTROVABILE”, di PIERO IGNAZI

IL POTERE carismatico di Berlusconi si è infranto con la ribellione dei suoi seguaci. Un leader che si è affermato solo e soltanto grazie alla sua forza. Una forza economica, mediatica, comunicativa e quant’altro. E Berlusconi che, senza essere stato scelto da un gruppo di pari o da un organismo collettivo, non “ammette” una rivolta interna. La sua voce deve essere sempre ascoltata religiosamente: contiene un messaggio da seguire e realizzare. Non prevede deviazioni o cedimenti. Per quasi vent’anni Berlusconi ha goduto di un potere assoluto nei suoi partiti (a parte la breve parentesi della convivenza con Gianfranco Fini). Un potere che gli derivava da uno stato di grazia sancito da scelte vincenti, e per questo indiscutibili, che rinsaldavano il vincolo fondativo dei sostenitori con il capo. Questo non vuol dire che il Cavaliere si sia comportato come un autocrate nel senso pieno del termine. Non ha mai deciso in totale solitudine. Si è sempre circondato
di amici e consulenti (e talvolta di qualche politico) con i quali discutere e confrontarsi. Poi le decisioni venivano prese da lui solo e, imprimendovi il suo sigillo, se ne assumeva tutto il “carico”. Onori e oneri, quindi.
Quello stato di grazia si è volatilizzato. La rottura con Angelino Alfano e il gruppo dei ministeriali ha trascinato Berlusconi allo stesso livello di ogni altro leader politico, dentro e fuori il partito. La sua parola non è più il verbo. L’atto pubblico di sottomissione recitato in Parlamento annunciando il voto di fiducia ha umanizzato il Cavaliere e quindi annullato il suo carisma. D’ora in poi qualunque decisione egli vorrà prendere sarà naturale domandarsi cosa ne pensano Alfano e soci. In un partito normale questa situazione sarebbe rubricata come una normale, fisiologica lotta per il potere, dove vincitori e vinti possono (più o meno tranquillamente) alternarsi al comando senza alterare la natura del partito. Nel caso di una formazione carismatica come quella berlusconiana al leader non è consentito perdere uno scontro interno decisivo. Il Cavaliere ha potuto mascherare i fallimenti della sua politica grazie alle manipolazioni attivate dal suo impero mediatico e alla docilità/convinzione dei suoi seguaci, ma ora nulla può di fronte alla capitolazione su un punto così cruciale come la fiducia al governo.
Il Pdl è oggi un partito senza guida. Berlusconi non ha più l’autorità per indicare una via, i rivoltosi non hanno ancora una struttura e una configurazione politico- culturale autonoma. Il partito non rischia la dissoluzione come l’anno scorso quando capi e capetti cercavano una loro strada prefigurando un disastroso big bang. La frattura interna esplosa in questi giorni divide il partito in due componenti che riflettono strategie diverse, una accomodante e filo governativa, e una aggressiva e barricadiera, rappresentata da chi voleva occupare stazioni e aeroporti contro la decadenza di Berlusconi (proprio per essere in sintonia con l’opinione pubblica moderata!). Il distacco delle colombe evidenzia una divaricazione di linea strategica, oltre che una sensibilità più istituzionale, ma non è ancora innervata da una cultura politica, da valori e prospettive, da progetti e orizzonti, distanti dal mondo berlusconiano e dalla sua guardia pretoriana. Queste ore, con i voti sulla decadenza di Berlusconi dal Senato, non facilitano il distacco dei filo-governativi dall’imprinting del vecchio leader. La mozione degli affetti inevitabilmente pesa. Ma la scelta di Angelino avrà un esito fecondo per il sistema politico italiano solo se avrà la forza, anche intellettuale, di distanziarsi dalla lunga notte del populismo berlusconiano.

La Repubblica 07.10.13