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Lo «Stato d’arrivo» non resti solo, di Vincenzo Cesaro*

Mentre assistiamo sgomenti all’ennesima tragedia che ha visto morire nelle acque di Lampedusa centinaia di persone in fuga dalle proprie terre nel tentativo di raggiungere le nostre coste, diventa sempre più necessario, doveroso e urgente un intervento non solo su scala europea ma anche su quella globale. In particolare a livello europeo diventa improrogabile rivisitare le norme di Dublino, in base alle quali è il primo Stato d’arrivo quello che deve farsi carico dei profughi. Di conseguenza l’Italia, per la sua posizione geografica, ne risulta oggettivamente penalizzata. La Commissaria europea agli Affari interni, Cecilia Malmström, ha assicurato di volere sostenere l’Italia nel far fronte a tali situazioni. Lo stesso premier Enrico Letta ha richiesto fermamente l’intervento della Ue e ha affermato che intende modificare le politiche migratorie nel corso del semestre di presidenza italiana. Anche il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha sollecitato una maggiore collaborazione, in quanto l’Italia non può assumersi da sola l’onere degli sbarchi. La posizione di Papa Francesco è chiara e decisa: in luglio a Lampedusa ha denunciato la “globalizzazione dell’indifferenza”. Lo stesso presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, chiede in queste ore che l’Agenzia europea di pattugliamento e cooperazione Frontex fornisca mezzi anche per i soccorsi. A sua volta il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso dichiara che la Commissione stessa sosterrà «gli sforzi per aumentare le risorse a Frontex, poiché queste sono senza dubbio tragedie che riguardano tutta la Ue». È dunque necessario migliorare le modalità di accoglienza nei paesi di approdo e, soprattutto, intervenire con maggior impegno aiutando i paesi di origine a migliorare i livelli di vita delle loro popolazioni e contribuendo, nei limiti del possibile, a ridurre il rischio di conflitti politici, etnici nonché provocati dal fondamentalismo religioso. A tutto ciò va aggiunta necessariamente una più incisiva e sistematica azione per contrastare e debellare il potente racket dei “traghettatori della morte” che si arricchiscono con il traffico degli esseri umani. Per impedire il ripetersi di questi drammi, occorre pertanto operare congiuntamente in due precise direzioni. La prima riguarda i Paesi da cui fuggono tanti disperati poiché le origini di questi drammi vanno ricercate in primo luogo nelle particolari criticità economiche e politiche degli stati di partenza. La seconda direzione di interventi è quella che riguarda l’Unione europea, che deve farsi carico di queste tragedie umane promuovendo una forte cooperazione tra i paesi membri e una solidarietà nei confronti delle persone che arrivano sul suolo europeo. Ciò non toglie che, nel caso specifico italiano, sia necessario porre il problema, peraltro da tempo sollecitato anche da parte di chi scrive, di una seria revisione della nostra normativa concernente le migrazioni e l’asilo, poiché essa non è più in grado di regolare adeguatamente la gestione di tali realtà che si stanno modificando in termini qualitativi e quantitativi.

*Segretario generale Fondazione Ismu

“Quel vuoto (in inglese) da colmare”, di Luigi Berlinguer e Jo Ritzen

L’Italia ha un grandioso passato. Non c’è motivo alcuno per non aspettarsi un futuro di piena occupazione o quasi per i cittadini italiani, modalità di produzione e consumo più sostenibili, così che anche i nostri figli e i nostri nipoti possano godere dei privilegi di una bella vita. Non c’è neppure motivo di escludere in futuro una minore disparità di reddito, così che tutti abbiano un giusto incentivo per impegnarsi a fondo nella società, sapendo che gli utili saranno divisi equamente. Non ci si deve disperare pensando che i bei tempi sono ormai finiti e che l’Italia – come la maggior parte dell’Europa – stia lentamente ma inesorabilmente perdendo il vantaggio della propria competitività nel mondo e debba di conseguenza rinunciare al proprio benessere perché non se lo può più permettere.
Tuttavia, nulla avviene senza impegno. Ritrovare la piena occupazione e arrivare a una crescita sostenibile impone di cambiare e avrà un prezzo per coloro che non saranno disposti a farlo. Il cambiamento è sempre stato una componente essenziale del progresso umano. I cambiamenti ai quali assistiamo nell’arco della nostra vita sono sempre più rilevanti per ogni nuova generazione. I sottoscritti sono due uomini anziani che hanno visto nel corso delle loro vite più cambiamenti di quanti ne avessero visti i loro genitori, e sono convinti che i loro figli ne vedranno ancora più di loro. Il cambiamento più grande avvenuto nel corso della nostra vita è la globalizzazione, accompagnata dalla confluenza nel benessere, con modalità che non ha precedenti, sia di coloro che vivono nelle economie emergenti (la metà della popolazione terrestre), sia di coloro che vivono nel mondo ricco (circa un quinto della popolazione terrestre). Il cambiamento non deve essere una minaccia: è un’occasione per creare un mondo migliore.
Ciò nonostante, l’Europa si ritrova in crisi. Il processo di unificazione in Europa di paesi più ricchi e più poveri si è arrestato. Nei vari paesi il welfare state sta subendo pesanti attacchi a causa delle restrizioni imposte ai bilanci dai bassi tassi della crescita economica e dai limiti dell’imposizione fiscale. Il welfare state della fine del XX secolo rischia di diventare insostenibile.
I paesi europei, ciascuno per conto proprio e tutti insieme nell’Unione europea, devono riflettere su come emergere dalla crisi, raggiungendo un’occupazione quanto più piena possibile, maggiore sostenibilità e una struttura sociale dignitosa. La chiave per ottenere tutto questo è recuperare la competitività europea nel mondo. Quando comprano beni di consumo (o automobili), i nostri cittadini (e gli imprenditori) vogliono semplicemente trovare il migliore compromesso possibile tra prezzo e qualità. Sceglieranno i prodotti della qualità migliore che costano meno.
Le università impegnate nella ricerca posseggono la chiave giusta per ripristinare la competitività. Sono il posto giusto nel quale studiano i futuri imprenditori dell’hi-tech che faranno la differenza nello sviluppo di nuove modalità di produzione più sostenibili e con un vantaggio competitivo. Le università impegnate nella ricerca sono i luoghi deputati a buona parte della ricerca che si fa nelle nostre società. Gli studenti hanno il diritto di essere ben preparati per la società del futuro, così da poter sviluppare al meglio i loro talenti.
Entrambi i sottoscritti hanno fatto esperienza come ministri dell’Istruzione e della Ricerca. Il primo nei Paesi Bassi, dove ha incoraggiato le università a impartire un numero maggiore di corsi in lingua inglese già nel 1989 (!), l’altro in Italia. Quando io, Ritzen, ho suggerito di insegnare di più in lingua inglese ho scatenato forti reazioni: intendevo forse abbandonare la lingua olandese? Ad aiutarmi è stata la mia stessa esperienza. Ho studiato ingegneria fisica all’Università tecnologica di Delft e in pratica tutti i miei compagni di corso che si laurearono con me nel 1969 hanno trovato posti di lavoro in aziende internazionali, ma tutti in un primo tempo hanno incontrato difficoltà per l’incapacità di parlare quella lingua franca che oggi è l’inglese. Le università olandesi sono radicalmente cambiate e ormai impartiscono gli insegnamenti di molte delle materie dei corsi di laurea specialistica in inglese, contribuendo moltissimo alle possibilità degli studenti di essere assunti all’estero e nel loro paese una volta ultimato il master. Sempre più studenti stranieri accorrono a studiare nei Paesi Bassi (alcuni dei migliori qui sono di nazionalità italiana), perché l’ostacolo della lingua è superabile e oltretutto offre ulteriori competenze molto richieste dal mercato del lavoro. L’Università di Maastricht si è trasformata in un ateneo dove si parla esclusivamente in lingua inglese. E nel frattempo nessuno può dubitare del fatto che l’olandese è una lingua forte come non mai. Ci sono più traduzioni della letteratura olandese nelle lingue straniere (e ciò vale per esempio per i paesi monolingue come la Germania o la Francia). La letteratura olandese è in piena espansione. In Italia la decisione di impartire corsi di insegnamento in lingua inglese è stata presa molto più tardi rispetto ad altri paesi europei, ma oggi assistiamo ad alcuni progressi notevoli, tanto che ormai sono molte le università che offrono corsi di vari livelli: le iniziative dell’Università tecnologica di Milano, dove si impartiscono in lingua inglese gli insegnamenti dei corsi delle lauree specialistiche, è un segnale molto positivo del fatto che anche le università italiane stanno rispondendo alle richieste degli studenti di ricevere la migliore istruzione possibile. Vogliamo congratularci con quelle università che hanno osato cambiare, affrontando naturalmente anche tutte le difficoltà che il cambiamento implica, ma così pure la ricompensa della promessa di un futuro migliore.
Questo è senza dubbio un contributo importante per un contesto innovativo che garantisca, finalmente, risultati concreti anche nello sviluppo di corsi di laurea comuni, nell’ottica di un appropriato riconoscimento reciproco e con l’obiettivo di migliorare le prospettive di occupazione nel mercato.

Il Sole 24 Ore 06.10.13

“La stanchezza dell’Occidente”, di Massimo Recalcati

L’esaurimento è una reazione alle sirene dell’edonismo esasperato che produce anche la precarietà sociale ed economica Il fenomeno nasce dal “principio di prestazione”, che costringe la vita a essere “produttiva” e l’individuo ad affermare se stesso. Recentemente il sociologo coreano Byung-Chul Han ha proposto l’immagine della stanchezza come chiave interpretativa della nostra epoca. Qualcosa si è esaurito, è scaduto, è divenuto privo di forza. In contrasto solo apparente con questa stanchezza di fondo il nostro tempo sembra sostenuto da una corrente eccitatoria permanente. Come intendere questa oscillazione bipolare tra frenesia e stanchezza? Tutti ci lamentiamo di come il tempo della nostra vita sia incostante accelerazione. Rocco Ronchi per definire questa tendenza ha evocato l’immagine della “mobilitazione generalizzata” con la quale Ernst Jünger aveva definito il tempo caotico della prima guerra mondiale. La nostra mobilitazione permanente non ha però come bussola la difesa del suolo, dell’identità, dei confini. Noi non abitiamo piuttosto il tempo della liquefazione di ogni identità, della contaminazione, della globalizzazione, della relativizzazione di tutti i confini?
Questo significa che l’attuale mobilitazione in cui tutti siamo coinvolti non ha un obbiettivo fuori dalla riproduzione di se medesima. Siamo tutti stanchi e al tempo stesso tutti mobilitati. Siamo bipolari, costretti a servire un principio di prestazione inflessibile e superegoico per poi riconoscerci esausti, sfiniti, senza più risorse. Questo paradosso lo indicava già Heidegger nella sua diagnosi del nichilismo occidentale: il nostro tempo è il tempo della riduzione del mondo a pura risorsa da sfruttare illimitatamente. In questo senso la nostra stanchezza rivela la verità dell’iperattivismo che non affligge solo le vite dei bambini occidentali ma, ben più radicalmente, la vita stessa dell’Occidente. La vita è esausta, spossata, afflitta da una stanchezza reattiva alle sirene dell’iperedonismo che, non dimentichiamolo, produce anche la precarietà sociale ed economica che è il vero volto dell’Occidente sotto la maschera della sua giostra maniacale. Marcuse aveva già messo in luce come il capitalismo avesse trasfigurato il principio freudiano di realtà nel principio di prestazione. Una nuova forma di alienazione si delineava: non solo quella relativa allo sfruttamento della forza lavoro – secondo lo schema marxista –, ma quella di una nuova forma di oppressione della vita costretta ad essere necessariamente produttiva, liberata dai vincoli oscurantisti della tradizione, ma asservita ad un nuovo padrone: la necessità della affermazione ad ogni costo della propria individualità. Ebbene, la stanchezza che ci affligge oggi non mostra forse il limite di questo mito antropologico? Non mostra la corda del sogno narcisistico di diventare padroni di noi stessi, di realizzare il nostro nome a prescindere da quello dell’Altro?
Facciamo due soli esempi. Il primo è quello del disagio giovanile che non si caratterizza più per il conflitto vitale tra le generazioni, ma per uno spegnimento del sentimento della vita. Al centro non è più il disagio tra la giovinezza che avanza le sue esigenze di trasformazione del mondo e l’ordine granitico dell’esistente, ma il disagio di un vita spenta, stanca, lontana dal desiderio. I sintomi attuali degli adolescenti che si rivolgono allo psicoanalista (violenza, alcoolismo, tossicomanie, dipendenza dall’oggetto tecnologico, anoressia, bulimia, isolamento, ecc.) hanno questa radice in comune: non scaturiscono più dalla dissonanza tra il desiderio e la realtà, ma da una specie di affaticamento del desiderio stesso. La vita che dovrebbe sbocciare nel tempo della sua primavera tende a contrarsi, a chiudersi su se stessa, a ripiegarsi. Questo movimento regressivo contrasta solo apparentemente con l’esaltazione maniacale di cui si nutre la nostra Civiltà poiché, in realtà, è solo l’altra faccia di quella medaglia.
Il secondo esempio riguarda uno dei grandi simboli dell’Occidente; è la stanchezza di Benedetto XVI che, sfinito, lascia il suo posto mostrando il volto umano del rappresentante ideale e normativo di Dio in terra. Cosa vi possiamo leggere? Non solo un dramma interno alla Chiesa Cattolica e alla necessità di un suo profondo rinnovamento. Esso rivela una stanchezza profonda nella vita di tutte le istituzioni che non sembra più in grado di essere animata da passioni profonde. Il senso religioso della vita e quello laico della polis sembrano entrambi esauriti. Si pensi solo alla stanchezza che avvolge la politica come tale. In questo tornante non è in gioco l’esperienza della perdita di tutti i valori, lo spettro minaccioso del nulla, della morte di Dio come accadde alle soglie del Novecento. Oggi quel grande smarrimento ontologico lascia il posto al frastuono della vita spensierata, all’homo felix dedito alla ricerca compulsiva della “sensazione”, prigioniera della idolatria degli oggetti, integralmente esteticizzata. Al centro non v’è più il nulla che minaccia l’essere, ma un troppo pieno che ottunde, un eccesso di presenza, una mancanza della mancanza, come direbbe Lacan.
Eppure questa ultima grande crisi economica mostra tutti i segni della gravissima patologia che affligge l’Occidente. Siamo in un punto di snodo: dobbiamo provare a leggere la stanchezza attuale dell’Occidente non solo come l’effetto di una disillusione fondamentale delle false promesse di felicità del capitalismo, ma anche come una domanda di un altro mondo possibile. L’uomo dell’Occidente è un uomo stanco della vita o di questa vita? Dovremmo provare a leggere in questa nostra stanchezza non solo una caduta depressiva della vita, ma anche l’esigenza di un’altra vita. Essa contiene già in sé una domanda latente di pausa, di sconnessione dalla connessione perpetua a cui siamo “obbligati”, contiene già una esigenza positiva di silenzio.

La Repubblica 06.10.13

“Ciao Carlo Lizzani cronista del 900”, di Alberto Crespi

In questo giorno così triste poca è la voglia di parlare di cinema. Carlo Lizzani, scomparso ieri all’età di 91 anni (era nato a Roma il 3 aprile 1922), era molto più di un semplice regista. Per noi dell’Unità era prima di tutto un amico e un compagno di strada, che tante volte ha scritto per il giornale (ad esempio in occasione del Nobel a Dario Fo, vecchio amico che diresse nel film Lo svitato, del 1956) e ci ha raccontato storie importanti a cavallo fra arte e politica.
L’amico e compagno va salutato a testa alta, rispettando la sua scelta estrema che già ieri, nei resoconti dei siti web, veniva paragonata a quella di Mario Monicelli: altro amico, altro maestro. Massimo rispetto per chi decide come e quando andarsene, anche se per chi rimane il dolore è terribile e il rimorso incancellabile.
Venendo all’opera di Lizzani, la parola «regista» continua a essere riduttiva. Carlo è stato uno storico, un intellettuale, un operatore culturale (memorabile la sua direzione di Venezia, che rilanciò la Mostra a cavallo fra anni ’70 e ’80), un attivista politico, in una parola: un instancabile cronista del Novecento. Non a caso aveva voluto intitolare la sua autobiografia Il mio lungo viaggio nel secolo breve (Einaudi, 2007). È un libro emozionante, che sarebbe utile leggere in parallelo a Volevo la luna, l’autobiografia di Pietro Ingrao uscita sempre per Einaudi l’anno prima, nel 2006. I due erano vecchi amici e avevano condiviso la lotta partigiana a Roma, avevano frequentato la storica rivista Cinema e conosciuto Luchino Visconti, in un’esperienza che aveva incrociato politica e cinema, sogni artistici e sogni di radicale cambiamento della società. Come tanti altri ragazzi che erano studenti sotto il fascismo, Lizzani esce dalla guerra con l’intento di contribuire a scrivere la storia, di fare dell’Italia un Paese nuovo. Non è un caso che nei giorni esaltanti della Liberazione Carlo sia a Milano, ufficialmente per sondare la possibilità di aprire una rivista di cinema in quella città, in realtà per essere dove tutto sta accadendo: la caduta e la cattura di Mussolini, la cacciata dei tedeschi, i partigiani che sfilano nelle città, la speranza di un futuro diverso.
Il cinema lo cattura e non lo molla più. Uno dei lavori più formativi per Lizzani è l’aiuto-regia per Roberto Rossellini, in Germania anno zero: vedere Berlino subito dopo la guerra, girare sequenze memorabili (alcune sono nel film finito) tra le macerie, conoscere una popolazione disperata che tenta di ritornare alla vita sono esperienze indelebili. Sempre in quegli anni (1946, per la precisione) partecipa a Il sole sorge ancora di Aldo Vergano, dove interpreta un giovane sacerdote fucilato dai tedeschi. Collabora anche con Giuseppe De Santis, in Caccia tragica e in Riso amaro. Poi, nel 1951, il debutto con Achtung! Banditi!, in cui tiene a battesimo (come attore) un giovanissimo Giuliano Montaldo accanto a due star come Gina Lollobrigida e Andrea Checchi. È uno dei pochi film sulla Resistenza cittadina – fra gli operai di Genova – ed è prodotto con una formula innovativa, una «cooperativa di spettatori» che finanzia il film dal basso con il decisivo contributo delle sezioni del Pci. Con la stessa struttura, coordinata dal produttore/ partigiano Giuliani De Negri, realizza nel 1954 Cronache di poveri amanti. È il film che fa di lui un regista importante. Sempre negli anni ’50 dirige il citato film con Fo, Lo svitato, primo di una lunga serie di opere realizzate a Milano, città che – da romano sobrio e taciturno – adora. Sono «milanesi» due dei suoi film più belli, La vita agra da Bianciardi (1964) e Banditi a Milano sulla banda Cavallero (1968), antesignano del «poliziottesco»: il primo con uno splendido Ugo Tognazzi, il secondo con un travolgente Gian Maria Volontè.
Lizzani non è stato solo un regista di film storico-politici. Certo, ha rievocato nei suoi film momenti importanti della nostra storia: la tragedia degli ebrei romani in L’oro di Roma, le vicende di Edda e Galeazzo Ciano in Il processo di Verona, gli ultimi giorni del Duce in Mussolini: ultimo atto, la vita di Giorgio Amendola nel televisivo Un’isola, addirittura l’Urss delle purghe staliniane in Caro Gorbaciov. Ma ha frequentato anche il cinema di genere, sfiorando la commedia, dirigendo due western (Requiescant, con Pier Paolo Pasolini attore, e Un fiume di dollari) e dando il meglio di sé nel thriller, dal citato Banditi a Milano a titoli come Crazy Joe e Svegliati e uccidi. Non ha mai disdegnato, da vero intellettuale gramsciano, la narrazione popolare; è sempre stato convinto che un artista sia tale solo se non perde il contatto con il pubblico.
Oltre alla citata autobiografia, Carlo Lizzani ha pubblicato un’antologia di scritti critici intitolata Attraverso il Novecento e un libro, Il giro del mondo in 35 mm., dove racconta con orgoglio di aver attraversato, da cineasta, tutti e cinque i continenti.
A Venezia 2013, un mese fa, lo si è visto nel documentario di Gianni Bozzacchi Non eravamo solo ladri di biciclette, dove raccontava un aneddoto inedito e gustoso: nella famosa sequenza di Riso amaro in cui Vittorio Gassman balla il boogie-woogie con Silvana Mangano, fu Lizzani a fargli da controfigura perché ballava meglio dell’attore. Ci piace, oggi, salutarlo così: pensando a un ragazzo nemmeno trentenne che balla nell’Italia del dopoguerra, sognando un futuro che ha riservato molte delusioni, ma anche tante gioie e tante, mirabolanti avventure.

L’Unità 06.10.13

“Una sinistra che alzi la testa”, di Claudio Sardo

L’immane tragedia di Lampedusa, che difficilmente concluderà la sequela di morte nel mediterraneo, ci ha messo di fronte alle nostre responsabilità, alla nostra colpevole indifferen-a, alle nostre leggi sbagliate, agli egoismi della nostra Europa. Ma ci ha messo di fronte anche ai grandi, sconvolgenti cambiamenti di questo tempo. Mai la storia è stata così accelerata. Mai la politica degli Stati così impotente, fra trasmigrazioni bibliche, guerre senza fine, dominio della finanza, povertà assolute.

Eppure mai l’uomo ha avuto tante potenzialità come oggi, tante opportunità, tante ricchezze materiali e non. Siamo davanti a forme inedite di schiavitù, di dominio dell’uomo sull’uomo, anzi del denaro, delle cose, sull’uomo. Ma al tempo stesso abbiamo le conoscenze, gli strumenti, le risorse per migliorare la vita delle persone e delle comunità. Anziché distruggerla, potremmo partecipare a un ampliamento della creazione.

È qui il compito di una sinistra degna di questo nome. Dare battaglia lungo il crinale dei nuovi poteri, delle disuguaglianze più tremende, delle sottomissioni che portano alla morte, e della politica che invece può redistribuire occasioni di vita, di solidarietà, di progresso. Dare battaglia lungo questo crinale vuol dire oggi anzitutto misurarsi con i nuovi paradigmi, le nuove lingue, le forze reali che si contendono la supremazia. È la sola politi- ca per cui vale la pena battersi. E non è vero che cambiare è impossibile, che la globalizzazione ha reso inutile finanche la democrazia, che i poteri residui sono ormai soltanto corruzione.

Questo vogliono farci credere. Per costringerci ad alzare le mani. Per metterci paura, per spezzare le reti di fraternità umana e di solidarietà sociale. Il potere, quello che abbandona gli Stati nazionali e si trasferisce altrove, ha bisogno di individui soli davanti al mercato, soli davanti alle tv e ai computer. Ha bisogno che non ci siano comunità. Perché l’individuo da solo non può cambiare le cose: può farlo la persona inserita in un corpo sociale.

L’individualismo è la cultura della disgregazione. L’egoismo ne è il riflesso nella paura. La sinistra, quando ha prodotto cambiamenti reali, ha creato «società». E questo resta il tessuto di ogni cambiamento possibile. Nella lotta come nella composizione degli interessi.

L’Europa è oggi per noi la dimensione politica necessaria per interagire nel mercato globale, tuttavia ciò non vuol dire che la vera politica sia solo quella che viaggia sopra le nostre teste. Al contrario la politica comincia dalle nostre comunità. Ad esempio, lo strazio dei morti di Lampedusa ci obbliga a fare le scelte che competono a noi: stracciare la Bossi-Fini, abolire il reato di clandestinità, rispettare il diritto d’asilo, promuovere con gli altri le politiche europee di immigrazione, darci una legge dignitosa sulla cittadinanza. Certo, tutto ciò non basterà a salvare le moltitudini che muovono dalla disperazione. Ma, se si vuole cambiare, ognuno deve fare la sua parte. A partire dai comportamenti quotidiani, dalla cultura che si trasmette ai figli, dal linguaggio che si usa per strada.

Dobbiamo riconquistare la politica. Perché stracciarla, gettarla al macero come gesto di ribellione, alla fine azzera il nostro stesso potere di cittadini. Porta all’esaurimento della democrazia, surrogata da pifferai e da populismi senza solidarietà. Ma, ancor più che nel passato, ora è necessaria una coerenza tra comportamenti personali e rivendicazioni ideali. Nessuno è più disposto ad accetta- re l’ipocrisia o il privilegio del potere.

C’è chi dice che la politica è pragmatismo.E il pragmatismo è stato spacciato a lungo come l’antidoto delle vecchie ideologie. Ma proprio la divaricazione tra radicalità e pragmatismo, alla fine, ha spezzato la sinistra. L’ha indebolita, in Italia come in Europa. Bisogna ritrovare l’unità, almeno l’amicizia, tra valori e politiche concrete. È un’impresa difficile, ma speriamo che il congresso del Pd non eluda il tema. In questo tempo di sconvolgimenti non si può separare la politica, rimpicciolendola, dalle nuove questioni sociali e antropologiche che interrogano la nostra umanità.

Solo una sinistra che riprende coscienza di sé può rimettersi alla testa di una battaglia storica. Solo una sinistra che alza la testa, peraltro, può affrontare questa complicata fase di transizione in Italia. Il governo Letta, nei giorni scorsi, ha guadagnato il passaporto per il 2015: ma la partita nella destra è aperta e il dopo-Berlusconi indeterminato. Solo una sinistra più forte può guidare questa transizione. Solo con valori e ideali forti si può dare un senso ai piccoli passi (e agli affanni) di oggi. Il governo Letta, come ogni governo, resta un terreno di battaglia. L’avamposto da conquistare sono le ragioni della battaglia.

L’Unità 06.10.13

“L’eclissi del cannone”, di Benedetto Vertecchi

C’è qualcosa che non convince nel dibattito sull’educazione occidentale. Per certi versi sembra che lo sviluppo dei sistemi scolastici costituisca un impegno prioritario per i responsabili politici dei diversi paesi, e che tale impegno trovi consenziente l’opinione pubblica. Lo sviluppo si gioverebbe, oltre che della sensibilità e dell’esperienza degli insegnanti, dell’apporto conoscitivo assicurato da un gran numero di ricercatori specializzati nei diversi settori della conoscenza educativa. Sembrerebbe, dunque, che esistano condizioni favorevoli perché alla crescita quantitativa, che ha caratterizzato lo sviluppo culturale e la storia sociale degli ultimi secoli, segua un adeguamento qualitativo, conforme alle esigenze che si sono venute progressivamente manifestando e che è presumibile emergano in una prospettiva anche non lontana. Ma, d’altro canto, sono sempre più diffusi atteggiamenti critici. Ci si chiede quali siano gli effetti dell’educazione scolastica e se sia giustificato l’imponente impegno di risorse necessario per assicurare l’istruzione per un numero consistente di anni alla generalità di bambini e ragazzi.

Negli ultimi decenni del Novecento si è affermata la convinzione che il raggiungimento da parte dei sistemi educativi di traguardi apprezzabili potesse essere verificato attraverso la comparazione dei risultati di apprendimento conseguiti dagli allievi. Associando alla comparazione dei livelli di apprendimento l’analisi delle differenze che si riscontrano nei valori di alcuni indicatori di contorno (per esempio, il numero degli insegnanti o quello delle ore di lezione) si è ritenuto che fosse possibile stabilire quali fossero le scelte più adeguate a perseguire intenti di qualità, orientando le decisioni politiche e rivedendo i modelli di funzionamento delle scuole.

In un’attività complessa, com’è quella educativa, ogni apporto conoscitivo è utile, a condizione che si sia in grado di integrare tale apporto con altri. È indubbio che le comparazioni abbiano contribuito a porre in evidenza i punti di forza e quelli di debolezza dei singoli sistemi scolastici, almeno fino a quando i dati comparativi non sono stati assunti come principale criterio per formulare valutazioni (impropriamente definite di sistema, perché limitate alla considerazione di aspetti formali e per lo più ignare di quelli informali) sulla qualità dell’educazione scolastica. Con gli anni, le valutazioni comparative hanno finito col prescindere dall’esplicitazione di un disegno culturale. Anzi, è avvenuto il contrario, e cioè che si affermasse la necessità di compiere rilevazioni su aspetti generali delle competenze di base (la comprensione della lettura, la matematica e le scienze), prescindendo dagli aspetti specifici che identificano nei singoli ambiti linguistici e culturali le attività di apprendimento. In altre parole, si è giunti a supporre capacità che prescindono dalle operazioni e dagli oggetti attraverso i quali sono acquisite. Dovremmo supporre, per esempio, una capacità di comprensione della lettura che prescinda dalla rilevanza che le letterature nazionali (o la storia, o il diritto, o l’arte, o l’organizzazione produttiva e via elencando) hanno avuto e hanno nel conferire significato ai testi. In altre parole, l’obiettivo più o meno consapevolmente e coerentemente perseguito dalle politiche scolastiche di vari paesi industrializzati è diventato quello di migliorare la posizione nelle graduatorie internazionali. Non ci si chiede più quale sia il disegno educativo che la scuola persegue, ma si ritiene importante figurare nelle posizioni elevate della graduatoria dei risultati o, quanto meno, di non scendere sotto il livello medio. In pratica, si considerano adeguati i risultati che non siano inferiori ad alcune soglie determinate empiricamente, anche se nessuno sarebbe in grado di affermare che quelle soglie corrispondano a profili educativi realmente apprezzabili.

In breve, si è affermata una nozione dell’apprendimento scolastico indipendente dalla cultura attraverso la quale si tende ad acquisire un determinato corredo di conoscenze. Si enfatizza l’importanza della capacità di comprendere il testo scritto, ma non ci si chiede perché, come e che cosa si proponga agli allievi di leggere. Si afferma la necessità che la razionalità matematica qualifichi il profilo degli allievi, ma si lascia che abitudini sociali indotte da pratiche consumiste prescindano dalla pratica effettiva di tale razionalità. Si esaltano le nuove conquiste della scienza, ma se ne banalizzano gli apporti o, peggio, si lascia spazio all’affermarsi di un pensiero magico, che elude le asperità della conoscenza richiamando categorie emozionali e suggestive.

L’educazione dell’Occidente, che fin dal mondo antico ha sviluppato proposte tese da un lato a promuovere la comprensione dei repertori disponibili, e dall’altro all’acquisizione di nuova conoscenza, si trova ora di fronte ad un ribaltamento, per il quale si riconosce una assoluta priorità a categorie di per sé astratte. Non si capisce, infatti, che cosa sia la comprensione senza che si indichi su che cosa tale capacità si debba esercitare. In realtà, se si analizzano gli aspetti metodologici e strumentali delle comparazioni che sono state all’origine del ribaltamento, si individua la presenza di una cultura non più rivolta a consentire il procedere di un disegno educativo, ma che accoglie, più o meno consapevolmente, istanze espresse dal mondo della produzione. Tali istanze sono alla base di una globalizzazione educativa sempre meno sensibile ad una cultura non finalizzata. Quello che si afferma è il concetto dell’utilità a breve termine dell’apprendimento scolastico, ed è fin troppo evidente che tale utilità non può essere riconosciuta a quegli elementi culturali che possono segnare il profilo degli individui per il corso della vita, ma che non concorrono – se non in modi molto mediati – a qualificare la capacità di operare a fini produttivi.

C’è da chiedersi che cosa resterà dell’educazione occidentale se il criterio dell’educazione dovesse continuare a essere la deculturalizzazione delle competenze. Una ventina d’anni fa Allan Bloom (un filosofo e critico letterario dell’Università di Chicago) pubblicò un libro sul quale si sarebbe dovuto riflettere assai più di quanto non sia avvenuto. Si trattava di The Western Canon: The Books and School of the Ages (New York, Harcourt Brace, 1994; trad. it. di F. Saba, Il Canone Occidentale, Milano, Bompiani, 1996). Bloom intende l’Occidente non come un riferimento geografico, ma come una rete immateriale che collega le culture delle varie tradizioni linguistiche e letterarie. Secondo Bloom si può riconoscere una continuità di simboli, che costituisce il riferimento comune dell’educazione occidentale. Omero è il padre dell’Occidente perché sui poemi omerici si è sviluppata la capacità di comprensione di quanti hanno fruito di educazione formale, ma – si potrebbe aggiungere – anche di quanti non ne hanno fruito che di riflesso, per l’incidenza che i riferimenti culturali hanno avuto sulla sensibilità comune e sul modo di esprimerla attraverso il linguaggio. Ovviamente, Omero è solo agli inizi di un percorso che, attraverso le culture del mondo antico, ha condotto al manifestarsi delle culture e delle lingue nazionali. Se ha un senso ritenere che l’Europa non sia la semplice somma di un certo numero di sistemi economici e che il richiamo all’insieme dell’Occidente non costituisca solo la rivendicazione del ruolo egemonico esercitato negli ultimi secoli, è perché la letteratura, la musica, le arti figurative, il pensiero filosofico e quello scientifico hanno rappresentato un sistema di valori condiviso.

La rincorsa della categoria dell’utilità si è estesa, come non sarebbe potuto non essere, dalla proposta educativa rivolta a bambini e ragazzi ai requisiti richiesti nel profilo degli insegnanti. Anche in questo caso si è operato un ribaltamento, per effetto del quale alla cultura si è sostituita una nozione della capacità di insegnare sempre più rarefatta, perché rivolta a inseguire un’operatività mentale sempre più povera di riferimenti culturali. La crisi che l’educazione occidentale sta attraversando può essere contrastata a condizione di uscire dall’eclissi che impedisce di riconoscerne il canone: non si tratta di conservare gli elementi che nel corso dei secoli sono stati presenti nel profilo delle élites sociali, ma di operare sui repertori del passato per dare solidità alle proposte per il futuro. E ciò vale per i bambini e i ragazzi come per i loro insegnanti.

da Tuttoscuola 06.10.13

“Le mosse dell’Europa sullo scacchiere siriano”, di Ferdinando Salleo

La rapida successione delle mosse diplomatiche di Lavrov e di Rouhani, innestate sulla crisi siriana, lascia intravedere la formazione di equilibri politici nel Mediterraneo e nel Medio Oriente in un assetto in cui, alla fine, il destino di Damasco e di quelle sventurate popolazioni passerà in secondo piano. Approfittando abilmente dell’imbarazzo di Washington per le avventate minacce ad Assad, non condivise dal Congresso e meno ancora dall’opinione pubblica, delle contraddizioni tra i Paesi arabi del Golfo e dell’assenza dell’Europa, la diplomazia russa ha riportato il Cremlino tra i protagonisti senza i quali sarà impossibile una soluzione regionale. L’altro protagonista è l’Iran che esce dall’isolamento diplomatico dove lo aveva ridotto Ahmadinejad e usa la questione nucleare per avanzare forme di compromesso in cui la formula “giapponese” assortita di garanzie internazionali tutte da verificare (approntare i presupposti fermandosi alla soglia dell’armamento) e l’atteso mitigarsi delle sanzioni conferisca a Teheran un ruolo sub-egemonico che valorizzi l’arco sciita che va dall’Iran al Libano. La belligeranza di Netanyahu non trova più la sponda americana, pur tiepida, e deve fare i conti con un’opinione pubblica insoddisfatta.
Turbati dall’abbandono americano dei fedeli regimi autoritari, gli arabi del Golfo cercando spazio si sono incautamente inseriti nelle “primavere arabe” appoggiando e finanziando chi i salafiti, chi i Fratelli Musulmani e finendo per lasciare spazio alle varie filiazioni di Al Qaeda. Le ambizioni politiche saudite sono messe in ombra dall’Iran tornato alla diplomazia attiva, come quelle neo-ottomane della Turchia di Erdogan che si allontana vieppiù dall’Europa, ma trova ad Oriente uno spazio ridotto ed è sempre alle prese con i curdi che mirano a creare un proprio Stato.
Sembra un caso da manuale che ricorda l’ottocentesca politica del “concerto europeo” attorno ai destini del decrepito impero ottomano in Europa. Alla fine, le riottose popolazioni locali avrebbero trovato requie nei confini tracciati per loro dalle maggiori potenze. Almeno per un certo tempo, in quel caso per quarant’anni finchè le polveri non fossero state accese dalla miccia di Sarajevo. Per essere efficace, però, il “concerto” presupponeva un consenso che desse vita a una leadership energica e dotata di visione strategica, in grado di imporre alle parti un compromesso in cui ciascuno degli attori trovasse parziale accoglimento dei propri fini.
È l’esigenza primaria di queste crisi. Gli Stati Uniti restano la potenza indispensabile, come diceva Madeleine Albright. Superpotenza, certo, ma non onnipotente. Malgrado l’attenzione della Casa Bianca si concentri sul Pacifico e sul rapporto strategico con Pechino, Washington non può sfuggire all’imbroglio mediterraneo e mediorientale dove si incrociano le strade dell’energia e quelle del terrorismo, le migrazioni, il traffico marittimo e la sicurezza di Israele, il controllo del Nord Africa e i sussulti dell’immenso mondo islamico sino all’inaffidabile Pakistan e all’Afghanistan che si avvia, temo, sulla via irakena. Non solo la chiave della stabilità di una regione tricontinentale, ma i rischi per l’alleata Europa, sensibile ora alla diplomazia russa, e la stessa visione politica della propria responsabilità globale, a meno di rinchiudersi in un ruolo regionale, sono in gioco per l’America nel negoziato che si annuncia attorno alla Siria e al nucleare iraniano, un negoziato che, pur diviso per obiettivi parziali, non potrà non essere globale nella sua natura politico-strategica.
Accanto alla Russia e all’Iran, all’inquieto Golfo e alla Turchia, Washington ha bisogno di rafforzare nel negoziato il fronte della stabilità e del progresso nella regione. Ciò significa associare nella trattativa le altre forze politiche ed economiche, persino militari, che condividono quei fini e sono in grado di contribuirvi, in primo luogo l’Europa. Principale attore, muto sinora se non per i fremiti umanitari, l’Europa dovrà a sua volta star lontana dai risorgenti protagonismi nazionali se vuole essere parte attiva, ma contribuire con i suoi principali Paesi e con l’Unione stessa a riattivare anzitutto il rapporto privilegiato che la comunità atlantica si è data per la concertazione strategica degli obiettivi e degli interessi condivisi. Solo di fronte a un largo consenso le Nazioni Unite potranno dare legittimità alla soluzione concordata nel rinato concerto.

La repubblica 06.10.13