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“L’assurdo destino dei migranti: o muoiono o vengono indagati”, di Manuela Modica

Se non arrivi sul fondo sabbioso delle acque italiane, se sopravvivi alla morte, hai commesso un reato: sei un criminale. E il nome che non entra nella lista dei cadaveri da inviare nei cimiteri disponibili, verrà impresso nei fascicoli delle procure. Quella di Agrigento li ha incriminati per reato di immigrazione clandestina tutti e 155 ma non c’era altro da fare secondo la legge Bossi – Fini. Dopo la tragedia, dopo il dolore, questa assurda beffa. «Dovuta», come dicono i giudici, che hanno solo quella legge a cui fare riferimento. Le braccia che li hanno afferrati dal mare e la lunga mano della giurisprudenza italiana: il paradosso di Lampedusa è questo. E non lascia margini: «È un fatto obbligato, per cui questi naufraghi, come tutti i migranti che entrano con queste modalità nel territorio italiano, sono denunciati per immigrazione clandestina», il procuratore aggiunto di Agrigento Ignazio Fonzo ha solo esercitato l’obbligo dell’azione penale. Una beffa per i superstiti ma anche per i soccorritori: «Ora vogliono denunciarmi? Sequestrarmi la barca perche abbiamo salvato delle persone? Vengano pure, non vedo l’ora», commenta fuori di sé Vito Fiorino, uno dei primi soccorritori. E sul paradosso della tragedia è lapidaria la presidente della Camera Laura Boldrini, tornata sull’isola dove già era stata più volte come commissario dell’Onu per i rifugiati: «Soccorrere è un dovere non soccorre è un reato». Così l’ex commissario oggi terza carica dello Stato perlustra l’isola: ha visitato il centro di accoglienza, ha incontrato i rappresentanti del progetto Praesidium e il gruppo interforze. Incontri scanditi dalle dichiarazioni: «C’è bisogno di fare chiarezza sulla legislazione. Con l’introduzione del reato di clandestinità in qualche modo è passata l’idea che soccorrere in mare è un problema, può esporre a problemi giudiziari. La legge del mare dice tutt’altro e se c’è un reato, questo si chiama omissione di soccorso. Con le uniche misure repressive non risolveremo mai questo problema. Chi fugge da guerre e dittature, non sarà fermato da leggi più dure. È un’illusione». Ma sui soccorsi interviene anche Giorgio Bisagna, avvocato del foro di Palermo, espserto di diritto dell’immigrazione: «I pescatori che aiutano i migranti in mare in difficoltà non compiono reato e quindi non sono perseguibili penalmente. E lo prevede sia il codice della navigazione che la tanto criticata legge Bossi-Fini che all’articolo 12 comma due prevede che fermo restando quanto previsto dall’articolo 54 del codice penale, non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato». Il paradosso è nel cavillo: «Tutto ruota intorno al concetto di stato di pericolo o di bisogno in cui si trova il migrante. Le indagini in passato sono scattate nei confronti di marinai che hanno soccorso extracomunitari che solcavano il mare in situazioni non di immediato pericolo, secondo i magistrati. Insomma se il migrante non sta per affogare chi lo aiuta corre il rischio di finire sotto processo». Mentre: «Nel caso del naufragio di Lampedusa – osserva ancora Bisagna – il reato potrebbe essere stato commesso da chi non è intervenuto a prestare i soccorsi ai profughi in acqua». Ieri pomeriggio, intanto, è stato il momento della celebrazione religiosa mista musulmana e cristiana nell’hangar dove sono stipate le 11 bare delle vittime. Un rito straziante officiato da don Stefano Nastasi a cui, oltre al presidente della Camera, alla delegazione parlamentare e al sindaco Giusi Nicolini, hanno preso parte alcuni dei sopravvissuti e una decina degli ospiti del centro arrivati nei giorni scorsi. Lacrime e urla, disperazione e odore di morte in quello stanzone dove una decina di altre bare attendono il ritrovamento dei corpi che sono ancora in fondo al mare. «Tutti avrebbero dovuto sentire il loro pianto», ha commentato trattenendo le lacrime la sindaca. Una processione dolente in cui uomini e donne hanno pianto fratelli, amici o semplici compagni di sventura. E sono stati sempre loro a chiedere di poter riconoscere le salme dagli effetti personali trovati addosso.

L’Unità 06.10.13

“Al Capone è all’angolo ma ancora può colpire”, di Eugenio Scalfari

Il caimano del regista Nanni Moretti aveva già previsto tutto con qualche anno d’anticipo sui politici e così pure la “ballata” di Roberto Benigni; l’ho ricordati nel mio articolo di domenica scorsa e li ricordo qui ancora una volta.
Ma l’attore Moretti che nell’ultima parte del film impersona il Caimano ha poco a che fare con Silvio Berlusconi: è un uomo lucido, severo, terribile e soprattutto coerente. Afferma davanti al Tribunale che lo condannerà, che l’uomo (lui) eletto dal popolo a grande maggioranza non può esser giudicato dalla magistratura e rafforza questa sua posizione anche dopo la condanna esortando il popolo alla rivolta senza mai costruire una qualsiasi alternativa e senza affidarsi al consiglio d’un amico o d’un consulente o d’un esperto.
Non ha dubbi, non ha incertezze, non ha ripensamenti, non ragiona con le viscere ma col cervello.
Il Berlusconi vero non è affatto così, anzi è l’opposto di così e lo si vede chiaramente con quella sorta di film dal vero che si è svolto mercoledì scorso sotto i nostri occhi.
Alle dieci del mattino esce da Palazzo Grazioli di fronte al compatto muro di telecamere e fotografi che lo aspettano al varco e va a Montecitorio dove è riunito il grosso dei dirigenti del partito e dei gruppi parlamentari. Li arringa, ribadisce la necessità di votare contro il governo Letta, non apre contraddittori e se ne va.
Palazzo Grazioli però è una porta aperta e i suoi consiglieri lo seguono e salgono fino al suo appartamento. Falchi e colombe fanno ressa, litigano tra loro, alcuni vengono chiamati nello studio dove sta il Capo, con l’ansia e l’angoscia che gli rodono il fegato e gli pesano sulle palpebre. Alfano, Lorenzin, Gelmini, Cicchitto, Sacconi, sostengono la fiducia al governo; Bondi, Santanchè, Verdini, Brunetta, Carfagna, il contrario. Lui ascolta, si tormenta le dita, si passa le mani sul volto, si dimena sulla poltrona. Poi quasi li caccia coadiuvato dalla fidanzata. Soffre ed è evidente a tutti. Fa pena o almeno questo è il racconto che alcuni di loro fanno a chi li attende fuori. Un nuovo confronto è indetto a Montecitorio per il primo pomeriggio.
Intorno alle ore 14 la votazione sulla fiducia sta per cominciare. Letta ha già parlato ed è stato chiaro e deciso, ha esposto le linee del programma economico e di riforma della Costituzione, ha manifestato l’intenzione che il governo duri fino alla fine del 2014, appena terminata la presidenza semestrale del Consiglio europeo. Ma ha anche aggiunto che non vi saranno mai più leggi «ad personam» o «contra personam» riaffermando che le azioni di giustizia, quali che siano, riguardano fatti privati e non debbono avere alcuna conseguenza sul governo che deve soltanto occuparsi degli interessi generali del paese.
Intanto la discussione ferve sempre più accesa nella sala dove il gruppo dirigente del Pdl è riunito attorno al suo «boss». Ma il boss sempre più aggrondato, cupo, tormentato, sudato, che ha perso il piglio dell’Al Capone dei tempi d’oro che gli è stato abituale per trent’anni, ed ora sembra un Re Travicello, sbattuto tra le onde e gli alterchi che s’incrociano intorno a lui. E loro, quelli che disputano sul da fare, sul voto che tra poco ci sarà, sulle conseguenze che ne deriveranno, non si curano più di lui.
Gridano, qualcuno prende a spintoni qualcun altro, alcuni sospirano, altri addirittura piangono. Lui spesso chiude gli occhi che ormai sono diventati due fessure a causa dell’ennesimo lifting mal riuscito e della rabbiosa emozione che lo tormenta.
Ogni tanto un commesso bussa alla porta e avvisa che la «chiama» sta per cominciare. A quel punto lui si scuote, si alza e con voce decisa annuncia che si voterà la sfiducia.
Chi non se la sente resti fuori dall’aula o non voti, che al Senato equivale al voto contrario.
Quasi tutti sciamano, escono nella galleria dei «passi perduti», gremita di giornalisti, infine entrano in aula.
Bondi annuncia pubblicamente con piglio tracotante che il Pdl voterà «no» e così, nell’aula della Camera, fa Brunetta. Non ci sono sorprese in nessun settore delle due assemblee e sui banchi del governo.
Ma Alfano e Lupi sono rimasti dentro e Gasparri con loro.
Per l’ennesima volta gli espongono le ragioni che militano a favore del voto di fiducia. Lui continua a negarle e rifiutarle anche se il sudore riappare sulla sua fronte e le mani sono strette e quasi aggrovigliate l’una nell’altra. A un certo punto – la «chiama» è già cominciata – arriva affannato il vice di Schifani, presidente del gruppo parlamentare in Senato, e gli consegna un foglio di carta dove sono incollate le foto scattate da un fotografo in aula alle spalle di Quagliariello con sopra scritti i nomi dei senatori pidiellini pronti a varcare il Rubicone e a schierarsi a favore del governo Letta. Sono 23 ma si sa già che stanno per arrivare altre due adesioni ed altre ancora arriveranno. In quelle condizioni, scrive Schifani nel suo biglietto, lui non si sente di fare una dichiarazione di voto a nome di un gruppo ormai spaccato e chiede a Berlusconi di farla lui.
Risultato: il boss si avvia con passo alquanto incerto verso l’aula, va al suo seggio, gli viene data la parola e dice a bassa voce quello che abbiamo sentito in tivù e che tutti i giornali di giovedì hanno pubblicato: il Pdl voterà la fiducia ma insulta per l’ennesima volta la magistratura e il Pd. Luigi Zanda, immediatamente dopo di lui, rinvia all’ancora Cavaliere gli insulti ricevuti con parole dure e annuncia la fiducia a nome del partito da lui rappresentato.
Lo spettacolo, perché di questo si tratta, continua con le telecamere che dal loggione riservato alla stampa inquadrano ininterrottamente Berlusconi che si copre gli occhi con le mani e Letta che dopo quella dichiarazione rivolgendosi ad Alfano seduto accanto a lui gli dice «grande» alludendo ironicamente all’ex boss del centrodestra che ormai ha sancito la propria irrilevanza tentando però di coprire la spaccatura del suo partito.
* * *
Così più o meno sono andate le cose nella giornata- culmine della storia degli ultimi vent’anni. La fine di Berlusconi è anche quella del berlusconismo? Il rafforzamento del governo e la sua stabilità? La crescente forza attrattiva del Pd che sembrava perduta da un pezzo? Così sembrerebbe e così è sembrato quel pomeriggio di venerdì. Ma poi sono sorti alcuni dubbi non infondati che Letta e i suoi più stretti collaboratori stanno valutando e che in questi due giorni drammatici seguiti alla strage degli immigrati a Lampedusa, sono avvenuti sotto traccia anche se qualche indicazione è stata cautamente manifestata.
Se Berlusconi avesse la natura del Caimano recitato da Nanni Moretti, a questo punto non avrebbe avuto dubbi: avrebbe dato ad Alfano la guida del Pdl, si sarebbe dimesso da senatore e si occuperebbe soltanto delle questioni proprie e delle sue aziende. Il Caimano di Moretti fece l’opposto: chiamò il popolo alla rivolta, ma con coerenza, senza mai aver oscillato come il pendolo d’un orologio. Se avesse indicato la strada della conciliazione, l’avrebbe seguita con altrettanta coerenza.
Ma qui, nel Berlusconi vero, sono le viscere a parlare. E’ bugiardo, segue gli umori, non ha alcuna visione del bene comune, odia lo Stato e le istituzioni, è un fantastico venditore di frottole, posseduto da un narcisismo finto spinto all’egolatria.
Perciò farà di tutto per vendere ad Alfano e ai suoi moderati un moderatismo di carta d’argento con dentro cioccolatini avvelenati. Tenterà di logorare il governo facendo leva sui ministri che
l’hanno ancora nel cuore (Beatrice Lorenzin l’ha detto e ripetuto a “Porta a Porta” di Vespa). Non sarà più senatore ma sarà ancora e sempre presidente della coalizione, perfino se dovesse andare in galera. Impedirà — fingendosi definitivamente persuaso ad appoggiare il governo — che si formi un gruppo parlamentare fuori dal Pdl.
Metterà in disparte pitoni e pitonesse.
Accetterà che i giornali di famiglia siano diretti da persone gradite ad Alfano. Ma coverà la rabbia e la vendetta aspettando che possano manifestarsi con effetti efficaci. E fidando sulla sopravvivenza del berlusconismo in una parte comunque ragguardevole del corpo elettorale.
A queste evenienze occorre che tutti quelli che hanno una visione del bene comune, moderata o progressista che sia, guardino con la massima attenzione.
Il modo migliore sarebbe di far nascere nuovi gruppi parlamentari e un nuovo partito di centrodestra o di centro. E che insieme al Pd governi questa fase di necessità e approvi la legge elettorale proposta da Violante, fondata su criteri proporzionali con ballottaggio tra i primi due partiti o coalizioni che abbiano riscosso più voti.
Quest’ultimo risultato è essenziale, anche in assenza di gruppi elettorali che dividano in due il Pdl.
Il primo appuntamento sarà tra una ventina di giorni: il voto al Senato sulla decadenza di Berlusconi da senatore.
È un voto pieno di insidie. I pidielle voteranno in massa per Berlusconi, forse con qualche defezione ma poche. Il Pd in massa per la proposta approvata dalla Giunta. I grillini altrettanto. Quindi una maggioranza schiacciante sulla decadenza. Ma andrà veramente così? Pesa ancora il ricordo dei 101 voti contro Prodi di cui ancora si ignora la provenienza; in questo caso possono venire da grillini che li attribuiscano a dissidenti del Pd o da dissidenti del Pd che li attribuiscano ai grillini; o da tutti e due che fanno lo stesso gioco. Dunque molta attenzione.

La repubblica 06.10.13

“Fine corsa”, di Massimo Giannini

Non c’è una ragione al mondo, se non il sonno della ragione stessa che ormai acceca il Cavaliere, per definire il voto della Giunta del Senato «un colpo al cuore della democrazia ». La decadenza di Silvio Berlusconi, decisa a maggioranza a Palazzo Madama, è l’esatto contrario: l’affermazione di un principio che fa vivere la democrazia. L’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, come ricorda la nostra Costituzione. Il rispetto di una sentenza definitiva di cui non si deve solo «prendere atto», ma che si deve soprattutto «applicare», come ricorda il capo dello Stato nella sua nota del 13 agosto. È vero: quello della Giunta è un voto annunciato. Ma non perché questo organismo istituzionale, come recitano le bugiarde geremiadi berlusconiane, sia stato proditoriamente trasformato in un «plotone d’esecuzione », o sia stato inopinatamente animato dal «fumo» della
persecuzione.
È UN voto annunciato perché così prescrive una legge dello Stato, approvata con il solenne consenso del Pdl durante il governo Monti, e considerata a tutti gli effetti «perfettamente costituzionale» dalla sua stessa firmataria, la ex Guardasigilli Severino. Quella legge stabilisce in automatico l’incandidabilità e la decadenza dalle cariche elettive per chiunque abbia riportato una condanna definitiva con pene superiori ai due anni di reclusione. Il Cavaliere è stato condannato a quattro anni nel processo sui diritti tv Mediaset in tutti e tre i gradi di giudizio, per un reato grave come la frode fiscale finalizzata alla creazione di fondi neri dai quali attingere per pagare tangenti. Per questo la Giunta del Senato non può che prendere atto, e decidere di conseguenza: il Cavaliere decade, ed è incandidabile.
In un Paese normale e occidentale tutto finirebbe qui. Non ci sarebbe scandalo politico-istituzionale, se non quello di un leader che si ostina a sfuggire al suo giudice e al suo «giudicato». Non ci sarebbe «attentato allo stato di diritto», se non quello perpetrato nel Ventennio dello Statista di Arcore a colpi di leggi «ad personam» e «ad aziendam». Ma l’Italia è ormai «altro», non solo dal mondo normale ma a volte persino dal canone occidentale. Così, in vista del voto dell’aula del Senato che dopo la Giunta dovrà ratificare in via definitiva la decadenza di Berlusconi, infuriano la consueta canea contro le istituzioni, la rituale minaccia alle toghe, la solita aggressione preventiva contro gli organi di garanzia. E per un giorno, in nome della «lesa maestà» del Sovrano e dello scempio arrecato alla sua sacra figura, tutti si ritrovano a corte. Lealisti e complottisti. Eternamente berlusconiani e diversamente berlusconiani.
Non stupisce, ora, che sfascisti impenitenti e moderati sedicenti urlino insieme, ancora una volta, all’«assassinio politico ». La svolta del 2 ottobre c’è stata, ed è stata a suo modo storica. Per la prima volta dall’epifanica discesa in campo del 1994 il capo assoluto e carismatico del Pdl è stato messo in minoranza, e costretto a una clamorosa ritirata. Per la prima volta la sua anomala «creatura» politica, artificiale e personale, ha somigliato
un po’ più a un partito e un po’ meno ad un’azienda. Ma per quanto drammatica, la disfatta sulla fiducia al governo Letta non è ancora il 25 luglio del Cavaliere. E per quanto coraggioso, lo strappo di Alfano non è ancora l’ordine del giorno Grandi. La destra italiana è entrata in una terra incognita. Forse già non più berlusconiana, ma certo non ancora post- berlusconiana. Una terra in cui la faglia di un estremismo urlato ed esibito incrocia ancora quella di un moderatismo vagheggiato ma inibito. La rottura «governista» imposta dalle colombe si è consumata intorno a un atto che poteva essere davvero «fondativo», ma che al momento non lo è e non promette di esserlo.
Ha ragione chi si aspetta che il prossimo passo dell’ala ministeriale dei pentiti di Forza Italia sia la formazione dei gruppi parlamentari autonomi. E ha ragione Dario Franceschini, quando sostiene che se il Pdl non si spacca sarà stata tutta una «finzione» dal chiaro sapore doroteo. Come insegna la storia migliore e purtroppo minoritaria della Dc, la «moderazione » è una cultura politica e dunque una pratica, non una semplice estetica. Ammesso che esistano davvero, misureremo i «diversamente berlusconiani » dai prossimi passaggi della legislatura. A cominciare proprio dal voto dell’assemblea di Palazzo Madama sulla decadenza. Ma certo non lascia ben sperare uno Schifani che rilancia la sfida al Pd e a Scelta Civica, chiedendo per quel voto, ancora una volta, un «sussulto di responsabilità ». Ci manca solo un nuovo attacco frontale a Giorgio Napolitano, e poi torniamo al copione di sempre, che cancella con un colpo solo la « rivoluzione » del 2 ottobre.
Di fronte ai tormenti della destra, il centrosinistra deve avere senz’altro un «sussulto di responsabilità », ma in tutt’altro senso. Il Pd si è miracolosamente ris coperto unito intorno alla «linea
della fermezza», proprio sulla decadenza del Cavaliere. Per quella via, la via del costituzionalismo e del principio di legalità, ha riattivato la connessione con buona parte del suo elettorato deluso da tanta, troppa «intelligenza col nemico». Si tratta di non smarrire quella via, e di non cadere nelle trappole ordite da un Movimento 5Stelle sempre più impresentabile e sempre più irriducibile alle logiche di una politica che vuol provare a costruire qualcosa, e non si limita a distruggere tutto. Il comportamento di Vito Crimi che in Giunta «posta» i suoi insulti a Berlusconi dice tutto: è sconcertante sul piano istituzionale, perché tratta una delicata seduta in Commissione come una truce assemblea di condominio, ed è ributtante sul piano umano, perché svilisce la dignità della lotta politica alla gratuità dell’offesa personale.
Per il Pd, ancora, si tratta di non prestare il fianco alle tribali divisioni che hanno devastato l’assemblea di due settimane fa. Si tratta di non lacerarsi tra le pastoie neo-centriste coltivate intorno alla figura di Letta e le scorciatoie movimentiste ritagliate sul profilo di Renzi. Si tratta insomma di non aprire un congresso permanente, e anticipato, sulla pelle del Paese. Sarebbe un favore enorme, regalato ancora una volta a un Berlusconi che a questo punto non ha davvero più nient’altro da aspettare. Comunque andranno le cose, nell’aula del Senato e nelle aule dei tribunali, la sua parabola politica volge ormai al termine. C’è solo da accompagnarlo, senza inutili vendette ideologiche, negli archivi della Repubblica.

La Repubblica 05.10.13

“La strage delle mamme: salve solo in sei”, di Manuela Modica

Una strage di donne. Dei 155 superstiti 145 sono uomini. E i quattro bambini superstiti tutti sono maschi: sono solo sei le donne sopravvissute alla strage di Lampedusa di giovedì notte. Una disparità che sgomenta e che potrebbe divaricarsi ancora, dato che i sub scesi a perlustrare il relitto e il fondo del mare dicono di aver visto i cadaveri in faccia (senza poterli recuperare per le difficoltà create dal mare) e per quanto intuito raccontano di aver visto soprattutto donne e ragazzi.

Un inventario che fa il paio con quello dei primi superstiti portati in salvo dal gruppo di diportisti lampedusani. Erano tutti uomini i primi saliti sulla barca. «Ci hanno spiegato che le donne erano rimaste al largo con i bambini», racconta Grazia Migliosini che con 7 amici ha tratto in salvo 47 persone. Al largo con i più piccoli, mentre gli uomini nuotavano verso la costa a chiamare aiuto. Così, per cercare di custodire dalla paura i propri figli, le donne avrebbero atteso la morte.

Ma ci sarebbe una spiegazione anche nella collocazione nella stessa imbarcazione. Questa volta sono i minori a raccontare. I 40 minori sopravvissuti al più grave naufragio di migranti nella storia di Lampedusa e dell’Italia, ragazzi che ora si trovano al centro d’accoglienza. Di loro si occupano gli operatori di Save the Children: «Con grandi difficoltà, sono ancora molto scossi. Ci vorrà del tempo per chiarire tutto e per poterli aiutare». Spiega Alessio Fasullo, avvocato. I pochi che sono riusciti ad aprirsi con gli adulti italiani che chiedevano loro informazioni hanno spiegato che sul barcone le donne erano tutte sedute ai bordi e sarebbero rimaste così incastrate. Al poliambulatorio, invece, inavvicinabile un altro superstite, pazzo di dolore per la perdita dei due figli piccoli e della moglie.

Una sorte di genere dunque. La morte sul barcone pendeva sullebdonne e su molti ragazzi. Ora molte di loro giacciono sul fondo del mare, o nei sacchi neri di Lampedusa. A salvarsi sono state soltanto in sei di cui due incinte. Ma potevano essere cinque. Una di loro infatti era stata inserita in uno di quei sacchi in fila sul molo e catalogata come cadavere. Poi però uno dei medici nella verifica sui corpi sente il battito e viene trasportata d’urgenza in rianimazione al poliambulatorio di Lampedusa. Lì la donna riprende il respiro e il nome, si chiama Kebrat, «sono felice, sono viva». Da viva viene trasportata con l’elisoccorso all’ospedale Civico di Palermo. Dove racconta di aver viaggiato per tre giorni, senz’acqua: «Alcuni di noi hanno bevuto l’acqua del mare». Dall’acqua la fuoco delle coperta e poi dell’intero barcone, poi di nuovo acqua: «Mi sono tuffata e ho iniziato a nuotare, non ricordo più nulla solo tanti morti intorno a me e tanti bambini».

L’Unità 05.10.13

“Risvegliare le coscienze”, di Don Luigi Ciotti

Oggi è il giorno della corresponsabilità. Una corresponsabilità che è innanzitutto serio ascolto delle coscienze, riconoscimento delle nostre omissioni e delle nostre stanche parole. Corresponsabilità che è impegno quotidiano, personale messa in gioco. Non indignazione saltuaria, non dolore a tragedia avvenuta.
Le morti di Lampedusa non possono essere considerate una fatalità, come non possono essere quelle delle oltre 19.000 persone che, dal 1988 a oggi, dopo aver patito fame, guerre e violenze, hanno cercato di raggiungere un’Europa sognata come terra promessa e scoperta come fortezza, spazio chiuso e ostile.
Cosa chiedevano in fondo quelle persone? Di essere viste. E di vedere

nello sguardo dell’altro il riflesso della propria dignità.
A ucciderle sono state allora leggi costruite per renderci ciechi e insensibili. Leggi che parlano di «flussi» invece che di persone, che alimentano paure invece di costruire speranze. Leggi che hanno favorito indirettamente i traffici, le forme di sfruttamento e di violenza. Leggi, infine, a cui non basta più rimediare con la solidarietà, col cuore generoso di chi accoglie nella quotidianetà o si prodiga nei soccorsi quando avvengono tragedie come quelle di Lampedusa.

Oggi, come altre volte, apriamo gli occhi quando ormai è troppo tardi, ci accorgiamo che queste persone esistono solo quando vengono deposte, a volte in teli di plastica, sulle spiagge di un mare che un tempo si chiamava «mare nostrum», il marte nostro.
Ecco allora che corresponsabilità significa allargare quel «nostro» affinché diventi davvero di tutti.
Fare in modo che in ogni ambito della vita, a partire da quello cruciale della politica, ci s’impegni per assicurare a ogni essere umano la dignità e la libertà che gli spetta in quanto essere umano.

Quel naufragio è figlio del naufragio delle coscienze, e solo una coscienza risvegliata, corresponsabile, restituirà a quelle persone la dignità che gli è stata tragicamente negata.

L’Unità 05.10.13

“Crimi e misfatti”, di Massimo Gramellini

Una battuta da terza elementare del cittadino Vito Crimi sulla tenuta intestinale e prostatica del Cavaliere, digitata con ilari polpastrelli sul telefonino durante i lavori della Giunta impegnata a sancirne la decadenza da senatore, ha offerto il destro a don Schifani per chiedere (invano) il rinvio della votazione. Se applicassimo agli strateghi Cinquestelle la dietrologia che essi riservano al resto del mondo, dovremmo dedurre che Crimi l’abbia fatto apposta. Qualora al voto della Giunta seguisse quello dell’aula, sarebbe più difficile per Grillo continuare a predicare l’omogeneità fra Pidielle e Pidimenoelle. Qualsiasi mossa di disturbo, anche la più becera (Berlusconi, alla prostata, ha avuto un cancro), può dunque servire a ritardare quel passaggio politico fondamentale.

Poiché la dietrologia è meglio lasciarla dentro i romanzi di Dan Brown, per la regressione infantile di Crimi si è propensi a cercare una spiegazione scientifica. Qualche virus di origine misteriosa aleggerebbe nei saloni del potere, attaccandosi alle pareti vellutate, da dove rilascerebbe i suoi miasmi ottundenti. Un libero cittadino piomba a Palazzo sulle ali dell’indignazione popolare, armato soltanto di sacro fuoco civile, e dopo qualche mese lo si può ritrovare intento a scrivere di peti e pannoloni. Ma alcuni crimologi, che da mesi ne studiano la non complessa personalità, avanzano l’ipotesi che stavolta il virus c’entri poco e Crimi abbia fatto tutto da solo.

La stampa 05.10.13

“Le nostre responsabilità”, di Roberto Toscano

Ieri è stata la giornata del dolore e della vergogna, e forse avrebbe dovuto essere anche quella del silenzio della umana pietas. Da oggi siamo chiamati, tutti, a trasformare la nostra attonita pietà in una presa di coscienza attiva delle nostre responsabilità. Il realismo che ci dice che l’ecatombe di Lampedusa è stata prodotta da un sistema non solo immorale, ma anche irrazionale e insostenibile.

Come si fa infatti a pensare che il mondo possa procedere senza crescenti disastri, atrocità e violenze se non verranno corrette le contraddizioni e le disarmonie che sempre più lo caratterizzano?

Vi è chi cerca di essere ottimista e sottolinea che, ad esempio, la povertà assoluta interessa oggi uno su cinque abitanti del mondo, mentre nel 1980 ne colpiva uno su due. Vero, ma le migrazioni dei disperati – se pensiamo al solo fattore economico – non sono direttamente proporzionali alla povertà assoluta, quanto piuttosto alla disuguaglianza. E la disuguaglianza, pure laddove si registra una crescita del Pil e un aumento delle aspettative di vita, non è in diminuzione, bensì in aumento, sia all’interno dei singoli Paesi che a livello internazionale.

E non si tratta solo di povertà. Anzi, se vogliamo davvero capire perché si rischia la vita per approdare sulle coste del mondo sviluppato, dobbiamo renderci conto che la vera ragione di questo tragico fenomeno va ricercata nella violazione dei diritti umani. L’emigrazione economica esiste di certo, e si regge appunto sul funzionamento delle leggi dell’economia: per fare un solo esempio, dal momento dell’inizio della crisi economica globale si è registrata un’inversione del flusso migratorio dall’America Latina alla Spagna. Se non c’è lavoro, gli «immigrati economici» non arrivano o ritornano ai propri Paesi d’origine.

Ma come si fa a dimenticare quelli che, dall’Afghanistan alla Siria, fuggono dalla guerra? E poi, abbiamo presente come si vive in Somalia, da dove veniva buona parte delle vittime di Lampedusa? Da oltre vent’anni non esiste uno Stato somalo, e il Paese è in balia di milizie e gruppi criminali. Chi fugge dalla Somalia non vuole vivere meglio, vuole vivere. E vuole che i propri figli abbiano una scuola e non siano esposti agli orrori dell’anarchia, regno dei violenti e dei corrotti di solito molto più atroce, per la gente comune, di una dittatura.

Sarebbe ora di prendere atto del fatto che i diritti umani, secondo principi e norme ormai universalmente riconosciuti, non si riferiscono soltanto alla libertà politica o religiosa, ma anche a una serie di livelli minimi in campo economico e sociale.

E la nostra responsabilità?

E’ nella nostra parte del mondo che vengono prese le decisioni fondamentali, sia economiche che politiche, che determinano il quadro globale in cui proliferano le distorsioni , le ingiustizie, le violenze. Ma se è legittimo discutere sull’entità della nostra colpa «attiva» diventa impossibile farlo se spostiamo il discorso sulle colpe di omissione. Basti pensare alla drastica riduzione delle risorse che i Paesi sviluppati stanziano per l’aiuto allo sviluppo. E’ vero infatti che la vera soluzione del problema che oggi stiamo drammaticamente registrando dovrebbe risiedere nell’estensione dello sviluppo economico ai Paesi e alle regioni meno sviluppate. Non si tratta solo di entità delle risorse, bensì anche – e probabilmente soprattutto – di come queste risorse vengono impiegate, e a beneficio di chi. Purtroppo la cinica definizione secondo cui l’aiuto allo sviluppo comporta «trasferire i soldi dei poveri dei Paesi ricchi (prelevati con le tasse) ai ricchi dei Paesi poveri» ha un suo tragico fondamento, se pensiamo che la corruzione che i donatori troppo spesso, per convenienza politica o economica, non contestano comporta la scandalosa appropriazione da parte di cricche al potere di risorse che dovrebbero essere destinate a venire incontro alle esigenze degli strati sociali più svantaggiati.

E’ certo vero che non si possono accogliere tutti quelli che cercano disperatamente di sfuggire alla non-vita della violazione dei diritti più fondamentali (primo fra tutti quello di far vivere la propria famiglia, i propri figli), ma si tratta di un’obiezione capziosa, se non indecente.

Visto che non possiamo fare tutto, sarebbe quindi giustificato non fare niente, non fare meglio, molto meglio?

Nel nostro caso, dobbiamo certo stare attenti a non pensare di scaricare le nostre responsabilità dicendo «ci pensi l’Europa», ma anche l’Unione Europea non può scaricare le sue responsabilità sull’Italia, tanto più se si pensa che l’Italia non è, per la maggior parte di chi cerca di sbarcare sulle nostre coste, la destinazione ultima, ma solo il transito verso altri Paesi Ue. In teoria la nostra frontiera è la frontiera dell’Unione, ma da questa realtà non sembra si stiano ancora traendo tutte le logiche conseguenze dal punto di vista sia normativo che operativo. E’ legittimo che l’Italia lo pretenda.

Ma è difficile non essere pessimisti, vi è sempre più chi cerca la legittimazione della politica prevalentemente sul piano della sicurezza e della tutela dei «nostri» contro «gli altri», degli autoctoni contro gli stranieri. E’ appena uscito un importante studio di Demos, un centro studi britannico, che ha il titolo:

Backsliders. Measuring Democracy (Regressioni. Misurare la democrazia) dove si passano in rassegna i segnali secondo cui in numerosi Paesi europei si registrano crescenti difficoltà per lo stesso mantenimento di quelle conquiste democratiche che erano fino a poco tempo fa considerate come definitivamente acquisite. Si registra addirittura, ormai in molti Paesi, il montare, sulla base della retorica anti-immigranti, della xenofobia e addirittura di partiti apertamente razzisti, premessa – ce lo insegna la storia – di derive antidemocratiche.

I poveri morti di Lampedusa ci chiamano moralmente in causa, ma anche ci ammoniscono sul nostro stesso futuro.

La Stampa 05.10.13