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“L’assalto alla Rai dalla fiction al reality”, di Giovanni Valentini

Il risparmio costa sudore e nessuno ti regala nulla: si deve cambiare il modello culturale propagandato anche dalla tv pubblica in trasmissioni come quella dei pacchi. (da “Cleptocrazia” di Elio Lannutti — Imprimatur editore, 2013 — pag. 140).
Con l’irruzione di Beppe Grillo e di un gruppo dei suoi parlamentari nel quartier generale della Rai, in viale Mazzini a Roma, l’assalto della politica al servizio pubblico è passato dalla fiction al reality. L’occupazione dell’azienda radiotelevisiva di Stato, perpetrata finora dalla partitocrazia all’insegna della lottizzazione e poi completata “manu militari” sotto il berlusconismo, s’è materializzata per la prima volta nella minacciosa invasione dei Cinquestelle che sono saliti fino al settimo piano, quello della direzione generale, irrompendo nelle stanze dei funzionari, interrogando i dirigenti e rivendicando perfino un presunto “diritto di ispezione”.
Fortunatamente, l’episodio s’è risolto senza conseguenze. Ma, stando alle testimonianze dei presenti, l’irruzione avrebbe potuto anche degenerare in un incidente. Il direttore generale, Luigi Gubitosi, insediato da appena un anno, ha ricevuto Grillo e il presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza, Roberto Fico, ascoltando le loro ultimative richieste di dimissioni e replicando che il risanamento dell’azienda è stato già avviato, sia sul piano dei conti sia su quello della trasparenza.
In realtà, il Movimento 5 Stelle ha messo in scena così un’altra operazione mediatica, più a fini propagandistici che di sostanza. E la partecipazione straordinaria del presidente Fico, di cui avevamo apprezzato in precedenza l’impegno nella campagna d’opinione per passare “dalla Rai dei partiti alla Rai dei cittadini”, suscita francamente più di una riserva sotto l’aspetto istituzionale e politico. La Vigilanza è un organismo parlamentare, non un “commando” o una “task-force”.
Chi conosce e denuncia da tempo i vizi del servizio pubblico, fin da quando anche Grillo lavorava per la Rai, non può che condividere l’urgenza di una riforma organica che l’affranchi finalmente dalla sua doppia sudditanza: alla politica e alla pubblicità. Lo stesso Gubitosi, nell’intervista rilasciata recentemente al nostro giornale, aveva riproposto innanzitutto il tema della “governance”, cioè del controllo dell’azienda che — ha detto — “è pubblica e deve funzionare come un’azienda privata”.
La questione, però, si può risolvere in Parlamento; non per strada davanti ai cancelli di viale Mazzini, sotto gli occhi dei cronisti, dei fotografi o dei cameramen. Ed è proprio in quella sede che i Cinquestelle, con il presidente Fico in testa, devono cercare di portare avanti un progetto per riformare la Rai. Le proposte in materia non mancano: a cominciare da quella elaborata già qualche anno fa dal gruppo di lavoro promosso dall’ex senatrice del Pd Tana de Zulueta, a cui partecipò anche il sottoscritto.
I punti essenziali restano due. Primo: trasferire la proprietà della Rai, vale a dire il pacchetto azionario, dal governo (ministero dell’Economia) a una Fondazione, diretta da una rappresentanza articolata di varie componenti sociali: università, enti culturali, mondo dell’informazione e dello spettacolo, sindacati, organizzazioni dei consumatori, associazioni ambientaliste e così via. Secondo: attribuire alla Fondazione la nomina di un consiglio di amministrazione, ristretto a cinque componenti, con un amministratore delegato con pieni poteri.
Questi sono i presupposti per riformare e rilanciare il servizio pubblico, al di là delle sceneggiate più o meno propagandistiche. Da qui, può partire la smobilitazione effettiva della politica dalla tv di Stato. Sulla funzione e sul ruolo istituzionale della Rai, ma ancor più sui caposaldi del suo modello culturale, sarebbe opportuno aprire magari un grande dibattito tra tutte le forze parlamentari e sociali, coinvolgendo nella consultazione il maggior numero possibile di cittadini. Sono loro i veri “proprietari” della Rai, non i partiti o i movimenti politici.

La Repubblica 05.10.13

“Gli invisibili e gli assenti”, di Gabriele Romagnoli

All’indomani del naufragio al largo dell’Isola di Lampedusa le fotografie dei sopravvissuti giungono su questo tavolo.
La finalità è sottoporle a un esame, paradossalmente definibile autoptico, dei volti e delle espressioni, corroborato dalle dichiarazioni rilasciate da due degli effigiati. Le immagini stesse non sono pubblicabili “in chiaro”, in ossequio a una comprensibile richiesta dell’Onu di non mettere a repentaglio le già tormentate vite dei familiari rimasti nei Paesi d’origine. Occorrerà pertanto al lettore fare uno sforzo per visualizzare le suggestioni dello scrivente. Le cui impressioni sono anzitutto basate su numeri.
I superstiti parlano di un carico di 500 vite umane. L’album fotografico si ferma a quota 153. La sottrazione è la cifra del massacro. La sua evidenza è data dall’assenza. Che ha natura sia quantitativa che qualitativa. Emerge nell’impatto visivo la sparuta presenza femminile. A un più attento esame la conta si ferma a 5 visi di donna su 153, corrispondenti ai numeri 42, 107, 108, 132, 149. La prima comunica smarrimento, la bocca semiaperta, lo sguardo vacuo, fisso su qualcosa che non c’è più. Sono occhi arretrati in un retrospazio dal quale continuano a vedere il passato prossimo, a una distanza che consente una salvezza nominale, di fatto ma non di diritto. La seconda e la terza trasmettono l’eco di una sfida perduta: riproveremo. Ma l’hanno già fatto, ed è così che è andata: non ci sono rivincite. La quarta implora nell’unico linguaggio con cui può parlare, quello degli occhi. Tiene le mani sollevate, è una resa. Dice, ripete: non lasciatemi andare. La quinta è adagiata su un pagliericcio,
non guarda nell’obbiettivo, non sembra neppure lì. Verrebbe da dire che non è mai veramente giunta a riva, di pensare che ha perduto qualcosa che valeva più di quel che le è rimasto, benché ad esserle rimasta sia la sua vita. Tutti diventiamo, prima o poi, dei sopravvissuti, ma nessun distacco è accettabile e alcuni vanno molto al di là della soglia per cui ragione o fede ci hanno preparati.
Di 153 soltanto 6 abbozzano qualcosa di simile a un sorriso, una certificazione dello scampato pericolo. Il numero 29, ad esempio: un telo sulle spalle, la fatica alle spalle. Sembra un podista sfiancato al traguardo. Uno che ce l’ha fatta? Uno che non ha ancora capito. Il paragone con l’atleta percorre tutto l’album e solo alla fine si precisa. Accade al quartultimo volto, il numero 150, adagiato su un mucchio di stracci, sfinito, i denti che serrano il respiro. Atterrato. È l’alfiere di una schiera di pugili, finito k.o. mentre altri sono rimasti in piedi barcollando, aggrappati alle invisibili corde della resistenza. Aspetta il conteggio come una liberazione per sé e per il 146, assopito con la testa sul guantone, il 143 che combatte i brividi avvolto nella carta stagnola, il 151 intubato, il 152 intubato, il 153 intubato. Combattenti alla deriva, senza una strategia, affidati a uomini sconosciuti, rotte ignote. E prevedibili destini.
Il 136 non ha paura. È uno di quelli che parla, racconta. È una storia già sentita. Le migliaia di dollari versati alla partenza. L’attesa in un Paese straniero. La notte della speranza. Cambia solo la modalità che scatena l’inferno. In questo caso: la coperta incendiata a scopo di segnalazione che ingigantisce il guaio e affretta l’affondamento. Di chi la colpa? Del numero 110, parrebbe. È uno dei 2 di carnagione chiara su 153. Ha una cicatrice sulla tempia destra. Abbassa e protende la testa, come volesse passare sotto un ostacolo. Ed è esattamente quel che sta facendo. Cerca di smarcarsi e di mascherarsi, di unirsi agli altri: non più scafista ma passeggero. Non Caronte, ma anima morta, come il resto. Nell’interrogatorio reso al posto di polizia prova a ricostruirsi una diversa immagine. Ammette di essere stato già ricacciato una volta dal territorio italiano. E di aver, quella volta, comandato la nave, ma perché costretto dal ricatto di un padrone della sua vita e del suo passaporto. Stavolta, invece, sostiene di aver pagato regolare biglietto. La versione del numero 136 contrasta con la sua. Lo riconosce come il capitano, quello che ha dato fuoco alla coperta, affondato la nave, inabissato circa 500 vite meno 153.
Se si ripercorrono le file di volti affiora una strana sensazione. Si tende a non distinguere. L’identità cede il passo alla ricorrenza: questo non l’avevo già visto? Il 124 è fratello del 119? Solo i picchi di diversità restano: il bambino con il numero 95, la testa inclinata, lo sguardo buio. Non è così che gliel’avevano raccontata. Non è adesso che può perdonare. Neppure se i genitori che l’hanno ingannato sono morti (154? 155?). La morte punisce, non assolve. Nessuno se ne va in pace.
Tornano, questi volti, come onde. Arrivano, vengono risucchiate indietro, riprendono la corsa. Sono indistinguibili, tenaci e senza futuro, perché alla luce del giorno il mare si appiattisce, copre e annulla.
Sulla spiaggia di Lampedusa sono orme davanti alla marea. Nelle loro facce la consapevolezza dell’accaduto fa a pugni con quella di ciò che accadrà. E niente, nessuno, vince.

La Repubblica 05.10.13

“Morire con un numero al posto del nome”, di Attilio Bolzoni

Un morto, un numero, un «presumibilmente» che racconta tutta una vita. Morto numero 31, maschio, nero, presumibilmente trent’anni. Morto numero 54, femmina, nera, presumibilmente vent’anni. Morto numero 11,
maschio, nero, presumibilmente tre anni. Presumibilmente: è tutto quello che sappiamo di loro camminando fra i cadaveri di Lampedusa dopo che il mare ce li ha portati. Sembrano manichini quelli che vedo allineati e nascosti in sacchi neri e azzurri, bianchi, grigi, verdi. Da un telo viene fuori un gomito, da un altro esce un piede, c’è una mano, un naso, un seno, c’è una scarpa, una sciarpa, un orecchio. Carcasse, centoundici carcasse che adesso sono lì immobili e nella loro immobilità sembrano disperarsi, implorare, maledire. Presumibilmente, questa parola l’abbiamo sentita ripetere centoundici volte oggi.
L’inferno di Lampedusa ci ha spalancato le sue porte quando quattro carri funebri sono scivolati nella grande morgue che è quell’hangar dell’aeroporto, seguiti da due camion carichi di bare. Centoquaratanta. Di abete, di faggio, noce, di mogano. Chiare, più scure, alcune con lo stampo metallico di un fiore sulla parte superiore, altre con una Madonna addolorata sul fianco, altre lisce e lucide. Di tutte le misure. Lunghe un metro e 84 centimetri, un metro e 92 centimetri, un metro e 93 centimetri. Quattro bare sono bianche. Due piccole piccole, di 60 centimetri. Una di 80 centimetri, l’ultima di un metro. Le bare dei bambini.
Le ha trasportate il traghetto salpato giovedì notte da Porto Empedocle, insieme a quelle Mercedes nere e lunghe con la croce sul tetto, i carri funebri con su i cinque necrofori, tutti della provincia di Agrigento. Calogero Rizzo, di Castrofilippo. Giuseppe Santamaria di Campobello di Licata. Maurizio Collura e suo nipote Dino, di Racalmuto. Luca Melluso, di Palma di Montechiaro. Sono stati chiamati dalla prefettura, le bare le hanno raccolte in un paio di magazzini al-
l’ingrosso che forniscono tutte le agenzie siciliane di onoranze funebri.
Alle undici le prime trentasei casse di legno sono scaricate nella morgue. Le mettono una sopra l’altra a tre a tre, sei file e poi altre sei file. «Portate l’aceto che fra un po’ ci servirà per ungere il naso, un’ora ancora e qui non si potrà più respirare », dice ai suoi colleghi Rizzo appena entra nell’hangar.
A destra ci sono ottanta teloni rigonfi. A sinistra ce ne sono sedici, gli unici con il numero legato con un nastrino. In fondo altri undici. Ancora più in fondo quattro. E intorno a questi quattro teloni sedici poliziotti della Scientifica — avvolti in tute bianche, i guanti, i copriscarpe, la mascherina, gli occhiali — che a gruppi di quattro sono chini su un cadavere. Ogni squadra ha il suo spazio, il suo pezzetto di hangar, il suo morto.
«Area esame 1», «Area esame 2», «Area esame 3», «Area esame 4». Nel linguaggio tecnico si chiama «ispezione cadaverica ». Lampade, tamponi, alcol.
Spogliano un uomo, la «svestizione». Poi lo osservano minuziosamente in ogni sua parte, lo fotografano, lo rovesciano su un fianco, lo fotografano ancora. Lo rimettono sull’altro fianco, un’altra foto. Si avvicinano, la foto al viso. Alla nuca. O alla coscia. O alla schiena. Qualcuno scrive intanto qualche riga sullo «stato del cadavere» e poi il sacco si chiude per sempre. È il momento del numero che identifica in mancanza di un nome, tre poliziotti in divisa riportano sui computer gli scarni dati che ricevono e il naufrago che viene dall’altro mondo è pronto per la sua bara.
A mezzogiorno sono quei sedici già «ispezionati» che vengono separati dagli altri. Morto numero 57, nero, presumibilmente cinquant’anni. Morto numero 14, nero, presumbilmente diciotto anni. Morto numero 34, nera, presumibilmente trentacinque anni.
Tutti gli altri sono ancora dentro i teloni. Tranne cinque, quasi attaccati al muro. Uno sembra un vecchio o forse sembra vecchio perché è gonfio e stravolto, è ancora vestito, ha una lunga barba. Una donna è nuda. Un ragazzo è nudo. Un altro uomo è mezzo vestito e mezzo spogliato. L’hangar è sempre più caldo, comincia a salire l’odore della morte. Ci sono i poliziotti e ci sono anche una ventina di volontari del centro di accoglienza dell’isola. Il loro capo, Cono Galipò, entra ed esce dalla grande morgue, dà ordini, telefona, dà altri ordini. Poi si avvicina ai necrofori e dice: «State fermi, ancora non si può cominciare: non è arrivata l’autorizzazione del magistrato per chiudere le bare». È passato un giorno e una notte e ancora non arriva un timbro, una firma. Ma cosa aspettano i procuratori di Agrigento?
I cinque necrofori sono tutti schierati davanti ai sedici teloni che avvolgono i cadaveri già esaminati. Aprono le loro borse. Tirano fuori trapani, saldatrici, acidi, liquidi che servono per «depurare» e far sfiatare la bara quando si chiuderà con dentro un corpo. «Per i gas, per non farla scoppiare», dicono. Accostano le sbarre di stagno, 25 chili a scatola. Si stanno preparando a infilare i primi sedici morti di Lampedusa nelle casse di legno. Scartano dal cellophane le bare bianche dei bimbi, le spostano un po’ più in là, queste sollevandole con riguardo. Con il trapano cominciano ad aprire quelle grandi, poi le alzano e le appoggiano su una trave di legno sospesa fra due cavalletti. Sono quasi le due del pomeriggio e i cadaveri di Lampedusa restano soli nella grande morgue dell’aeroporto. L’hangar si svuota, sono tutti in mensa.
I corpi abbandonati, soli nel silenzio della morgue. L’ultimo che se ne va è lì dal primo mattino, si aggira fra i vivi e fra i morti senza dire una parola. Un paio di occhiali dalle lenti spesse, jeans e una casacca rossa dell’Ordine di Malta con una grande scritta sul retro: psicologo. Cosa ci fa uno psicologo fra sedici poliziotti, una ventina di volontari, cinque necrofori e centoundici cadaveri? Nessuno gli chiede niente, nessuno ha voglia di chiedergli niente.
Passano ancora le ore, sono le 16.30 quando finalmente arriva l’ordine del giudice: le bare si possono chiudere. «Per primo quello», indica il necroforo Santamaria al necroforo Melluso. Lui trascina il telone per qualche metro e poi, insieme, lo prendono. Il primo cadavere è dentro la prima bara prima alle cinque della sera. Lo infilano dentro con tutto il sacco. «Per rispetto, per non lasciarlo nudo. E anche per igiene», racconta il necroforo Rizzo che è la quarta volta che sbarca in due anni a Lampedusa per chiudere neri nelle bare. Cominciano a saldare con lo stagno, uno ha in mano la spazzola d’acciaio per rimuovere le incrostazioni della saldatura, un altro ha l’acido per pulire e levigare. Un quarto d’ora per ogni bara. Alle otto di sera ne mancano sessanta, alla nove di sera ne mancano quaranta. Quelli della scientifica continuano a «svestire», esaminare, fotografare. Devono finire entro la notte. Poi li porteranno tutti via questi morti, questi 58 uomini, queste 49 donne e questi 4 bambini, li porteranno nei cimiteri sparsi per la Sicilia. Altri numeri su altre croci.

La Repubblica 05.10.13

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“La rabbia dell’isola che merita il Nobel”, di ALESSANDRA ZINITI

Davanti a tutti ci sono i bimbi di Lampedusa, ma quelli piccoli. BIMBI di cinque, sei anni, che di quei quattro corpicini nudi ora rinchiusi in una bara bianca nell’hangar dell’aeroporto, si sentono fratelli. “Ancora una volta non hai sentito il mio grido”, scrivono nel primo striscione che tengono in alto, con su stampigliate le loro piccole impronte di inchiostro nero. “Non hai salvato me, la prossima volta salva almeno mio fratello”, recita il secondo striscione. Dietro di loro e dietro la croce realizzata con il legno dei tanti barconi della speranza, alle sette di una serata ventosa che gonfia il mare che ha inghiottito il barcone della tragedia, c’è tutta Lampedusa. Ma proprio
tutta, almeno cinquemila persone: giovani, donne, anziani, ognuno con un cero acceso in mano. E con loro anche alcuni dei profughi eritrei sopravvissuti, ragazzi giovani, che si tengono stretti per mano e sorridono timidamente ai volontari della Misericordia che li seguono.
Nell’isola, 36 ore dopo la più grossa tragedia dell’immigrazione clandestina, è il momento della preghiera, ma anche quello della rabbia e della protesta. Serrata, compatta, senza più sconti per nessuno. La visita del ministro dell’Interno Angelino Alfano, che pure ancora ieri ha proposto l’assegnazione del Nobel per la pace alla gente di Lampedusa, è stata salutata con grandi striscioni che ieri mattina sono comparsi lungo la via Roma, il corso principale della città, proprio lì dove, al tramonto sfila la fiaccolata che, partita dalla Chiesa, si ferma davanti al porto. “Nel rispetto di questa ennesima tragedia, tornatevene indietro. Non accettiamo visite”. Messaggio inequivocabile rivolto a tutti i politici, da Alfano alla presidente della Camera Laura Boldrini arrivata nell’isola a sera, che hanno ritenuto di dover essere qui accanto ai profughi, ai lampedusani, alle forze dell’ordine, ai tanti volontari, al sindaco Giusy Nicolini che continuano ad urlare che in una trincea come questa da soli non possono rimanere. Ma nella Lampedusa che sperava che la straordinaria visita di luglio di Papa Francesco potesse cambiare le cose non è più tempo di passerelle. Gli isolani lo scrivono chiaro nei loro striscioni. Oggi Lampedusa è “un’isola piena di dolore che porta il peso dell’indifferenza”.
È giorno di lutto cittadino e le saracinesche di negozi, bar, ristoranti, supermercati restano abbassate tutto il giorno. Impossibile prendere un caffè, fare la spesa, comprare un giornale. Tutto chiuso, sbarrato. Ai tanti turisti che ancora affollano Lampedusa alla fine di una stagione che, in controtendenza e nonostante gli sbarchi, è andata molto bene, non resta che accontentarsi di quello che si trova ai
dispenser di bevande e snack al porto o lungo il corso. E lo fanno con piacere: «Siamo solidali con loro», dice una coppia di milanesi che attende pazientemente il proprio turno per fare colazione a una di queste “macchinette”.
Preghiere e proteste, insieme. Alle sei di sera la chiesa madre non ce la fa a contenere l’enorme fiumana di gente venuta a partecipare alla funzione di commemorazione delle vittime. A questa gente, che tiene ancora sulle vetrine dei negozi i manifesti con l’immagine di Papa Francesco, don Stefano Nastasi (il sacerdote che a luglio aveva invitato il pontefice a venire sull’isola) dice: «Non avrei mai pensato di dover essere ancora qui in una circostanza del genere. Oggi c’è la tentazione forte di gridare rabbia e sconforto, ma ciò che serve è un profondo silenzio. A cosa servono le nostre parole? A cosa è servito il nostro lamento negli anni passati se siamo ancora qui a testimoniare questa tragedia? Meglio il silenzio quando non siamo capaci di dare risposte concrete. Mentre lì si discute, qui si muore». Un invito al silenzio che la gente di Lampedusa raccoglie solo in parte. Perché la voglia di gridare è tanta. La piazza antistante la chiesa, il fronte del porto sono uno studio televisivo a cielo aperto. Dalla proposta del Nobel per la pace alle polemiche sui pescherecci che avrebbero omesso di prestare soccorso ai naufraghi. Qui non ci stanno a passare per “assassini”. Respingono le accuse al mittente e dicono: «I prossimi morti, perché ci saranno e lo sapete tutti, li porteremo in Parlamento così vediamo se qualcuno se ne accorge o se deve continuare ad essere solo un problema di Lampedusa. Noi gli immigrati vogliamo accoglierli vivi, non morti».
In fondo a via Roma, davanti alla balconata che si affaccia sul porto, si accendono le candele. Tocca a una ragazza del liceo prendere la parola mentre cala un silenzio assoluto: «Vogliamo ribadire quello che ha detto Papa Francesco: vergogna! Europa diventa ciò che sei. Non possiamo permettere che questo nostro mare diventi mare di disperazione».
La gente di Lampedusa il Nobel se l’assegna da sola. «Grazie — dice il parroco — ai primi soccorritori che si sono caricati nelle loro barche le persone, grazie che non è stato detto nelle trasmissioni tv. I lampedusani, come sempre, hanno dato la loro collaborazione senza calcolare tempo e ora perché quei bimbi sepolti in fondo al mare, anche se con qualche sfumatura della pelle, sono i nostri figli ».

La Repubblica 05.10.13

“Decreto cultura leva per la crescita”, di Antonello Cherchi

Il pacchetto cultura ha trovato la via d’uscita dal Parlamento. Ieri, infatti, la Camera ha approvato definitivamente il decreto legge 91/2013 (il cosiddetto «Valore cultura»), che rischiava – dati i tempi ravvicinati di decadenza, previsti per martedì prossimo – di rimanere invischiato nella crisi di Governo. Il collasso governativo, invece, non c’è stato e Montecitorio ieri ha potuto riprendere le fila del provvedimento e licenziarlo a tempi di record, il giorno dopo che la commissione Istruzione l’aveva inviato in aula.
Giungono così al traguardo le misure per rilanciare Pompei, quelle per reclutare 500 giovani da destinare alla digitalizzazione del patrimonio, per distribuire nuove risorse per interventi di tutela e valorizzazione, per dare ossigeno al cinema e alla musica, per invertire la rotta dei bilanci in rosso delle fondazioni liriche, per agevolare gli aiuti privati in favore del “bello”. Insomma, una legge di ampio spettro che ha fatto dire al ministro dei Beni culturali, Massimo Bray, che in questo modo «la cultura torna a essere davvero al centro delle politiche di sviluppo», anche se la strada da fare è ancora molta. La misura-vetrina del provvedimento è senz’altro quella su Pompei. La bistrattata area archeologica, ferita da un forte degrado e reiterati crolli, è ora oggetto di un progetto di risistemazione che usufruisce di 105 milioni di euro, in parte nazionali ma in gran parte di provenienza Ue. Bisogna, però, fare in fretta, non solo perché il mondo di guarda, ma anche per la necessità di rendere conto all’Unione europea entro fine del 2015 di come i soldi sono stati spesi. Da qui l’idea (non molto originale per la verità, visto la sequela di manager e commissari che si sono succeduti negli anni alla guida di Pompei) di istituire la figura del direttore generale di progetto e di un vice a cui affidare le chiavi del rilancio di Pompei. I due dovranno provenire dalla pubblica amministrazione e dovranno “accontentarsi” di non più di 100mila euro (lordi) l’anno. Al direttore, coadiuvato da una struttura ad hoc di non più di venti persone, spetterà portare avanti il Grande progetto Pompei – ovvero, spendere bene e nei tempi i 105 milioni, informandone ogni sei mesi il Parlamento – coordinando al contempo la neonata unità Grande Pompei, che sarà dotata di autonomia amministrativa e contabile e avrà il compito di occuparsi, attraverso la definizione di un piano strategico, del territorio intorno ai siti Unesco di Pompei, Ercolano e Torre Annunziata, così da ridare fiato al turismo.
Altro intervento che dà il tono al provvedimento è il programma «500 giovani per la cultura», ovvero il reclutamento di persone massimo 35enni, in possesso di specifici titoli, da formare per dodici mesi e poi destinare alla digitalizzazione del nostro patrimonio culturale. Il programma è finanziato per il 2014 con 2,5 milioni di euro, a cui potranno aggiungersi eventuali risorse comunitarie.
Una misura questa che fa il paio con quella di sostegno all’arte prodotta dai giovani, che per un periodo non inferiore a 10 anni potranno usufruire, a un canone simbolico di non più di 150 euro al mese, di locali statali (tra cui quelli confiscati alla criminalità organizzata) dove lavorare. E sempre i giovani musicisti sono i destinatari della norma che introduce il credito d’imposta per le imprese che organizzano spettacoli dal vivo e per quelle che producono fonogrammi e video musicali. Uno sconto fiscale con un plafond di 4,5 milioni l’anno e che è riconosciuto per il triennio 2014-2016 nella misura del 30% delle spese sostenute (fino a un importo di 200mila euro nel triennio).
Sempre in tema di agevolazioni fiscali, dal prossimo 1° gennaio diventa permanente il tax credit accordato al settore cinematografico e che è stato esteso ai produttori indipendenti di opere audiovisive. Uno sconto con un tetto complessivo di 110 milioni l’anno.
C’è, poi, il capitolo fondazioni liriche, che nella stragrande maggioranza presentano bilanci in profondo rosso. Quelle in amministrazione straordinaria o che non possono far fronte a debiti certi ed esigibili dovranno presentare un piano di risanamento (in cui inserire anche la riduzione del 50% del personale in forza a fine 2012) al futuro commissario di Governo. Prevista, al contempo, l’istituzione di un fondo di rotazione di 75 milioni (per il 2014) per finanziare le fondazioni, le quali dovranno riscrivere i loro statuti entro fine giugno prossimo.
In tema di aiuti, ci sono poi quelli a vari enti e iniziative: 5 milioni alla Fondazione Maxxi, 8 per interventi di restauro (tra cui gli Uffizi), 400mila euro per il forum Unesco sulla cultura del prossimo anno a Firenze, 2 milioni per il restauro del mausoleo di Augusto a Roma, 1,5 per il centro di ricerca letteraria Pio Rajna a Roma, altrettanti per il museo tattile “Omero” di Ancona, 300mila euro per la tutela dei siti Unesco della provincia di Ragusa. E aiuti sono quelli che la cultura chiede ai privati, le cui donazioni fino a 10mila euro avranno procedure semplificate e saranno senza oneri amministrativi.

Il Sole 24 Ore 04.10.13

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Dopo i tagli, si prova a riparlare di «risorse», di Armando Massarenti

È certo un bel segnale che il giorno dopo la rinnovata fiducia all’esecutivo Letta, emerga all’onore delle cronache l’approvazione alla Camera del decreto «Valore Cultura» del ministro Bray, segno di un operato del governo delle larghe intese che senza troppi clamori non è mai venuto meno neppure nei momenti di massimo conflitto politico. È la seconda buona notizia, riguardo a una nuova stagione di attenzione alla cultura come motore di sviluppo auspicata dal Manifesto per la cultura del Sole 24 Ore un anno e mezzo fa, dopo la nomina de parte del presidente Napolitano dei quattro senatori a vita. Bene la riforma in nuce delle Fondazioni liriche, che dà il via ad una vera e propria riforma dei teatri eliminando l’annoso problema che li affligge, ovvero la scarsa produttività. Ora spetterà ai commissari straordinari ridurre, ove necessario, «la dotazione organica del personale tecnico e amministrativo fino al 50% di quella in essere al 31 dicembre 2012» e attuare una serie di nuove misure per ridurre sprechi e privilegi che fino ad ora hanno fatto lievitare i costi a dismisura. Le Fondazioni liriche, commissariate o meno, potranno comunque avanzare la richiesta di un finanziamento per la ristrutturazione, l’azzeramento dei contratti integrativi, e avere la possibilità di non assegnare al sindaco della città la presidenza del teatro (il cda è l’organo di gestione unico). Il decreto mette fine ad un utilizzo del Fondo unico per lo spettacolo improntato alla logica della sovvenzione e del sostentamento orientando i finanziamenti disponibili alle reali esigenze produttive secondo criteri che, per la prima volta, comprendono il merito nella selezione degli artisti e dei dipendenti, sulla base del loro valore e non più secondo logiche clientelari. Tra gli altri articoli da promuovere le misure di tax credit sul cinema e le nuove modalità di finanziamento da parte di privati (non affrontato il problema degli incentivi e i privati esclusi dalla gestione diretta dei beni culturali) e altri interventi che toccano punte di innovazione come le disposizioni sull’arte contemporanea che prevedono l’assegnazione di atelier per gli artisti. Queste sono buone basi di partenza a cui però servono delle strategie di programmazione di medio-lungo periodo che il decreto ancora non delinea e che invece sono indispensabili. È giusto mettere mano al problema Pompei, ma che fare con le biblioteche nazionali che stanno chiudendo o con l’Archivio Centrale dello Stato, che detiene un patrimonio formidabile e dove non si può più lavorare per carenza di personale? Tutta questa rete culturale rimane tagliata fuori, ed esige scelte radicali sul modello, come quelle adottate in Francia. E ancora, sul fronte della digitalizzazione, il decreto puntando sulla formazione di 500 giovani, invece di valorizzare le cooperative e le società che si occupano di archiviazione già attive, varando un provvedimento fine a se stesso che non favorirà la creazione di un collante tra il patrimonio senza uguali di cui godiamo e le potenzialità delle tecnologie informatico-digitali fondamentali per valorizzarlo. In attesa che si formino i 500 giovani si potrebbe correre il rischio di ridurre il Paese a mero fornitore di materia prima culturale, valorizzata da altri che ne ricaveranno benefici in termini di occupazione, innovazione ed economici. A fronte dei numerosi pro e di quei contro che lasciano ancora massicce questioni da affrontare, va comunque detto che per la prima volta, dopo decenni in cui la cultura è stata dimenticata e relegata alla voce “tagli”, il governo approva un provvedimento dedicato esclusivamente alla cultura a cui dedica risorse.
Bene ha fatto il premier Enrico Letta a sottolineare, l’altro ieri, nel suo discorso prima della fiducia, l’impegno di questo governo per la cultura insieme all’istruzione, «fondamentali per la ripartenza» e a ribadirlo ieri commentanto il decreto. Attento però a non farlo diventare un’astrazione o un termine riguardante solo le glorie del passato. Singolare che non abbia sentito l’esigenza di spendere la parola «ricerca». Cultura oggi significa soprattutto capacità di rilanciare la ricerca, sia quella scientifica di base – che per antonomasia guarda al futuro –, sia quella umanista e artistica, che pure ha bisogno di un impegno di rinnovamento che la riporti ad essere competitiva con le maggiori istituzioni del mondo.

Il Sole 24 Ore 04.10.13

“I docenti italiani? Poco rispettati, ma il loro operato incide sugli alunni”, da La Tecnica della Scuola

Il dato emerge da un ampio studio del Global Teacher Status Index 2013, che è andato ad analizzare lo status degli insegnanti di 21 Paesi dove sono state interviste mille persone in ciascun territorio nazionale. La maggiore soggezione è per i prof che operano in Cina, Corea del Sud, Turchia, Egitto e Grecia. Però i nostri, dopo la Finlandia, sono quelli più influenti. Gli insegnanti italiani sarebbero poco rispettati dagli altri cittadini, tuttavia il loro operato rimane indubbiamente influente nella vita scolastica degli alunni. Il dato emerge da un ampio studio realizzato dal Global Teacher Status Index 2013 e pubblicato dalla Fondazione Varkey Gems (braccio filantropico non-profit di Gems Education, costituita per innalzare il livello d’istruzione dei bambini meno abbienti). L’indagine analizza lo status degli insegnanti di 21 Paesi e confronta su scala mondiale l’atteggiamento nei loro confronti attraverso sondaggi condotti intervistando mille persone in ciascun paese oggetto di studio: Brasile, Cina, Repubblica Ceca, Egitto, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Israele, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Portogallo, Regno Unito, Turchia, Singapore, Corea del Sud, Spagna, Svizzera e Stati Uniti d’America.
Secondo le valutazioni dell’indice, gli insegnanti che godono di uno status migliore si trovano in Cina, mentre gli insegnanti israeliani sono quelli che vivono la condizione peggiore. L’indice rivela che in Cina, Corea del Sud, Turchia, Egitto e Grecia gli insegnanti sono rispettati molto più che in tutti gli altri paesi europei e anglosassoni.
Per quanto riguarda i docenti italiani, se la loro condizione é così infelice da collocarli al diciottesimo posto della graduatoria, é pure vero che l’indice piazza il nostro paese al secondo posto rispetto ai paesi europei oggetto del sondaggio per quanto riguarda l’influenza degli insegnanti nella vita scolastica degli italiani, subito dietro la Finlandia. Per il loro status, dunque, gli insegnanti italiani si piazzano in fondo alla classifica dei paesi oggetto del sondaggio, seguiti da Israele, Brasile e Repubblica Ceca e la loro condizione viene considerata molto simile a quella degli assistenti sociali.
Sempre in Italia, le persone che pensano che gli studenti non abbiano rispetto per gli insegnanti (45%) sono più numerose di quelle che pensano il contrario (20%), percentuali queste molto simili a quelle dei vicini europei. E le persone che sarebbero propense a far desistere il proprio figlio dall’intraprendere la carriera dell’insegnamento (più del 35%) sono più numerose di quelle che, invece, lo incoraggerebbero (meno del 30%).
Il 65% degli intervistati italiani intervistati si è detto a favore di stipendi per gli insegnanti commensurati alle loro prestazioni e la maggior parte degli interpellati chiede con insistenza una maggiore influenza dei sindacati in materia di stipendi e condizioni di lavoro (il 30% circa) mentre pochi sono quelli che preferirebbero una minore influenza (meno del 25%).
In ogni caso, lo stipendio realmente percepito dagli insegnanti non si discosta molto da quello che la gente intervistata ritiene sia una remunerazione equa per la loro attività.

La Tecnica della scuola 03.10.13

«Dopo la fiducia all’Italia servono scelte radicali», di Bianca DI Giovanni

Con la fiducia al governo Letta è stato fatto un passo «ovviamente positivo». Ma non è affatto detto che sia sufficiente. «Per tornare a crescere servono scelte radicali: o Letta e Alfano riusciranno a farle, o sarà difficile per l’Italia uscire dalla crisi». Lucrezia Reichlin, docente alla London business school, ha osservato da lontano le ore più lunghe delle larghe intese italiane. Avrebbe dovuto parlare con l’Unità il giorno prima del voto di fiducia: quando tutto sembrava perduto. Poi il rinvio per un impegno e oggi, scenario molto diverso. Rassicurante, sì, ma anche impegnativo. O la politica esce fuori dal ritornello sulle tasse che l’ha ossessionata finora, e cambia agenda, oppure sarà difficile uscire dalla crisi italiana, argomenta l’economista. Ma per fare il salto serve una politi- ca forte, un nuovo «compromesso» con i cittadini: e non è affatto detto che ci sia.

Come giudica questo passaggio?

«Naturalmente è stato positivo. Minore incertezza politica costituisce una rassicurazione per i mercati e per chiunque non voglia ostacolare la ripresa. Tutta- via se non si fanno cose radicali, l’Italia non esce dalla crisi in cui si trova. Con le prospettive di crescita debole, con i tassi di interesse in salita in tutto il mondo (non solo da noi) e con l’inflazione molto bassa si verificano tre condizioni tutte negative per il rientro del debito. Di qui il persistere di un peso fiscale alto e quindi un problema per un compromesso politico basato solo sull’abbassamento delle tasse. Se una politica di diminuzione delle tasse è realistica e non uno slogan elettorale il problema vero da affrontare è quello della persistenza della spesa».

Difatti Letta ha nominato Carlo Cottarelli commissario.
«Faccio gli auguri a Cottarelli, ma aggiungo che in questo caso non serve tanto un tecnico: la questione è soprattutto politica. Per aggredire questo problema serve davvero un compromesso stabile fatto su un contenuto concreto. Il grande interrogativo è se Letta e Alfano riusciranno a farlo. Oggi in Italia il problema della spesa non è stato ben compreso dai cittadini, tant’è che ognuno lo interpreta in modo diverso. È necessario fare chiarezza».

Con una popolazione sempre più anziana e bisognosa di cure, ci sono davvero margini per agire sulla spesa?

«Io penso di sì. Se non si attacca questa voce, non si cresce. Io sono tradizionalmente favorevole alla spesa pubblica, ma la spesa buona è quella che produce reddito futuro. In Italia oggi non mi pare che accada. Data la crescita debole, con questo livello di spesa non si posso- no abbassare le tasse: non lo si può neanche promettere. Ecco perché bisogna uscire dalla discussione sulle tasse e cominciare a ragionare sulla spesa. Ag- giungo che in Italia il debito è esploso dalla metà degli anni ‘70, cioè quando sono nate le Regioni e l’assistenza sanitaria. Mantenendo la spesa sanitaria, sul resto si può sicuramente agire, cioè sul rapporto tra Stato e amministrazioni decentrate. Comunque il problema della spesa e del debito è complesso, perché è lo specchio del Paese. Il debito rap- presenta anche un equilibrio della distribuzione del reddito su cui i cittadini in qualche modo si sono trovati d’accordo».

Per questo parla di scelte radicali?

«Certo. In Italia bisognerebbe essere radicali su molte cose, perché si tratta di un Paese molto conservatore forse anche per l’età media della popolazione. Vorrei aggiungere che non sono ossessionata dal debito, anzi. I debiti si possono fare, se sono sostenibili. Come ha fatto la Gran Bretagna, che è uscita dalla guerra con un debito al 250% del Pil e ha impiegato 30 anni per ridimensionarlo. Il nostro caso, però, è diverso date le condizioni macroeconomiche. Il debito ci rende molto vulnerabili a tutte le crisi e ci impone una politica di bilancio con margini ridotti».

Ha senso oggi aumentare l’Iva, indebolire il potere d’acquisto, e trovare risorse per correggere il deficit dello 0,1%?
«Io avrei scelto di lasciare l’Imu e evitare l’aumento Iva. Tutti sanno che si è trattato di un compromesso politico. Quanto allo 0,1%, con l’Europa si possono anche trattare flessibilità, ma solo in condizioni di stabilità politica forte e in presenza di un programma di medio periodo che ha l’appoggio della maggioranza della popolazione. Altrimenti rischiamo di perdere credibilità e questo è molto rischioso per un Paese così indebitato».

Crede nelle dismissioni per risolvere il problema debito?
«Non ho i numeri precisi e non posso certo sostituirmi al ministro del Tesoro. Credo che il grosso delle privatizzazioni sia già stato fatto, ma anche su questo dibattito bisognerebbe essere più laici. Se il Paese continua a essere così a rischio e depresso, i nostri asset arrivano a prezzi così bassi che davvero diventiamo terreno di conquista. Io non sono contraria allo straniero, ma penso che si debba evitare di vendere a prezzi stracciati quando non si ha altra alternativa». L’Italia sta perdendo molte grandi imprese. Si può parlare di declino industriale? «È il segno finale di un processo iniziato una ventina d’anni fa: da allora i nostri numeri hanno cominciato a divergere in modo consistente con quelli tedeschi. Abbiamo subito la crisi dei primi anni ‘90 e poi quella del 2008, con finanze pubbliche molto squilibrate e con una classe imprenditoriale che spesso ha preferito ridimensionarsi piuttosto che scommettere sul futuro. Ecco perché dico che servono segnali forti e un nuovo accordo politico. Vedremo se quello che e successo l’altro giorno e il primo passo per costruirlo. E presto per dirlo».

Le banche italiane resisteranno alla prova dell’unione bancaria?
«Il loro problema è la zavorra dei crediti deteriorati, altro effetto della crisi economica. Io sono favorevole alla formazione di una bad bank, sul modello spagnolo. In ogni caso il problema va affrontato subito».

L’Unità 04.10.13

“Piombino vertenza italiana. Tutti difendono l’acciaieria”, di Silvia Gigli

La vertenza Piombino è la vertenza Italia. È da questo piccolo grande distretto siderurgico bagnato dal Tirreno e affacciato sull’isola d’Elba che può ripartire il futuro industriale italiano. Ne sono convinti i tre segretari confederali di Cgil, Cisl e Uil, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti che ieri hanno accompagnato la lunga marcia delle diecimila tute verdi delle acciaierie ex Lucchini che hanno sfilato insieme a centinaia e centinaia di colleghi dell’indotto e di Piombino e della Val di Cornia per chiedere che la città non chiuda, che l’acciaieria non muoia. Operai, studenti e commercianti sono scesi in piazza in una Piombino completamente chiusa dove tutti i negozi hanno aderito alla manifestazione con la serrata generale. FARE MURO È un grido di dolore ma anche di rabbia quello che sale alle labbra del sindaco della città livornese, Gianni Anselmi: «Da quando è svanito il sogno siderurgico di Piombino, viviamo una situazione drammatica. Stiamo attraversando una temperie durissima, per migliaia di famiglie. Oggi dobbiamo fare muro. I governi non devono solo risolvere i problemi di equilibrio politico ma devono dare risposte, perché questa città non può e non deve morire». In attesa dell’incontro con il premier Letta che è stato convocato per il prossimo lunedì, il segretario Cgil Camusso bacchetta il ministro per lo Sviluppo economico: «A Zanonato dico che non si può aprire un tavolo e dire che la situazione è grave e poi cala il silenzio. Se Piombino chiude, non si fa così politica industriale. Intanto chiediamo dove sono le risorse. Cosa costerebbe la Cig per Piombino? Secondo noi, le risorse necessarie per non fermare l’altoforno sono meno di quello che si spenderebbe per gli ammortizzatori sociali». «Siamo qui perché non vorremmo assistere a un funerale – dice duro Luigi Angeletti – Questa è una vertenza che può decidere il futuro industriale di questo Paese ma la nostra classe politica non se ne rende conto e pensa solo che un po’ di cassa integrazione e di mobilità bastino a dare sollievo. Noi non vogliamo e non possiamo accettare la chiusura delle acciaierie di Piombino. Perché questa sarebbe la fine. La produzione di acciaio è strategica, solo così si avranno benessere e competitività. All’incontro con Letta parleremo anche di questo. Occorre ripensare un tabù, quello per cui lo Stato italiano non deve intervenire nell’economia e sostenere i settori strategici. È ora di dire sul serio che lo Stato italiano non può limitarsi a mettere i soldi in una banca, come è avvenuto nella vostra regione, perché una banca non può fallire e gli operai invece possono andare a casa. Non possiamo accettare un futuro in cui gli operai siderurgici tedeschi vanno in vacanza in Italia e quelli italiani vanno in Germania come emigranti. Ecco perché questa di Piombino è una vertenza simbolica». «La ricchezza del Paese è, per l’appunto, la produzione industriale – gli fa eco Raffaele Bonanni – e allora perché lasciarla morire? Non comprendiamo tanta freddezza. Ora il governo ha superato il suo dosso e affronti con noi questo problema». A dare progettualità alla protesta ci pensa il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, quando dal palco di Piombino parla di un grande piano di conversione ecologica della siderurgia. «L’industria europea – spiega Rossi – ha ancora un grande bisogno di acciaio. Se vogliamo rilanciare l’Europa dobbiamo pensare di nuovo al lavoro e quindi all’industria. Ma oggi si impone un nuovo modello di sviluppo più sostenibile socialmente e ambientalmente. La conversione ecologica degli impianti della siderurgia è possibile: il Corex è il nostro obiettivo. Può produrre e impiegare migliaia di unità di lavoro con un impatto ambientale neanche paragonabile a quello dell’altoforno. Può produrre anche energia per abbattere i costi del forno elettrico. Ecco il nostro piano: Corex e forno elettrico». Rossi chiede al governo di investire risorse e all’Europa di fare la sua parte. Anche perché, continua, la Toscana sta facendo la sua per l’ammodernamento infrastrutturale del porto e per la viabilità dell’area industriale di Piombino, con un investimento di 150 milioni di euro, ovvero due terzi di quanto necessario. Uno sforzo per far sì che le grandi navi possano transitare da Piombino e che lì si possano rottamare le navi europee in modo corretto e pulito. Costa Concordia per prima.

L’Unità 04.10.13