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«Dobbiamo rivedere le leggi, sia in Italia che in Europa», di Rachele Gonnelli

Cecile Kyenge convoca i giornalisti nella sala monumentale di largo Chigi in tarda mattinata. Lo sguardo è serio come sempre solo gli occhi sono un po’ più grandi, lo sguardo fisso come schiacciato dal peso degli eventi mentre confessa di provare «un dolore molto forte per questi morti», «una tragedia immane che ci impone la necessità di affrontare in maniera radicale il tema dei migranti in fuga da situazioni di conflitto». Si associa alle parole del Capo dello Stato nel chiedere «maggiore intensità per dare impulso a nuove politiche che interrompano questa serie di tragedie». La sua richiesta appare però un po’ debole rispetto agli enunciati di partenza: chiede «fin da subito» un coordinamento interministeriale sotto l’egida della Presidenza del Consiglio per mettere in essere un piano comune di aiuto ai profughi e di sostegno alle comunità locali su cui al momento pesa l’onere più grosso dell’accoglienza e della solidarietà. Tutti intorno allo stesso tavolo, lei con i colleghi Alfano agli Interni, Mauro alla Difesa, Cancellieri alla Giustizia, Bonino agli Esteri. È cosciente di una responsabilità molto grande che l’Italia si trova ad avere e vuole condividerla, ma soprattutto insiste sul metodo del dialogo, «la condivisione – dice – è la prima cosa».

Per approntare un piano serviranno mesi. Dopo quanto è successo non sarebbe meglio dare un segnale forte di svolta come l’abolizione della Bossi-Fini?

«Chiedo un coordinamento proprio per affrontare anche la questione delle modifiche delle norme sull’immigrazione, che devono essere riviste all’interno di questo quadro di condivisione e dialogo. Il dialogo è il punto principale e perciò dobbiamo distanziarci nettamente da chi dà messaggi opposti, di paura e di minaccia. Io sono per una legge che parta dalla visione del fenomeno migratorio come fenomeno naturale. Ma le risposte devono adattarsi a tutte le categorie di persone».

La Bossi-Fini crea problemi anche alla Libia, da cui gli immigrati partono ma dove non possono tornare, pena l’arresto. Come risolvere questo problema?

«Ci sono stati degli accordi, stipulati anni fa, con i Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo che vanno presi in esame. Domenica prossima mi recherò a Lampedusa e in questa visita farò accertamenti e cercherò ulteriori risposte. Ciò che è certo è che i migranti fuggono da Paesi in cui ci sono guerre e conflitti e che a tutto ciò deve dare risposta anche una politica internazionale che deve tendere a rafforzare la pace e la democrazia».
L’Europa ci critica per la nostra normativa inadeguata sull’immigrazione ma non dovrebbe fare di più? Si è assunta la sua parte di responsabilità?

«Il Consiglio d’Europa giudica sbagliata la nostra normativa e ci chiede di dare risposte positive che vadano nel senso dell’inclusione, della legalità, della cittadinanza. Durante il nostro turno semestrale di presidenza, che inizierà nel luglio prossimo, l’immigrazione sarà in agenda e già abbiamo iniziato a lavorare sul tema per una nostra iniziativa. Italia e Grecia oggi sono i Paesi più in prima linea rispetto ai flussi migratori. Lo scorso 23 settembre a Roma 18 Paesi della comunità europea hanno avuto un primo summit ed è possibile che l’immigrazione assuma presto un senso di priorità negli interventi. È chiaro che tutti devono rimboccarsi le maniche, non soltanto noi. L’Europa deve fare la sua parte e ad esempio alleggerire le norme comunitarie sulla libera circolazione e la convenzione di Dublino, garantendo nei Paesi d’arrivo la possibilità di un visto di transito per gli asilanti che vogliono andare in altri Paesi, coinvolgendo dunque tutta la Comunità europea per l’ospitalità dei profughi».

Cosa pensa della proposta di creare un corridoio umanitario con base nel porto di Lampedusa?
«Modificare le norme per l’immigrazione regolare e creare dei corridoi umani- tari sono appunto due risposte all’esigenza di sottarre i migranti al ricatto delle organizzazioni criminali che si occupano di traffico di esseri umani. Se si vuole operare una reale strategia di contrasto dei trafficanti si devono affrontare questi due nodi».

Cosa risponde a Gianluca Pini, vice capo-gruppo della Lega a Montecitorio, che attacca oggi lei e la presidente Boldrini per gli sbarchi?

«Attribuire a me e alla presidente Boldrini la responsabilità morale di ciò che è successo è profondamente offensivo. E credo che sia un insulto anche a tutti i cittadini italiani si stanno adoperando per aiutare i superstiti. Questo attacco in queste ore è per me un punto di non ritorno nel rapporto con questi signori. Io cerco soluzioni, loro fomentano odio e paura, la distanza è ormai incolmabile».

l’Unità 04.10.13

Con il via libera al DL Cultura si chiude la stagione dei tagli lineari

Dalla Camera via libera al “Dl Valore Cultura”, per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo. Particolare attenzione è stata posta per il sito archeologico di Pompei, il Museo degli Uffizi, le fondazioni lirico-sinfoniche, ma soprattutto si è puntato a considerare la cultura un valore aggiunto del Paese, per creare lavoro e per attrarre investimenti.

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Grande soddisfazione è stata espressa dagli esponenti democratici, che hanno contribuito in larga parte alla definizione della nuova legge.
Antonio Funiciello, responsabile Cultura e Comunicazione del PD ha definito l’approvazione del DL Cultura “una buona notizia per un settore che per troppi anni è stato, purtroppo, tra i maggiori protagonisti dei tagli ai fondi pubblici e di interventi legislativi disorganici e spesso dannosi. Oggi il settore sta un po’ meglio – ha sottolineato – grazie ad interventi che mettono in sicurezza diverse situazioni di reale emergenza e di grave criticità e che coinvolgono sia i beni culturali che lo spettacolo.

Ma molto c’è ancora da fare – ha voluto ribadire il responsabile Cultura del PD – cominciando dal lavoro e dalle professioni culturali e artistiche e dalle piccole e medie imprese della creatività, che devono essere riconosciute, valorizzate e che dobbiamo contribuire a fare crescere con politiche di sostegno e di sviluppo industriale organiche e coerenti con i principali obiettivi della parte pubblica: la creazione di una società giusta, plurale e democraticamente matura e la realizzazione di politiche di sviluppo eque e sostenibili.
Questi sono gli assi portanti dell’agenda politica del PD per la cultura e la creatività sui quali ci siamo confrontati con il ministro Bray e con i nostri gruppi parlamentari del Senato e della Camera, che ringraziamo per il loro lavoro e per l’impegno che ha portato alla conversione in legge del decreto in una fase molto difficile della vita politica e istituzionale del Paese.

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Il senatore Andrea Marcucci presidente della commissione Cultura del Senato ha assicurato che “con l’approvazione a larga maggioranza del Dl cultura, si chiude una lunga stagione di tagli lineari. La nuova legge torna a stanziare risorse in un settore strategico per il Paese e introduce l’autocertificazione per la musica dal vivo con non più di 200 spettatori”, ha ricordato.

“Ora serve la volontà politica di andare avanti, di procedere con più coraggio sulla strada della defiscalizzazione dei contributi privati”, ha aggiunto il senatore del PD. In fine Marcucci ha preannunciato che “il PD porrà al governo la questione che riguarda la diminuzione dei rappresentanti nel consiglio di indirizzo della Scala e l’esclusione del Piccolo di Milano e di altri enti culturali dagli elenchi Istat”.

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Maria Coscia, capogruppo Pd in commissione Cultura della Camera, ha definito il provvedimento ” un’ inversione di tendenza, attesa da anni. Adesso, la cultura è considerata un valore e un punto di forza per il rilancio dell’economia, come il presidente del Consiglio Letta si era impegnato a fare e come ha ribadito ieri. È un importante passo avanti per ripartire e riaffermare il valore della cultura come diritto alla promozione umana e volano di sviluppo economico e occupazionale. Solo in Italia ci sono più del 70 per cento dei beni culturali mondiali; vogliamo che questo inestimabile patrimonio diventi anche una opportunità di sviluppo e rilancio dell’economia”.

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Paola De Micheli, vicepresidente vicario del Gruppo PD alla Camera ha ricordato “gli echi di tremontiana memoria: “con la cultura non si mangia”, un’eresia pronunciata nel Paese col più grande patrimonio culturale al mondo. Il decreto approvato oggi dalla Camera rappresenta un segnale di radicale cambiamento. E’ un primo passo per definire che la cultura è un diritto ed è il più potente strumento di promozione del talento e del progresso. Un settore centrale per l’economia italiana che ha bisogno non di finanziamenti a pioggia, ma di misure e di risorse per investimenti”.

Nello specifico De Micheli ha sottolineato i settori principali che riguardano il DL Cultura: dall’innalzamento delle detrazioni delle microdonazione che saranno ossigeno puro per le attività culturali, al rilancio del sito di Pompei, patrimonio per tutto il mondo; dal tax credit per il cinema reso finalmente stabile che garantisce continuità di investimento e lavoro, alle fondazioni liriche; dagli spettacoli dal vivo all’attenzione sull’arte contemporanea. Noi crediamo che questo provvedimento cambi finalmente la concezione di cultura nel nostro Paese – ha concluso – che è conservazione della bellezza, ma soprattutto in questa terribile crisi impresa, lavoro e futuro”.

www.partitodemocratico.it

Insegnare: missione “impossibile”?, di Antonio Valentino

Sui problemi dell’insegnare, affrontati da Massimo Recalcati su Repubblica – in un recente articolo che ha fatto molto discutere (ci ho dedicato anch’io alcune riflessioni cordialmente ‘polemiche’ proprio su ScuolaOggi) -, è da registrare un intervento del filosofo Pier Aldo Rovatti, sempre su Repubblica (sabato 28 settembre), che sviluppa considerazioni utili per superare ambiguità e contribuire a mettere meglio a fuoco alcuni aspetti del profilo docente . La considerazione centrale e più importante di Rovatti è che il rapporto tra insegnante e allievo non si può semplicemente “impacchettare nella parola ‘seduzione’”, come sembra fare Recalcati nel suo articolo. I ragionamenti di Rovatti sulla questione poggiano su tre idee importanti: per l’insegnante, la relazione e il sapere non possono mai essere separati (in altri termini: tra il sapere e la relazione c’è un circolo virtuoso che, se interrotto, mina la stessa ragion d’essere di una figura sociale come l’insegnante); quanto al sapere, la scuola va vista come “un apprendistato, un’educazione che insegni ad apprezzarlo in quanto tale” (quindi la scuola non sviluppa solo apprendimenti, ma educa ad apprezzare il sapere, che ha intrinsecamente valore); il sapere, inoltre, “non sta né in alto nè fuori, bensì in basso e dentro, nella concretezza delle pratiche reali” (come dire che la scuola non coltiva saperi accademici e deve fare i conti, se vuole avere successo, con la concretezza del sentire e del vivere comune). E si concludono sottolineando che l’amore per il sapere, “per il fatto di essere un ‘amore’, deve passare necessariamente per la relazione, cioè attraverso l’accomunamento e la socializzazione”. Non so se, in quest’ultima affermazione , si adombri l’idea di reciprocità. A me sembra, comunque, che la relazione di reciprocità (io e te, per quanto con ruoli diversi, siamo dentro un rapporto di intescambio che esclude dipendenza) sia un elemento chiave di un insegnare che non sia “travasamento” (come giustamente ci ricorda Recalcati) e che abbia come stella polare la costruzione di persone autonome e responsabili. L’enfasi sulla “seduzione”, infatti, per quanto funzionale, nelle intenzioni di Recalcati, a creare amore per il sapere, tende in qualche modo a opacizzare e confondere il senso e il valore di una professione, quella dell’insegnante, che si caratterizza (nei casi migliori – certamente – che comunque non sono pochi nella nostra scuola) di competenze specifiche, comprensive – ovviamente – di quelle di relazione. Competenze che, queste sì, costituiscono garanzia di apprendimenti sensati e arricchenti; e coinvolgenti. Non sono, detto in altri termini, le lezioni ‘appassionanti’ della certamente brava e meritevole professoressa Giulia, insegnante di Recalcati alle Superiori, che possono aiutare la nostra scuola ad uscire dal pantano in cui si trova; ma professionalità esperte e competenti sui vari terreni del lavoro a scuola. Insegnare non è una professione qualsiasi. Non si insegna ‘a titolo personale’. Né l’insegnante, che pure è un professionista, può essere considerato un ‘libero’ professionista (libero nel senso di “sciolto” dalle responsabilità – di istruzione e formazione – che gli competono). Non so se è veramente una professione ‘impossibile’, come diceva Freud (che usava l’espressione per richiamare la inconcilibilità tra la necessaria indipendenza da condizionamenti esterni e gli obblighi di una missione comunque formativa. Oggi l’impossibilità nasce dalle difficoltà estreme del fare scuola nelle condizioni che si danno) . Certamente, comunque, è una professione difficile e delicata. E tale da richiedere continui aggiustamenti, assestamenti (resilienza?) perché non ci siano squilibri rischiosi. Ma anche più considerazione e rispetto, perché figura necessaria e centrale in un Paese che abbia a cuore la sua democrazia e il suo futuro. Concludendo. La qualità del lavoro a scuola si gioca sulla qualità delle relazioni all’interno dello spazio scuola e, in particolare, tra docenti e studenti. E quest’ultima ritengo si giochi soprattutto, se non esclusivamente, sull’invio costante, da parte dell’insegnante, di segnali sia di ascolto attivo e di cura, sia di attenzione, nel suo lavoro, ai feed-back che gli arrivano dagli studenti. È comunque attraverso i primi che fai capire che tu insegnante, a lui/lei studente, “ci tieni”, che ti aspetti cose importanti, che lei/lui, comunque, non è ‘solo’ nella scoperta di senso e nella conquista di apprendimenti sensati e anche affascinanti – per quanto spesso faticosi -; ma che può trovare in te un maestro-allenatore che ci crede, che è sempre disponibile e di cui fidarsi. Non è forse soprattutto questo che favorisce quell’amore per il sapere che è chiave di volta per una formazione non approssimativa e appiccicata, ma generatrice di altri saperi e più approfondite competenze?

da ScuolaOggi 04.10.13

“L’Europa che ci manca”, di Andrea Riccardi

Quando accadono simili tragedie del mare, purtroppo tutt’altro che infrequenti nel Mediterraneo, la prima reazione del mondo politico – quasi un riflesso condizionato – è quello di rivolgere gli occhi verso Bruxelles. Come per dire: l’Europa deve farsi carico del problema, le istituzioni dell’Unione devono fare di più. È una considerazione giusta, se si vuole persino ovvia. Ma rischiano di essere ancora parole vuote, se alla fase della commozione e del cordoglio, non seguono atti di buona e lungimirante politica. Bisogna essere realistici, anche a costo di essere crudi: oggi non esiste, né forse è mai esistita, una politica europea dell’immigrazione perché non esiste una politica estera europea, men che meno una politica per il Mediterraneo.

È un problema, in un’Europa più volentieri proiettata verso l’Atlantico o l’Oriente, di lontananza geografica e culturale di Bruxelles dalle coste del Mediterraneo? Forse. Ma, in questo caso, ci sarebbe comunque da chiedersi perché i Paesi del Sud dell’Europa – i governi di Italia, Francia, Spagna, Grecia, Malta, Cipro – non sono stati mai in grado di fare fronte comune e spiegare ai loro «nordici partner» quale è la reale posta in gioco.

L’immigrazione – è un’altra questione nodale – è stata sempre gestita secondo l’ottica emergenziale e della sicurezza, lasciando i singoli Stati a sbrogliarsela con gli sbarchi, i campi di accoglienza, i salvataggi umanitari e il varo di leggi repressive più o meno efficaci. Intendiamoci, i pattugliamenti delle coste, gli accordi bilaterali con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, una attenta azione di contrasto alla tratta di uomini sono misure importanti che vanno potenziate. Ma è pur vero che nessun recinto, nessuna gabbia, per quanto solidi, possono imprigionare un fenomeno epocale come quello delle migrazioni di massa. L’ottica ristretta e provinciale – e se ne sono avute eco anche nel dibattito politico di ieri in Italia – non produce alcun risultato apprezzabile di fronte a problemi globalizzati.

Entra qui in ballo l’altra faccia della questione immigrazione: la cooperazione internazionale. I fenomeni migratori dall’Africa sono generati da guerre, conflitti, persecuzioni, dalla povertà. In una parola, dalla mancanza di futuro. È davvero così irrealistico sostenere un più diretto e efficace intervento dell’Ue in Africa e nel Medioriente a sostegno della fragile economia locale, dei processi di democratizzazione, della lotta agli estremismi e alle carestie? E non sembra invece più logico tentare di impedire gli incendi, piuttosto che prodigarsi, a rischio di ulteriori vite umane e con spese maggiori, per spegnerli? La coope- razione internazionale, in Italia, è ridotta da tempo al lumicino. In Europa va un po’ meglio, ma non è ancora una delle colonne portanti della politica estera. Da ministro dell’Integrazione e della Cooperazione internazionale mi sono recato a Lampedusa e poi a Bruxelles. Non solo per portare dei fiori sulle tombe senza nome dei tanti morti affogati o la solidarietà del governo a una popolazione generosa e stremata. Ma perché Lampedusa non deve restare un lembo dimenticato dell’estrema periferia italiana, ma deve diventare l’avamposto dell’Europa libera, civile e accogliente nel Mediterraneo, con un centro di avanguardia nell’accoglienza dei profughi, gestito direttamente dall’Ue, con la collaborazione degli Stati e aiuti europei per la popolazione isolana. Sarebbe un segno tangibile di una consapevolezza e di una responsabilità nuove. Le stesse a cui ha voluto richiamarci profeticamente Papa Francesco nel suo viaggio a Lampedusa. Che è qualcosa di più di un monito. Ma una prospettiva e una visione.

L’Unità 04.10.13

“Abolire la Bossi-Fini”, di Claudio Sardo

Un’altra tragedia di migranti immane. Straziante. Che lascia senza fiato. Che ci copra di vergogna. Forse è la strage dalle dimensioni più spaventose. Strage di innocenti. Di donne, uomini, bambini disperati. Che hanno cominciato a morire nella lunga, interminabile traversata del deserto africa- no. Che sono poi finiti nelle mani dei mercanti di morte. E al termine della tortura sono stati inghiottiti dal mare. Dal mare nostro. Hanno pianto, hanno gridato e noi non li abbiamo ascoltati. Non li abbiamo salvati. Non siamo stati capaci della nostra umanità. E adesso non possiamo difenderci con l’indifferenza. Non basta scaricare le responsabilità, che pure ci sono, solo sugli altri.

L’immigrazione è un fenomeno epocale, planetario. Affrontarlo con serietà, solidarietà, rigore, cioè fare in modo che diventi fattore di sviluppo e non di discriminazione o di morte, è il risultato di politiche difficili, serie, complesse. C’è bisogno di Europa, c’è bisogno di cooperazione internazionale, c’è bisogno di politiche di sviluppo nei Paesi più poveri, c’è bisogno di un controllo efficiente ma al tempo stesso di un rispetto autentico dei diritti umani e dei doveri di ospitalità per i profughi e i rifugiati. Ma nessuno di noi può lavarsi le mani. Tutti dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo fare qualcosa per vincere l’indifferenza, l’abbandono, la paura che diventa alibi. L’Italia da sola non può cambiare il corso delle cose. Ma dopo quanto è accaduto, dopo centinaia, migliaia di morti non possiamo restare fermi. Ci vuole un gesto, un atto di rottura, che dia il segno di una ribellione e la speranza di un’inversione di rotta. Lo dobbiamo a quelle donne, a quegli uomini, a quei bambini. Il lutto nazionale è doveroso. Ma si compia un altro passo. Si abroghi subito la legge Bossi-Fini: e il Parlamento si impegni da domani a fare una legge più umana, più dignitosa, più utile anche alla sicurezza.

L’Unità 04.10.13

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“No al reato di clandestinità”, di LUIGI MANCONI – VALENTINA BRINIS

Molte le cause della tragedia di ieri. Ma, tra esse, non può essere ignorata certo quella che rimanda ai dispositivi della legge Bossi-Fini (2002): e proprio perché, su quei dispositivi, è possibile finalmente intervenire.

Ci hanno provato i Radicali, ma – per responsabilità di quasi tutti – quel sacrosanto referendum non ha raggiunto il numero di firme necessarie. Ora è richiesta, come è ovvio, una forte decisione politica: ed essa non può essere rinviata se teniamo conto che quella normativa, così com’è, altro non fa che irrigidire, fino alla chiusura, il sistema di accoglienza per i richiedenti asilo. E fatalmente finisce col considerare idonei all’accesso in Italia solo i migranti lavoratori, con molte eccezioni, e attraverso una procedura che si rivela sempre più dissuasiva e disincentivante. La normativa attuale ha apportato alcune modifiche alla precedente legge, la Turco-Napolitano (1998) concentrandosi sul controllo dell’ingresso e della permanenza regolare dei migranti in Italia. Ciò ha fatto sì che le persone in fuga verso il nostro Paese, se sprovviste del regolare visto necessario all’imbarco in aereo, dovessero trovare vie alternative e irregolari per poter raggiungere le coste italiane. Tutto ciò si inserisce in una politica europea che molto ha investito nella vigilanza sulle frontiere esterne, alimentando costantemente il fondo dell’Agenzia Frontex (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea), principale addetta a tale attività.
L’esito di ciò è stato che in numerose circostanze i migranti rintracciati in mare venissero rimpatriati senza che prima fossero identificati, ascoltati e soprattutto, prima che gli fosse data la possibilità di presentare la domanda di asilo. Il ministro dell’Interno dell’ultimo governo Berlusconi, Roberto Maroni, ha sempre negato che si effettuassero simili pratiche e, quando messo alle strette, le attribuiva ai così detti accordi Italia-Libia. Ma ecco che il 23 febbraio del 2012 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato l’avvenuta violazione del divieto di tortura, di quello di espulsioni collettive e del diritto ad un ricorso effettivo. E con ciò ha accolto l’esposto di 24 migranti che nel 2009 erano stati riportati in Libia dopo essere stati intercettati in mare dalle forze di polizia italiane. Si è opportunamente parlato di sentenza storica in quanto ha dimostrato come, almeno in un caso, il respingimento collettivo fosse davvero avvenuto. Resta il fatto che gli essenziali connotati della «Turco-Napolitano» sono stati modificati dalla «Bossi-Fini» a danno dell’ingresso regolare degli stranieri, in particolare in materia di visti, permesso di soggiorno, carta di soggiorno e diritto di asilo. Per poter richiedere e ottenere la documentazione necessaria, i criteri sono diventati più selettivi, tanto da rendere difficoltosa la permanenza legale. Si pensi alla complicata richiesta dell’idoneità alloggiativa, alla frequente negazione del visto per non motivate ragioni di sicurezza e, in generale, al complesso iter burocratico per rinnovare i titoli di soggiorno.

Ecco perché sono così numerose le persone diventate irregolari negli ultimi anni. Il governo Monti ha fatto qualcosa in questo senso, portando a un anno la durata del permesso di soggiorno per attesa occupazione. Un timido passo avanti, ma tantissimo ci sarebbe ancora da fare, perché la «Bossi-Fini» non solo ha enormemente complicato il quadro amministrativo, ma ha anche recepito, attraverso il pacchetto sicurezza del 2009, quel meccanismo di vera e propria criminalizzazione rappresentato dal reato di clandestinità e dall’aggravante per clandestinità (dichiarata successivamente incostituzionale). Il risultato è stato, tra l’altro, un ulteriore incremento della già ampia popolazione carceraria costituita da stranieri (nel maggio del 2013 erano oltre settecento i reclusi responsabili esclusivamente di non aver ottemperato all’ordine di espulsione). Volendo trarre una rapida conclusione, si può dire che la legislazione in materia di immigrazione, dal 2002 a oggi, si è irrigidita e inasprita, producendo come effetto principale l’estensione delle aree di irregolarità e di marginalità. L’intero impianto normativo in materia di immigrazione deve essere radicalmente modificato, a partire da due atti essenziali: a) abrogazione del reato di clandestinità, che ha assimilato – secondo un’ispirazione che rimanda a una concezione giuridica precedente lo stato di diritto – la categoria dei migranti a quella di una «classe pericolosa», da perseguire non per i reati commessi ma per la sua stessa condizione esistenziale (non per ciò che si fa, ma per ciò che si è); b) introduzione del visto di ingresso per ricerca di occupazione, al fine di favorire l’incontro tra offerta e domanda nel nostro Paese, contribuendo a regolarizzare una quota notevole degli ingressi e dei soggiorni non regolari.

In altre parole, se questa strage di cui i morti di oggi sono appena un episodio non ci induce a modificare radicalmente una normativa che, quei morti, contribuisce a perpetuare, il nostro cordoglio rischia di risultare un vuoto rito.

L’Unità 04.10.13

“Per chi piange l’Europa”, di Massimo Gramellini

Quanta ipocrisia sulle facce dei potenti listate a lutto, mentre le vittime della strage annegano una seconda volta nella retorica. Quanto cinismo tra i leghisti che considerano una soluzione respingere i disgraziati, affinché si rassegnino a morire a casa propria: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Intanto in tv va in scena il rito della commozione a reti unificate, la ricerca del caso umano, l’intervista all’eroe da esibire nei talk show per far dimenticare le radici di questo dramma, più ampio nelle dimensioni ma identico ai tanti altri che ci sono scivolati addosso senza lasciare traccia, a parte uno spruzzo di lacrime.

Finché i disperati in fuga dalla violenza e dalla miseria marcivano a spese nostre nei lager di Gheddafi, nessuno si interessava alla loro sorte. Adesso che le gabbie si sono aperte e le bagnarole dei banditi hanno ripreso il largo, si piangono i morti e si continuano a ignorare i vivi. L’Europa, che fa la morale all’Italia per lo sfondamento di un parametro economico o la dimensione non regolamentare di una zucchina, tratta Lampedusa come se fosse una provincia romana anziché l’avamposto di un continente. Tutti sanno che l’unica soluzione consiste nel pattugliare le coste africane e mettere in salvo quei poveri cristi prima che le bagnarole affondino, invece di fingersi ogni volta sorpresi per il loro arrivo. Ma iniziative simili richiedono un cuore e una testa, non solo un apparato lacrimatorio da sepolcri imbiancati. Richiedono una visione politica, che nell’Europa dei paurosi sembra avere fatto naufragio.

La Stampa 04.10.13

“Sono loro il nostro prossimo”, di Adriano Sofri

Ci si può commuovere tutti i giorni, o c’è bisogno di una pausa, di una tregua – non so, una settimana, almeno un paio di giorni – fra una tragedia e l’altra? O commuoversi comunque quando la cifra dei morti è così esorbitante? Quando ci sono i bambini (le donne incinte ci sono sempre), e c’è ogni volta un dettaglio nuovo. Questa volta è il fuoco acceso dentro una carretta con 500 persone, come accendere un falò in un autobus all’ora di punta, con le porte che non si aprono. Riescono sempre a procurarsi un dettaglio nuovo, queste disgrazie. A Catania è in rianimazione il migrante eritreo scampato a tutto, anche alla spiaggia di Sampieri coi cadaveri allineati dei suoi compagni, e investito da un’auto. I dettagli di ieri saranno troppi per raccoglierli, i soccorritori pensano a soccorrere, magari piangendo, e i superstiti, una volta rifocillati e sbattuti in qualche Centro di Indifferenza ed Espulsione, non saranno più interessanti, coi confini spinati e i deserti e i mari che hanno attraversato, i cadaveri che hanno urtato, le preghiere che hanno pregato. Non avranno voglia di raccontarlo, e non troveranno chi abbia voglia di starli a sentire. Guarderanno l’Isola dei famosi,
la sera, e capiranno tutto.
Dunque si è quasi offesi, da una giornata simile: centinaia di morti, l’ennesima, più lunga fila di sacchi da monnezza, non si può pretendere che ci commuoviamo ogni giorno che Dio manda, perbacco, e all’indomani di un allegro rilancio del governo, che prima era di necessità e ora è d’amore e d’accordo. Che c’entra il governo con la strage della barcaccia? Niente, appunto. Niente e nessuno, c’entra. È stata una disgrazia. Cioè: il cinismo degli scafisti, l’imprudenza dei passeggeri, il panico di tutti. I superstiti non presentavano problemi molto gravi, ha detto un bravissimo medico, qualcuno aveva bevuto, con l’acqua salata, parecchia nafta. Non c’entra nessuno, accusare, inventarsi dei colpevoli, è un lusso da salotto. (I leghisti sanno di chi è la colpa: di due signore). Però il papa ha detto: è una vergogna. Allora bisogna che qualcuno si vergogni, o che ci vergogniamo tutti. Di che cosa? Di tutto: della guerra civile in Siria, del mattatoio somalo, della violenza nigeriana che ricaccia indietro i ghanesi. Ah, va bene, campa cavallo! Vediamo più da vicino, allora. Controllare meglio quel tratto di mare? Ci sono occhi meccanici cui non sfugge un branco di sardine. Chi se ne intende dice che il lavoro che fanno la nostra capitaneria, la marina militare, la guardia di finanza, i
e anche i mezzi mercantili e da diporto è ammirevole, che i radar non bastano a vedere tutto, soprattutto con imbarcazioni piccole e mare mosso e sottocosta. Bene: eppure qualcosa occorre fare. Perché ieri non eravamo solo commossi fino alle lacrime, ma anche esasperati e furiosi. Perché anche piangendo, si pensa. Si pensa che in Giordania, in Libano, in Turchia, in Iraq, ci sono oggi un paio di milioni di profughi siriani, e da noi ne sono arrivati due o tremila; cui vanno sottratti – 250, 300? – quelli di ieri. Si pensa che due giorni fa sono state pubblicate le nuove cifre sugli immigrati in Italia, e quattro su dieci si propongono di tornare a casa o andare altrove, e molti l’hanno già fatto. Si pensa che in Grecia, tanto più povera di noi, e tanto sorella nostra –“stessa faccia, stessa razza”- gli immigrati dall’Europa orientale e dall’Asia e dall’Africa entrano per terra e per mare in numero assai superiore ai nostri, e poi ci restano chiusi, in omaggio a Dublino, in balia dei nazisti di Alba Dorata.
E poi, si pensa alle obiezioni di chi, anche in mezzo a tutti questi morti –
“una marea di cadaveri”, ha detto ieri un soccorritore, promuovendoli involontariamente a creature marine, quei viaggiatori che non sapevano nuotaretiene a restare, secondo lui, freddo e lucido. “Non possiamo mica accogliere tutti i fuggiaschi del mondo”. No, infatti, non possiamo. Ma non stanno arrivando tutti i fuggiaschi del mondo. E ragionevole prevedere che ne arriveranno molti di più. Siccome ci si compiace a credere che l’alternativa sia fra buonismo e cattivismo, e chi non è né buonista né cattivista possa solo raccomandare l’anima e il corpo altrui a Dio, proverò a rispondere. Ammettiamo pure il caso più ottuso: che siate rigorosamente contrari all’immigrazione, che ve ne fottiate di tutte le avvertenze (“ma i nostri nonni, e il padre del papa Francesco, sono emigrati…”; e “gli immigrati oggi coprono il 10 per cento del Pil italiano”, e così via). Bene. E ammettiamo ora che voi, i del tutto contrari, stiate bordeggiando sotto l’isola dei Conigli, e avvistiate una disgraziata che viene da Aleppo o da Samaria e che agita le braccia e annaspa: o la soccorrete, o no. Se non la
soccorrete, siete davvero coerenti con la vostra convinzione, e il diavolo vi porti: l’avete meritato. Se la soccorrete, com’è infinitamente più probabile, non avrete affatto ripudiato la vostra convinzione, avrete saputo che c’era una cosa più importante. Che quando succede proprio a voi di imbattervi nella persona in pericolo, che da voi dipende la sua salvezza, le convinzioni politiche o demografiche si eclissano, e senza riflettere un momento lanciate il vostro salvagente o la vostra cima. (E non voglio ancora completare l’esempio, sicché succeda a voi di annaspare e agitare le braccia, venendo da Bergamo Alta, ed essere soccorso da una carretta di scafisti siriani). Questa non è la soluzione, ma è una gran parte della soluzione. La soluzione implica che in Siria finisca la guerra civile, che Dublino 2 non metta in croce la Grecia, che la Germania non si scandalizzi per l’arrivo di sbarcati a Scicli o a Riace, che l’Europa sia l’Europa. Cose grosse. Si possono affrontare, anche se sembrano così grosse. Ma intanto c’è la gran parte della soluzione, che consiste nel comportarsi seriamenpescherecci
te, efficacemente, come si fa col disgraziato in cui vi siete imbattuti. Per esempio, quando in uno scampolo d’estate vi capita di fronte una di quelle barche di disperati, su una spiaggia siracusana o ragusana, o calabrese o pugliese, e fate una catena umana. Una catena umana –è gran parte della soluzione. Ma sarebbe ipocrita lasciarla al caso. Se il samaritano avesse saputo che tutti i giorni, sulla famosa strada, i briganti lasciavano tramortito un passeggero, avrebbe chiesto alla polizia di occuparsi dei briganti, e intanto avrebbe improvvisato con altri volontari il pronto soccorso a quell’angolo di strada. Tutti i migranti che si mettono in viaggio alla nostra volta, e pagano caro il biglietto per la morte o la vita, tutti, sono il nostro prossimo: che siamo buoni o cattivi, che vediamo di buon occhio o furibondo la questione dell’immigrazione. Per questo è così odiosa, oltre che criminale, la politica dei “respingimenti”. Li respingi nei campi libici, a essere violati e bastonati e venduti. Li respingi “a casa loro”, dove gliela faranno pagare con la tortura e la pelle. E soprattutto li respingi: agitano
le braccia, annaspano, gridano aiuto proprio a te, e li respingi.
Perché questo non avviene, non abbastanza? Dobbiamo dirlo chiaramente. Perché le autorità, essendo responsabili (ciò che per molte di loro vuol dire ciniche) preferiscono un migrante annegato a un clandestino vivo che si aggiri per l’Europa. Un anonimo morto a un rifugiato vivo. Lo preferiscono, davvero, magari non dicendoselo così chiaro: se no non lo farebbero. Pensano (infatti pensano): “Se questi disperati arrivassero tutti vivi, sempre più disperati sarebbero incoraggiati a venire”. Bene: se pensano così, anche se non se lo dicono, stanno favorendo le stragi come quella di ieri, “magari non così grosse, non tanti in una volta”. Ciascuno, autorità o persona comune, può liberamente decidere che cosa pensa dell’immigrazione e dei migranti in carne e ossa –il nostro prossimo. Ma bisogna che sappia che cosa sta decidendo, e ne segua le conseguenze fino alla banchina di Lampedusa con la fila dei fagotti da monnezza.
Resta da lodare ancora Lampedusa: perché quegli annegati non sono di nessuno, né del paese da cui fuggono, né di quello in cui sognavano di arrivare. Sono del mare, e di Lampedusa.

La Repubblica 04.10.13