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“La fedeltà alla legge”, di Nadia Urbinati

Indipendentemente dagli esiti del sommovimento interno al Pdl, è certo che il Paese sta subendo (non da oggi) le conseguenze della crisi della democrazia dei partiti e della rappresentanza. Paga il prezzo di una democrazia deformata. Le comunità politiche come le persone hanno una figura che le rende identificabili. Tra i tratti distintivi della democrazia costituzionale ci sono elezioni regolari, separazione dei poteri, diritti civili fondamentali e, non ultimo, l’autonomia dei rappresentanti tanto da chi li elegge quanto da chi li mette in lista. La rappresentanza senza mandato imperativo è una componente essenziale dell’immagine della democrazia perché da essa dipende l’autonomia decisionale del Parlamento e, per diretta derivazione, la libertà politica dei cittadini. Alterare lo statuto della rappresentanza equivale a sfigurare la democrazia, a deformarla.
Nel corso di questi anni la democrazia italiana ha subito deformazioni evidenti rispetto al profilo originale definito dalla Costituzione. Tra queste, vi sono i tentativi ripetuti e a volte riusciti di assoggettare i rappresentanti alla volontà di qualcuno. Qui sta il segno macroscopico della crisi dei partiti politici i quali, proprio come la rappresentanza che contribuiscono a creare, non sono equiparabili ad associazioni di interessi o a imprese private, nemmeno se (come la deludente proposta di legge ora in discussione vorrebbe) a contribuire alla loro esistenza sono direttamente i privati, con i loro finanziamenti e le loro donazioni. La crisi politica che si sta abbattendo sul Paese è il segno esplicito dell’assalto alla rappresentanza e ai partiti, del tentativo di catturarli nell’orbita di un qualche interesse particolare.
Il fondatore, sponsor e leader del Pdl, Silvio Berlusconi, strumentalizzando la debolezza oggettiva del quadro parlamentare, tiene da settimane sotto ricatto il Paese con la richiesta di conservare il seggio al Senato e quindi l’immunit à parlamentare. Perciò ha imposto ai ministri del suo partito di dimettersi. Al momento dell’insediamento, questi ministri avevano giurato nelle mani del presidente della Repubblica con la seguente formula di rito: »Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione ».La fedeltà alla legge e alla nazione può entrare in conflitto con altre fedeltà; non dovrebbe succedere ma può succedere. E quel giuramento serve a tutelare i ministri (e noi tutti) da possibili fedeltà a poteri che sono antitetici alla legge e all’interesse “esclusivo” della nazione. Berlusconi ha cercato di imporre ai “suoi” ministri di stracciare quel giuramento nel nome di una fedeltà superiore alla loro stessa coscienza e alla loro ragione (una richiesta umiliante, come si intuisce). Quale che sia il destino di questa maggioranza, l’immagine della Repubblica ne risulta gravemente compromessa. Se non corretta, la deturpazione della rappresentanza può cambiare la fisionomia della nostra democrazia, facendone un campo di battaglia tra due sovranità, quella della nazione e della legge e quella dell’uomo forte. Il rischio è altissimo.
Da anni assistiamo ad attacchi all’autonomia delle istituzioni. L’emergenza che si sta consumando in queste ore è però di una gravità estrema. La lotta verte sull’autorità degli eletti dal committente: di chi sono i ministri e in quali mani hanno giurato? Se sono ministri della nazione essi non dipendono da nessuno in particolare e sono autonomi da ogni volontà. Lo stesso vale per i rappresentanti, come recita l’Art. 67 della Costituzione. La richiesta del mandato imperativo era già stata ventilata da Beppe Grillo, quando si avvide che una volta eletti in Parlamento i rappresentanti del M5S avevano il potere di rivendicare la loro libertà di decisione. Anche in quel caso si trattò di una lotta tra fedeltà inconciliabili: alla legge o alla volontà del capo di partito. La tensione ritorna periodicamente, e non sembra destinata a rientrare in tempi brevi. Essa mette in luce una verità fondamentale: non ci può essere Parlamento senza libertà dei parlamentari. Non solo libertà di parola e di associazione dei cittadini, che devono poter fare campagna elettorale e tenere libere elezioni, ma anche la libertà di decisione di chi siede in Parlamento o di chi, come ministro, giura fedeltà alla Nazione. Come sanno bene i partiti politici, nemmeno la loro più ferrea disciplina può togliere al singolo rappresentante la libertà di decidere e votare secondo il proprio giudizio. La dignità delle istituzioni e quella personale coincidono. Da questa coincidenza dipende la nostra libertà come cittadini.
La tensione in corso nel Pdl sta a dimostrare che un partito politico non può essere un’azienda, anche qualora lo voglia il suo fondatore. Non lo può perché non può preventivamente escludere il dissenso interno e quindi la libertà dei suoi aderenti. Il partito politico è per necessità un’associazione pubblica e libera, insofferente a padronanze e a una dipendenza più o meno suddita. Ridare alla nostra democrazia la sua immagine originale, quella tratteggiata dalla Costituzione, significa mettersi sulla strada maestra della rigenerazione dei partiti politici e della rappresentanza. Liberando entrambi da lealtà private e da mesmerismi carismatici che mentre saziano le emozioni trascurano i problemi del Paese e deturpano l’immagine della nostra Repubblica.

La Repubblica 02.10.13

“Educazione sentimentale a scuola? E cioè”, di Mila Spicola

Molti di noi hanno letto sui giornali in merito a diverse iniziative autonome sull’educazione sentimentale a scuola. Tra gli emendamenti al Decreto contro il Femminicidio, inoltre, ce n’è uno che riguarda proprio la proposta di inserimento dell’ “educazione sentimentale” a scuola come insegnamento autonomo. Iniziative apprezzabili nelle intenzioni ma da valutare con estrema cautela. Da quando i sentimenti possono essere oggetto d’insegnamento curriculare?
Aderisco alla lettera inviata da Graziella Priulla, docente di questioni di genere, presso l’Università di Catania richiamando riflessioni e attenzione su un tema così delicato.
Che vuol dire “educazione sentimentale”? Chi la insegna? In base a quale formazione professionale, seguendo che curriculo scolastico, quale metodo, quali contenuti? Con che criteri? Di tipo disciplinare, pedagogico, didattico, psicopedagogico,..?
Negli altri paesi, riguardo l’educazione di genere, come è più corretto individuarla e definirla, non “educazione sentimentale” bensì di genere, le politiche scolastiche distinguono correttamente vari ambiti e azioni: quello dell’educazione sessuale, condotta da personale medico-sanitario, l’educazione di genere, che ha un contenuto metodologico-scientifico-culturale condotta da insegnanti disciplinari, cioè con un programma definito ministerialmente in un insegnamento specifico, oppure l’attività trasversale interdisciplinare che attiene a tutti gli insegnamenti in merito alla rimozione di stereotipi o linguaggi sessisti, condotta direttamente dagli insegnanti, formati e sensibilizzati.
Dunque l’educazione di genere più in generale può essere o un insegnamento specifico o una declinazione dell’educazione al rispetto e al riconoscimento dell’altro, con una sensibilizzazione specifica verso la consapevolezza di genere, che permea tutta la metodologia didattica, non un insegnamento specifico. In entrambi i casi comunque interferisce con estrema cautela col delicatissimo ambito della formazione dei sentimenti di un/a ragazzo/a in crescita se non come riflesso culturale.
E da noi? Dopo anni di assenza di interesse e riflessioni collettive o della politica intorno alle tematiche educative di genere ci sembra che ci sia una tendenza opposta, la iper attenzione, che, anche se la salutiamo con soddisfazione, senza un adeguato approfondimento preventivo dal punto di vista metodologico, scientifico e di metodo rischia di creare equivoci e confusione, se non danni.
Mi pare che ci si stia accodando al boom di sensibilizzazione tirandoci dentro la scuola senza nessun approfondimento serio e specifico, pur essendo la scuola il terreno principe dell’educazione e delle educazioni. Intanto non abbiamo chiaro nel dibattito attuale, e il caso Barilla ne è un esempio, se le questioni di genere debbano esplicarsi in riflessioni sui processi culturali o morali e qual è il confine tra le riflessioni “morali” o “sentimentali” e la “libertà”.
Qual è il confine tra “al di qua” e “al di là” di un complesso educativo/comportamentale “etico collettivo” che qualcuno di noi è in grado di sostenere o condividere o trasferire? Siamo alla moralizzazione dei sentimenti? Alzi la mano chi è in grado di praticarla e, ancor più, di “insegnarla”. No? Stiamo parlando di altro e io non ho capito? Qualcuno mi spieghi. Se ne è in grado. Dunque complessità e dubbio. Non mi pare che siano ambiti da “vengo e ti spiego”.
Ancor più difficile diventa il terreno di riflessione e di confronto se tutto ciò, se l’indistinto, il confuso, il dubbio, diventa materia di studio, come una disciplina culturale specifica e se trasferiamo a ragazzi e ragazze in crescita troppe idee e confuse.
Cos’è l’educazione sentimentale? Qualcuno può dirmelo?
Se cerco su un dizionario enciclopedico trovo che “L’educazione sentimentale” è un romanzo di Gustave Flaubert, scritto nel periodo che va dal 1864 al 1869, e pubblicato nello stesso anno, suddiviso in tre parti, delle quali le prime due contano sei capitoli ciascuna, mentre l’ultima sette”, dunque in pieno periodo romantico.
Qualcuno/a si sveglia la mattina e decide di fare “educazione sentimentale”? Decidendo in modo non meglio definito che si debbano trasformare in insegnamenti “sentimenti buoni” o ”cattivi”? C’è una Commissione del Sentimento? Ne fa parte Lord Byron o Madame Bovary?
Con quali strumenti professionali di tipo pedagogico-didattico, se non medico-psicologico? Con quale formazione o abilitazione? Con quali effetti di tipo psicologico sui ragazzi? Operativamente in cosa consiste? E anche, con quali risorse si accede a questo insegnamento? C’è un concorso? In un momento di precariato e di criticità sul reclutamento scolastico? Troppa confusione, un po’ di superficialità e poca accortezza. Si tratta di educazione e di processi educativi. Andarci con le pinze. Non credete?
E dunque. Stiamo fermi? No.
Qualcosa si può fare e si deve fare, intanto che si attivano percorsi di ricerca scientifica e di riflessione negli ambiti e nelle sedi preposte a farlo prima di arrivare nelle classi. Qualcosa che però che è già stato studiato, sperimentato e proposto.
Ad esempio suggerire un adeguamento degli strumenti chiave con cui si trasmettono gli insegnamenti, cioè i libri di testo, e rimuovendo da questi in modo attento stereotipi e linguaggio sessisti, adeguandoli all’oggi. Lo dice persino Papa Francesco, apriamoci alla modernità, ma con criterio: i libri di scuola sono fucine di discriminazioni e stereotipi inalterati e trasmessi senza grossi mutamenti dall’epoca di Flaubert, anzi, prima ancora dall’ Emilio di Rousseau direi… di cui abbiamo festeggiato il 250esimo lo scorso anno.
I processi di rimozione degli stereotipi, ancor più quelli sessisti che hanno radici millenarie, è lento e complesso. La scuola è densa di stereotipi, inconsapevolmente i docenti e le docenti siamo portatrici e trasmittrici di stereotipi, senza rendercene conto, perchè sono radicati nella nostra cultura da secoli. Sono processi lenti e complessi, non vanno forzati, non vanno equivocati, non vanno confusi, ma da qualche parte bisogna pur iniziare. Da un libro, ad esempio. E’ la via meno impervia.
Proponiamo di adottare ad esempio il Codice Polite (acronimo che sta per Pari Opportunità nei Libri di Testo), che abbiamo promosso con una petizione, e di cui da tempo ne proponiamo l’adozione normativa, un Codice messo a punto alla fine degli anni 90, da una Commissione Interdisciplinare di esperti di vari ambiti e vari Paesi in merito alla rimozione degli stereotipi e dei linguaggi sessisti dai libri di testo e alla presenza del femminile e dei generi nei contenuti trasmessi dai libri.
Ci sembra una via più corretta, sperimentata, che offre strumenti di lavoro e di sensibilizzazione in modo semplice e strutturato alle insegnanti e agli insegnanti, agli studenti e alle studentesse. Senza attivare esperienze non meglio definite o sperimentate e senza gravare sulle casse dello Stato. Attenendosi a criteri scientifico-culturali. Intanto che si elaborano linee guida nei curriculi scolastici sulle tematiche di genere, dal punto di vista metodologico e di contenuto, per capire se è meglio attivare insegnamenti specifici o formare e preformare tutti gli insegnamenti attraverso metodologie didattiche nuove e attente, è meglio non affidarsi ad “apprendisti stregoni”, anche in assoluta buona fede, in grado poi di non controllare i complessi processi che si attivano.
Sul Codice Polite è stato presentato un emendamento al Decreto Scuola adesso in discussione.

La Tecnica della Scuola 02.10.13

“Abbandono scolastico, l’Italia prima in Europa: ogni anno lasciano 700 mila ragazzi”, da La Tecnica della Scuola

Con il 17,6% siamo ancora lontani dal 10% indicato dall’Ue: il dato aumenta al Sud Italia e si riduce al Centro-Nord. Avviato uno studio nazionale che avrà come capofila la onlus Intervita, con l’associazione Bruno Trentin della Cgil e la Fondazione Giovanni Agnelli: il fine è identificare la tipologia, i ragazzi che lasciano i banchi di scuola, i tipi di intervento e la loro efficacia. Ammonta a circa 700 mila la quota di ragazzi e ragazze che ogni anno lascia i banchi di scuola oppure li frequenta saltuariamente tanto da non avere alcuna possibilità di successo formativo. Sono i preoccupanti dati nazionali sulla dispersione scolastica, ricordati il 1° ottobre a Roma dai realizzatori di uno studio che avrà come capofila la onlus Intervita, con l’associazione Bruno Trentin della Cgil e la Fondazione Giovanni Agnelli.
Questi i numeri: con il 17,6% di ragazzi che abbandonano gli studi l’Italia, secondo i dati Istat ed Eurostat, è in fondo alla classifica europea; un gap pesante con il resto dell’Europa, dove in media l’abbandono scolastico è del 14,1%. Nei paesi di pari sviluppo socio-economico la media è molto più bassa: in Germania è 10,5%, in Francia 11,6%, nel Regno Unito 13,5%. Il dato aumenta al Sud Italia, dove è al 22,3%, mentre al Centro-Nord di attesta intorno al 16%.
A ben vedere, in Italia rispetto al 2000, quando erano il 25,3%, i cosiddetti early school leavers sono diminuiti, con un primo passo avanti verso il raggiungimento dell’obiettivo Europa 2020 del 10%. Un dato su cui è prudente il sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria: “C’è un lento miglioramento dei dati sulla dispersione, assolutamente insufficiente, che deriva dallo sforzo immane delle scuole pubbliche. Il danno alle possibilità di sviluppo e il fallimento formativo sono stati finalmente messi in relazione con strumenti molto più fini che in passato”, ha aggiunto il sottosegretario intervenendo alla presentazione degli obietti della ricerca.
“Colpisce soprattutto – per Valeria Fedeli, vice presidente del Senato – che al Sud quasi un ragazzo o una ragazza su 4 abbandonino la scuola: in un circuito esponenziale che unisce dispersione scolastica e disoccupazione giovanile con la criminalità. Con un danno per la società che perde capitale umano”.
La ricerca che parte il prossimo mese e i cui risultati saranno presentati tra un anno, ha come aree di riferimento le province di Milano, Roma, Napoli e Palermo. Il fine è identificare la tipologia e il numero di ragazzi che lasciano i banchi di scuola e i tipi di intervento e la loro efficacia. Intervita ha già lanciato lo scorso anno un progetto pilota con Frequenza 200, duecento come il numero dei giorni di lezione che la scuola deve garantire per legge, che prevede attività di un centro diurno operativo 5 pomeriggi a settimana. Il network coinvolge 800 insegnanti e dirigenti scolastici, 2.500 famiglie e gli operatori sociali in attività educative.
Un piano ambizioso, dunque, che prevede il coinvolgimento di più settori: la scuola, del resto, di fronte ad un fenomeno complesso e trasversale come quello dell’abbandono scolastico precoce da sola non può farcela a vincere la sfida.

La Tecnica della Scuola 02.10.13

“Io e i miei figli, in fuga dalla fame su quel barcone abbiamo visto l’inferno” , di Francesco Viviano

Continua a pregare a ringraziare Dio di avercela fatta, di non essere annegata sul litorale di Scicli come è accaduto a 13 suoi connazionali. Adesso che l’incubo è finito Fatima Mahemed, eritrea, 32 anni, passeggia nel centro di accoglienza di Pozzallo. E sembra una chioccia perché in braccio tiene il figlio più piccolo mentre gli altri tre (tra i 4 e i sette anni), le girano intorno come pulcini. Pulcini che Fatima temeva potessero morire affogati quando la barca si è arenata su una secca ed è successo il finimondo con gli scafisti (5 siriani e 2 egiziani arrestati ieri) che picchiavano tutti, spingendoli in mare per alleggerire l’imbarcazione e tornare indietro, in Libia, da dove erano partiti.
Fatima vorrebbe dimenticare quello che ha vissuto negli ultimi anni e nelle ultime ore, ma non riesce a togliersi dalla mente quei momenti drammatici, i 13 uomini morti affogati, i feriti (due dei quali ora versano in condizioni disperate, mentre 5 ricoverati sono fuggiti e tra i dispersi 22 sono stati rintracciati nelle campagne e condotti al centro di Pozzallo). E così ci racconta il suo viaggio, lungo tre anni e iniziato ad Agordat, 160 km. a ovest di Asmara, Eritrea. «È stato mio marito a decidere: per salvare i nostri bambini dalla fame e dalla guerra non restava che provare a raggiungere l’Italia. Ma lui è rimasto perché i soldi non bastavano. Mi ha detto: “Andate, e se Dio vorrà vi raggiungerò”».
DUE ANNI A KHARTOUM
«Un nostro conoscente mi aveva dato l’indirizzo di Khartoum di una persona che organizza questi viaggi clandestini e siamo partiti, con i soldi raccolti tra i parenti, a bordo di un camion diretto verso il Sudan. E lì sono rimasta: per raccogliere altri soldi lavoravo da cameriera, ma non avevo nessuno a cui lasciare i miei bambini. Due anni dopo avevo mille dollari da parte: 800 sarebbero serviti per il “trasferimento” in Libia. “Prendere o lasciare” mi dicevano. Ho anche pensato di tornare indietro ma avrebbero preteso gli stessi soldi per riportarmi in Eritrea. Così ho accettato: eravamo più di 300, stipati in due camion che viaggiavano solo di notte. Faceva freddo e non avevo coperte per i miei figli. Ma in una settimana siamo arrivati. Ad Al Zuhara e da lì, il 5 settembre i sudanesi ci hanno consegnati ad un gruppo di libici che ci hanno portato in una fattoria in aperta campagna, vicino a Tripoli. Eravamo sorvegliati, come prigionieri. Ho visto picchiare con i manganelli, senza motivo. Abbiamo patito la fame: ci davano soltanto un pezzo di pane al giorno e acqua, che però era salata e ci faceva stare male».
LE LUCI DI MALTA
«Dopo settimane, all’improvviso, la sera di venerdì 27 settembre ci hanno ordinato di prepararci a partire. Siamo andati a piedi fino alla spiaggia, ma altri, 100 o 200, sono arrivati sui camion. Un gommone faceva avanti e indietro fino al barcone, dopo che avevi pagato: nel mio caso, 1.600 dollari, tutto quello che avevo raccolto in Eritrea, “i tuoi figli viaggiano gratis” mi hanno detto. A bordo c’erano uomini con la pelle più chiara (gli scafisti arrestati ieri, ndr).
E siamo partiti: da mangiare, qualche tozzo di pane e acqua, stavamo appiccicati l’uno all’altro, mancava lo spazio anche per respirare. Gli scafisti si davano il cambio al timone: ogni tre ore spegnevano i motori per farli raffreddare e ci fermavamo. Il mare era tranquillo, ma noi stavamo male. Dopo due giorni così abbiamo visto le luci delle case su un’isola, pensavo fosse la Sicilia e invece era Malta. Nessuno ci diceva nulla. E io pregavo».
“LI HO VISTI AFFOGARE”
«La notte dopo abbiamo visto altre luci, quelle della costa siciliana. Eravamo stremati, i miei bambini soffrivano la fame e soprattutto la sete, vomitavano e piangevano, ma ormai pensavo che fossimo salvi: stavamo per arrivare in Sicilia, in Italia». «All’alba di lunedì il mare ha iniziato ad agitarsi e il barcone ha finito per fermarsi, incagliata su un banco di sabbia. È stato in quel momento che è scoppiato l’inferno. Gli uomini “con la pelle più chiara” (gli scafisti
ndr) ci urlavano di scendere da prua, spingevano e picchiavano, mentre il barcone veniva investito dalle onde. Qualcuno si è tuffato, altri
sono caduti in acqua, ma pochissimi sapevano nuotare. Ed è così che hanno cominciato a morire. Li ho visti affogare uno dopo l’altro: tentavano di riemergere ma affondavano. Io sulla barca stringevo i miei bambini, terrorizzata da quel che stava succedendo. Troppo debole per reagire. Eppure la riva era lì, a poche decine di metri. Non so quanto è durato quel caos. Ma so che quando ho infine deciso di scendere con i miei piccoli, altri uomini e quegli altri con le divise (i carabinieri,
ndr) mi hanno aiutata a raggiungere la spiaggia. “Ce l’abbiamo fatta”, ho pensato. Ma intorno a noi il caos continuava: urla, gente che scappava. E quei corpi, tredici uomini eritrei come me, morti sulla vostra spiaggia».

La Repubblica 02.10.13

“La debolezza dei poteri forti”, di Massimo Mucchetti

Alitalia al collasso, Telecom Italia a rischio di spoliazione, Finmeccanica e Ansaldo che faticano ad arrivare a un divorzio consensuale, le banche divenute scalabili dalle consorelle estere che hanno avuto uno Stato amico. E ancora: la Fiat che sta subendo la (comprensibile) resistenza dei sindacati americani in Chrysler e fa i conti con le sue finanze scarse. La Cassa depositi e prestiti invocata su tutti i fronti e dunque bisognosa di ripensare la propria funzione o di sottrarsi una volta per tutte a questi appelli. Il vento freddo della crisi di governo, aperta virtualmente da Silvio Berlusconi, congela la difesa della base industriale e dello scheletro finanziario del Paese e apre spazi fino a ieri chiusi ai poteri forti. Che non sono più italiani ma internazionali: francesi, spagnoli, americani, mediorientali, cinesi.

Poteri forti è un’espressione suggestiva coniata dai giornalisti e dai politici, spesso a corto di fantasia, per indicare alcune società private – Fiat, Pirelli, Ri- va, Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mediobanca, Generali e poco altro – e alcune società pubbliche – Eni, Enel, Finmeccanica – o meglio i loro top manager non di rado capaci di «comprarsi» il consenso di una politica imbelle che li deve nominare. Mentre le società a partecipazione statale per lo più bastano a se stesse, le grandi imprese private sono deboli o scalabili anche se con i bilanci in ordine. Al- la fine degli anni Novanta, quando venne approvata la legge Draghi (cioè il Te- sto unico della finanza), la contendibilità era considerata un valore in sé. Si riteneva che la mobilità del controllo sbloccasse per il meglio le situazioni consoli- date negative. A questo valore si è subordinata anche la difesa degli interessi dei piccoli azionisti, che nelle grandi società quotate detengono la grande maggioranza del capitale ma non esercitano nessun potere. Non a caso, la legge Dra- ghi fissa al 30% secco la soglia oltre la quale scatta l’obbligo dell’Opa.

Il legislatore era consapevole che si sarebbe così permesso il passaggio del controllo attraverso l’acquisizione strapagata di partecipazioni inferiori alla soglia ufficiale senza nulla dare al resto della compagine sociale. Obbligare a fare l’Opa anche all’acquisizione, diretta e in- diretta, del controllo di fatto, che può esserci anche con il 15% delle azioni (vedi Generali) o con il 22% (vedi Telecom Italia), avrebbe scoraggiato quanti volevano sì conquistare queste società, ma non avevano i mezzi per un’Opa rivolta a tutti gli azionisti o, quand’anche li avessero avuti, non avrebbero avuto voglia di impegnarli.

La storia di questi 15 anni ha dimostrato come il favore accordato alla contendibilità derivasse da un pregiudizio ideologico. Non di rado i «padroni» sono da licenziare, ma spesso chi li accompagna all’uscita non è migliore. Proprio la storia di Telecom Italia, che l’altro ieri Brunetta ha ben riassunto sul Giornale facendo proprie analisi fatte «da sinistra», conferma il punto: dopo la privatizzazione l’impresa è andata di male in peggio. Ricordo il banchiere Vincenzo Maranghi che mi diceva: «Tronchetti non può fare l’azionista di Telecom; questa società ha bisogno di soci che quando si tratta di metterci un miliardo non tremano». Al dunque, Mediobanca, Intesa Sanpaolo e Generali tremano anche per tenersi la partecipazione.

La storia di Fiat dice che nessuno è intervenuto per conquistarla e migliorarla, e sì che era quasi fallita. E ora sta spostando all’estero il baricentro produttivo non alla tedesca ma, tristemente, all’italiana. Talvolta accade che nel mercato finanziario si selezioni la proprietà migliore, ancorché senza Opa. Penso alla soluzione del caso Impregiloco del caso Fonsai. Tal’altra no. Vedi, appunto, Telecom. Ovvero la triste sorte di cessioni a soci esteri, da Telettra a Terni. E domani, quando Tronchetti venderà la Pirelli, che accadrà? La prenderà qualcuno capace di svilupparla o qual- che avvoltoio che troverà più conveniente uno spezzatino e il trasferimento all’estero delle tecnologie? E che cosa dovremmo pensare se le grandi banche italiane, dove le fondazioni sono in affanno, fossero preda di banche estere salva- te e rilanciate dai propri governi e assistite da un merito di credito migliore per effetto del rischio Paese?

Al Senato, sulla scia del caso Telco-Telecom, si è aperta una riflessione sulla legge sull’Opa. Si va formando un consenso largo sull’idea di inserire una doppia soglia per l’obbligo di Opa: il 30% e il controllo di fatto, facilmente accertabile dalla Consob copiando la legge spagnola e senza alcun problema con la Ue. In questo, come in altri casi, la tutela dei piccoli risparmiatori e degli investitori istituzionali renderebbe più difficile, perché più costoso, il passaggio del controllo a un soggetto, Telefonica, interessato a congelare Telecom Italia e a spolparla. E non ci si venga a dire che in tal modo respingeremmo un investimento estero, perché mettere 850 milioni per comandare su un’azienda da 11 miliardi ante Opa è qualcosa di diverso e perché i capitali internazionali investiti direttamente in Telecom non sono meno importanti di quelli messi da Telefonica in Telco. Ma senza un governo diventa arduo aggiornare la legge sull’Opa benché lo si potrebbe fare senza effetti retroattivi, come ha precisato la Consob.

Si può star certi che Cesar Alierta tifa per Berlusconi: senza governo si porta a casa il malloppo a prezzo vile. E senza governo come si impedirà che Alitalia, ormai tecnicamente fallita, non finisca a fare da compagnia di mero federaggio di Air France a un prezzo ancora più vile? E come funzioneranno i rapporti tra la Cassa depositi e prestiti e Finmeccanica, entrambi soggetti a controllo pubblico e dunque parti correlate tra loro, se il comune azionista viene messo fuori gioco dall’assenza di un esecutivo? Se questa crisi si rivelerà, alla fine, una malattia della crescita, l’impegno assunto dal premier Letta a rilanciare la politica industriale potrà coniugare gli interessi del mercato finanziario diffuso con quel- li delle aziende. Viceversa saranno altri a brindare sui resti della grande impresa storica italiana.

L’Unità 02.10.13

“Alla ricerca di una cultura politica”, di Gianni Riotta

L’impossibilità di governare nel XXI secolo, che l’economista Moises Naim chiama «Fine del Potere», attanaglia in queste ore la destra in Italia e negli Stati Uniti. A Roma si consuma l’ultimo atto della storia politica di Silvio Berlusconi, che per la prima volta vede parte dei suoi dirgli di no, e continuare l’esperienza del governo Letta.
A Washington lo «shutdown», il blocco della spesa federale innescato dall’intransigenza dei deputati repubblicani di destra legati al movimento populista Tea Party, paralizza la presidenza Obama e ridicolizza l’ultima superpotenza.

Le cronache si soffermano sulla tattica delle due vicende. Berlusconi che prova a salvarsi dalle conseguenze della condanna per frode fiscale, il suo partito che prova a non restare sepolto sotto le macerie del fondatore, mentre nel Pd il premier Letta e il sindaco di Firenze Matteo Renzi provano a trovare un equilibrio, per non fare la fine dei kamikaze, come spesso la sinistra nel recente passato. In America Obama tenta di ribaltare sull’opposizione la colpa del clamoroso shutdown e magari – nei sondaggi i cittadini si dicono disgustati dal caos – ottenere la maggioranza alla Camera nelle elezioni di midterm 2014, mentre i radicali repubblicani si incaponiscono, a costo di isolarsi, nel bocciare la detestata riforma sanitaria del Presidente.

Le due vicende avranno un esito prossimo. Vedremo se, e quanto a lungo, Berlusconi prolungherà la sua avventura, vedremo se, e come, Obama troverà un filo negoziale con gli ex raziocinanti repubblicani del Gop. Ma entrambe le storie, nella loro curiosa coincidenza temporale, confermano la carenza di cultura politica del nostro tempo, profonda, a destra come a sinistra, in Italia come in America, anche quando «Silvio» e «Shutdown» non affolleranno più prime pagine e siti web.

Il centro destra italiano sembra solo adesso, in ritardo e in modo convulso, identificare la necessità di una cultura politica europea, moderna, tecnocratica, fiscalmente seria e senza un solo leader carismatico che decide rinchiuso in una stanza. I sondaggi, da Diamanti a SWG, confermano che anche quando «Silvio» non guiderà più Forza Italia, da un terzo a un quarto degli italiani, un intero blocco sociale, resteranno, secondo la definizione di Gramsci, ad egemonia di destra. Chi li rappresenterà in un Paese senza sviluppo da una generazione, come, verso quali riforme di un’economia che oggi perde 50 aziende ogni giorno, con disoccupazione e spesa in crescita? Non avere fatto le riforme necessarie, ignorando la cultura di governo moderna dei conservatori, sarà la colpa che i libri di storia imputeranno a Berlusconi, prima ancora dei bunga bunga.

Chiusi da mesi nel bunker della paranoia, tra sicofanti e mestatori, neppure gli uomini migliori della destra hanno interloquito con la rivoluzione in corso nella Chiesa, dal Vaticano di Papa Francesco, a Comunione e Liberazione di don Carron. Hanno sottovalutato l’intervista di Bergoglio a Civiltà Cattolica o la biografia di don Giussani scritta da Alberto Savorana, toni nuovi in un mondo cattolico nuovo. Una Chiesa meno attenta al gioco politico del potere, concentrata su valori e persone, incurante degli intrighi, appassionata al dialogo. Chiunque guiderà in Italia il nuovo centro destra scoprirà di poter contare su questa svolta cattolica, senza detestarla o ignorarla come capita oggi.

La difficoltà maggiore per gli eredi di Berlusconi non sarà infatti raccattare i voti in Parlamento per i gruppi, riorganizzare il partito, impedire la diaspora politica dei troppi leaderini, azzittire i populisti, tutti compiti già gravosi. Sarà rielaborare una cultura unitaria capace di modernizzare l’Italia, senza che – come accade tra i repubblicani americani – la polemica rabbiosa e antistatale degeneri in astiosa, perenne, rissa.

Il centrosinistra, anche se riuscisse dopo vent’anni a liberarsi di Berlusconi e ad avere davanti a sé una destra moderna, è chiamato a una rifondazione culturale non meno impegnativa. Il «NO» inarticolato al berlusconismo è costato quattro elezioni politiche e una generazione di ritardo, con le due vittorie elettorali di Prodi 1996 e 2006 buttate all’aria, ma ha garantito almeno una specie di mastice per tenere insieme i pezzi di un’identità malformata. Ora serve una cultura, vera. Il Partito democratico «Post Berlusconi» sarà partito di innovazione, start up, ricerca, nuove economie, laboratori, mercati globali, o si lascerà andare al rimpianto «della politica industriale dell’Iri che garantì il miracolo economico degli Anni Sessanta, molto meglio del mercato» come, con nostalgia affettuosa ma scarsa attenzione alla realtà, è stato affermato a un convegno Pd di questi giorni?

Uscito di scena «Silvio», il Pd cercherà riforme economiche adatte al mondo di oggi, tecnologia, servizi, difesa della manifattura davanti ai competitors internazionali, non a colpi di sussidi e burocrazie? O ricadrà in un sogno «statalista e centralizzato, dirigista» che sarà subito bocciato dalla realtà visto che siamo nel secondo decennio del nuovo secolo e non a metà del Novecento? Sarà un Pd garantista, libertario e liberale, capace di rintuzzare la voglia di forca della sinistra estrema, quei «processi e condanne di piazza» invocati da Beppe Grillo e dai suoi fedeli nei media?

Quando la ribellione libertaria, antistatalista, populista e ruspante dei Tea Party ha occupato il rispettabile, tradizionale, GOP repubblicano, il partito ha visto la propria efficacia politica scemare. Senza la destra radicale oggi controllerebbe anche il Senato, le intemperanze alle primarie son costate seggi cruciali. I democratici, per anni battuti alla Casa Bianca perché legati a una coalizione perdente, vecchi sindacati, intellettuali, minoranze, sono maggioranza nazionale perché parlano ai ceti nuovi, tecnologici, urbani, multirazziali, ai lavoratori old e new economy, ai cattolici ispanici, che esprimono quella cultura gioiosa, familiare, inclusiva cara al Papa.

Seguiamo dunque con attenzione e passione gli esiti, a tratti anche tragicomici, dei due «Shutdown», «Federale» e «Silvio». Ma il vero campo di battaglia resta la rivoluzione culturale profonda che attende la nuova politica. A sorpresa, gli sconfitti di oggi saranno i vincitori di domani se, con più coraggio e diligenza, si daranno il sapere giusto.

La Stampa 02.10.13

Giovani disoccupati oltre il 40% Ue e Ocse: “L’instabilità italiana rischia di contagiare l’Europa”, di Elena Polidori

L’instabilità politica spaventa la Ue e l’Ocse che avvertono: «La crisi italiana minaccia l’Europa e la sua fragile ripresa». La Confindustria fa anche una stima: se continuasse questa incertezza, il Pil nazionale avrebbe il segno meno per tutto il 2014. L’Italia va al voto di fiducia portandosi appresso dati allarmanti sulla disoccupazione giunta al 12,2%, il top dal 1977; per i giovani questa percentuale sale al 40,1%, un record storico.
Così, mentre i mercati scommettono sulla sopravvivenza del governo Letta, l’Istat diffonde i dati allarmanti sul lavoro, «la realtà cruda del paese», come la chiama il leader Cisl Bonanni, la «conferma della stagnazione», come la definisce il ministro Giovannini. Il Cnel aggiunge un particolare al quadro già drammatico dei giovani: uno su quattro non solo non lavora ma non studia neppure; i precari sono 3 milioni. Sono dati che farebbero soffrire qualunque paese, ancor più se si trova in una situazione politica delicata, incerta.
Ed è su questo che basa le sue stime la Confindustria: Pil negativo e pure un esercito di posti di lavoro persi. Sempre su questo insistono Olli Rehn, Martin Schulz e Angel Gurria, ovvero il commissario per l’economia Ue, il presidente del Parlamento europeo ed il segretario generale dell’Ocse. Il senso del loro messaggio, quasi un appello, è chiaro: una Italia politicamente incerta costituisce una minaccia per la ‘fragile ripresa’ dell’economia, che oltretutto sta affacciandosi solo adesso. E questa minaccia è destinata a fuoriuscire dai confini nazionali diventando un pericolo per tutti. «Per l’intera zona euro’, puntualizza Rehn. E Schulz: ‘Non si può aprire una crisi per interessi particolari. Una caduta del governo creerebbe enormi turbolenze politiche e sui mercati finanziari’. Gurria si preoccupa soprattutto di smantellare il gran can can sulle tasse sulla casa: l’Ocse «è sempre stato contrario all’abolizione dell’Imu». Nella sua analisi la cancellazione di questa tassa non aiuta a diminuire la pressione fiscale sui salari e gli investimenti, come invece sarebbe opportuno.
In sede europea la tenuta del governo è vista come imprescindibile. Schulz, il più politico dei tre, si preoccupa anche di argomentare che chi voterà a favore di Letta «non sarà né un traditore né un eroe, ma un deputato e un senatore responsabile». Per essere ancora più sicuro dell’esito del voto, ha pure telefonato al segretario del Pd Epifani, perché «anche loro» devono sostenere l’esecutivo con tutti i mezzi. Lo stato dell’economia lo impone. Non a caso Rehn auspica ‘il ritorno della stabilità politica il prima possibile ». Bisogna poter prendere le decisioni utili alla crescita e all’occupazione.
Un mini-segnale positivo in questo quadro fatto di tanti segni meno, arriva dal cosiddetto clic day, l’operazione per la raccolta delle domande di assunzione delle aziende relative agli under 30. Assunzioni con incentivi, ovviamente. Ebbene, in tre ore ne sono arrivate circa 5.500.

La Repubblica 02.10.13